Archive | gennaio, 2021

IL SUONO, GLI ODORI, LA CONSISTENZA DELLA PASTA E IL SUGO FATTO IN CASA

IL SUONO, GLI ODORI, LA CONSISTENZA DELLA PASTA E IL SUGO FATTO IN CASA

Posted on 31 gennaio 2021 by admin

cera un voltaNAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) – La domenica, sino a quando ho abitato con i miei genitori, di sovente mi svegliavo piacevolmente con i ritmati tonfi che provocava l’impasto di (miell) farina, (ujë) acqua, (kripë) sale, (valë) olio e ( thë verdat e vesë) rossi d’uovo, lavorato a mano da mia madre, sopra l’apposito spianatoio, (Kiangùni).

Quando si raggiungeva, con il continuo rivoltare e stendere, la consistenza desiderata, si copriva il panetto, lievemente d’orato, con un canovaccio per lasciarlo riposare; a questo punto, mia madre, si recava in cucina a preparare il sugo, insaporito rigorosamente di carne d’agnello (shëtiërë).

Prima (valë)l’olio, poi (gudur)uno spicchio d’aglio intero sbucciato, (gnë fjetë dhafnie) una foglia di alloro; a questo punto iniziava a tagliare la carne, che avrebbe di li a poco rosolato, mescolando il tutto lentamente a fuoco lento ,assieme ai sapori naturali già elencati.

Quando la superficie della carne creava una lieve patina di crosta, era il segno che avrebbe incamerato gli aromi interni,  quello era il segno di aggiungere le quantità di passata di pomodoro, conserva di casa, che con la lieve cottura avrebbero insaporito il tutto.

I segreti per l’idoneo matrimonio, tra carne e sugo, grazie ai testimoni vegetali a questo punto, erano tre: il fuoco lento, coprire la pentola lasciando uno spiraglio per dissipare con misura i vapori e chicca finale, non aggiungere mai acqua.

A quel punto la casa diventava il paradiso di odori, il segno olfattivo della festa che inebria ogni angolo appena il sugo in iniziava lentamente a borbottare, nel chiuso della pentola.

La lentezza della cottura consente di tornare in sala da pranzo a dare forma alla pasta, procedendo nel toglieva il canovaccio sopra il prezioso impasto e dopo un’ulteriore stesa e ripiegatura  con la spatola (shëtërë) si inizia a realizzare piccoli frammenti di impasto: prima a forma rettangolare e poi cilindrici allungati.

A questo punto le piccole porzioni, si lavoravano con (hekuri) il ferretto, così come segue: si spargeva con maestria sul piano di lavoro farina e con manualità antica s’inizia ad arrotolare i cilindri d’impasto arrotolati al ferretto sul piano di lavoro; questo per non consentire che la pasta aderisca a esso, è lievemente curvo, tale che nella rotazione che consentire al fillilë di prendere la sua forma tipica, si sfili facilmente.

Cosi per un numero di azioni ripetute senza mai perdere il ritmo, prima sullo spianatoio lasciati a prendere la forma, poi si depositano in file ordinate, disponendoli sulla parte libera del tavolo su di una tovaglia opportunamente infarinata.

Terminata l’operazione, si copre tutta la disposizione delle file di pasta con il canovaccio e si ricontrollava la pentola del sugo, che nel lento borbottio raggiunto la consistenza ideale, ristretta e mai con chiazze acquose.

Per impiattare, si mette la pentola con acqua sul fuoco e appena raggiunta il punto di ebollizione s’immergono i fillilë facendoli bollire per pochi minuti e quando l’esperienza ritiene che siano cotti al punto giusto, si scolano per bene disponendoli nel piatto di portata.

La preparazione del piatto a questo punto può iniziare, insaporendo il tutto con il sugo ristretto, un pezzo di carne di coronamento ricoprendo tutta la superficie con una nevicata di pecorino locale, non prima di aver deposto una foglia di basilico di adorno.

Il sugo si preferisce farlo ristretto al punto giusto, perché la pasta essendo fatta in casa, è avvolta da acqua di cottura che si insinua all’interno incavato e rilascia nel momento dell’impiotamento, questi liquidi fondamentali andranno ad amalgamandosi con il sugo di superficie, insaporendo magicamente il tutto con il formaggio a la carne.

Guai a preparare il sugo per i fillilë, molto liquidi, perché poi si finisce di fare una annacquata diffusa, quello che comunemente succede in quei piatti di quanti/e dicono di saper fare e non sanno.

Fare la pasta in casa  secondo la cucina arbëreshë è un atto antico,  tramandato da madre in figlia, per questo non è certo nelle disponibilità di quanti hanno fatto altro in gioventù, gli/le stessi/e che oggi pur di apparire dicono di saper fare, ma questa è un’altra storia solo per fotografie di una pietanza annacquata, che fa sorridere quanti sanno e capiscono che il fare le cose arbëreshë è un’altra cosa.

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TRE PECCATI INCONSAPEVOLMENTE DIFESI DELLA NOSTRA STORIA: BORGHI ARBËRESHË, ARBËRIA E SCANDERBEG

TRE PECCATI INCONSAPEVOLMENTE DIFESI DELLA NOSTRA STORIA: BORGHI ARBËRESHË, ARBËRIA E SCANDERBEG

Posted on 24 gennaio 2021 by admin

AVENDO AVUTO UN INVITO AD ASCOLTARE PER INTERVENIRE, VI INVIO QUANTONAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) – Il patrimonio culturale arbëreshë, notoriamente tramandato attraverso la forma orale e la consuetudini d’ambito, dagli anni settanta del secolo scorso è stato scosso dalle nuove generazioni che hanno intrapreso, a loro dire, la via dei discorsi nuovi.

Questa è stata l’epoca che ha prodotto la “nuova alba culturale” dove i pittori pur di vedere al loro seguito, generi che sognano bagliori di luce, ne fanno di tutti i colori, escluso, quelli più opportuni o a tema pittorico.

Le manifestazioni di pigmentazione, così attuate, sono drammaticamente penose e variopinte senza alcun senso per il proseguimento del protocollo identitario; per questo, urgono misure preventive atte ad arginare le soverchianti  folgori.

Ormai viviamo una stagione di confusione totale, basti solo porre l’accento sulle innumerevoli manifestazioni prive di senso e di garbo, generalmente aperte al grido di Borghi Arbëreshë, Arbëria e Scanderbeg e tanta altre diavolerie che è vergogna citare, perché si usa vestirsi a mo variopinto con cui disegnare a terra  ruote, cerchi e ridde, immaginando di stupire gli spettatori che allibiti si danno a gambe.

Tutte manifestazioni che lasciano il tempo che trovano e non interessano a nessuno, se non i comuni praticanti, che nel vedersi abbagliati dai riflettori della ribalta, pensano di aver fatto festa, senza rendersi conto di  bruciare quanto non gli appartiene.

A tal proposito e senza dubbio alcuno, dei tre componimenti: Borghi Arbëreshë, Arbëria e Scanderbeg, è bene rilevare, che nessuno di essi trova allocazione nella storia, neanche in forma di ombra, per la popolazione minoritaria che oggi vive la REGIONE STORICA DIFFUSA ARBËRESHË.

Questa deve ricevere rispetto da tutti, sin anche, chi travestito da pifferaio, saltimbanco e ogni genere d’inadatto alchimista, crede di poter disporre a suo piacimento del patrimonio che non ci appartiene, perché ricevuto per consegnarlo alle nuove generazioni, per questo più rimane puro e intatto dalla sua origine storica e più ha durevolezza nei secoli.

Nello specifico iniziamo a porre l’accento, con forza e senza sorta di dubbio alcuno, che la denominazione “Borgo” non ha alcuna attinenza storica, urbanistica, architettonica, sociale, economica culturale, sia di tempo, sia di luogo, sia di uomini;  i paesi arbëreshë sono Katundë, il parente stretto di Castrum, Paese, Casale e rappresentano storicamente l’inizio dei processi urbanistici delle città aperte, oggi metropolitane.

A proposito del concetto di Arberia, per com’è inteso, vorrebbe essere uno stato, con i suoi abitanti, un proprio governo, una propria autonomia, con proprie leggi e comunque si giri e si osservi il concetto, nulla del genere esiste, in quanto gli arbëreshë sono una minoranza storica italiana, verso la quale lo stato offre tutte le tutele di rispetto dovuto a quanti hanno saputo integrarsi e proteggere il territorio con lo stesso senso degli indigeni, gli stessi che li accolsero sei secoli or sono.

Relativamente all’appellativo con cui viene soprannominato Giorgio Castriota di Giovanni, (volgarmente denominato Scanderbeg) bisogna stare molto attenti nell’utilizzare o il nome o l’alias.

Perché l’eroe con intelligente astuzia, per evitare che il suo popolo e le terre di quest’ultimo fossero cancellate dal ricordo degli uomini, realizzo uno degli stratagemmi che la storia ancora stenta a comprendere e valorizzare.

Egli per questo resosi conto che non aveva possibilità di prevalere sui cani turchi, operò la strategia seguente, grazie al patto di mutuo soccorso che il padre Giovanni aveva con Il re di Napoli, Vlad I, i Principi dell’allora Epiro nova e Vecchia, trovando il modo di lasciare un messaggio indelebile, irriconoscibile ai turchi, e unisse quanti vivevano le terre oggi denominate Albania e nel frattempo, salvare lingua consuetudini, metrica e religione nelle terre del meridione allora regno di Napoli.

Alla luce di ciò, quando si fa uso del suo nome, bisogna guardarsi attorno per comprendere cosa pronunziare, per questo se state in terra d’Albania gridate con forza, ai quattro venti, l’appellativo “Skanderbeg”, lo slogan nato per unire e risvegliare antichi legami in senso di confini territoriali.

Tuttavia se vi dovreste trovare, per caso, negli sheshi o ambiti della regione storica, il luogo dove la lingua, le consuetudini, la religione, fa vibrare i cinque sensi Arbëreshë, per non cadere nel banale è d’obbligo usare solo ed esclusivamente Giorgio Castriota il valoroso figlio di Giovanni; null’altro.

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QUANDO L’ARCHITETTURA SENZA ARCHITETTI AVEVA RAGION D’ESSERE

QUANDO L’ARCHITETTURA SENZA ARCHITETTI AVEVA RAGION D’ESSERE

Posted on 16 gennaio 2021 by admin

Kagliva

NAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) – È storicamente noto che le migrazioni dai governarati dell’odierna Albania, dopo la morte del condottiero Giorgi Castriota, videro disporsi nelle terre del regno di Napoli, un gran numero di migranti seguiti dalle famiglie, secondo arche predefinite nei territori amministrati dai principi di parte Francofona,.

Gli arbëreshë presero possesso di luogo, seguendo la medesima prassi insediativa in tutti i Katundë, cento paesi della regione storica, da prima vissuti in forma nomade e poi dopo una fase di scontro e confronto con gli indigeni, s’insediarono definitivamente in ritrovate aree orografiche.

A quei tempi, per le loro necessità transitive, furono utilizzate forme abitative, estrattive, in seguito per la scelta definitiva dei luoghi d’insediamento, passarono all’Architettura additiva, quest’ultima in particolare, una volta avviato il processo di conoscenza, fece diventare gli ambiti costruiti, la fucina di questa nuova arte, diventando i piccoli aggregati, il libro a cielo aperto dove attingere esperienze  e arricchire il bagaglio di conoscenza.

Il riedificare sulle stesse ceneri, impegnò notevolmente in tale disciplina i minoritari, i quali affrontarono non poche insidie, per la non conoscenza dei principi della statica, oltre a quella di unire e consolidare materiali dissimili.

A tal fine onde evitare il trascinarsi errori di costruzione, trasferirono la sapienza man mano che veniva acquisita, secondo i protocolli in forma orale, alle nuove generazioni.

Il costruire per necessità e senza esperienza ha coinvolto, esecutori, osservatori e utilizzatori di ogni comunità a condividere i principi secondo cui innalzare modelli abitativi, doveva rispondere alle metodiche acquisite e rese pubbliche, in forma orale, prestando attenzione nell’applicarle, in definitiva diventarono un rigido protocollo, come quelli già in uso per le attività agresti e di bonifica .

Le stesse genti non impegnate nel periodo maturazione dei seminati, diventano muratori, manovali e architetti, maestranze intrise dei valori di modestia e necessità che lentamente disegnarono i centri antichi nelle coline del meridione.

L’architettura all’interno dei perimetri antichi, per la scelta di vivere prevalentemente isolati, ha una storia più articolata rispetto alle genti indigene più coese e vicine tra loro che erano già abituate a confrontarsi con il regno e le sue istituzioni.

Gli arbëreshë avendo preso possesso in macro aree allocate diffusamente, non avendo possibilità di confrontarsi rapidamente, si possono per questo identificare esecutori di un’architettura senza architetti o isole di un’arte in continua ma lenta, evoluzione.

Da prima furono utilizzati semplici tuguri, identificati più come arte estrattiva, mista a compositiva in forma di materiali deperibili, poi per una migliore vivibilità diventate abitazioni in muratura.

Pietre naturali o di fiume, il cui legante, sabbia e calce consentiva in sicurezza di elevare case, poi in epoca più tarda con l’utilizzo di mattoni, e materiali di spogliatura, provenienti da errori di esperienze precedenti.

I contadini, non ancora architetti, avevano una grande esperienza in campo di conoscenza degli equilibri naturali, per questo innestarono le loro case in luoghi sicuri e senza forze anomale in attesa.

Solo dopo le prime esperienze edificatorie si resero conto degli effetti dei paramenti inclinati causa di numerosi crolli, a cui diedero risposte.

Unici elementi costruiti da cui trarre spunto o ispirazione, furono i presidi religiosi a essi sempre prossimi; è da questi presero spunto  e  consapevolezza delle altezze murarie, calibrarono lo sviluppo in base ai materiali e le sezioni d’inviluppo dell’opera.

Molto probabilmente lo spunto del modello base, se analizzato con attenzione, spiega i numerosi spunti distributivi comuni, in quanto non si discostano molto dalle celle monastiche e i relativi orti botanici annessi.

Cosi come le lamie di copertura, prima fatte con strutture in legno completate con rami intrecciati foglie e conglomerati in argilla, hanno preso forma completa con i noti di coppi e contro coppia, completando così quello che diventerà il modulo abitati, utilizzato per i sistemi aggregativi, prima spontanei, o detti articolati e in seguito più razionali in forma lineare.

Sono numerosi i temi da trattare, su questi aspetti di evoluzione architettonica senza architetti, la cui alba sorge  all’indomani del loro insediamento, si sviluppa sino alla fine del XVII secolo per articolarsi in altezza sino al 1783.

L’alba dello storico terremoto, in cui diventa fondamentale l’intervento degli organismi preposti dal regno con imposizioni di carattere preventivo, precise regole preventive sia per la larghezza delle strade e sia per la consistenza muraria o per il numero dei piani.

È questa l’epoca degli insediamenti arbëreshë con l’architettura degli architetti, questi lasciando nel contempo  immutati quelle pertinenze che per opera intelligente, hanno continuato a resistere agli eventi naturali; oggi traccia o misura nelle micro aree dove erano stati evidenti i crolli.

Dal dopo guerra del secolo scorso, gli anni della ricostruzione postbellica, vede incunearsi una confusione endemica negli ambiti costruiti della minoranza arbëreshë.

Qui troppo spesso, invece di affidare il valore architettonico a competenze specifiche, si è preferito affidare a comuni tecnici l’antica professione senza architetti.

Questo, non per porre l’accento verso l’incarico della progettazione del singolo manufatto pubblico o privato in senso di esclusivo abbellimento, ma che diano lustro a un’arte antica che da spazio al genius loci professionisti con competenza d’ambito tramandata oralmente per passione.

Quello che servirebbe deve essere rispettoso di un protocollo riferibile alle macro aree di minoranza, specialmente quando si trattava di operare all’interno del centro antico e di architettura spontanea.

Il rammarico più grande che molti studiosi portano in seno, consiste nel non aver allora come oggi, predisposto misure d’indagine adeguate, per la definizione di un protocollo di tutela, una “carta del restauro della regione storica”,  ancora oggi evasa e attende, istituzioni, uomini e misure  per  tutelare il valore storico dell’Architettura senza Architetti, ancora pulsante in ogni edificio della regione storica diffusa arbëreshë.

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SHËPIA E GJITONIA

Protetto: SHËPIA E GJITONIA

Posted on 11 gennaio 2021 by admin

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APPELLO AI SINDACI E ALLE ASSOCIAZIONI DELLA REGIONE STORICA ARBËRESHË

Protetto: APPELLO AI SINDACI E ALLE ASSOCIAZIONI DELLA REGIONE STORICA ARBËRESHË

Posted on 01 gennaio 2021 by admin

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