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FLOTTILLA ARBËREŞË AVVENTUROSA Bënë flottillja me ùshùlë thë kukje

Posted on 03 ottobre 2025 by admin

Storie apparecchiate

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – La storia della minoranza Arbëreshë è intrisa di rappresentazioni in forma di resistenza culturale.

E qui, prima che altrove, molti sono intervenuti a costituire una “flottiglia di aiuto e soccorso”, in ogni epoca, le stive delle barche erano colme di lettere scarlatte, dalla A fino alla V, sempre con la Z mancante. Così organizzati, valicavano mari in tempesta, ostinandosi a fornire un’identità che ciclicamente riappariva nelle cronache, spacciata come essenziale per evitarne l’estinzione.

Tante flottiglie, guidate da corsari irremovibili, allora come oggi, issano ancora le antiche vele ormai tutte rattoppate. La bussola? Un pennino issato in un calamaio, immaginando che il mare sia un foglio su cui scrivere il parlato, quando fa tempesta.

A bordo si portano aiuti alfabetari, polverosi, nel tentativo di salvare i bambini in crescita con grammatiche prive di parlato e di ascolto.

Gli ufficiali di bordo erano tutti autoeletti, in nome di una scrittografie a dir poco fumosa, antica di millenni ma sempre tardiva, e per questo inevitabilmente affumicata.

Intanto, le menti più lucide e raffinate venivano lasciate a terra, perché il loro mondo non era fatto di scrittura, ma di pensiero e arte.

Nel frattempo, gli eletti della flottiglia si convincevano sempre più che la salvezza risiedesse nel ritorno dalle terre oltre l’Adriatico, armati di penna, calamaio e qualche verbo coniugato, per consolidare la storia e la cultura di questo popolo diasporico.

Credevano bastasse issare la bandiera della lingua moderna, dell’etimologia, del costume riproposto nelle feste comandate a modo di svilimento, per vincere una guerra culturale.

Ignoravano, però, che si combatteva su mari ben più vasti, non alla portata del loro pensiero monotematico.

Nel frattempo, fuori da quella flottiglia così convinta di sé, sulle colline o nei pressi del mare, lontano da quelle coste, nomi, memorie e accenti degli Arbëreshë, senza penna né calamaio, noti sui palchi dell’eccellenza mondiale, venivano dimenticati o ritenuti non rappresentativi della memoria.

La cultura non ha mai accolto il loro parlato, in senso metaforico o letterale, perché le loro storie e i loro silenzi carichi di significato non rientravano nei dizionari, né nei piani editoriali, televisivi o dello scarlatto immaginario fotografico.

Vivevano invece nella quotidianità, là dove si cercava un ponte solido verso il futuro, senza conoscere le regole della scienza esatta, del vernacolare sociale o dell’editoria.

E così, mentre pochi navigavano verso porti che nessuno conosceva, interi Katundë erano invasi, non da eserciti nemici, ma da un’apatia culturale silenziosa, che trasformava ogni casa in una zattera alla deriva. Non c’erano più timonieri, e la rotta si perdeva ogni giorno un poco di più e, chi aveva fame di identità, si trovava a elemosinare briciole dai tavoli degli Albanisti, dove la lingua arbëreşe, non è considerata più strumento vivo da indagare con cautela e rispetto.

Dove tutto si riduce nell’innalzare dialetti in forma di “come da noi”, tutto intorno si spegnevano gli entusiasmi, le pratiche sociali, le relazioni di credenza, il senso profondo di essere una comunità indivisibile.

Il paradosso era evidente, anzi palese, visto lo stato delle cose e dei fatti e, mentre tanti parlavano di salvezza, solo l’olivetano erano in soccorso dei bambini arbëreşe che naufragavano in tanti.

E forse è proprio qui che la flottiglia ha sbagliato mira, rotta e luogo per esaltarsi o meglio, nel voler guidare dall’alto il solo parlato, dimenticando che una cultura si tiene a galla solo se tutti remano insieme, anche quelli senza voce e salvagente, perché tramandare storie che galleggiano attraverso gli occhi, le mani, il cuore e il genio di luogo è un componimento che sfida il tempo.

Immaginare che una flottiglia di barchette, traballanti e senza rotta specifica, potesse incidere davvero su una regione storica, solida come una corazzata è, forse uno degli atti di presunzione più penosi che la mente umana potesse invaginare una sposa in costume partorire il figlio scrittore sulla cattedra.

La cultura arbëreşë quella autentica, sedimentata nei secoli, scolpita nella carne delle montagne, nel ritmo dei canti e nel silenzio delle madri, è una corazzata sopravvissuta a tempeste, invasioni, esodi, e oblii.

Né il tempo né la dimenticanza sono riusciti a scalfirla mai, tuttavia, in modo assurdo, è stata apparecchiata questa stessa flottiglia fragile, bisognosa di salvataggi improvvisati, come se la sua storia potesse essere raddrizzata da chi arriva tardi e senza orientamento di ascolto.

Queste barchette, spesso costruite con legno riciclato, gonfiato di ego e, titoli fragili, terminando così con il remare non contro la corrente dell’oblio, ma a favore dell’invasore culturale.

Forse non per scelta, forse per ignoranza, forse per l’irrefrenabile desiderio di apparire, comunque si sono travestiti da salvatori, mentre gettavano ancora più sale sulle ferite profonde dei naufraghi arbëreşë.

Hanno preferito così i riflettori della diffusione di massa, le interviste dei viandanti, gli esodi dai Katundë, le pubblicazioni prive di presenza, o di quanti partiti elogiano il proprio titolo e, quelli dove ancora si prega, senza distinguere con quale devozione e orientamento, si crede sia farina più solida della crusca.

Invece di rafforzare la corazzata del grano, hanno puntato i cannoni verso l’interno, convinti che la soluzione fosse il restante, mentre chi era partito per tornare e dare agio al costruito del bisogno, da decenni gli viene negato ogni tipo di natante per tornare.

Hanno finito per aiutare l’invasore, senza neanche rendersene conto, che accoglievano i linguaggi imposti, le estetiche vuote, le retoriche di salvaguardia che non salvano niente e nessuno.

Hanno copiato le effigi della madonna della Romana Pompei, portandola in processione tra le vie storiche Alessandrine.

Allestito immagini storiche con vestizioni moderne, le stesse che non lasciano parole a quanti conoscono il senso della vestizione di ragazza, Donna Sposa, Madre, Regina della casa e del fuoco, Vedova Incerta e Vedova Oculare.

E chi oggi di tutte queste regole tramandate oralmente chine ha fatto le spese? È sempre gli arbëreşë, in tutto, la memoria dei nostri padri e le nostre madri che oggi sono senza voce e, tutti coloro che parlano ancora una lingua senza riconoscimento, ma piena di senso.

Quelli che vivono la cultura, non la spettacolarizzano, quelli che sanno cosa si perde, ma non hanno microfoni per gridarlo, perché studiano discipline dove il parlato serve ad ascoltarla e progettare cosa fare.

Così, la flottiglia ha sbagliato mira, sparando e colpito chi dovevano difendere, aprendo falle e, mentre la corazzata ancora resiste, più sola e affaticata, le barchette si vantano delle loro imprese, senza capire di essere diventate parte del problema, e non della soluzione.

La flottilla, se davvero avesse voluto portare aiuto e, speranza agli Arbëreşë, non avrebbe mai dovuto puntare ad est dell’Adriatico per cercare gloria.

Non era là che si trovava il cuore pulsante della nostra cultura, non là, tra i sogni di ritorni impossibili o nelle nostalgie folkloristiche di un passato ormai ricordo.

L’aiuto doveva puntare a Napoli, verso quella capitale culturale che, nei secoli, seppe accogliere e valorizzare gli uomini penitenti che venivano dai Balcani, non come reliquie etniche, ma come protagonisti della storia europea.

Fu lì, sotto i cieli del Regno di Napoli, nei luoghi dove le famiglie e altri grandi nomi della storia meridionale, seppero riconoscere il valore degli esuli e, dove la minoranza arbëreşe, divenne corazzata culturale, non per concessione, ma per merito, non per compassione, ma per contributo.

Uomini veri, condottieri culturali, filosofi, religiosi, maestri di scienza esatta, architettura e storia, hanno costruito ponti tra mondi, e inventato giornali, non per oziare o tornare indietro, ma per portare avanti una visione globale del luogo che li aveva accolti.

È in quelle corti, in quei monasteri, in quelle terre contese, tra regni e rivoluzioni che l’identità arbëreşë ha preso forma come esempio vivente di coesistenza e resistenza, capace di dialogare senza dissolversi.

Chi oggi vuole aiutare gli arbëreşe, non deve cercare flottilla in forma di manuali linguistici dimenticati o spettacoli da piazza con costumi imprestati romanzando o rendendo idolo il vivere comune.

Deve invece ripercorrere quella rotta verso Napoli, verso la storia che ha saputo dare dignità, non solo folklore, una storia che ha trasformato una diaspora in cultura, una migrazione in testimonianza, una minoranza in modello.

Perché è da quella esperienza, autonoma ma integrata, antica ma proiettata nel futuro, che l’Europa lacerata di oggi potrebbe imparare e, potrebbe trovare risposte nuove alle sue crisi d’identità, ai suoi conflitti nati dalle attività migratorie.

La corazzata culturale arbëreşe, se ricordata nella sua verità e nella sua interezza, può ancora navigare con orgoglio grazie alle sue vele che seguono il vento.

Non per salvarsi, ma per continuare ad esistere e, solo chi prende il timone consapevole che la rotta non è mai facile, e ogni deriva ideologica raggirata, darà forza per trovare la spiaggia dove innalzare ponti, e non caricare zavorra.

 

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                                           Napoli 2025-10-03

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