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VALJE

VALJE

Posted on 10 aprile 2016 by admin

SAMSUNG CAMERA PICTURESNAPOLI (di Atanasio Pizzi) – Allocate nei versanti Est e Ovest della Manfriana, nel parco del Pollino, Civita e Frascineto sono due paesi Italo albanesi noti rispettivamente per la Gola del Raganello – Golja thë Raganelith e la Timpa del Corvo – Tìmpen e Korbith; all’interno della Regione Storica, tutelano il valore delle Valje, che, il martedì dopo Pasqua, riecheggia tra gli splendidi scenari del Dolce Dorme calabrese.

I due borghi seguono un percorso di tutela secondo punti di vista antitetici; mentre il primo accoglie nuove sonorità e associa alla metrica del canto suoni e vestizioni sempre più moderne; Frascineto rimane abbarbicata alla vecchia tradizione consuetudinaria del canto e delle caratterizzazioni tipiche.

Gli ambiti del “Dolce Dorme”, per i dissimili aspetti culturali, dinamici e statici, assumono, durante l’appuntamento secolare del Martedì di Pasqua, il ruolo di “Purpignera delle Essenze Culturali Arbëreshë” (vurvìnereth e arbëreshë) per questo è doveroso valorizzarle e mantenerle partecipate al fine di non perdere l’originario senso delle Valje.

E. Fortino, negli anni sessanta del secolo scorso, partecipando ad un convegno, sottolineava che: gli arbëreshë si rinnovano ogni volta che due o più  si incontrano e parlano conversando in lingua madre; Civita e Frascineto, rappresentano i palcoscenici naturali dove questa magia si ripete ogni anno e porta un gran numero di albanofoni a rendersi partecipi dell’evento, che con canti è danze confermano l’appartenenza ad un etnia, che sente e vede la fratellanza ritrovata.

Il motivo sociale che ha generato la manifestazione, in ottica odierna, appare irrazionale e a dir poco paradossale, ma se analizzato secondo le dinamiche dei trascorsi arbëreshë, si aprono scenari che trovano logica collocazione negli ambiti di minoranza.

La testimonianza che lega le Valje al secolare appuntamento di Pasqua nel Pollino è resa nel paragrafo “Etimologia” del 1835 da S. Basta, il dottore nel suo trattato relativo a Civita riporta quanto segue: “É tradizione tra noi, che i nostri padri avessero edificato i primi abituri in due punti diversi, e la vetustà delle case esistenti nel Piano del Magazzino, e nell’ estremità superiore del paese ci persuadono a fa­vore. Esistevano in questi due piccoli villaggi due diver­se famiglie condizionate, ambedue di cognome Bellusci; dominate dallo spirito di ostilità, 1′ influenza che esse estendevano sui loro coabitanti manteneva una viva dissensione, e coglievano l’occasione nei tre giorni di Pa­squa, quando solennizzavano i Piekisit (vecchi), per ve­nire a dei fatti d’arme, e sfogare i loro rancori; le cau­se produttrici dell’odio nei Bellusci, che indussero la co­lonia a scindersi in due partiti, hanno dovuto essere va­levoli anche a dare una diversa denominazione ai rioni che abitavano”.

Dei tanti capitoli che raccontano lo stato del paese arbëreshe è interessante ciò che viene riportato nella disamina dei “ Tre giorni di Pasqua”: “nel dopo pranzo di Domenica, Lunedì e Martedì a Pasqua varie compagnie di giovani, hanno consuetudine di riunirsi e vestiti alla foggia orientale, con turbanti in testa, con spade levate in alto e con bandiere, “vanno cantando i fatti guerreschi del Eroe di Croia”.

Le donne nella ridda unite cantando ancor esse canzoni nazionali ed accrescono al diletto ai curiosi dei paesi vicini, che corrono a divertirsi.

È tradizione esser state stabilite queste feste per avere nel decorso degli anni una memoria del natio paese,che imperiose circostanze costrinsero ad abbandonare.

Ci duole non poter qui riportare questi canti popolari che il tempo vorace a ridotto in frazioni sconnesse, e siamo assai dolenti di veder cadere in disuso le patrie costumanze.

Le manifestazioni folk in senso generale hanno perso la direzione per il quale furono realizzate, non conservano più l’originaria radice che affondava sia nel canto che nelle melodie ad esse direttamente connesse”.

I due trafiletti storici  riportati da S. Basta con garbo, sottolineano due momenti distinti della storia arbëreshë, il primo legato a esigenze territoriali dei primi insediamenti, mentre il secondo rappresenta la riproposizione della tradizione arbëreshë e confermare la metrica con la quale si tramanda il disciplinare linguistico – consuetudinario.

Si può, quindi, presupporre senza commettere errori, che l’origine nasca con il racconto etimologico e poi con il tempo, l’esigenza di tramandare le proprie origini all’interno della Regione Storica, abbia assunto valore folcloristico nei Tre giorni di Pasqua, in essi sonno riversati gli ingredienti tipici della minoranza, il canto, i costumi, la consuetudine, il valore della fratellanza, la confermare l’integrazione tra arbëreshë e indigeni, anche se già dal XV secolo, la nota del Basta termina con il rammarico di un processo che iniziava deteriorasi.

E. Koliqi, attribuisce alle Valje un ruolo identificativo per tutti i discendenti della diaspora balcanica ben preciso, in quanto, i canti tradizionali, narrano la lotta, contro il turco invasore, il dolore per quanto dovettero abbandonare la terra natia, i solidi sentimenti di fratellanza, l’ammira­zione per i guerrieri che li difesero, in altre parole la storia degli arbëreshë.

Non avendo avuto agli Albanesi una letteratura scritta, per le vicende storiche ben note, favole, racconti, proverbi, detti e canti in specie, divennero l’unico mezzo per tramandare i sentimenti, gli affetti e la storia.

Gli arbëreshë amano i canti, perché rappresentano l’enciclo­pedia storica, morale, civile, patriottica, che conserva attraverso la metrica del canto, nella radice originaria.

Sono canti amorosi, nuziali, natalizi, funebri, morali, giocosi, satirici, storici, che, diffusi per i monti e per i piani, nei villaggi e nelle città, tra i pa­stori e tra i contadini, tra i notabili, tra i vassalli e formano il solido collante per il popolo arberi.

Esse rappresentano la parola d’ordine che unisce tutte le comunità albanofone sparse in ogni dove, il codice in terra straniera, in mezzo al caos etnico, al cosmopolitismo assimilatore delle immense metropoli, sono i ricordi, le memorie storiche degli Albanesi, che per mezzo di questi canti mantengono, vivo il culto della lingua e delle costumanze della patria d’origine, vivendo da secoli tra popolazioni diverse, essendo gli arbëreshë cittadini della seconda patria.

Dalla nascita alla dipartita di ogni arbëreshë, esiste una svariatissima quantità di manifestazioni canore, i conviti sono allietati dagli improvvisatori di versi, le feste nuziali si svolgono anche oggi, benché meno che nel passato, come un rito dalle fasi regolate da rigorose e minuziose tradizioni, con canti per ognuna di queste fasi.

Il canto delle Valje a tre momenti salienti e si svolgono così come segue: il coro delle donne viene avanti, cantando il primo distico; quando questo è terminato, si fa avanti il coro degli uomini, cantando il secondo e alla fine un intreccio di tonalità mette in relazione i due gruppi che vogliono suggellare la fratellanza dei generi.

Essendo l’arbëreshë, una lingua che si tramanda oralmente, il canto rappresenta la metrica attraverso cui si lascia in eredità il senso linguistico.

Esse divengono il momento di massima espressione linguistica e consuetudinaria, matrimoni, lavoro nei campi, spogliatura dei prodotti agrari, le festività, i momenti di giubilo e quelli del trapasso sono Valje.

I temi spaziano in ogni ambito della vita e delle vicende che hanno visto gli arbër protagonisti, esse sono un espressione identitaria senza luogo e ne tempo in quanto esprimono le vicende passate presenti e future.

Lo stesso Vincenzo Torelli nella sua carriera giornalistica fu ispirato da questo modo di portare notizie e creò una sorta di battaglia tra il canto e la musica, ritenendo che la vera espressione artistica era racchiusa nel canto mentre la musica era solo un accessorio.

Del canto albanofono riferisce anche Pasquale Scura, ponendo in evidenza le doti canore innate degli arbëreshë, le innumerevoli cantate che caratterizzavano i luoghi d’insediamento e le attività agricole, silvicole e pastorali, canto come forza trainante con la quale s’immaginava il ritorno nella terra d’origine rispettosi delle antiche tradizioni.

Questi sono i motivi per i quali le valje, divengono, il momento della massima espressione culturale albanofona, Civita e Frascineto rappresentano le pietre miliari dell’arberia,segnano il percorso antico, tuttavia negli ambiti Civitioti confermano quella preoccupazione di Serafino Basta che oggi è diventata certezza.

Sonorità canore accompagnano o addirittura sostituite con suoni di tarante, tarantelle e suoni Albanesi acquisiti dopo la diaspora dagli invasori turchi, cadenze e movenze per le quali gli arbëreshë preferirono l’esilio, oggi si confondono in quella manifestazione che dovrebbe darci la certezza della nostra identità, la stessa che i nostri avi proteggevano a costo di sacrifici e patimenti.

A Frascineto la manifestazione nasce sicuramente da simili avvenimenti, ma rispettosa dell’antico senso socio culturale e rimane radicata ancora alla valorizzazione della metrica del canto, anche se poi le cantate non hanno una logica per la quale si possa giungere a una caratterizzazione dell’evento, per cui le esternazioni e le motivazioni, rese ai midia non chiariscono in maniera univoca il senso storico linguistico delle Valje, vurvìnari arbëreshëvet.

Mi rivolgo ai Sindaci e agli Organizzatori di queste fondamentali manifestazioni, ricordando che il tema delle Valja, si rispetta  con i costumi della modestia  culturale, questo è il modo  di fare  tutela per la comunità albanofona intera; valorizzare le Valje diffondendo essenze originarie, fa si che tornando a casa, siamo  sicuri di aver fatto un ottimo lavoro, altrimenti si promuovono, sotto mentite spoglie, le tarantelle e i balli turchi, che sono altra cosa.

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