NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – La persistente assenza, nel mondo arbëreşe contemporaneo, di una forma scritta comunemente riconosciuta, condivisa e socialmente accolta non può essere interpretata come una semplice lacuna tecnica o come il risultato di una presunta arretratezza filologica.
Al contrario, essa rappresenta l’esito di un processo storico e culturale complesso, radicato in un fraintendimento epistemologico di fondo e persegue l’idea che la lingua possa essere fissata attraverso la mera corrispondenza tra suoni e segni grafici, tralasciando l’indagare il significato profondo che ogni pronuncia incarna all’interno della comunità che la genera.
Dal punto di vista antropologico, l’arbëreşë, si configura storicamente come una lingua eminentemente orale, inscritta nei corpi, nei rituali, nei contesti relazionali e nelle pratiche quotidiane della comunità indivisibile.
La pronuncia per questo, non è mai stata un semplice fatto fonetico, ma un atto carico di valori e simboli, identitari e sociali e, ogni variazione, inflessione, accento rimanda a una specifica storia comunitaria, a una memoria condivisa, a un modo particolare di abitare e vivere il mondo.
In questo senso, la lingua arbëreşe non si è mai offerta come un oggetto neutro da trascrivere, bensì come un sapere incarnato, trasmesso attraverso l’ascolto, la ripetizione e la partecipazione.
Qualsiasi tentativo di ridurla a un sistema grafico univoco avrebbe richiesto, preliminarmente, un’indagine conoscitiva sul significato culturale delle sue forme sonore che riportano la memoria alla notte dei tempi.
È possibile formulare, in termini teorici, un principio interpretativo, che qui chiameremo teorema dell’assenza metodologica, secondo cui, fino ad oggi, nessuno si è applicato in modo sistematico e condiviso, studiando e interpretando il significato che ogni pronuncia assume all’interno del proprio contesto antropologico e a quelle simili che indicano e fanno immaginare cosa reale.
I tentativi di codificazione scritta che si sono succeduti nel corso di vari tentativi scrittografici hanno, infatti, privilegiato l’allineamento meccanico di suoni alfabetici a segni grafici, assumendo implicitamente che la lingua fosse un’entità autonoma, separabile dalla vita sociale che la sostiene.
Questa fare in ardire ha prodotto una molteplicità di proposte ortografiche, spesso tra loro incompatibili, ciascuna delle quali pretendeva di “rappresentare” la lingua senza interrogarsi sulla legittimità culturale di tale rappresentazione.
L’ostinazione, protrattasi per diversi secoli, nel voler “fissare l’anima del parlato arbëreşë attraverso un’immagine grafica dei suoni, ha condotto a risultati paradossali e, invece di consolidare una norma condivisa, ha accentuato le fratture interne, alimentato diffidenza delle macroaree dei parlanti.
Ogni proposta scritta è apparsa come un’imposizione esterna o come l’espressione di una singola autorità culturale, assoggettata al comune dire: “da noi si dice così”, il frutto di un processo collettivo di riconoscimento alloctono.
Il risultato evidente allo stato di fatto attuale, è una produzione scritta che non trova adesione diffusa, né sul piano sociale né su quello identitario che mira ad est del fiume adriatico in pena.
La scrittura, anziché essere percepita come uno strumento di continuità culturale, viene spesso avvertita come un elemento estraneo o artificiale.
Sin anche dal punto di vista antropologico, ogni sistema di scrittura si presenta come un dispositivo di potere che seleziona, normalizza e gerarchizza.
Nel caso dell’arbëreşe, l’assenza di una riflessione condivisa sul significato delle pronunce ha impedito la costruzione di un consenso simbolico attorno a una forma scritta legittimata dal basso.
Senza questo consenso, nessuna ortografia può aspirare a essere “ben accolta”, poiché manca il fondamento culturale che la renda riconoscibile, propria e condivisa.
La questione della scrittura arbëreşë, dunque, non può essere risolta attraverso ulteriori tentativi di trascrizione fonetica o di standardizzazione grafica isolata e ristretta come l’acqua di un torrente.
Essa richiede, piuttosto, un cambio di paradigma: un metodo di indagine conoscitiva che parta dal significato, dall’uso sociale della lingua, dalla percezione che i parlanti hanno delle proprie pronunce.
Solo riconoscendo la lingua come fenomeno antropologico totale e non come semplice sistema di suoni, sarà possibile immaginare, eventualmente, una forma scritta che non sia imposta, ma riconosciuta; non allineata ai suoni, ma radicata nel senso condiviso del parlare arbëreşe.
Trovare una metodica di scrittura che sia capace di creare, attorno al parlante arbëreşe, uno spazio simbolico abitabile non è un problema meramente linguistico, ma eminentemente antropologico e, lingua, in questo caso, non è solo un sistema di segni, ma è luogo, tempo, relazione.
Scrivere l’arbëreşë significa tentare di ricostruire, attraverso il testo, quell’ambiente domestico che tradizionalmente si formava attorno al focolare, dove la parola non aveva bisogno di essere spiegata perché era condivisa.
Il fuoco di casa, in questa prospettiva, non è una semplice immagine nostalgica, ma centro rituale del comunicare per trasmettere memoria.
È qui che la lingua non veniva insegnata, ma vissuta; non veniva codificata, ma riconosciuta e, ogni tentativo moderno di fissarla in una norma scritta si scontra con questo dato fondamentale, secondo cui l’arbëreşe nasce come lingua di comunità ristretta, fondata sull’ascolto, sulla prossimità fisica e affettiva, non sulla distanza del testo.
In questo senso, la scelta di Pasquale Baffi nel 1775, appare oggi meno come una rinuncia e più come un atto di estrema lucidità.
Baffi, latinista e grecista di altissimo livello, possedeva tutti gli strumenti per definire, classificare, normare di ogni genere e grado, ma nonostante ciò non lo fece.
Si limitò alla comparazione, evitando accuratamente di stabilire cosa fosse “semplice” o “complesso” nella lingua arbëreşë.
Dal punto di vista antropologico, questo gesto può essere letto come il riconoscimento di un limite, secondo cui la lingua arbëreşe non si lascia catturare fuori dal suo ambiente vitale.
Comparare significa osservare senza sottrarre; definire, invece, significa estrarre la parola dal suo contesto e renderla autonoma, quindi potenzialmente estranea alla comunità che l’ha generata.
La domanda che qui si pone, perché nessuno abbia mai colto quell’invito, è centrale, la cui risposta, probabilmente, risiede nella pressione esercitata dai modelli culturali dominanti.
La modernità chiede grammatiche, dizionari, standard e, che una lingua si comporti come le altre lingue nazionali.
Ma l’arbëreşë non nasce per essere “lingua di Stato”: nasce come lingua di resistenza domestica, come custodia della memoria in condizioni di minoranza diasporica, lacrimosa e colma di memoria.
Tentare di fissarla senza ricreare lo spazio antropologico che la sostiene, equivale a conservare le ceneri senza il fuoco.
Da qui il senso di estraneità che molti parlanti provano davanti a testi scritti che, pur corretti, non “scaldano”, non restituiscono l’esperienza dell’essere a casa.
Da ciò una vera metodica di scrittura arbëreşe, non dovrebbe partire dalla parola isolata, ma dalla situazione: chi parla, a chi, in quale contesto, con quale carico affettivo.
Più che definire, dovrebbe evocare; più che normare, dovrebbe riconnettere e, in questo senso, la lezione di Baffi resta ancora aperta: non un rifiuto della scrittura, ma un monito a non separarla dalla vita che deve rappresentare.
Ostinarsi a scrivere commedie o vocabolari è un errore che nasce da un fraintendimento profondo della parola come fatto umano, perché le parole dette non sono semplici unità di significato ma gesti, eventi situati, pratiche sociali che aprono scenari condivisi e producono senso nel tempo della relazione.
Essa deve essere voce, corpo, contesto e memoria collettiva e tutte insieme devono concorrere a farle vivere, mentre chi tenta di tradurle nello scritto, corre il rischio di isolarle, di ridurle a oggetti inerti, come tane buie e senza luce.
E dimenticano che ogni parola nasce da un uso, da un incontro e da una storia, e che solo mantenendo traccia di questa dimensione relazionale e antropologica la scrittura può evitare di tradire ciò che pretende di conservare.
Nel nostro tempo, chi continua ostinatamente a scrivere parole sulle lavagne o a tradurle sugli schermi un parlato a dir poco multilingue, si interroga davvero sul senso di ciò che vuole far percepire come identità.
Soprattutto se a parlare sono generazioni che non hanno cognizione di un’origine concreta della parola e, non sono cresciute davanti al focolare domestico o ascoltando la madre sulla soglia di una casa, questi, i luoghi ideali in cui il linguaggio nasceva dalla necessità, dal silenzio condiviso e dall’esperienza comune.
La parola, un tempo, era inseparabile dalla vita che la generava, mescolandosi con la fatica quotidiana, con il ritmo delle stagioni, con il lavoro dei campi, seminando il grano, zappando le vigne e gli uliveti, da cui scaturivano il pane, l’olio e il vino.
Parlare significava testimoniare, nominare ciò che si conosceva con del corpo, della natura ancor prima che con il pensiero moderno.
Oggi, invece, molte parole circolano prive di radici e, vengono pronunciate senza memoria o visione per essere scritte e tradotte da figure che non hanno conosciuto il bruciore delle mani né il peso del tempo lento della terra che germogliava in arbëreşë.
Il linguaggio si è fatto leggero, astratto, spesso autoreferenziale e, non nasce più dalla necessità, ma dalla ripetizione, che non è fatica, ma superficie d’immagine.
Si produce così una frattura profonda tra il dire e l’essere, con le parole che non custodiscono più memoria, non portano il segno della terra né la responsabilità di chi le pronuncia.
E quando il linguaggio perde il legame con la fatica che lo ha generato, rischia di diventare vuoto: un rumore continuo che non nutre, come un pane fatto senza grano.
Forse la vera povertà del nostro tempo non è la mancanza di parole, ma la perdita del loro peso e, recuperarne il senso significherebbe tornare a riconoscere che ogni parola autentica nasce da una relazione con il mondo, con il lavoro, con la sofferenza e con il tempo e, senza questa radice, parlare non è più un atto di verità, ma solo un esercizio di voce ignota, che non riceva ascolto alcuno.
Arch. Atanasio P. Basile (Attento Ricercatore Napoletano Arbëreşë Tenace) A.R.N.A.T.








