Archive | settembre, 2025

SUSSURRI ARBËREŞË ALLA RICERCA DI ASCOLTO gjitonia shëpitë udatë katochjetë e stalljeta druve cu u rjta

SUSSURRI ARBËREŞË ALLA RICERCA DI ASCOLTO gjitonia shëpitë udatë katochjetë e stalljeta druve cu u rjta

Posted on 30 settembre 2025 by admin

Chiesa CodraNAPOLI di (Atanasio Pizzi Architetto Basile) – È una pena infinita osservare inesperti ed estranei allo spirito dei luoghi, avanzare con passi pesanti, quasi longobardi, lungo i vicoli di un centro antico arbëreshë.

Calpestano le pietre senza saperle ascoltare, senza avvertire il suono dei secoli che ancora vibra sotto i loro piedi, non conoscono le mani che le hanno posate, non sentono le voci che le hanno attraversate.

Eppure quelle pietre parla ogni curva, ogni intonaco, ogni finestra chiusa da anni e, chi non sa vedere passa oltre.

Sono questi i centri storicamente noti per essere stati piegati dal tempo e, vederli sottoposti ai cadenzati abbagli, che senza rispetto, immaginano sia una piramidale borgata medioevale, non è certo il modo per darli in pasto ai media.

E quanti si inoltrano in un Katundë, senza chiedere o informarsi prima di cosa e come fare, finiscono nel perdersi, calpestare, disorientandosi e terminare fuori dal costruito, perché si crede sia circoscritto da mura, non avendo misura di quanti ideali si elevano nel perimetro più estremo di un Katundë.

Qui pur se all’aria aperta, le case respirare con difficoltà e, le pareti scrostate, restituiscono echi e, le ombre riconoscono i viandanti, ancora prima che decidano di addentrarsi.

Perché i sassi riconoscono ogni suono che fa domanda anomala, ogni angolo diventa frammento di memoria, e l’aria vibra sottile, in lacrimoso patire per il termine che nel breve a venire diverrà realtà.

Si ode un lamento sommesso, in fondo al vico dove vibra una luce fioca, disturbata dai suoni smisurati e, che non appartengono a questo tempo, chi qui si trova a passare violento non ha misura di ascolto per questo animo arbëreshë.

Si passa sotto un arco, vicino a una crepa e una soglia di casa, da tempo remoto immutata e, a breve niente sarà più come prima anche, se la memoria delle voci riecheggiano il volto di quanti qui hanno vissuto per far crescere sani generi senza preferenze; chi sa ascoltare e vedere intravede anche i segni delle lacrime e il sudore quando tutti videro partire i figli capaci.

Tornare, come promesso, per raccontare cosa è stato, diventa un atto di rispetto verso questi luoghi che da troppo tempo, nessuno ascolta perché lasciati nella disponibilità degli “ischi imbibiti di gocce in minzione”.

Qui nessuno riconosce più le fondazioni, nessuno sa come valutare lo spessore e la qualità dei muri, come neanche gli spessori sovrapposti di calce per il tempo lungo e la fumigine di quello corto sulle pareti depositatesi non per capriccio ma per segnare il tempo impaziente della modernità.

È come se qui il tempo avesse smesso di contare, come se il progresso si fosse arreso davanti alla nuda e dura pietra, della polvere, delle assi inchiodate dei solai in silenzio e, tutti non chiede nulla se non di essere riconosciuto e rispettati per il lavoro fatto.

Camminare tra i vicoli del centro antico è come infilarsi in una cicatrice ancora calda e, ogni angolo conserva memoria di sangue vivo, in ogni muro dove l’eco di un nome, di una voce, di un passo che non tornerà qui ancora tutto è in grado di ricordare.

Tra questi vicoli, la presenza di un figlio buono è sempre viva, non è nostalgia, non è malinconia, ma qualcosa di più sottile e radicato, secondo un legame tra ciò che è stato e ciò che potrebbe ancora essere e, solo chi torna se accolto con giudizio e rispetto, avrà modo di ascoltare e tradurre questo riverbero antico che cerca aiuto per sfidare il tempo.

Il mio Katundë non ha bisogno di essere salvato, ma riconosciuto, confermato e chi torna, chi si prende la responsabilità di raccontarlo, non lo fa per romanticismo o per apparire, ma lo fa perché sente che il tempo non ha senso se le cose qui ancora in vita, non le si aiuta a fiorire alimentandole con la memoria vera.

Addentrarsi negli ambiti di un centro antico senza sapere chi ha tracciato i perimetri di case e chiese, illustrando esclusivamente graffiti e marmi moderni, non è certo un documento storico, ma una farsa mediatica, come lo fu il vendere Toto e Peppino vendere la Fontana di Trevi a un turista americano di passaggio.

Così chi entra nel Katundë, da olivetano non lo fa armato di telecamere o mape di palcoscenico, perché quelle mura le scambiano per cavalieri armati come facevano piratati e ottomani invasori che senza rispetto, esaltavano la loro presenza, perché questi luoghi non chiedono futuro incerto, chiedono ascolto di un figlio.

Trovare qui un vecchio baule con dentro le vesti delle madri o delle nonne, non li si deve indossare e poi scendere a illustrarle lungo il lavinaio, perché quello era il luogo dei suini locali, non certo opportunità per essere sposa.

E ogni parola detta qui senza ragione pesa quanto una pietra, e ogni silenzio che viene disturbato dai comuni viandanti ignari, vale più di un terremoto, tornare e procedere con saggezza, non fa altro che togliere la cenere che copre le cose dimenticate da quanti li avrebbero dovuti amministrare.

Il vestito da sposa non è solo pieghe e colori copiati dalla natura, ma un protocollo che per essere raccontato richiede anni di sapere e non il tempo di infilate il filo nella cruna dell’ago.

Non serve tornare rumorosi, né rievocativi di una realtà che qui non ha mai avuto luogo, infatti alcuni suoni, certi slanci celebrativi, certi racconti gonfiati da chi qui non ha avuto un solo istante di crescita, forse serve altrove, dove riempire il vuoto con l’immaginazione e senza decoro di memoria, crede sia professione.

Ma il nostro centro antico qui in esame, non chiede interpretazioni, non accetta sovrascritture, perché qui le grafiti erano solo opera del gatto irrequieto e, chi torna, se lo faranno tornare davvero, lo fa in silenzio, perché sa che il silenzio non è assenza ma momento di ascolto amplificato, della cassa armonica fatta di anima e tempo.

In questi ambiti ameni chi ha l’orecchio calibrato, non solo può udire, ma comprendere e cogliere ciò che quei muri, quelle soglie, quelle strade, sussurrano ancora, in tutto storie che esistono sempre e tentano di sopravvivere per non essere cancellate.

In un centro antico arbëreşë il passato non si manifesta con clamore, non reclama palco né nostalgia, il passato si deposita, si sedimenta nei luoghi e si plasmano, come fa l’olio quando si versa e diventando trama sottile che solo chi si ferma può percepire o riconoscerne l’essenza.

E allora non serve voce, non servono dichiarazioni, ma serve solo presenza, rispetto e la capacità di ascoltare e lasciarsi dire qualcosa da quel poco che ancora resta e risuona in questi vicoli circondati da soglie di storia.

Entrare in un circoscritto familiare arbëreşë, con preparazione specifica di ascolto e parlato, nella comprensione profonda del valore vernacolare e nella lettura del gesto quotidiano, significa accedere a un archivio del presente che non sta altrove ma depositato in questi scaffali fatti di crepe nei muri.

Qui ogni cosa e scaffale che conserva memoria e, gli oggetti, le tecniche manuali tramandate, non sono reperti muti, ma testimoni attivi di una storia non scritta.

Attraverso il riecheggiare delle mani operose che conoscono i gesti degli avi, si può rilevare con precisione ciò che nessun archivio conosce, ovvero i ritmi, le intenzioni, le modifiche minime tramandate per secoli in quello stesso luogo dove sono diventate operose.

È una storia che vive nel fare, nel dire, nel silenzio condiviso, una storia che resiste al tempo proprio perché non si è mai allontanata dal luogo dove è nata consolidando questi luoghi di consuetudini che segnano i battiti del tempo.

Ogni atto domestico, ogni parola detta secondo la consuetudine locale, ogni utensile posato nello stesso modo da generazioni, custodisce la verità di una memoria collettiva profonda, difficile da decifrare senza l’orecchio e lo sguardo giusto.

Attraverso un’analisi visiva e tattile degli elevati murari, appartenenti all’edilizia vernacolare, in particolare dell’edificato del centro antico e gli ambiti destinati a deposito, stalla e legnaia, è possibile ricostruire le principali fasi costruttive, individuando tanto le epoche di primo impianto quanto eventuali interventi successivi di riedificazione, ampliamento o riparazione.

Tale indagine si basa sul riconoscimento e sulla lettura stratigrafica degli apparati murari, che consente di identificare le tecniche costruttive, i materiali impiegati e le modalità di posa, fornendo così preziosi indizi per una datazione relativa delle diverse fasi edilizie.

In particolare, l’osservazione delle qualità dei materiali costituenti la muratura, come pietre locali di natura calcarea o arenaria, oppure l’impiego di frammenti laterizi e ceramici reimpiegati, spesso legati con malte a base di argilla o calce, permette il distinguere, tecniche più arcaiche e soluzioni più recenti, spesso legate a differenti disponibilità di risorse, a cambiamenti nei modelli costruttivi o all’introduzione di nuove tecnologie.

In alcuni casi, la presenza di materiali eterogenei o di riuso (come cocci, tegole, mattoni frantumati) inseriti in impasti terrosi può suggerire interventi di recupero o fasi di ricostruzione successive a eventi traumatici, quali crolli, incendi o modifiche funzionali dell’edificio.

Un ulteriore elemento fondamentale per l’analisi dell’edilizia vernacolare, soprattutto in contesti post-catastrofici o di ricostruzione, è rappresentato dalla presenza (o assenza) delle pietre angolari, spesso accuratamente squadrate o selezionate, collocate agli spigoli degli edifici.

Queste, oltre a svolgere una funzione strutturale e di consolidamento, costituiscono anche un indicatore del livello economico e sociale del nucleo familiare costruttore.

Nelle abitazioni appartenenti a famiglie più agiate, tali pietre si presentano generalmente ben lavorate, di dimensioni regolari e disposte con tecnica accurata, spesso provenienti da cave locali o da edifici precedenti smantellati in modo selettivo.

Al contrario, nelle abitazioni delle fasce meno abbienti, si riscontra frequentemente l’assenza di angolari ben definiti e, gli spigoli sono realizzati con pietre di recupero disposte irregolarmente, o addirittura senza soluzione tecnica evidente, segno di una costruzione realizzata con materiali di fortuna e con mezzi limitati.

Questo dato costruttivo permette di distinguere le ricostruzioni più strutturate, promosse da famiglie con maggiore disponibilità economica, da quelle più improvvisate o di emergenza, effettuate da chi aveva perso tutto in seguito a eventi calamitosi (sismi, frane, incendi, guerre, carestie).

In molti casi, infatti, i meno abbienti si trovavano a ricostruire sugli stessi ruderi delle case crollate, utilizzando materiali di spogliatura recuperati sul posto o da edifici abbandonati, spesso senza la possibilità di acquistare nuova materia prima.

Questa stratificazione di tecniche e materiali consente di leggere le disuguaglianze sociali direttamente nella muratura, rendendo il manufatto architettonico una fonte storica di prima mano.

La presenza discontinua di pietre angolari, insieme alla qualità delle malte, al tipo di leganti e alla composizione degli impasti murari, diventa quindi una chiave interpretativa per comprendere la geografia della ricostruzione, distinguendo chi ha potuto ricostruire con risorse proprie e chi invece ha dovuto arrangiarsi con ciò che restava.

Questa metodologia, che affianca l’archeologia dell’architettura all’analisi dei materiali, si rivela particolarmente utile in contesti collinari dove la documentazione scritta è spesso assente o lacunosa. L’indagine diretta sulle murature, quindi, rappresenta uno strumento fondamentale per la comprensione delle trasformazioni storiche del paesaggio costruito e delle pratiche costruttive locali tramandate oralmente o per tradizione.

Inoltre, l’incrocio dei dati materiali ricavati dall’analisi diretta delle murature con le fonti storiche relative ad eventi naturali e sociali, quali terremoti, pandemie, carestie o periodi di siccità, consente di contestualizzare con maggiore precisione le fasi di trasformazione degli insediamenti rurali.

Questi eventi traumatici, documentati attraverso cronache locali, registri parrocchiali, o documentazione storica più ampia, spesso trovano riscontro anche nella materialità del costruito di crolli, ricostruzioni parziali, sostituzioni di materiali, o addirittura mutamenti nella funzione d’uso degli edifici.

Nel caso specifico dei Katundë e, i cunei di pertinenza, tali eventi possono aver segnato veri e propri momenti della storia comunitaria, con conseguenze tangibili nell’assetto insediativo, nella qualità dell’edilizia e nelle tecniche costruttive impiegate.

Pertanto, il confronto tra dati rilevati dalle fonti storiche locali permette non solo di datare con maggiore attendibilità alle fasi costruttive, ma anche di restituire una lettura solida alla storia locale, intrecciando le vicende architettoniche con i processi, ambientali e socio-economici che hanno interessato questi contesti collinari fuori dalle pertinenze dell’anofele.

Se di un Katundë arbëreşë non si ha consapevolezza delle sue origini, delle tappe evolutive che lo hanno formato e del paziente lavoro di ripristino portato avanti dagli arbëreşe, allora non si può parlare di nulla. Ogni tentativo di comprensione risulterà vano e, così, chi si avventura con incoscienza o presunzione ad attraversarlo, finisce inevitabilmente per sbattere la propria conoscenza contro un muro.

E purtroppo questo un muro provoca confusione, disorientamento, scambiato per la ‘murazione’ della borgata, o, per dirla in altro modo, della bovara.

I centri storici arbëreşe, perché sostenuti in conseguenza della diaspora Balcana, portano in sé un’identità solida, profonda, che non può essere oggetto di indagine da parte di letterati improvvisati o di chi si accontenta di lettere superficiali.

La loro comprensione richiede invece la sapienza degli Olivetani, cresciuti nei luoghi dell’eccellenza formativa di Palazzo Gravina, dove l’architettura non è solo un mestiere, ma scuola di pensiero, disciplina e abnegazione totale.

Solo chi si è formato in questo edificio di conoscenza, tra i più solidi del meridione, per rigore e ampiezza di sapere, può aspirare a cogliere l’essenza di questi luoghi e tradurla con rispetto e maestria.”

Oggi tutti coloro che affermano di essere transitati sulla via degli Olivetani, magari dopo averne anche solo fissato l’ingresso, custodito come immagine, hanno il dovere di fermarsi, ascoltare, e lasciarsi attraversare dalle parole sagge che solo l’Olivetano autentico può tradurre.

Perché quelle mura antiche non parlano né il latino né il greco, ma una lingua indoeuropea originaria, arcaica solo parlato, che non si studia sui libri ma si apprende attraverso l’ascolto profondo.

È la lingua della pietra, del vento e delle stagioni, una lingua seminata tra gli orti, che non ha fretta di germogliare.

Vuole il suo tempo, pretende silenzio e attenzione, e si dona solo a chi sa davvero ascoltare, perché solo attraverso l’ascolto profondo si può comprenderla, non con gli occhi affrettati del turista o con le parole svuotate del letterato di passaggio, ma con la pazienza di chi è disposto ad attendere il suo frutto.

Atanasio Architetto Pizzi                                                                                                    Napoli 2025-09-30

Comments (0)

E VENNE IL TEMPO PER DISINFORMATI MISTIFICATORI E PROPAGANDISTI (Puru Shën Shanasinë vutë pëposhë aresë)

E VENNE IL TEMPO PER DISINFORMATI MISTIFICATORI E PROPAGANDISTI (Puru Shën Shanasinë vutë pëposhë aresë)

Posted on 28 settembre 2025 by admin

Bimbo4NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Viviamo un tempo fragile che diventa sempre più sottile, in cui la storia si piega sempre più spesso alle esigenze della narrazione spettacolarizzata.

Le manifestazioni pubbliche, un tempo strumento sincero di ricordo, rivendicazione e rievocazione culturale, oggi si stanno trasformando in palcoscenici per l’autocelebrazione e la mistificazione.

Nel caso specifico della cultura arbëreşë, questa tendenza assume contorni preoccupanti: un sistema sempre più alimentato da disinformati, mistificatori e propagandisti sta progressivamente svuotando di senso la narrazione autentica delle nostre radici.

La regione storica sostenuta e custodita per generazioni dai cultori arbëreşe non è solo un concetto linguistico, ma un sistema complesso di memoria, valori, simboli e pratiche consuetudinarie irripetibili. Essa è frutto di una resistenza silenziosa ma potente, esercitata da chi ha scelto di tramandare lingua, fede, rituali e visione del mondo.

Oggi, però, quella resistenza è minacciata non tanto da forze esterne, quanto da una devianza interna, nutrita da ignoranza, superficialità e una malintesa idea di “promozione culturale”.

Si assiste alla moltiplicazione di eventi in cui il folklore viene ridotto a parodia, la lingua manipolata o esibita fuori contesto, e la storia compressa in slogan approssimativi e, tutto questo, spesso, senza alcun coinvolgimento critico delle comunità stesse, la quali si trovano rappresentate da figure estranee o auto-nominate, prive di competenze storiche, linguistiche o antropologiche, ma desiderose di visibilità e riconoscimento.

Questa dinamica conduce a una perdita progressiva dell’autenticità, poiché ciò che viene proposto al pubblico, spesso al solo scopo di ottenere fondi, premi, consensi o assunzioni, non è più memoria condivisa, ma caricatura funzionale.

Di fronte a questo scenario, il rischio più grave non è solo la falsificazione della storia, ma lo smarrimento del senso stesso di appartenenza.

La cultura arbëreşë, come tutte le culture di minoranza, sopravvive solo se nutrita da un equilibrio delicato tra conservazione e consapevolezza.

Non basta ricordare, bisogna sapere cosa si ricorda e perché, non basta celebrare, bisogna conoscere ciò che si celebra e con quali strumenti.

Occorre dunque un rimedio urgente, anzi necessario per rimettere al centro il rigore, lo studio, la ricerca con responsabilità culturale.

Occorre che i cultori autentici, studiosi, anziani depositari della memoria, insegnanti, traduttori, sacerdoti, poeti, artigiani, tornino ad avere un ruolo guida nel discorso pubblico, sottraendolo alle mani di chi lo ha trasformato in spettacolo per il comune viandante della breve sosta.

La posta in gioco è alta se non si interviene or ora, si rischia di smarrire ogni cosa e, quando una cultura smarrisce sé stessa, non si spegne solo un patrimonio, ma si perde una possibilità di pluralismo, di dialogo, con il futuro.

La strada da percorrere richiede coraggio, rigore e una visione lunga, ma soprattutto richiede di riconoscere l’inganno in corso e, avere la forza di opporvisi, anche quando questo significa rompere equilibri consolidati o mettere in discussione consuetudini rassicuranti, non per chiudersi, ma per tornare ad aprirsi nella verità.

Quattro decenni e più fanno, quarant’otto anni trascorsi a raccogliere dati, testimonianze, microframmenti dispersi nel tempo e tessendo una storia vera, fedele e rigorosa.

Una storia senza protagonisti di secondo ordine, senza lustrini né accomodamenti, in tutto un’opera ciclopica, racchiusa in diecimila pagine di storia, archiviate, commentate, trascritte con pazienza monastica.

Eppure, tutto questo non è bastato, non è servito a fermare la deriva, non ha arginato la marea montana dell’approssimazione, della leggerezza, del pressapochismo.

Questa mattina, la diga della decenza ha ceduto, il limite di capienza della diga dell’ignoranza che ha  straboccato, come un caffè versato da mani inesperte, tutto è precipitato nelle parole false in dialetto albanese, ricostruzioni fantasiose secondo le regole del noce, travestimenti grotteschi di un’identità trasformata in maschera per valorizzare generi incerti.

Le rievocazioni, un tempo sacre, oggi sono ridotte a teatrini improvvisati, non da preti ma miss credenti e, lee voci competenti sono sommerse da grafiti senza patria, che urlano contro il sole che fa ombre riverse.

L’eco del lavoro paziente di decenni è oscurato da una giornata sui social, da un vestito colorato, da un piatto affiliato al natale che non è mai stato.

In questo caso non si mette in dubbio solo il rispetto, una la  sopravvivenza culturale di un luogo specifico e di tutte le sue generazioni che lo abitarono.

Perché quando la storia vera viene soppiantata dalla finzione a o dall’apparire di chi non trova agio nei propri luoghi natii, quando lo studio viene considerato “poco comunicativo”, e quando chi ha dedicato la vita alla ricerca viene ignorato in favore di chi improvvisa, allora la sconfitta non è solo degli studiosi, ma di un intero popolo di un luogo specifico che ha sin anche fatto la storia dell’unità d’Italiana.

Siamo oltre il punto di rottura, eppure, anche adesso, in mezzo al rumore, resta possibile scegliere se rimanere in piedi e, controcorrente, nella verità.

Perché ogni pagina autentica scritta, ogni documento custodito, ogni parola detta con onestà, è una diga che ancora resiste.

Tuttavia trattare argomenti profondi e sacri con leggerezza equivale a profanarli, come ad esempio ridurre la sacralità della Cena di Natale; momento centrale del ciclo rituale arbëreşe e, atto collettivo di fede, memoria, trasmissione, ad un qualsiasi adempimento culinario domenicale, è un atto di svilimento che non ha nulla di innocente.

Essa rappresenta la misura di una trasformazione più ampia e devastante, che trasforma l’identità specifica in superficie piana e, l’eredità in intrattenimento.

Allo stesso modo, la sontuosità della vestizione femminile, che non è solo bellezza, ma codice, gerarchia, dignità sociale, linguaggio sacro dei colori e dei fili, ed oggi è stata ridotta a una sfilata cromatica lungo un lavinaio, come se bastasse il riflesso della seta per dire chi siamo, un poco come dire che l’estetica potesse assorbire la storia, cancellarla, sostituirla in parodia di parlato pronunciato sin anche deforme.

E ancora, si arriva a innalzare il valore di un luogo sacro, chiese, icone, cimiteri, o le soglie di un altare secondo le metriche di chi allevava i figli sotto un noce, confondendo l’intimità del rito personale con il significato della credenza storica e collettiva.

Non si distingue più tra il sacro e il privato, tra la verità rituale e la tenerezza domestica, si fa del vissuto un parametro di misura universale, confondendo la memoria con la nostalgia.

Ma il picco dell’alluvione culturale si tocca quando si afferma che gli arbëreşë tramandano la storia attraverso strumenti a corda o a fiato, ignorando il lavoro secolare di combattenti di parlato e canto.

Quando si mette la narrazione in mano a chi non ha mai letto una cronaca, mai tradotto un testo, mai posto una domanda su cosa significa essere eredi e non solo dissipatori di un’identità trasmessa di voce in voce e canto in canto.

Non si conoscono gli uomini che hanno dato la vita per questa storia, non si distingue il martire dal traditore, il testimone da colui che ha venduto i fratelli per un attimo di gloria o di un discorso che ad oggi attende giustizia calligrafica.

E nonostante questa distinzione sia fondamentale, la linea rossa che la determina e le separa come chi ha costruito le fondamenta dalla folla che oggi danza sul tetto, senza sapere su cosa poggia.

E poi è chi misura con attenzione, in silenzio, quanto la corrente è tempesta e supera la diga che dovrebbe contenere l’ignoranza, ma solo lui sa che siamo a un passo dal disastro definitivo.

Perché la piena è già arrivata davanti l’uscio di casa ed è pronta per trascinare non solo l’oblio, ma l’inversione, la glorificazione, l’inconsapevole, l’applauso superficiale, i premi del vuoto.

Eppure, nel disordine della piena, una voce resta, è del canto autentico, della parola detta con rispetto e non per compiacere.

È la voce che non cerca consenso, ma verità, perché la voce che non si può mettere in scena, perché viene da lontano e chiede umiltà di ascolto, non applausi da podio.

Questa voce non può essere spenta e, finché ci sarà chi la riconosce, chi ne custodisce l’eco, chi si rifiuta di danzare sul nulla, allora nulla sarà davvero perduto.

E il fiume, un giorno, tornerà nel suo letto, non per volontà del caso, ma per scelta consapevole di chi non ha accettato di ignorare quella antica promessa del 17 gennaio del 1977 alle ore 15.30 nel largo dove le poche cose, per chi non possedeva nulla, si misurava con la bilancia dell’oro.

Architetto Olivetano Atanasio Pizzi                                                                 Napoli 2024-09-28

 

Comments (0)

ORA È IL TEMPO DELL’OLIVETANO ARBËREŞË  (Hoj Thanà fijtë dallië e dalljë pà sëriturë sj gnë mosë thë maren përë shimitrotë)

ORA È IL TEMPO DELL’OLIVETANO ARBËREŞË (Hoj Thanà fijtë dallië e dalljë pà sëriturë sj gnë mosë thë maren përë shimitrotë)

Posted on 28 settembre 2025 by admin

Mamma5NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Olivetano Basile) – Per quanti dicono di essere nati con santità di ascolto e comprensione saggia, per seguire il cammino storico, di operato, bonifica e vissuto della minoranza arbëreşe, è confermato che abbiano avuto quale scuola primaria quella di Nocera Inferiore!

La convinzione nasce dal dato che il solo, in grado di ascoltare capire e tradurre gli antichi riverberi, per tracciare il “percorso storico indivisibile”, che non sia stato “ardire Nocereste”, non appartiene alla categoria degli eletti di queste pubbliche apparizioni editoriali, ma i due storici che in Campania sono stati scelti come Olivetani Partenopei.

E oggi l’unica figura in grado a dare senso alla lingua che resiste nel tempo, perché memoria di una diaspora antica priva di atti scritti e, affiancata da un’ugola con sangue dei Caruso, definendo un temine a questo penoso confino di pena mentale diffusa nei Katundë arbëreşe.

Questa metafora nasce dai toni lessicali riverberati nei secoli da una scia di contaminatori seriali o confinati sotto il castello di Nocera, si è adagiata a scrivere imitando i solchi della terra promessa, colmandoli di ricordi e memoria ignota, per poi procedere secondo la linea di una bussola etica che non segue neanche pe errore, gli echi di quel canto antico in arbëreşe.

Se a questo aggiungiamo che i preposti, si sono lasciati incantare dalla coda alfabetata davanti all’istituto di Nocera, dove non apparì mai la “Z”.

Si deduce facilmente che gli eletti “proposti” continueranno a vagare nei vicoli, coprendo di isterismi lessicali, che ancora a oggi non sanno come si costruiscono pennini e sagomare calamai e immaginate quanto tempo serve ancora per capire che serve anche carta e inchiostro.

In tutto una carriera o scia di pensiero povero e rumoroso, colmo di battiti ferrosi assordanti, che generavano e generano un continuo marinare l’ascolto e, diventare viandanti, per poi apparire, nelle note del registro di classe dell’istituto Vittorio Emanuele II di Nocera Inferiore.

Sono queste ondeggianti o instabili figure lljtirë a realizzare il cumulo di episodio albanistici, narrati senza termine, alla spasmodica compilazione di un dizionario, che non voce di parlato, pianto, preghiera, amore, senza ricorrere alla memoria scritta o grafitata.

Così, tra simposi autoreferenziali e bibliografie inventate, hanno disperso l’eredità di oltre cento Katundë, frammento tutti con episodi che vorrebbero indicizzare, reperti per fare ristorazione per turisti distratti.

E di fronte ai canti antichi che risuona nei Katundë, nessun uno, hanno avuto capacità di ascoltare le storie tramandate a voce, il dolore nell’essere stati costretti a fuggire per non pensare, parlare e pregare come imponeva l’invasore Beg.

Gli incauti prescelti santificati dalla politica, oltre ad aver smarrito la via del pensiero hanno reso ogni gesto un atto sconnesso, un’eredità per disperati, come si fa con la cenere di un camino quando termina di riscaldare la si lascia si adagia nel lavinaio di casa per essere dispeso dalla pioggia.

E ogni frammento di quella cenere, si presentano come parlato, che millanta di riscaldare gli animi freddi della storia, oltremodo esaltati in atto che vorrebbe imitare la presenza di valori e forme di un tempo, senza avere consapevolezza che quella è cenere fredda del camino di nonna Elvira, che depositava fuori l’uscio di casa, sotto il noce per impolverare le gesta delle Magare.

Tuttavia quello che oggi rimane, sono le gesta delle nostre genitrici, la manualità di nonne, madri e sorelle, che, teniamo solidamente impresse sul cuore e nella mente, sono loro che alimentano la sapienza dell’Olivetano.

A tal fine torna in mente, quando esse preparavano il pranzo per la famiglia, non per dovere, ma per credenza, con gesti rituali che sfuggono alla modernità e alla ossessione di efficienza, che non deve essere di mero piatto da millantare genuino, ma gesto celebrativo di una consuetudine antica.

Le loro gesta non cercavano applausi, né telecamere o visualizzazioni di merito perché rappresentavano un atto fondativo, che univa ciò che il mondo odierno prova a disegnare per fare sunto svilito.

Non c’è bisogno di decreti né di assemblea, o di giovincelli/e inesperte guidati dal mugnaio matto, perché basta una ciotola di terracotta, il pane che prende forma tra le dita impolverate di bianco delle donne arbëreşë, il profumo dell’erba aromatica raccolta all’alba, in tutto la semplicità che sfiora la liturgia, per compiere memoria, che altrove si smarrisce e, qui si conserva per confermare memoria.

Così, mentre fuori tutto pare vacillare tra il rumore e la frenesia, le nostre nonne madri e sorelle segnano un ordine antico, con la loro manualità che non palesa potere, ma la sostanza della famiglia unita.

Nessuno mai ha visto la propria madre limitarsi a benedire farina con acqua e rami di origano, dentro una ciotola, o preparare pane da infornare, perché questi gesti regolavano, curavano il ritmo della saggezza.

E proprio lì, dove si preparano pietanze con gesta e manualità, priva di titoli accademici, la storia continua a ripetersi nei gesti, fatti con le mani che armate di filo e ago per unire gli strappi di un costume antico.

La manualità in forma di arte nei Katundë è sapere silenzioso, che tramanda parole, gesti e ogni movimento delle mani diventa memoria antica, assumendo un significato che superava il tempo.

In casa e nei campi, il lavoro non conosceva pausa, non si trattava solo di fatica fisica, ma di una dedizione profonda, quasi sacra, che teneva connessi come un fascio, alla terra, alle stagioni, al senso stesso della vita.

Qui non serve orologi per sapere quando seminare, né di ricette scritte per cucinare, ma basta il tatto, l’osservazione, l’esperienza.

Le mani erano strumenti, ma anche archivi di sapere antico, come quando una madre impastava il pane o un padre sistemava la vite e, non facevano solo un gesto pratico, ma ripetevano un rito, ereditato da generazioni che avevano imparato ascoltando la natura e osservando gli anziani.

Oggi, quel sapere è spesso confuso, mescolato, oscurato dalle modernità e, la velocità ci ha tolto il tempo della pazienza, la tecnologia ha promesso comodità, ma ha portato noi lontani da quell’intimità di cose semplici.

Si è persa la fiducia del gesto umile, della conoscenza non scritta e le gesta di un tempo da protagoniste, sono diventate strumenti secondari, mentre la mente vaga tra schermi e notifiche.

Eppure, in quel passato che sembra così distante, c’era una presenza piena, una consapevolezza che oggi manca.

Non c’era bisogno di andare a Barcellona, Madrid o Venezia per sapere se siamo stati vivi o siamo esistiti veramente, perché basta saper accendere un camino, allestire un orto, riparare un oggetto, raccontare una storia da intorno a quel fuoco antico di casa.

Il sapere non chiede di essere compreso, ma semplicemente accolto e chi possiede questa qualità non si vantava, perché la vera sapienza non fa rumore e non grida come fanno quanti scrivono o fanno scrivere ad editi per immergersi nella storia degli arbëreşë.

Forse, ritornare a quel modo di vivere non è possibile, ma ascoltarlo per ricordarlo secondo la metrica del loro silenzio, si trova e si acquisisce più verità di quanta si possa leggere oggi in mille pagine di bugie nate cresciute e pasciute attorno al Collegio delle fratrie.

Fornire immagini del costume, appellandolo con leggerezza “di mezza festa” o “mezzo lutto”, significa svilirlo, assegnando una misura incerta, colma di pochezza culturale osando di fare ricerca senza prima ascoltare come ha fatto l’olivetano che ha guardato, diversamente da chi ha solo fotografato senza osservare, per apprendere e capire.

Ancora più grave è il dato che alcuni giudizi sono stati approvati, timbrati, elevati a verità dai preposti distratti, si proprio loro gli incapaci di cogliere il peso simbolico, l’identità profonda, il respiro antico che vive nei dettagli del costume.

Perché quello che vediamo non è solo raso intrecciato di seta e cotone, non è solo colore, ma una sola e indissolubile memoria di lutto vissuto, fede tramandata e gioia trattenuta con pudore davanti a dio in chiesa e al fuoco del camino in casa aspettando chi lavora nei campi al rientro.

Solo chi nasce e cresce olivetano arbëreshë, può davvero distinguere il fatuo dalla crusca genuina perché ha visto la nonna vestirsi al mattino con gesti precisi, come se ogni giorno fosse un rito e non un tempo di noia.

E lui sempre che con orecchi attenti, ascoltava il raccontare, perché di un velo, un merletto o come deve avvolgere braccia spalle e seno un Gipunë, come deve scendere la zògha e, il motivo di apporre un nastro, perché deve durare, e fare ascolto in silenzio.

Gli altri, per quanto titolati o premiati possano essere, parlano da fuori dietro la porta o in mezzo la Gjitonia e non sanno comprenderne i confini, rimanendo come ventose che da dietro un vetro, vivono il freddo gelido della stagione corta.

Non basta tradurre un canto o trascrivere un proverbio per capire un popolo, ma bisogna respirarne l’aria, per vivere il dolore, la fierezza con ardore antico.

Altrimenti, si finisce per chiamare “folclore” ciò che è sacralità, e “curiosità etnografica” ciò che è sangue, terra e identità di un parlato antico.

E forse non è colpa loro se non vedono, ma colpa vostra che state in silenzio sperando che uno vi inviti a mangiare e bere vino dove mai una madre ha impastato la saggezza culinaria degli arbëreşe davanti al camino che ormai vive spento.

Gli Arbëreşë, per dare vita al Katundë, non hanno innalzato fortezze, ma costruito i muri delle case, pietra su pietra, mettendo al centro la famiglia e la comunità.

Per formare una famiglia, non si sono affidati al caso, ma hanno tessuto a mano il vestito nuziale,
intrecciando fili di tradizione, identità e speranza.

Per creare un’economia, non hanno cercato ricchezze facili, ma hanno rassodato la terra con fatica e dedizione, rendendola fertile con il sudore e con pazienza hanno atteso i germogli.

Per fondare una nazione, non hanno mosso guerra, non hanno conquistato con le armi, ma hanno inventato l’integrazione, il dialogo, dei popoli in pena di camminare.

E per fare memoria, non hanno scritto i libri, ma hanno ricordato con la voce, i gesti, i canti,
tramandando saperi e storie come si tramanda ciò che si vive ascoltando il cuore e l’anima, delle generazioni.

Atanasio Architetto Pizzi                                                                                     Napoli 2025-09-28

Comments (0)

RIGENERA (gnë vaterë arbëreşë te ghë Katundë cë nhenghë hëshëtë me thënhgruitura me djerë lljtirë)

RIGENERA (gnë vaterë arbëreşë te ghë Katundë cë nhenghë hëshëtë me thënhgruitura me djerë lljtirë)

Posted on 26 settembre 2025 by admin

308423617_1729055724160126_8539738301944030858_n

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Olivetano Architetto Basile) – Negli ordinamenti moderni, le democrazie di Europa, quelle Nazionali e Regionali si sono dotate di leggi che riconoscono il valore delle minoranze storiche, garantendo sulla carta eguaglianza, tutela e partecipazione.

Tuttavia, questa intenzione di pianificare resta confinata sul piano esclusivo del foglio di carta e calamaio dove attingere inchiostro, in quanto gli ambiti di radice o aspetti materiali e immateriali che accolsero e sostennero la qualità della vita degli arbëreşë, continuano a essere ritenuti equipollenti alle logiche maggioritarie e, quindi da non tutelare se non per specifici esempi.

Riconoscere i diritti di una minoranza significa molto più che dichiararla “uguale davanti alla legge”, perché esige interrogarsi quali siano le condizioni concrete per esercitare quei diritti e con quale fine.

Serve soprattutto, intervenire sui contesti, culturali, educativi, economici e spaziali, che strutturano l’inclusione di una diversità consuetudinaria sostanziale.

Valga di esempio la lamentela perpetua di nonna Carmelina, una donna forgiata nella brace delle antiche abitudini, matrona di tempi in cui il calore di una casa si misurava non in gradi ma con la presenza attorno al camino.

Lei, che aveva sempre diretto la sua famiglia come un’orchestra seduta accanto alla fiamma viva, si ritrovò, negli ultimi anni della sua vita, estromessa da quel trono che sapeva come sostenere e dirigere.

Fu il figlio a portarla con sé nella casa nuova, moderna, funzionale, ma fredda per chi sapeva ascoltare le stagioni osservando la danza della fiamma piegarsi e e riscaldava sin anche il forno.

In quella casa, il camino era stato sacrificato in nome del progresso, rimpiazzato da una “macchina del fuoco”, come la chiamava lei, con disprezzo malcelato, una stufa d’acciaio, silenziosa, efficiente, e del tutto priva d’anima, anzi forse macchina del diavolo visti i suoi cerchi superiori, per liberare le fiamme.

Ogni sera, dopo cena, nonna Carmelina si sedeva in silenzio, guardando il punto dove avrebbe voluto vedere il camino ardere la fiamma e, con voce ormai stanca, diceva: “Questa non è una casa, perché qui il fuoco non parla ma resta prigioniero e muto.”

Quelle parole si ripetevano come un rosario, ogni giorno, con lo stesso tono, lo stesso dolore sordo e, figlio la ascoltava, afflitto, incapace di restituirle il tempo andato, ma troppo legato alla modernità credendo che quelle nostalgie potevano essere con un gesto di modernità superate.

Quando Carmelina se ne andò, senza un grido né un rimprovero finale, fu come se anche l’ultima brace della casa si fosse spenta.

Il silenzio che seguì fu più freddo di qualunque inverno, più vuoto di qualunque stanza e il senso di quella fiamma inizio ad ardere in quel figlio senza più una madre riverberando anche nelle case sei vicini dove imperava la macchina del fuoco.

Fu allora che il figlio comprese che non era solo il fuoco ciò che mancava, ma la ritualità, la presenza, il respiro della casa che si faceva corpo attorno al camino.

Non per fede nel passato, ma per rispetto di ciò che aveva costruito la loro identità, ed è così, in un gesto tardivo ma sincero, cominciò costruire sulla parete dove la stufa era adagiata, con un vecchio muratore, e con i rinforzi in ferro di un saggio fabbro che conosceva ancora il segreto di costruire un camino, non fosse solo funzionale, ma capace di realizzare con misura la bocca de fuoco dove una lingua antica inizio ad ardere e parlare.

Ci vollero il tempo di una settimana, per dare il via al nuovo fuoco acceso e, il figlio si sedette di fronte ad esso, nel silenzio e poi assieme a lui, le vicine Adelina e Silvia, imitarono quel gesto per poter sentire e respirare quella antica fiamma arbëreşë e sedere anche loro davanti al camino come regine del fuoco.

Non c’erano più lamentele, ma pareva quasi di sentire, in i crepitii più vivaci degli altri e, una voce bisbigliare: “Adesso sì… è di nuovo casa”

E da quel giorno, ogni sera, il figlio accendeva il camino, non solo per scaldarsi, la stufa sarebbe bastata, ma per tener viva una fiamma più antica, che non riscaldava solo il corpo, ma la memoria stessa.

Immaginate oggi se questa metafora del camino come cuore della casa, come centro del tempo e della parola, la portassimo in processione per le vie del paese, senza dover seguire la musica.
seguiremmo una verità antica che non hanno bisogno di fanfare, ma di silenzio raccolto. Dei suoi credenti, senza urla di giubilo, ma come si porta un dolore sacro, o una preghiera che non ha più bisogno di parole e, prima ancora di commemorare, dovremmo lamentare.

Sì, lamentare apertamente, senza vergogna, la perdita di quel calore che le modernità non sanno più dare.

Perché è vero: si vive più comodi, più veloci, più sicuri, ma ci si scalda meno, non nel corpo, ma nell’anima e, i nuovi camini non crepitano, non parlano, non radunano.

E allora, per le strade del paese, in questo corteo muto, potremmo portare la memoria del fuoco.
Non solo di nonna Carmelina, ma di tutte le voci che si spegnevano lentamente al calore della fiamma, e che oggi cercano spazio tra il ronzio costante delle macchine, degli schermi, delle solitudini moderne.

Il camino, oggi, non è solo un oggetto perduto, ma una domanda che brucia, domandandoci: “Cosa ci tiene ancora insieme, se non abbiamo più un fuoco da guardare in arbëreşe?”

Lo spazio urbano, per quanto accennato, diventa il camino fisico in cui si misurano i diritti, dei centri storici, storicamente, modellate secondo le priorità delle culture e dalla scuola del camino arbëreşe e, la pianificazione urbana, architettonica, la toponomastica, nei monumenti, nelle scuole e nei centri decisionali devono avere come radice questa metafora.

Le minoranze storiche, pur avendo contribuito in modo determinante alla formazione di questi spazi, con lavoro, cultura, memoria e pratiche sociali, si trovano spesso relegate ai margini, non solo geografici ma anche simbolici e funzionali.

Lasciare questi aspetti al “libero pensiero di esclusiva letteraria” o dei meccanismi economici e politici senza indirizzo specifico, equivale a non tutelare nulla.

L’assenza di politiche abitative, di servizi culturalmente accessibili, di luoghi di memoria condivisi o di processi partecipativi autentici, generalmente privi delle figure indispensabili deteriorano senza rispetto la cittadinanza e il luoghi di vita comune.

La contraddizione è evidente: si riconosce un’identità, ma la si svuota di potere. Si afferma un principio di pari dignità, ma non si costruiscono le condizioni per esercitarlo. Si dichiara il valore della pluralità, ma si continua a costruire spazi e istituzioni secondo un modello unico.

Così facendo, si dimentica che l’evoluzione urbana, sociale e culturale, frutto di un’interazione continua tra maggioranza e minoranze.

Le minoranze storiche non sono presenze aggiuntive o “tollerate”, ma sono parte integrante e costitutiva del tessuto nazionale.

Eppure, quando lo spazio viene progettato senza di loro, si nega non solo la loro cittadinanza, ma anche la loro storia.

L’inclusione reale richiede dunque un cambio di paradigma e, non basta più riconoscere formalmente; occorre riconfigurare strutturalmente.

Le politiche urbane, educative, culturali e sociali devono farsi carico delle esigenze specifiche delle minoranze storiche, non come eccezione, ma come parte integrante della norma e, non si deve affidare empiricamente tutto a una legge che lascia indietro lo spazio e i corpi che lo abitano, è una legge che tradisce il suo stesso principio di giustizia.

 A tal fine diventa fondamentale studiare gli ambiti dei centri antichi disegnati dagli arbëreşë, il che significa addentrarsi in una stratificazione architettura, fatta di memoria, identità e storia condivisa.

I centri abitati, nati dall’insediamento delle comunità in fuga dall’Impero Ottomano, sono oggi un patrimonio fragile ma denso di possibilità e pieno di operose intenzioni per fare integrazione.

In essi, il costruito racconta un adattamento profondo al territorio, un uso sapiente delle risorse locali e una concezione dell’abitare che riflette un equilibrio tra uomo e natura, tra esigenze individuali e logiche comunitarie di una ben identificata macro are.

Il saggio quando faceva ricerca di luogo arbëreşë, sedeva sulla sedia a fianco la porta di casa, con una mano dietro la schiena e l’altra a sostenere il mento e, ascoltava.

Le parole delle donne che si rincorrevano come galline nel cortile, ciascuna portava un pezzo, un nome, una data, un fatto mezzo dimenticato o mai confermato.

Ma solo dopo lo scontro acceso, la memoria prendeva forma, come l’impasto del pane dopo una lunga lavorazione.

E alla fine, quando tutte annuivano in silenzio, si poteva dire che quella, sì era la verità del Katundë, più forte di qualsiasi carta d’archivio.

L’architettura vernacolare del vissuto arbëreşë non è mai stata mira di un progetto formale, bensì di un processo continuo dell’indagare il luogo per depositarvi in armonica condivisione consuetudini, la lingua e credenza.

Le case, si incastrano e si sostengono le une accanto alle altre, seguono il declivio del terreno senza modificarlo, guardando verso gli orientamenti solari, senza necessità di difesa perché luoghi di coesione sociale.  

I materiali sono quelli che il paesaggio offre, come la pietra locale per i muri, il legno per le coperture, la terra e la calce per le finiture e, ogni elemento costruttivo è espressione di una sapienza che non ha bisogno di essere codificata per essere efficace.

Le strade strette, i cortili condivisi, le scale esterne parlano di un vivere quotidiano collettivo, in cui lo spazio privato e quello comune si sfiorano e si sovrappongono con garbo e senza prevaricare.

Eppure, anche questi paesaggi dell’anima hanno subito nel tempo trasformazioni, alcune inevitabili, altre più traumatiche.

Rigenerare un Katundë non è semplicemente un’operazione edilizia, ma un processo culturale e politico, che richiede analisi, ascolto, studio, lentezza e passione.

Occorre prima di tutto comprendere le esigenze del “costituito”, ciò che esiste, resiste, sopravvive, per poter poi intervenire con coerenza e rispetto.

La sostenibilità, in questo contesto, non può essere ridotta a una questione energetica o tecnologica o al sogno di costruire Gjitonia come ha tentato di fare alcuni llitirë.

Questo è un concetto più ampio, che riguarda l’integrazione tra memoria e innovazione, tra forma urbana e funzione sociale.

Recuperare l’insieme costruito di un Katundë arbëreşë significa restituire valore allo spazio, ma anche offrire risposte contemporanee ai bisogni delle persone, in tutto riaccendere quel fuoco di servizio, mobilità lenta e coabitazione.

Significa anche pensare a nuovi modi di abitare che sappiano accogliere chi desidera comunità, chi cerca bellezza non come lusso ma come senso.

In questa prospettiva devono rientrare i Katundë per tornare a essere luoghi di accoglienza, come già lo furono nei secoli passati.

Accoglienza non solo fisica, ma culturale e sociale, in tutto un laboratorio in cui sperimentare nuove economie locali, forme integrazione condivisa degli e negli spazi pubblici.

Le architetture storiche, se lette e interpretate correttamente, possono offrire soluzioni contemporanee senza essere musealizzate.

È possibile costruire sul passato senza replicarlo in modo sterile, ma traducendone i principi del modulo, copiati persino dai luminari razionalisti al tempo dell’industrializzazione.

Non si tratta, quindi, di tornare indietro, ma di andare avanti con consapevolezza e, il rischio più grande è quello di trasformare questi luoghi in scenografie, in fondali immobili per un turismo di consumo.

Al contrario, l’unica rigenerazione autentica è quella che parte dalle comunità esistenti o nuove, che scelgono di vivere questi spazi con responsabilità seguendo la meta dell’integrazione.

E l’architettura, in questo processo è il mezzo per ricucire fratture, per ridare senso allo spazio, per costruire futuro senza cancellare il passato o discriminare i nuovi arrivi, perché sono un Katundë detiene la formula dell’integrazione, bisogna solo saperla ascoltare, perché gli arbëreşë storicamente non hanno mai scritto ma vissuto con il parlato e l’ascolto.

Atanasio Olivetano Partenopeo Pizzi                                                                Napoli 2024-09-26

Comments (0)

IL BISOGNO VERNACOLARE DEGLI ARBËREŞE Shëpja Katonë e Moticellje

IL BISOGNO VERNACOLARE DEGLI ARBËREŞE Shëpja Katonë e Moticellje

Posted on 25 settembre 2025 by admin

photo_2024-07-14_12-17-13

NAPOLI (di Atanasio Pizzi l’Olivetano Arbëreşe) – Tra le linee che definiscono lo spazio di un Katundë, il termine moenia può essere riferito alle mura che circoscrivono le singole abitazioni familiari, innalzate per delimitare spazio e fare casa.

Tuttavia, a differenza delle città chiuse o fortificate, il centro antico dei Katundë arbëreşë è sempre privo di vere moenia, cioè non possiede difese perimetrali condivise.

Questo riflette la natura aperta a contatto con l’agro diversamente, dalle città storiche, infatti qui l’architettura vernacolare dei Katundë arbëreşë, rivela, come una comunità diasporica sia riuscita a radicarsi in un territorio straniero, mantenendo vive la propria tradizione senza l’uso di moenia.

Gli Arbëreşë costruirono nel corso dei secoli il sistema abitativo senza architetti e il loro agire denota, non solo le esigenze materiali della vita quotidiana, ma anche una precisa visione del mondo, in cui il lavoro, la cura, l’apprendimento e l’allevare generi, erano attività integrate in un unico universo culturale.

Le abitazioni non erano mai soltanto case, in quanto luoghi produttivi, ambienti in cui la sfera domestica e quella economica che coabitavano armoniosamente, secondo il governo delle donne; le instancabili “Architetti Arbëreşë”.

Il cortile o spazio libero della casa, fungeva da fulcro delle attività quotidiane ed erano, qui che avevano origine e si svolgevano operazioni legate al vernacolare progetto del bisogno, come ad esempio: la prima spogliatura agricola, la selezione dei semi, ma anche lavori artigianali e ogni progetto di tutela per la conservazione e sostentamento utile alla specie.

L’interno della casa, pur semplice, era progettato e concepito in modo funzionale con baricentro il focolare che rappresentava il cuore simbolico e pratico della vita domestica.

Intorno ad esso si preparavano le cose da cuocere, si discuteva, si tramandavano racconti, saperi e tradizioni.

La casa è per gli Arbëreşë, il luogo dove vivevano, si confrontavano generazioni, in un continuo scambio per sostenere le sostanze primarie radici del germoglio culturale.

All’interno di questo volume abitativo del bisogno, trovava spazio anche la cura della salute con la sua dimensione specifica pur se, in assenza di strutture sanitarie, in quanto la comunità faceva affidamento su pratiche di conoscenze empiriche, con radice di esperienza e osservazione i condivisione con la natura.

Le piante officinali, coltivate negli orti di pertinenza della casa, erano utilizzate per la preparazione di tisane, decotti, impacchi e unguenti.

Alcuni spazi dell’ambiente casa, solitamente ben esposto al sole e riparati dai venti, era riservata alla convalescenza, alla cura dei più fragili e anziani.

La casa non era solo spazio domestico, ma anche il seme di una proto-industria, un luogo dove, ciclicamente, si attivavano catene produttive di prossimità.

In certi periodi dell’anno, la famiglia e la comunità si organizzavano per trasformare e conservare alimenti, come la passata di pomodoro, le conserve, o i salumi, garantendo così scorte per l’inverno. Queste attività, radicate nella tradizione, rappresentavano una forma primitiva ma efficace di economia domestica e cooperazione locale.

Accanto alla medicina naturale, la dimensione spirituale giocava un ruolo fondamentale, con piccoli angoli sacri, addobbati con luminarie votive ad olio, ed erano queste ad accompagnare la credenza come forma di conforto e di guarigione spirituale all’interno di questo spazio a misura della famiglia.

L’apprendimento, nella società era anch’esso parte integrante della quotidianità e, prima ancora dell’istituzione di scuole formali, la trasmissione del sapere avveniva per via orale, dentro le case, nelle chiese, nelle piazze.

I bambini imparavano a memoria preghiere in greco liturgico, canti tradizionali e racconti epici che narravano la storia dell’esodo arbëreşë.

La casa diventava così anche scuola, o un ambiente in cui si educava al rispetto della tradizione, alla conoscenza dei ruoli sociali, e al mantenimento della lingua con essenze specifiche contenute all’interno di quelle mura e della natura che la circondava.

In alcuni centri maggiori, specialmente in ambito ecclesiastico, esistevano spazi adibiti a scuola, spesso molto semplici, ma funzionali, ed era qui coglievano i rudimenti della lingua, della religione e della storia di camino penitente.

L’allevamento e l’agricoltura completavano il quadro di un’economia familiare autosufficiente, dove l’abitare accoglieva sin anche gli animali domestici, in modo da sfruttare il calore degli animali durante i mesi freddi.

Ogni cosa di questo circoscritto costruito dall’uomo e progettato dalle donne, accoglieva sin anche i depositi per gli attrezzi e le manzane per dell’acqua e il tutto costituiva un sistema integrato che univa la casa al paesaggio.

Il confine tra costruito e natura era sfumato e, ogni elemento era pensato per essere fondamentale alla sopravvivenza e la continuità della comunità.

Il paesaggio, modellato nei secoli da mani pazienti, parlava la lingua dell’adattamento e della cura, dove ogni campo coltivato, ogni recinto, ogni tetto in rappresentava una risposta concreta ai vincoli imposti dall’ambiente, ma anche un gesto di appartenenza culturale.

In questo senso, l’architettura vernacolare arbëreşe non si limitava a essere un insieme di tecniche costruttive o un’espressione estetica, ma sistema complesso, in cui ogni spazio riflette una funzione sociale, culturale e simbolica.

L’abitazione diventa il luogo in cui si manifesta la cultura materiale, ma anche il pensiero simbolico di un popolo in esilio, che ha saputo trasformare l’adattamento in forma di resistenza.

Le case delle donne arbëreshë che per rispetto portavano il cognome del marito al plurale, non nascevano mai per caso.

 Non erano solo strutture in pietra e legno, ma organismi viventi, concepiti in simbiosi con il paesaggio e la memoria.

Ogni casa prendeva forma in un luogo preciso, scelto non solo per necessità pratica, ma per risonanza interiore, una piega del terreno, una fenditura tra le rocce, un affaccio sul silenzio.

Erano anfratti che parlavano, e la donna che vi avrebbe vissuto li ascoltava prima ancora che il primo sasso fosse posato.

Il progettista era la madre ed era lei che decideva dove, come e perché una casa dovesse sorgere, in tutto non un architetto nel senso moderno, ma la sapienza del quotidiano, custode di saperi tramandati attraverso gesti, silenzi, e fatica.

La casa non era solo rifugio, ma proiezione del corpo e dell’anima, ogni apertura, era pensata in funzione dei cicli della vita, della luce del giorno, dei riti familiari.

L’angolo per la farina, la nicchia per le erbe, il punto esatto dove il sole colpiva il focolare al tramonto, tutto era previsto, e nulla era superfluo.

Quando la casa prendeva forma, era la donna a sostenerla, con il suo lavoro, la sua presenza, il suo respiro.

E nel tempo, era la casa a sostenere lei, offrendole rifugio, forza e continuità e così, nell’intreccio di pietra e di carne, nasceva un microcosmo in cui si custodivano identità, storie, e segreti, vero resta il dato che non si costruiva solo un’abitazione, ma un destino.

Le case delle donne arbëreşë erano piccole cattedrali del vissuto, silenziose ma vive e, crescevano radicate nella terra e nella volontà femminile, in un equilibrio antico tra natura, necessità e sogno

Gli spazi della casa, di ogni Katundë, del paesaggio, non sono mai neutri o fini a sé stessi, ma sono impregnati di memoria, di riti e di gesti quotidiani che raccontano una storia di resilienza e di coesione. L’organizzazione dell’ambiente costruito rivela così una profonda sapienza progettuale, frutto di secoli di esperienza condivisa, in cui il vivere, il lavorare, il guarire, l’imparare e l’allevare si intrecciano in un’unica trama culturale, silenziosa ma resistente.

Per eseguire questa missione, primaria e fondamentale focalizziamo l’indagine conoscitiva volgendo attenzione nei meriti e lo sviluppo, dei fenomeni acustici e rispecchiare l’evoluzione naturale del parlato e dell’ascolto all’interno degli elementi primari noti come shëpia in forma di Katonë, Kaulljeve e Motëicelliurë.

La filosofia del bisogno si concentra sulla ricreazione dell’esperienza sonora all’aperto riportata negli spazi interni, perché forma naturale ed essenziale per migliorare il benessere delle persone attraverso il suono della voce.

Gli arbereshe sono gli appassionati sostenitori dell’importanza dell’acustica per il benessere dell’apprendimento e, in ogni ambiente e situazione.

E l’insieme si traduce in soluzioni acustiche di alta qualità e, il suono ha un impatto significativo nella nostra vita quotidiana, e il supporto scientifico per migliorare gli ambienti dal punto di vista sonoro all’interno della casa senza dover travalicare il costruito di moenia.

Nasce così l’esigenza di un ambiente sonoro interno ideale per le persone, basato sull’esperienza del suono all’esterno.

Il senso uditivo è naturalmente adattato a un ambiente all’aperto senza riflessioni sonore da soffitti e pareti.

E replicare le qualità acustiche naturali negli ambienti interni, serve ad ottimizzare gli spazi secondo la percezione uditiva naturale, migliorando la chiarezza di voce, suoni e contenuti in ascolto.

Infatti se vi dovesse capitare di entrare o visitare una casa vernacolare quello che subito attrae è il soffitto, che da parete a parete è la chiave per ottenere una vasta superficie fonoassorbente, riducendo l’intensità del suono, abbreviando i tempi di riverbero e migliorando la chiarezza della voce e il comfort uditivo complessivo.

Sostenibilità non è soltanto una parola, è un movimento collettivo per difendere sin anche tutte le consuetudini riferite e, per questo richiede un impegno concreto.

Infatti le pareti di anno in anno assemblano strati di fumigine e calce che crea con il passare degli anni una pellicola fondamentale per riverberare con cautela il parlato.

Anche il solaio, così come veniva fatto, era un’opera o architettura del bisogno diretta dalle donne ed eseguita dagli uomini e, aveva due momenti cruciali in cui la struttura e tutti gli adempimenti più pesanti erano diretti dalle donne ed eseguiti dagli uomini mentre le rifiniture sostanziali all’uso e all’ascolto e, ogni solaio portava la firma non scritta di chi l’aveva pensato, assemblato, finito.

Le madri dicevano: “Se il solaio è buono, non senti nulla, ma se è mal fatto, ti entra nella testa come un tamburo.”

E non era solo un modo di dire, perché i rumori, i freddi, i vuoti non ben chiusi, diventavano col tempo piccole crepe nella convivenza.

Per questo la costruzione del solaio era sempre accompagnata da un’attenzione collettiva, quasi rituale e, nessuno lo faceva da solo, perché un lavoro di casa, ma anche di comunità.

Nei paesi dove le famiglie erano cresciute dentro le stesse mura, si poteva ancora sentire, a distanza di anni, il modo in cui erano stati costruiti i solai.

Alcuni erano elastici, leggermente cedevoli sotto il passo, mentre altri, sembravano assorbire tutto, anche le voci.

Le donne più anziane riconoscevano i materiali dal rumore secco che veniva da sotto. “Questo è o secco,” dicevano, “questo invece è terra cruda con calce. Qui hanno fatto bene.”

Non c’era solaio uguale all’altro, ma tutti seguivano quella logica stratificata che mescolava terra e tecnica, silenzio e resistenza.

Nessuno usava cemento, nessuno parlava di norme, ma piuttosto di tenuta, di isolamento, di pazienza nel fare le cose bene.

Il tempo era parte del materiale e, si doveva aspettare che ogni strato assestasse, che ogni laminato trovasse il suo equilibrio.

Col tempo, quando alcune case vennero rinnovate, i nuovi materiali cominciarono a sostituire i vecchi, solaio di legno fu coperto da gettate di calcestruzzo, le lamie quadrangolari scomparse sotto piastrelle industriali.

Ma nelle case dove ancora si poteva vedere un frammento di quel vecchio solaio, una trave viva, una mattonella consumata al centro, una fuga sottile colma di calce, si leggere ancora la storia.

Si sente il passo lento di chi, sopra, si muoveva piano per non disturbare chi viveva sotto, in tutto un passo che non era solo rispetto, ma parte stessa della struttura.

E oggi, quando quelle case vengono recuperate, spesso si scopre che i solai originali sono ancora là, nascosti sotto strati più recenti, ma ancora sani, ancora capaci.

Basta sollevare un angolo, ascoltare il legno, sentire l’odore della paglia pressata, ed è lì che l’architettura del bisogno diventa memoria solida, che regge non solo i piani superiori, ma tutto quello che nel tempo si è costruito sopra: vite, parole e silenzi.

In tutto l’assetto dell’architettura del bisogno presso gli arbëreshe, erano le donne a stabilire dove cominciava e dove finiva la cosa da fare. Con un bastone, una pietra, o semplicemente con il piede, tracciavano a terra un segno. Dicevano: “Qui ci vuole un muretto basso,” oppure “Qui lo spazio serve largo, per stendere, per stare seduti, per vedere chi entra.” Nessuno chiedeva perché. Gli uomini prendevano gli attrezzi, i materiali, e iniziavano. Non si trattava di obbedienza cieca, ma di fiducia in un sapere che veniva da lontano.

Il primo momento cruciale era sempre quello della costruzione grezza. I materiali si portavano a spalla, si sceglievano le pietre una per una. Le donne non toccavano quasi nulla con mano, ma erano sempre lì. Coordinavano i ritmi. Dicevano quando bastava scavare, quando bisognava alzare di un palmo, quando una pietra era troppo larga o troppo friabile. Le frasi erano brevi, decise. Ogni parola serviva. Gli uomini non si prendevano licenze: se una cosa non era chiara, si aspettava il cenno.

Durante la costruzione, le donne preparavano da mangiare e intanto osservavano. La posizione del sole, il vento, il modo in cui l’ombra cadeva dentro lo spazio nuovo. Le più anziane avevano occhio per tutto. Dicevano: “La pioggia batterà qui prima che altrove, fate in modo che scorra via.” E così si faceva. Non era solo una casa, era una creatura viva che doveva respirare, durare, proteggere.

Il secondo momento cominciava quando la struttura era finita. A quel punto gli uomini si fermavano, le donne prendevano il tempo per sé. Entravano nello spazio ancora grezzo, ancora sporco di terra e polvere, e ci camminavano dentro.

Lo percorrevano in silenzio e poi iniziava il lavoro di fino lee mani femminili che rifinivano gli spigoli, aggiustavano le altezze, riempivano i vuoti.

Le sedute venivano sistemate con piccoli panni sotto le gambe, gli angoli diventavano utili, i ripiani nascevano da nulla.

La cosa più importante era che lo spazio cominciasse a parlare. Non parlava con voce, ma con uso. Le donne ascoltavano col corpo: dove si inciampava, dove faceva freddo, dove mancava qualcosa. Sistemavano. Tutto doveva servire.

Niente doveva essere solo bello, ma tutto doveva avere un senso. Ogni oggetto aveva un posto, ogni gesto doveva poter compiersi senza spreco.

La casa, o la stanza, o il magazzino, diventava così un’estensione della donna che l’aveva pensata. Quando una giovane si sposava e veniva portata in casa nuova, le altre donne venivano con lei. Non era solo un rito: serviva a sistemare, a renderla abitabile, a darle il giusto orientamento. Senza quelle rifiniture, lo spazio restava muto. Con quelle mani, invece, si apriva e cominciava a vivere.

Le donne non firmavano nulla. Nessun nome restava inciso da nessuna parte. Ma ogni cosa fatta bene portava la traccia di chi l’aveva pensata. Bastava entrare in un cortile per capire se lì c’era passata una mano attenta. Bastava sedersi a un focolare per capire se lo spazio era stato finito da una donna che sapeva ascoltare.

 

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                             Napoli 2025-09-25

 

 

Comments (0)

"Katundë Arbëreşë tra Storia, Credenza, Parlato, Ascolto e Urbanistica "

“Katundë Arbëreşë tra Storia, Credenza, Parlato, Ascolto e Urbanistica “

Posted on 23 settembre 2025 by admin

Bimbaa2Atanasio PIZZI Architetto BASILE – Le popolazioni insediatasi nel meridione a seguito della diaspora balcanica, si riconoscono nello storico enunciato secondo cui: il sangue sparso si unisce nel ricordo; (gjàku i şëprishurë su ghàrrùa), il che sintetizza la misura delle innumerevoli gocce, dello stesso sangue, che trovarono dimora nell’ampolla, denominata: Regione Storica Diffusa e Sostenuta dagli Arbëreşë.

Tutto nasce dalla necessita di un popolo, stretto tra i flutti di un destino crudele e le fiamme della propria coscienza, decise di partire, non per fuggire, ma per custodire.

Custodire una verità antica, una morale non scritta che scorreva nelle vene come il sangue e che nessun decreto, nessun esercito, nessuna ideologia avrebbe potuto estirpare.

Da quella terra aspra e sacra che si affaccia sull’Adriatico dove le montagne parlano la lingua degli antenati e le acque portano ancora l’eco dei giuramenti fatti contro la luna, essi presero il mare, non per cercare fortuna, ma per restare fedeli e, continuare a essere ciò che erano, in casa loro.

Ogni passo di questo esodo fu un atto di resistenza silenziosa, perché non c’erano armi, né proclami, solo famiglie intere, madri e padri, anziani e bambini che si muovevano con la dignità di chi sa che la propria cultura vale più dell’oro, più della vita stessa.

Essi attraversarono terre sconosciute, valicarono confini invisibili tracciati dai potenti, e si insediarono in nuovi mondi portando con sé non solo il pane e la lingua, ma soprattutto l’anima.

Eppure, la storia ufficiale, quella scritta nei palazzi del potere e nei salotti degli accademici, ha spesso preferito ignorarli. O peggio, confinarli in note a piè di pagina, derubricandoli a fenomeno folclorico, o manipolandoli con ambiguità travestite da analisi.

E quanti oggi alla fine di un inutile carriera di lampi e tuoni che svelano la propria catastrofe, sono proni davanti ai nuovi dogmi del consenso, inventano itinerari di germoglio che questi uomini e donne non hanno mai rappresentato e, rappresentato: la morale di resistenza attraverso i secoli di una discendenza indoeuropea che non ha bisogno di certificati scritti o grafitati.

Ma questa è la loro storia che non chiede gloria e, noi siamo qui per raccontarla, delineando le direttrici fondanti degli insediamenti Arbëreşë, nati delle ondate migratorie ancora poco note e, limitato a nord dal potere romano e inseguiti da est dalla luna che non ha mai smesso si calare e, oggi si traveste di sole.

Essi non si sono fermati a ricostruire un’identità perduta, ma contribuito attivamente alla definizione delle dinamiche abitative, produttive e religiose dei territori in cui sono giunti, costituendo un laboratorio sociale e religioso per calmierare il confronto tra oriente e occidente.

Nelle regioni di Sicilia, Calabria, Basilicata, Campania, Puglia, Abruzzo e Molise, il Mezzogiorno intero, essi si sono strutturati mantenendo tratti linguistici, religiosi e organizzativi comuni, senza non poche difficoltà per interagirsi con il tessuto locale, secondo le arche strategiche prestabilite.

Queste macroaree si leggono ancora oggi non soltanto come ambiti geografici, ma come sistemi di resistenza e adattamento, nei quali e attraverso i quali, la memoria collettiva e le esigenze del quotidiano hanno modellato ogni cosa, ad uso di codici specifici secondo antiche consuetudini.

La topologia d’insediamento segue le logiche di difesa di iunctura familiare connesso tra centro antico e la natura circostante, secondo gli snodi e le tappe della credenza misura per fare anche una chiesa nuova.

Le architetture vernacolari, i sistemi di aggregazione familiare, i vichi, gli archi i vicoli ciechi e gli otri botanici, sono la forza strategica di una cultura della sopravvivenza e dell’autonomia che bandisce le murazioni del Borgo medioevale.

Qui la casa assume un valore rituale oltre che funzionale attraverso il parlato, l’ascolto della lingua e, rendeva solido il modello fatto di consuetudini solidali mai rinnegate.

I materiali impiegati, l’orientamento delle costruzioni, le modalità di aggregazione, evidenziano un sapere tecnico legato alla memoria collettiva che diviene credenza e ricordo di provenienza.

La chiesa non è solo religione ma anche un simbolo di uguaglianza dove generi e fratrie non si dispongono secondo le forme piramidali dei poteri forti, ma secondo il rispetto fraterno espresso dal governo delle donne arbëreşë.

La chiesa è fulcro insediativo diretto dal sole e, il sacro rende solidale l’uguaglianza civile, le feste, i battesimi, i matrimoni e i funerali sono riti comunitari che uniscono famiglie segnando spazio sacro e spazio abitato.

Il parallelismo ambientale qui ritrovato, mette a confronto le dinamiche e i patimenti del Meridione italiano, evidenziando affinità strutturali, nonostante la diversa matrice culturale.

Questa analogia consente di leggere l’insediamento non come corpo estraneo, ma come una delle tante risposte storiche alla questione dell’abitare il Sud collinare, che ancora oggi interroga la pianificazione, la conservazione e la valorizzazione dei piccoli più moderni incontaminati.

 Così come stupisce il percorso storico di integrazione secondo un progetto antico, di cui ancora oggi, pochi ne hanno saputo trarne i principi o i contenuti di radice, per poi avere i benefici di integrazione mediterranea tra popoli, oggi in affanno, pena e bisogno.

Nel cuore del Meridione, dove le strade si arrampicano lente tra faggi, castagni, gelseti e pietre antiche, esistono luoghi che sembrano resistere al tempo più per ostinazione che per caso.

Sono i piccoli centri montani arbëreşë, ovvero i Katundë, che restano abbarbicati alle alture del cuore mediterraneo peninsulare che sono più delle isole culturali, circondate dal bosco, in tutto centri antichi che non compaiono nelle mappe dei turisti, ma che custodiscono una memoria lunga e profonda, fatta di vento, di silenzi e di voci basse.

Questi centri, non sono semplicemente “aree interne” da sviluppare ma sono luoghi da sostenere con garbo, dove il tempo è segnato dalle campane della chiesa, mentre i frutti stesi al sole davanti casa sono pronti a fare  radici nuove, questo è il ciclico, dove il paesaggio non è sfondo ma risorsa primaria.

In esso si avverte una forma di verità ruvida, senza ornamenti, in tutto la verità di un meridione che ha vissuto ai margini, ma con una densità spirituale difficile da ritrovare altrove.

Camminare tra le vie e i vicoli articolati di questi centri antichi, anche in inverno, quando le nubi rasentano i tetti e le campane scandiscono le ore, ed è qui che si avverte sempre la presenza l’idea di quanti in casa sostengono questi luoghi, dove la modernità non è assente, ma si muove con passi incerti e rispettosi, a volte respinta e, avvolte è lei che ascolta stupita.

Le voci che in ogni casa chiusa, ogni anziano che osserva e ogni bimbo che piange, raccontano un legame profondo con la terra, con la fatica, con la memoria che rende speciali questi luoghi.

L’olivetano arbëreşë adottato da Partenope 

Comments (0)

GLI ARBËREŞË DEI LUOGHI DEL COSTUMI E L’OPEROSITÀ SMARRITA (pà garbë ne crie janë arbërishtë ka makja)

GLI ARBËREŞË DEI LUOGHI DEL COSTUMI E L’OPEROSITÀ SMARRITA (pà garbë ne crie janë arbërishtë ka makja)

Posted on 20 settembre 2025 by admin

XXXXXXXXXNapoli (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – In questa diplomatica rivelatrice, non tratteremo degli arbëreşë quale entità astratta o campanilistica, né della versione ufficiale e centralizzata che proviene dalla terra madre diffusa da quanti, si arrogano il diritto di definire “arbërishtë” ogni variante linguistica che sopravvive fuori dai confini della moderna Albania in pena di riconoscenza.

Al contrario, voglio raccontarvi di cose solidamente e intelligenti vissute con omogeneità sino alla fine del XIX secolo, trattando per questo della regione storica diffusa, concreta, vissuta e sostenuta dagli arbëreşë, non nei libri, ma nella vita quotidiana, nella fratellanza, nei gesti e nelle parole tramandate con garbo solidale.

Questa regione non ha confini politici né un centro geografico preciso, non è un’entità amministrativa ma, operosa e, non risponde ai parametri della nazione moderna oltre adriatico ad est, che ha seguito la deriva prevista da chi guidava gli arbëreşë quando vennero qui nell’ovest dell’adriatico.

Ma di quello che fu solido reale e vivo in tutti i Katundë sparsi dalla Sicilia al Molise, tutta l’Italia meridionale.

Essa è fatta di voci, memorie, riti, paesaggi solidi in forma di ambiente e affettivi, tutti custoditi per secoli, o meglio sino al XIX secolo, adattando e trasformando la propria eredità in qualcosa di profondamente radicato e locale, pure connesso a una storia ampia e solidale.

Parlare di questa regione storica diffusa, significa riconoscere la soggettività e l’autonomia culturale degli arbëreshë, senza ridurli a semplici “varianti o derivati dell’albanesità nazionale”.

Significa anche rifiutare l’appiattimento che arriva da est dove ancora si, impone un’antica etichetta linguistica a realtà profondamente diverse, appellando tutti come parlanti “arbërishtë”, ignorando i contesti, le specificità, le storie e i patimenti che queste genti dovettero affrontare e superare senza agio alcuno.

Qui, invece, tratteremo di una regione costruita dalla pratica viva degli arbëreshë e, non una nostalgia, non un arcipelago di folklore, ma un paesaggio storico attivo, resistente, lo stesso che è stato in grado di raccontarsi senza bisogno di deleghe della madre patria che arretrava nello scenario europeo condiviso.

Oggi si allestiscono musei del costume e si espongono, con orgoglio ma spesso senza riguardo, gli attrezzi che furono indispensabili alla vita contadina delle comunità arbëreshë.

Tuttavia, in questa operazione si finisce per svuotare questi oggetti del loro senso originario, in quanto in essi non è racchiuso semplicemente il lavoro manuale del singolo, ma l’operosità collettiva di un gruppo che costruiva case, coltivava la terra e praticava la pastorizia in forma cooperativa.

Non si tratta di reliquie di un passato folclorico, ma di testimonianze di un’organizzazione sociale concreta, fatta di alleanze, di patti, di convivenze profonde e tutte condivise, senza le quali niente avrebbe potuto essere raccolto.

Si espone il vestito nuziale come se fosse solo espressione estetica o simbolo arcaico di un matrimonio di un singolo genere, in tutto un emblema di preparazione di “un ratto matrimoniale o endogeno nel senso etnografico del termine”.

Ma si dimentica che quel matrimonio, in molti casi, era un patto condiviso, frutto di logiche comunitarie e territoriali, in cui il legame tra generi e famiglie rafforzava l’equilibrio di ogni Katundë.

Ogni oggetto, ogni tessuto, ogni arnese porta con sé relazioni tra generi, non semplici usi e musealizzarli senza comprenderli è, in fondo, un modo di tradire la loro funzione e, con essa, la vera storia della regione storica che gli arbëreshë hanno costruito e vissuto in fraterna condivisione.

Quando oggi prendiamo la parola seguendo il solco tracciato da figure umili ma luminose come Baffi, Bugliari, Giura, Scura e Torelli, non stiamo solo facendo memoria, ma stiamo riprendendo un itinerario solido, fondato sulla condivisione fraterna, sull’impegno collettivo, sulla fedeltà al proprio luogo colmo di identità.

Questi uomini non erano eroi isolati, ma interpreti di un agire e fare comune, essi camminavano insieme, portavano avanti battaglie culturali, linguistiche e sociali non per ambizione personale, ma per costruire un futuro condiviso da ogni figura che si sentiva arbëreşë.

Questa è una strada dissimile da quella percorsa da chi, nel buio delle proprie prospettive culturali o nella miopia di calcoli politici, ha tradito i propri simili, cedendo a facili compromessi in cambio di agio, denaro o visibilità campanilistica.

Questi ultimi non sono altro che figure distaccate dalla realtà vissuta dalla comunità intera e, oltremodo incapaci di sentire il respiro collettivo di una regione storica diffusa, che si sostiene solo grazie alla solidarietà, alla memoria e alla responsabilità reciproca.

Parlare oggi con la loro voce, quella dei Giura e degli altri, significa non lasciarsi sedurre dalla rappresentazione sterile del folklore o dall’individualismo mascherato da leadership.

Ma significa riconoscere che la vera forza degli arbëreshë non è mai venuta da un singolo, ma dalla coesione consapevole di una comunità che ha scelto di non perdersi, anche quando tutto intorno cambiava e loro si moltiplicavano e crescevano sotto il governo delle donne.

Oggi si tende a valorizzare le attività dei singoli, a celebrare personalità isolate, spesso scelte non per merito o visione, ma per comodità politica o convenienza economica.

Si preferiscono figure meno adatte, meno formate o, culturalmente ignare di ogni cosa, perché più facilmente gestibili per essere sottomessi agli interessi di poteri esterni.

Siano esse figure economiche, istituzioni o associate a fratrie locali, il processo che si propone, perde completamente di vista la progettazione di una pluralità di luogo, cioè di un territorio pensato come spazio condiviso, abitato da differenze che collaborano con individui in competizione.

Non si costruiscono percorsi collettivi, non si favorisce la cooperazione tra realtà locali, non si valorizzano le comunità nella loro complessità, ma si produce perentoriamente una narrazione semplificata, in cui pochi parlano per tutti, spesso senza alcun mandato comunitario, ma con l’appoggio di reti di potere invisibili e trasversali.

Così, ciò che dovrebbe essere bene comune, attraverso la lingua, la memoria, il paesaggio culturale, diventa strumento di potere privato, svuotato di senso e restituito sotto forma di rappresentazione sterile, buona solo per mostre, convegni autoreferenziali o progetti calati o trasmessi dalle antenne dall’alto.

Oggi assistiamo al paradosso di vedere progetti culturali, mostre, festival e “attività divulgative identitarie” ispirate e suggerite dalla moderna Albania.

La stessa Albania che, nel secondo dopoguerra, ci ha appellato come traditori, come figli illegittimi di una patria abbandonata, accusandoci di essere fuggiti nel momento del bisogno.

Siamo stati, per loro, una vergogna, un’anomalia da ignorare o ridicolizzare, eppure oggi, gli stessi che ci hanno negato la dignità storica, tornano alla carica per appropriarsi della nostra memoria, cercando di riplasmarla secondo la loro narrazione ufficiale.

Questo è un tentativo sottile ma violento che si traduce ne fare a noi ciò che gli Ottomani fecero a loro dalla epica battaglia dei merli, ovvero assorbire, omologare, spogliare l’identità di ogni autonomia.

Nel panorama identitario albanese contemporaneo si assiste a un progressivo irrigidimento del canone storico, operazione che non solo semplifica la complessità del passato, ma la riscrive secondo esigenze ideologiche del presente.

Simbolo eloquente di questa riscrittura è la figura di Giorgio Castriota Skanderbeg, ridotto spesso a un’icona folklorica, svuotata della sua reale densità politica e culturale.

Il suo eroismo, inizialmente inscritto in una rete di alleanze transnazionali e in una lotta pan-balcanica contro l’espansione ottomana, viene oggi incasellato in una narrazione esclusivamente nazionale e monocorde.

Emblematico è anche il trattamento riservato al suo legame con Vlad III di Valacchia, l’”Ungherese” Vlad, spesso relegato ai margini o trattato con sufficienza.

La fratellanza politica e simbolica tra i due condottieri, uniti dalla comune resistenza contro l’Impero Ottomano, viene ignorata o derubricata a dettaglio secondario, perché estranea alla retorica di un eroe puramente “albanese”, privo di contaminazioni.

Questa rimozione storica non è casuale e, si inserisce in un più ampio processo di purificazione del passato, dove tutto ciò che non rientra nel modello dell’”albanesità moderna”, spesso laicizzata ma ancora intrisa di nostalgia.

In questo contesto, appare significativa anche l’assenza degli albanologi contemporanei dai luoghi simbolo della memoria diasporica e transnazionale, come Napoli e in particolare il Maschio Angioino.

Qui, nella porta bronzea del castello, si conserva un’eredità materiale e simbolica che richiama direttamente la presenza albanese in Italia.

Eppure, quest’opera, in cui alcuni studiosi intravedono riferimenti alla nobiltà arbëreşe e alla memoria del Castriota, resta ignorata da chi dovrebbe interrogarsi sul destino europeo degli albanesi attorno e davanti ai Balcani.

Questo silenzio non è neutrale, ma è lo specchio di una storiografia che preferisce alimentarsi di un “ottomanesimo” identitario, dove l’Albania si riscopre figlia legittima del sultano, e non anche del papa, imperatore, del re o del principe valacco.

Una visione, questa, che finisce per essere una forma di autonegazione culturale, uno “schiaffo morale ed etico”, per usare parole forti ma necessarie, a quella parte di memoria storica che resiste ai riduzionismi.

La stessa lingua arbëreşe viene inglobata sotto la comoda etichetta di “arbërisht, forma dispregiativa plaudeste” privata di ogni forma di rispetto e, la sua autonomia, la sua lunga elaborazione in terra italica candidamente sostenuta dalla radice.

Questa pretesa egemonica, che si maschera da “fratellanza ritrovata”, è in realtà un’operazione politica e culturale ben precisa, che mira esclusivamente a svuotare la “regione storica diffusa e sostenuta degli arbëreshë” della sua forza autonoma, per trasformarla in un’appendice folklorica dell’albanesità di Stato.

Ma noi non siamo l’eco lontana di una patria perduta, perché restiamo solide figure di un territorio culturale vivo, con una storia propria, una lingua propria e un’eredità che non ha bisogno di essere omologata da chi ha preferito piegarsi e non patire, per poter esistere.

Purtroppo per loro e, per fortuna nostra, tra gli arbëreshë esistono ancora oggi figure alte, persone che hanno conservato non solo la memoria, ma anche la competenza profonda per leggere ogni gesto, ogni copricapo volgare, tessuto, canto o silenzio.

Queste figure Olivetane sono i custodi consapevoli, non nostalgici o passivi e, sanno distinguere ciò che vale da ciò che viene venduto come folklore o importato dalla terra parallela abbandonata, perché essi sanno riconoscere le vere radici da quelle inventate per assecondare mode o progetti esterni.

A quanti sanno conoscono e sono solidamente formati non fa paura questa nube fitta di ignoranza che continua a invadere la nostra “terra parallela ritrovata”, tradita più volte dai preposti che avrebbe dovuto proteggerla.

Non si contano le volte che fu proposto di modellarla a immagine e somiglianza di un’identità precostituita, ma noi conosciamo le vene vive di questa terra e, ne riconosciamo il respiro, ne leggiamo i segni, ne ascoltiamo le voci per impedirlo.

E finché ci saranno queste figure alte, silenziose, ma radicate nella regione storica, essa non potrà mai essere espropriata dai suoi principi antichi conservati ad ovest del fiume Adriatico.

I musei del costume, così come quelli delle arti, non possono continuare a esistere come esposizione di singoli abiti o di opere solitarie, se il loro stesso nome non riflette la voce profonda della terra che intendono rappresentare.

Quando si tratta di cultura arbëreşe, la lingua usata per designare questi luoghi ha un valore che va oltre la comunicazione o atto identitario.

Non basta raccogliere tessuti, ornamenti, ricami, strumenti, non basta etichettare le cose come “albanesi” per ricostruire una memoria viva.

L’arbëreşë non è una variante linguistica dell’albanese moderno, ma la sua radice sempre viva che si denota come una tempesta parallela che vive e si rigenera da sola, custodendo nei secoli un’identità autonoma, fondata sul dettaglio, sul gesto, sul silenzio che conserva e osserva atti.

È una cultura che non ha mai avuto lo sguardo della massa, ma ha sempre valorizzato il Katundë, inteso sia come ambito tradizionale, sia come un loco portatore di memoria.

Ogni costume è un microcosmo, ogni canto un lascito, ogni attrezzo, ogni ornamento un discorso inciso nel tempo e, in questa prospettiva, chiamare un museo “Muzeu della cultura albanese” invece che “Mëndià Arbëreşe” significa togliere radici, per uniformare ciò che per sua natura appartiene a noi tutti.

Il nome in arbëreşe non è nostalgia, ma verità, riconoscimento dell’alterità e della specificità, in tutto una forma di rispetto verso le comunità che, pur marginali, hanno custodito nei secoli una lingua, una memoria di sostanza ancora non compresa dalle categorie della contemporaneità.

Un museo, se vuole essere luogo vivo e non solo vetrina, deve parlare la lingua di chi ha generato i suoi contenuti e, in questo caso, l’unica lingua possibile è l’arbëreşe, la stessa parla ognuno di noi discendenti, della:

– Regione storica diffusa e sostenuta dagli Arbëreşë

Atanasio Architetto Pizzi                                                                                                                                                                                                               Napoli 2025-09-20

Comments (0)

E ANCHE QUESTA FAVOLA DIVENTA UN GIOCO Palljashmitj i bhërj britë trimaxitë

E ANCHE QUESTA FAVOLA DIVENTA UN GIOCO Palljashmitj i bhërj britë trimaxitë

Posted on 18 settembre 2025 by admin

pinocchio2

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Nel corso della formazione, fin dai primi anni di vita, i bambini incontrano le fiabe come un primo ponte tra realtà e immaginazione, tra esperienza e simbolo.

Storie come Biancaneve, Pinocchio, Cappuccetto Rosso o Il gatto con gli stivali non sono semplici racconti, ma universi narrativi in cui ogni personaggio, ogni gesto, ogni dettaglio ha un ruolo insostituibile.

Tuttavia, col tempo, abbiamo spesso ridotto queste fiabe a icone individuali, mitizzando il protagonista, la bella addormentata, il burattino disobbediente, la bambina col mantello rosso e, oscurando l’insieme.

Ma una fiaba non è fatta per esaltare un solo personaggio, il suo fascino non vive nella figura eroica, ma nell’intreccio delle relazioni, nella coralità delle voci, nell’equilibrio di tutte le presenze che la compongono.

Isolare una figura e farne il centro assoluto del racconto non è solo una semplificazione: è una perdita di senso.

Ogni storia vive nella sua totalità, Biancaneve non esisterebbe senza la Regina, senza i nani, senza lo specchio; Pinocchio non ha senso senza Geppetto, il Grillo, la Fata, Mangiafuoco; Cappuccetto Rosso è solo una bambina qualunque se non c’è il lupo, la nonna, il bosco, il cacciatore.

Formare gli infanti attraverso le fiabe significa educare alla complessità dell’insieme, non all’idolatria del singolo e, significa mostrare che ogni personaggio ha un ruolo, ogni scelta una conseguenza, ogni voce un valore, sin anche quelle che sembrano minori.

Questa edito non vuole riscrivere le fiabe, né rovesciarle, ma vuole rileggerle come sistemi narrativi vivi, dove nessuno è protagonista assoluto e tutti concorrono al significato.

È un invito a guardare le storie con occhi più ampi, ad ascoltare anche chi sta sullo sfondo, a comprendere che la vera ricchezza non sta nella gloria individuale, ma nell’armonia dell’insieme e, solo così, la fiaba conserva il suo potere educativo, solo così, diventa davvero formazione o informazione.

Le fiabe classiche che attraversano la formazione infantile, come: Pinocchio, Cappuccetto Rosso o Il gatto, non sono racconti semplici, né mai nate per essere ridotte a mascotte scolastiche, a oggetti scenici o a temi da ricorrenza.

Sono epiche di formazione, narrazioni profonde e stratificate, che parlano simbolicamente di crescita, paura, desiderio, responsabilità, perdita e identità.

Eppure, troppo spesso, anche in ambiti educativi e istituzionali, si cede alla tentazione di semplificare il racconto, di “approvarlo” e proporlo solo attraverso elementi iconici e isolati: la casetta nel bosco, la mela avvelenata, il lupo cattivo, la giostra del paese, il naso lungo, la scarpetta smarrita.

Oggetti e simboli che, estrapolati dalla complessità narrativa che li genera, diventano feticci privi di forza formativa, perché una storia non si educa con una sola casa, non si cresce con un solo bosco, non si comprende il mondo attraverso una giostra.

Ogni fiaba è un organismo narrativo complesso, in cui ogni personaggio, anche il più silenzioso, contribuisce al senso, e in cui ogni ambientazione è parte di un percorso simbolico più ampio.

Ridurla a una “festa a tema” o a un “laboratorio sul personaggio” rischia di svuotarla della sua funzione originaria che, deve educare all’equilibrio tra immaginazione e realtà, tra giusto e ingiusto, tra sé e l’altro.

Non si può fare vera formazione infantile se si censura la complessità, non si può parlare di crescita senza attraversare l’intera storia, non si può approvare una fiaba spezzata, frammentata o trasformata in prodotto.

Solo restituendo l’interezza del racconto, solo ricomponendo il senso dell’insieme, possiamo rendere queste fiabe ancora vive, ancora capaci di formare, ancora degne di entrare nelle scuole, nei programmi, nelle istituzioni.

Perché non è con una mela, un bosco o una giostra che si cresce, giacché con il racconto intero, e con tutti coloro che la vissero che si fa formazione e si dà senso a quella determinata esperienza.

Questa riflessione nasce non da un intento polemico, ma da un’osservazione ineludibile, viste
le attività promosse da alte istituzioni nazionali, in accordo con gli apparati preposti all’informazione di massa, con il rischio di svuotare di senso ciò che dovrebbe costituire il cuore della trasmissione culturale.

Parliamo non della favola o del racconto popolare, simbolico, antico, ma parliamo della narrativa che, più di ogni altra, ha saputo educare all’ascolto, alla convivenza, alla paura e alla speranza, alla relazione con l’ignoto, alla gestione del desiderio e del limite.

Eppure, queste storie, patrimonio del Mediterraneo, voce millenaria di popoli migranti, di madri narratrici, di alfabeti orali e linguaggi del cuore, vengono oggi ridotte, spezzettate, svuotate.

E dalla favola resta solo la scenografia infantile di una recita scolastica, la figura stereotipata per un laboratorio, l’oggetto di consumo di una festa tematica.

Lasciando sfuggire in dato che proprio questa storia è stata, il modello più solido di accoglienza e di trasmissione simbolica dell’identità collettiva nel Mediterraneo.

Un modello che educa non separandolo ma unendo, non si semplificava, ma si stratificava, e la si rende narrazione unica e indivisibile.

Quando una favola viene spezzata, quando si isola un personaggio, si svuota il contesto, si rimuove la complessità, non resta nulla di quel modello originario che fa memoria.

E se proprio quel modello risagomato viene “approvato” dalle istituzioni, svuotato della sua coerenza, allora cade a terra ogni forma di culturale che mira a definirsi educativa o informazione.

Non si può parlare di accoglienza, se si esclude la voce del diverso nella fiaba, non si può parlare di identità, se si taglia il filo simbolico che collega il narratore all’ascoltatore, non si può fare cultura, se si manipola il racconto per adattarlo a contesti superficiali e privi di profondità educativa, specie se di un luogo minore.

La fiaba è un corpo intero, non un collage, in quatto organismo narrativo completo, con il suo respiro, le sue pause, i suoi rischi, le sue svolte.

Privarla di tutto questo significa non solo tradirla, ma tradire ciò che siamo stati e ciò che potremmo ancora essere.

Quando la fiaba cade, cade anche la possibilità di credere in un altro, in un futuro, in una parola che insegni, consoli e, con essa, si sgretola anche il senso della cultura come sistema vivo.

A breve, secondo quanto annunciato da fonti ufficiali, avrà inizio un’iniziativa promossa da un accordo tra lo Stato e il sistema Informativo pubblico, volto a raccontare e celebrare “una favola della nostra tradizione orale meridionale”.

Un progetto presentato come nazionale, educativo, storico e, nelle dichiarazioni iniziali, si promette di valorizzare “il patrimonio simbolico, culturale e popolare che unisce il nostro Paese”.

Eppure, alla prova dei fatti, di nazionale ha ben poco, perché le regioni realmente protagoniste di quella favola sette, tutte storicamente coinvolte in un modello culturale comune e stratificato con lo scorrere del tempo, di cui sono state escluse, tranne una.

Una sola regione chiamata a rappresentare l’intero racconto, una sola a parlare, mentre le altre restano in silenzio ad ascoltare un racconto minimale.

E per tutte le altre, una promessa vaga nel proprio immaginario: “Per ora basta così, il futuro sarà chiaro e coinvolgerà forse tutti.”

Ma una favola non si racconta a metà, una cultura non si costruisce per turni, un banchetto non è un vestito di mezza festa o mezzo lutto

La favola che si voleva celebrare parla di un tempo lontano in cui sette regioni del sud si incontravano, si scambiavano stoffe, parole, proverbi, sogni e, ogni anno, i Katundë a primavera si preparano alla memoria collettiva, le strade si riempivano di voci canti e balli, in costume e, raccontano storie, con le parole che passa di bocca in bocca come un semi da piantare.

Non c’era un re, non c’era un centro, ma equilibrio narrativo e culturale, fragile ma reale, in cui ogni terra portava qualcosa che nessun’altra poteva imitare.

Le discussioni erano accese, si parlava di chi aveva il grano migliore, il canto più antico, la danza più rotonda e, pur se nessuno pretendeva di avere tutto, è la pluralità a rendere quel racconto una favola vera.

Oggi, invece, si vuole raccontare quella stessa favola da una sola finestra, su un solo balcone, con una sola voce.
Si distribuiscono microfoni, telecamere e calamai, come se fossero premi, non strumenti di condivisione.
Si costruisce un evento che dimentica che il Mediterraneo è polifonico, che la tradizione non è una proprietà, ma un coro di esperti in canto di generi.

Così facendo, si spezza non solo la storia, ma anche il senso stesso della cultura e, si trasforma una narrazione collettiva in una favola mutilata, dove il banchetto non è più festa, ma spettacolo di un solo mescitore; i costumi diventano scenografie senza memoria di protocollo, e le discussioni vengono silenziate in nome dell’efficienza mediatica, che interrompe il discorso, per promozione indigena.

Una favola senza tutti i suoi narratori non è una favola, ma una rappresentazione vuota, utile solo a chi deve mostrarsi, non a chi vuole formare.

E intanto, le altre regioni aspettano, siedono fuori dalla sala, e sull’erba del giardino, con in dosso i loro pani, i loro racconti, i loro gesti e, nel contempo si domandano: “È davvero questo il modo di raccontare chi siamo noi arbëreşë?”

 

Atanasio Architetto Pizzi                                                                                     Napoli 2025-09-18

Comments (0)

IL SENSO STORICO OLIVETANO È PIÙ GENUINO DEL SCARLATTO LETTERATO (jatroj thë nghëruituratë ruenë me zëmer crjè e gàrbë)

IL SENSO STORICO OLIVETANO È PIÙ GENUINO DEL SCARLATTO LETTERATO (jatroj thë nghëruituratë ruenë me zëmer crjè e gàrbë)

Posted on 16 settembre 2025 by admin

tort6NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – In origine, prima che l’industria del costruire prendesse forma, i centri antichi primari si fondavano su risorse naturali, saperi tradizionali e intenti condivisi.

Le abitazioni cosi progettate venivano realizzate con materiali locali quali legno, pietra, terra cruda e canne, il tutto poi veniva innalzato, secondo tecniche tramandate oralmente e, l’architettura rifletteva i bisogni del territorio.

E anche i Katundë si svilupparono in armonia con la natura, privilegiando la sostenibilità e la connessione con l’ambiente naturale.

Di contro le Civitas, nasceva attorno a un’idea di ordine sociale e spazio pubblico, dove la costruzione rispondeva più a una visione collettiva e politica.

Tuttavia entrambi i sistemi erano basati su relazioni, rituali e funzioni quotidiane, molto prima che la costruzione diventasse il profitto dell’industria.

Ne corso della storia, l’essere umano ha sentito il bisogno di unirsi ad altri simili sin dalle ere più antiche, per costruire spazi comuni dove vivere, scambiare beni, difendersi e praticare riti.

Prima ancora che l’urbanistica diventasse una scienza o che l’edilizia fosse regolata da tecniche industriali, la nascita di centri abitati in forma di, paesi e città si fondava su un forte senso di cooperazione sociale e, proprio da questa unione che nacquero i primi centri, le cui radici germogliarono nei nostri attuali insediamenti urbani.

I primi esempi noti di organizzazione sociale, per la costruzione di centri urbani si trovano in Mesopotamia, tra il Tigri e l’Eufrate, qui le popolazioni sumere intorno al 3000 a.C., fondarono città-stato come Uruk, Ur e Lagash, che avevano al centro un tempio (ziggurat), simbolo dell’unione tra potere religioso, civile e produttivo.

L’intera comunità partecipava alla costruzione degli edifici, lavorando secondo un sistema di ruoli e doveri condivisi e, il modello metteva al centro gli elementi pulsanti della vita urbana.

Anche nell’Antico Egitto, la costruzione di centri abitati e monumenti come le piramidi o i complessi templari non sarebbe stata possibile senza un forte sistema sociale unificato.

Qui la società si organizzava in gruppi di lavoro collettivo, spesso legati al culto del faraone, considerato un dio vivente.

Le città nacquero così attorno ai templi, con quartieri funzionali e un sistema di gestione che coinvolgeva operai, artigiani, scribi e architetti e, non era solo religione, ma una vera rete sociale organizzata attorno all’idea di costruire per il bene comune.

Con l’arrivo della civiltà greca, la costruzione dei centri urbani prese un carattere più politico e comunitario e, ogni città (polis) era progettata attorno all’agorà, una piazza pubblica dove i cittadini si incontravano per discutere, commerciare e prendere decisioni collettive.

I greci furono tra i primi a unire l’idea di architettura urbana e partecipazione civica, sviluppando un senso di appartenenza e di identità collettiva.

Anche la divisione degli spazi (residenziali, religiosi, commerciali) era pensata per favorire la coesione e la collaborazione tra le persone, anche se qui una sorta di diversificazione sociale iniziava  germogliare attraverso il modello (Hora).

I Romani perfezionarono l’idea di città come spazio pubblico condiviso e, ogni nuova colonia seguiva uno schema preciso: foro centrale, cardo e decumano (le due vie principali), templi, terme, anfiteatri e acquedotti.

In definitiva la costruzione non era più solo frutto di iniziativa religiosa o spontanea, ma parte di un grande sistema organizzativo basato su leggi, manodopera specializzata e amministrazioni locali.

Roma riuscì a creare un modello urbano esportabile, dove ogni cittadino, anche se lontano dalla capitale, si sentiva parte di un unico ed esteso sistema comunitario.

Dopo la caduta dell’Impero Romano, durante il Medioevo, la costruzione dei centri storici si diresse attorno a castelli, monasteri e chiese.

Le comunità si raccoglievano per protezione e sostegno reciproco, costruendo mura, piazze, mercati e case con l’aiuto di corporazioni di mestieri e confraternite religiose, sulla base anche delle esperienze che i romani acquisirono quando iniziarono ad espandersi per accumunare potere.

Ancora una volta, fu la cooperazione sociale a rendere possibile la nascita e lo sviluppo dei piccoli centri antichi e, qui ogni elevato edilizio rappresentava, non solo una funzione pratica, ma anche un legame sociale tra le persone che lo avevano costruito.

La storia della costruzione dei centri storici è anche la storia dell’unione tra le persone, dalla Mesopotamia all’Europa medievale, ogni civiltà ha saputo creare città e paesi non solo con pietre e mattoni, ma soprattutto con idee condivise, collaborazione e spirito comunitario.

Prima ancora della tecnica, fu la coesione sociale a dare forma ai primi paesaggi urbani della storia.

Fin dall’antichità, l’uomo ha sentito l’esigenza di proteggere, organizzare e collegare gli spazi urbani.

La costruzione di mura attorno ai centri abitati e l’adozione di sistemi di iunctura urbana, ovvero quei dispositivi architettonici e urbanistici che mettono in relazione le diverse parti della città, hanno avuto un ruolo fondamentale nello sviluppo storico delle città e dei paesi.

“Murare” un centro abitato non significava solo costruire una barriera fisica per proteggersi da nemici esterni.

Le mura urbane avevano un forte valore simbolico e sociale: delimitavano lo spazio della città civile rispetto al mondo esterno, rappresentavano l’autonomia politica, la sicurezza collettiva, e in molti casi anche l’identità culturale di una comunità.

Le mura assunsero un ruolo centrale: Nelle città-stato greche, come Atene, dove la cinta muraria legava la polis al porto del Pireo, garantendo continuità commerciale e difensiva;

Nell’Impero Romano, le città erano spesso circondate da mura fortificate, ma anche collegate da strade consolari, vere arterie di comunicazione.

Nel Medioevo, quando le mura difensive assumevano un carattere più marcato: torri, bastioni, porte urbiche e cammini di ronda diventavano elementi fondamentali per la sopravvivenza dei borghi.

Le mura condizionavano la forma urbana: lo spazio interno era limitato e per questo densamente occupato, favorendo lo sviluppo verticale (case torri) e l’organizzazione compatta della città.

Anche i percorsi interni, vicoli, corti e passaggi, erano spesso legati alla logica difensiva.

Con il termine shiesciole (variante dialettale o storica usata in alcune zone italiane) si indicano spesso passaggi coperti, vicoli stretti, gallerie urbane o collegamenti tra edifici, tipici dei centri antichi medievali o rinascimentali e, queste strutture, spesso nate in modo spontaneo, avevano una funzione ben precisa, ovvero: proteggere dai venti, dalla pioggia o dal sole; collegare parti diverse della città in modo più diretto, offrire passaggi sicuri in caso di attacco, favorire l’intimità e la coesione tra famiglie o comunità ristrette.

Le shiesciole erano spesso costruite su proprietà comuni o condivise, il che rafforzava l’idea di collaborazione sociale e di complicità urbana.

In alcuni casi diventavano veri e propri elementi identitari del luogo, contribuendo a creare un tessuto urbano “labirintico”, ma funzionale alla vita comunitaria.

Un cambiamento decisivo nella storia della progettazione urbana si ha con Ippodamo di Mileto (V secolo a.C.), il primo urbanista teorico dell’antichità.

Il di cui sistema a griglia, detta sistema Ippodameo, introdusse una nuova logica ovvero: la città non doveva solo adattarsi al terreno o alla difesa, ma doveva essere ordinata, razionale e leggibile.

Il modello Ippodameo si basava su: Strade ortogonali che si incrociavano a 90°, formando isolati regolari; una divisione chiara tra spazi pubblici, privati e sacri; un’organizzazione funzionale dei quartieri, pensata per favorire la mobilità, la ventilazione e la distribuzione delle risorse.

Questo sistema fu adottato dai Greci, perfezionato dai Romani (nelle colonie e accampamenti militari), e ripreso in epoche successive fino al Rinascimento e all’Illuminismo.

Anche molte città moderne derivano ancora da principi Ippodameo, adattati a contesti diversi.

Il valore del sistema a griglia non era solo tecnico, ma sociale e, facilitava l’integrazione degli abitanti, migliorava la gestione dei beni comuni e dava alla città un’immagine di ordine condiviso.

La storia urbana mostra come la città sia sempre stata un equilibrio tra due forze opposte: da un lato, il bisogno di chiusura (mura, controllo degli accessi, percorsi protetti), dall’altro, la necessità di apertura e connessione (strade, piazze, passaggi coperti).

Le mura difendevano, ma delimitavano, i sistemi di iunctura come le shiesciole e le griglie ippodamee, ricucendo, collegando e ordinando il sistema sociale contenuto.

La forza di una città non stava solo nella sua capacità di proteggersi, ma anche nella sua abilità di connettere persone, spazi e funzioni in un organismo vivente, flessibile e coerente.

Murare un centro abitato, tracciare strade, costruire passaggi coperti o pianificare l’assetto urbano a griglia: ognuno di questi gesti non è mai stato solo architettonico, ma profondamente sociale e politico.

Le mura raccontano la paura e l’identità; i sistemi di connessione narrano la volontà di unione, scambio e coesistenza.

Insieme, hanno definito il volto delle città storiche, rendendole non solo insediamenti, ma spazi di vita condivisa.

La storia degli Arbëreshë è una storia di radici profonde e di rami che si allungano verso la luce, come alberi che non dimenticano mai la terra da cui sono nati, questo popolo non cercava solo rifugio, ma cercavano un luogo dove ricominciare, dove custodire la memoria e dove farla fiorire nuovamente il suo credo e le cose ereditate in millenni di ascolto.

Gli Arbëreshë, per la loro posizione lungo l’antica via che da Roma conduceva a Costantinopoli, accolsero per secoli i pellegrini penitenti diretti verso la nuova chiesa. Da questa esperienza di ascolto e accoglienza, hanno sviluppato una profonda sapienza relazionale, che si è riflessa nella forma e nella struttura storica dei katunde, ricostruiti nella regione storica meridionale, ad ovest del fiume adriatico sino allo jonio.

Fu con questa volontà, la volontà di vivere e di condividere, che gli Arbëreshë iniziarono a riedificare antichi centri abbandonati.

Non si trattava di semplici ricostruzioni architettoniche: ogni pietra posta, ogni sentiero tracciato, ogni casa sollevata era un atto di amore, un gesto di resistenza culturale e spirituale.

Quei centri tornavano a vivere non solo grazie al lavoro delle mani, ma anche per il soffio vitale delle storie, delle paure, delle gioie e delle memorie condivise dalle genti che li abitavano.

In ogni borgo riedificato si riversava un’eredità collettiva: il bagaglio umano e culturale di un popolo che non aveva mai smesso di raccontarsi, di tramandarsi, di vivere insieme.

Le parole si intrecciavano alle pietre, le tradizioni alle mura, le usanze ai paesaggi, così, i centri abitati tornavano a pulsare, diventando spazi vivi, aperti, comunitari.

Ciò che emerge chiaramente è il valore profondo di questi insediamenti, in quanto luoghi non solo abitati, ma vissuti.

Essi erano aperti, permeabili, sempre in dialogo con la natura circostante, che li rappresentava e, in un certo senso, li accoglieva, di giorno, le colline, i boschi, i venti sembravano avvolgere quei paesi come una madre fa con i propri figli e, li proteggeva, li nutriva, li faceva crescere, con i figli, che a loro volta, imparavano a conoscere il ritmo della terra, i suoi silenzi, le sue stagioni.

Gli Arbëreşë hanno saputo fare di ogni centro abitato un cuore pulsante, un luogo di rinascita, un nodo vitale in cui la storia si intreccia con il presente.

E questa tessitura denota, la forza della condivisione, in tutto una scelta umana e politica, una forma di resistenza, un modo per custodire e rinnovare la propria identità.

Oggi spetta a noi, cultori responsabili, il compito solenne di custodire ciò che resta dei Katundë, non semplici villaggi, ma frammenti vivi di un passato che ancora respira sotto le pietre, tra i muri a secco, nei silenzi dei cortili abbandonati e nei nomi di luoghi antichi che il vento porta via un poco alla volta.

In un’epoca dove la modernità avanza come una nebbia uniforme, impalpabile ma implacabile, è nostro dovere non lasciare che questa coltre grigia cancelli i colori dell’identità.

Perché la globalizzazione, quando è cieca e disattenta, non unisce, ma appiattisce, perché il suo abbraccio non è materno ma gelido e per questo scompaiono parole, riti, mestieri, forme di vita che non hanno prezzo sul mercato ma custodiscono ricchezze che nessuna economia sa misurare.

I Katundë, con le loro architetture modeste ma cariche di senso, con le loro piazze dove ogni pietra ha udito racconti, sofferenze, nascite e partenze, sono specchi del nostro passato e, spegnerli, lasciarli marcire nel silenzio, equivale a rinnegare una parte di noi.

Ogni tetto che crolla, ogni porta che resta chiusa per anni, è una perdita più grande di quanto si voglia ammettere, perché esso rappresenta un nodo tagliato nella rete della memoria.

Non è nostalgia quella che ci spinge, ma coscienza storica e culturale, la stessa che ci impone di non cedere al fascino effimero di un progresso che non si interroga su cosa lascia indietro.

Le “sfere economiche”, così le chiamano, disegnano confini invisibili con mappe fatte di interessi, ma non conoscono il valore di una canzone popolare sussurrata da una nonna al focolare, o la sacralità di un gesto antico compiuto durante una festa di paese.

Noi siamo i custodi, non per scelta, forse, ma per devozione, e la custodia non è un atto passivo, ma resistenza, ricerca, amore lo stesso che ci ostina a raccontare ancora, insegnare, tramandare e scegliere ogni giorno di non dimenticare.

Perché un giorno, forse non lontano, qualcuno cercherà tra le rovine quel che noi oggi possiamo ancora salvare.

Atanasio Pizzi Olivetano                                                                                    Napoli 2025-09-16

 

Comments (0)

CERCAVO INTELLETTUALI E HO TROVATO UNA MOLTITUDINE DI ANTIQUARI ARBËREŞË

CERCAVO INTELLETTUALI E HO TROVATO UNA MOLTITUDINE DI ANTIQUARI ARBËREŞË

Posted on 14 settembre 2025 by admin

Lapide in marmoNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Un giovane erudito Recanatese, desideroso di rompere l’isolamento intellettuale e umano in cui si sentiva confinato nel suo paese natio, decise a un certo punto della sua vita di trasferirsi a Roma, con la speranza di entrare in contatto con un ambiente culturale vivace, popolato da studiosi, letterati e pensatori con cui potersi confrontare.

Le sue aspettative, però, furono presto deluse e, la Roma che trovò era ben diversa da quella che aveva immaginato.

Nei fatti qui invece di veri storici o intellettuali animati da una sincera passione per il sapere, si imbatté principalmente in antiquari e salotti accademici chiusi, dominati da un’arida erudizione e da una mentalità conservatrice.

Amareggiato da questa esperienza, e sentendosi ancora una volta incompreso e isolato, decise di lasciare la capitale e spostarsi a Napoli, città che, per la sua vitalità e il fermento culturale che vi si respirava, sembrava offrirgli un ambiente più stimolante e in sintonia con la sua visione del mondo.

Il paragone può forse sembrare ardito, ma una dinamica simile si è verificata anche nel percorso di chi compila questa diplomatica e, quando iniziò gli studi universitari a Napoli, immaginavo che tornare e frequentare gli ambienti accademici arbëreşë, sicuro che gli avrebbero offerto agio e accoglienza culturale, al suo senso di appartenenza, perché spazio fertile per il confronto e la crescita.

Invece, si trovò in una situazione sorprendentemente simile a quella vissuta giovane erudito su citato e,  anche lì, al posto del dialogo autentico o della ricerca condivisa, incontrò chiusura, formalismo, e un approccio più conservatore che realmente innovativo, denotando il dato che, l’ideale si scontrava con la realtà.

A un certo punto, termino il desiderio di dare peso a ciò che accadeva in quegli ambienti e, si aprirono nuovi scenari che contribuirono alla formazione di architetto, utilizzando strumenti e collaborando con eccellenze sparse sul campo partenopeo tra i più solidi e, in grado di alimentare la visione concreta e organica del mondo, rispetto ai comunemente accademici, che negli ambiti di non confronto locale si presentavano come intellettuali ma che, alla prova dei fatti, erano poco più che collezionisti di citazioni e nostalgie svuotate di significato.

Oggi, quando si apre un tema sulla storia e sulla cultura degli arbëreshë, senza timore alcuno e con sana consapevolezza per il fare concreto, con capacità di costruire, resistere e rinnovarsi nel tempo si fa ogni cosa.

Non è semplice mettere in luce le figure eccellenti, che con il loro impegno, hanno lasciato un segno, nella cultura, nell’arte, nella vita delle comunità, senza cedere al culto sterile della celebrità.

Chi scrive non si allinea con quanti si limitano a celebrare registi, commediografi o personaggi da palcoscenico, teatrale o televisivo, come se bastasse un’apparizione pubblica a legittimare uno spessore culturale per dimostrare di essere un solido cultore.

Né tantomeno serve il bisogno di fare la fila per prendere la parola o peggio, la confessione in chiese dove vale la metafora di un culto ormai svuotato, dove il gesto ha sostituito il senso, e la forma ha divorato il contenuto.

Durante il percorso formativo sostenuto a Napoli ai tempi della formazione, lo scrivente ha avuto la fortuna di incontrare figure di grande rilievo culturale, tutte capaci di accoglierlo con rispetto e interesse per il modo di pensare, di esprimermi e confrontarsi.

Tra queste, va citato il ricordo particolarmente vivo e affettuoso del compianto Aldo Di Biasio, uno dei più autorevoli meridionalisti del cosiddetto “decennio francese”.

Quando lo conobbi, mi invitò con sincera generosità a leggere le sue opere già edite, in particolare quelle dedicate alla storia della Scuola di Ponti e Strade, cuore tecnico e simbolico di una certa idea di progresso del Sud.

Io lo ringraziai con una punta d’ironia, parlandogli in lingua arbëreşë e, lui mi guardò stupito, e allora gli dissi: “I tuoi eroi, per diventare grandi, pensavano in questa lingua.”

A quel punto gli spiegai cosa fosse l’arbëreşë, non solo come lingua e identità, ma come chiave per leggere certi percorsi nascosti della nostra storia, secondo un pensiero poi tradotto in lingua antica.

Da quel momento nacque un legame profondo, una fratellanza culturale autentica, fondata sul rispetto reciproco, sulla memoria viva per la verità delle radici arbëreşë.

L’ episodio fondamentale della mia formazione, forse tra i più rivelatori, avvenne comunque nel 2005, lungo la via Forcella a Napoli, durante una conversazione con un docente universitario della scuola olivetana partenopea.

Al quale gli posi una domanda semplice ma pungente: «Perché Giura non è mai stato considerato vera eccellenze nella storia culturale arbëreşë?»

La sua risposta fu sconcertante, quanto purtroppo prevedibile: «Perché non hanno pubblicato nulla in scritto albanese».

A quel punto, replicai citando un fatto poco noto, ma significativo, svelando  ciò che Giura aveva fatto per Giacomo Leopardi, in accoglienza, la sera in cui giunse a Napoli e, la sua mediazione con l’ambiente partenopeo, decisivo nel rendere accessibili certi contesti intellettuali.

La reazione del docente fu eloquente, si fermò di colpo, quasi sorpreso, e da quel momento non volle più lasciarmi andare via, finché non gli ebbi illustrato con precisione i luoghi, gli aneddoti e le tracce culturali che conoscevo.

Rimase senza parole, colpito dal livello di dettaglio, dalla connessione tra fonti orali, documenti e osservazioni sul campo.

Da allora, ogni volta che ci incontravamo, mi chiedeva con un misto di curiosità e ammirazione: «Allora, cosa hai scoperto di nuovo, che i dipartimenti ancora oggi ignorano?»

Fu per me una conferma importante che attribuii al sapere, che non dipende esclusivamente dalla lingua in cui viene espresso o dalla sede in cui viene pubblicato, ma dalla profondità della visione, dalla connessione tra storia e territorio, e dalla volontà di far emergere ciò che spesso viene dimenticato o ignorato proprio da chi dovrebbe custodirlo.

Un altro incontro  significativo fu con Giuseppe Galasso, figura di primo piano della cultura meridionalista e della storiografia italiana e del meridione, con adempimenti epici e di tutela.

Mi rivolsi a lui con una domanda precisa, perché volevo conoscere come e chi, dalle università del Mezzogiorno, fece emergere il concetto di Gjitonia arbëreşë, e quale fosse stato il percorso intellettuale che aveva portato a riconoscere in quel termine un modello antropologico e sociale.

Galasso, con la sua consueta lucidità, mi spiegò da dove provenisse quell’interesse e chi fossero i protagonisti di quella riscoperta copiata a modo di compagni di banco.

Mi indicò alcuni studiosi che, indirizzati da lui si tuffarono nelle vicende abitative del dopo guerra, per risollevare il valore abitativo e sociale dei Sassi di Matera e, come avevano saputo cogliere le affinità tra le forme di vicinato tipiche di quei ambiti retrogradi e le strutture relazionali presenti nei paesi arbëreshë.

Fu lui a farmi i nomi, a raccontarmi di quel gruppo di ricercatori che, tra urbanistica, antropologia e storia sociale, aveva saputo leggere nelle pieghe del vicinato materano non solo una sopravvivenza del passato, ma una chiave per comprendere una cultura del vivere insieme, basata su solidarietà, ascolto, equilibrio tra spazio privato e collettivo.

E mi parlò anche dello psichiatra che per prima contribuì a formalizzare il concetto di “vicinato” come categoria relazionale, ponendo l’accento sulla sua valenza affettiva e terapeutica, oltre che urbanistica.

Quella conversazione con Galasso, intensa e piena di rimandi culturali, fu per me un momento di vera crescita, un tassello importante per comprendere quanto fosse profondo e interconnesso il patrimonio della mia comunità con le dinamiche più ampie della cultura meridionale e mediterranea.

Il mio sapere si è costruito nel tempo attraverso incontri autentici, colmi di aneddoti, di scambi con eccellenze e studiosi di alta formazione, figure che hanno lasciato un segno non solo per ciò che sapevano, ma per come sapevano condividerlo.

Ho avuto il privilegio di confrontarmi con uomini e donne di pensiero, capaci di superare i confini disciplinari, di vedere nella cultura non un recinto, ma un ponte.

Fu un incontro casuale eppure inevitabile, come se le vie della storia avessero deciso di farsi trovare proprio lì, nei vicoli dove Napoli cela il suo passato più profondo.

Il suo nome portava in sé il peso della stirpe e, al tempo stesso, una leggerezza disarmante, tipica di chi è cresciuto con la consapevolezza che la storia, per quanto ingombrante, è fatta per essere raccontata.

Una collaborazione che ha permesso di avventurami nei luoghi che hanno visto i passi di Giorgio Castriota e, soprattutto, quelli di sua moglie, Donica Arianiti, figura troppo spesso relegata ai margini dei racconti storici, ma centrale nella conservazione della memoria del condottiero albanese.

Fu proprio lei a vivere gli anni successivi alla morte del marito a Napoli, in una vita ritirata e devota, segnata dalla nostalgia e dalla volontà di mantenere vivo il ricordo dell’uomo e dell’eroe.

Abbiamo percorso le navate silenziose delle chiese dove si dice che Donica si ritirasse in preghiera, tra cui la Chiesa di San Giovanni Maggiore e Santa Chiara, e visitato gli antichi palazzi che un tempo ospitavano esuli e nobili balcanici.

Ogni pietra raccontava una storia, ogni eco sembrava portare un frammento di una lingua ormai dimenticata ma ancora presente nei gesti e nei suoni delle famiglie Balcane radicate in Campania.

Quel viaggio non è stato solo una ricognizione storica, ma un atto di restituzione e, Napoli, con la sua anima plurale, si è rivelata il teatro perfetto per riportare alla luce un’eredità che non appartiene solo a un popolo o a una famiglia, ma a tutti coloro che credono nella memoria come fondamento dell’identità.

Insieme al discendente di Castriota, abbiamo ricucito una mappa emotiva prima ancora che storica, fatta di luoghi, documenti, aneddoti tramandati oralmente, e soprattutto di silenzi, gli stessi che parlano più di mille parole.

La sua presenza accanto a noi non era solo simbolica, ma concreta, viva e nel vedere il discendente di Giorgio Castriota non si intravedeva solo una figura, ma una presenza da onorare con gesti semplici e con la determinazione di chi non vuole permettere all’oblio di vincere.

Questo capitolo della ricerca non solo ha rafforzato i legami tra Napoli e l’eredità Castriota, ma ha anche aperto nuove prospettive e progetti culturali, e una rinnovata attenzione verso il patrimonio condiviso tra Italia e Albania.

In fondo, camminare accanto al sangue di Scanderbeg ha significato camminare nella storia, ma anche nel presente.

E in quel presente, Napoli si è confermata ancora una volta crocevia di culture, custode di memorie e fertile terreno per nuove narrazioni.

Eppure, oggi, tutto questo “fare” frutto di studio, sudore, esperienza, ascolto, memoria e, fatica a trovare spazio di confronto.

La realtà con cui devpa confrontarmi è spesso segnata da un appiattimento culturale, dove l’essenza degli arbëreşë, interessa solo se ridotta a una dimensione monolingue e monotematica.

Se non si parla esclusivamente della lingua, e in modo canonico, allora tutto il resto viene scartato, ignorato, considerato secondario, specie se per opera di un architetto.

È ancora più sconfortante vedere che proprio chi è rimasto, o chi è tornato illuminato dal proprio “parere suo” nel luogo natìo, si fa spesso custode di questa chiusura, in tutto un’identità che si vuole pura, ma che è in realtà impoverita, irrigidita, lontana dallo spirito plurale e vivo che ha sempre caratterizzato la vera cultura arbëreshe.

Oggi, ancora una volta, mi ritrovo qui, affacciato su questo pulpito senza pubblico, non c’è applauso, non c’è fischio, non c’è voce ma solo i silenzi.

Quei silenzi densi, quasi solidi, che si appoggiano sulle pietre, sulle travi, sui volti delle statue mute, in tutto silenzi che raccontano più di mille discorsi che poi sono i silenzi della Storia.

È passata di qui, la Storia e, l’hanno calpestata scarponi e sandali, l’hanno sfiorata sguardi pieni di fede, rabbia, lotta.

Eppure, oggi, nessuno sembra accorgersene, come se fosse diventata trasparente o una reliquia troppo scomoda da ricordare, troppo viva per essere archiviata ma troppo morta per essere compresa.

ho provato a chiamare, ad aprire, a costruire ponti verso chi verrà, ho teso la mano e tutto il braccio alle nuove generazioni, ho sussurrato loro che qui c’era qualcosa di vero sin anche che questo luogo, queste parole, questi ideali non erano solo polvere, ma semi, tuttavia ogni tentativo s’è infranto su muri di diffidenza, d’orgoglio, di paura.

I sindacalisti d’un tempo, o quelli che si vestono da intellettuali oggi, chiudono ogni canale, perché anno paura, che tutto ciò che è stato fatto, con sacrificio, sudore, lotte, possa sciogliersi come neve al sole, appena esposto al giudizio libero di chi non deve nulla a nessuno, temono che la memoria diventi critica e, che la verità venga liberata dalle mani che la custodiscono.

Ma io continuo a scrivere anche se nessuno legge e anche se la polvere si accumula sulle parole, perché questo pulpito, vuoto com’è, resta un testimone e, non ha bisogno di applausi, ma solo di resistenza, di presenza, di voce chiara.

Un giorno, forse, passerà di qui qualcuno in cerca di senso e troverà le mie parole incise nell’aria, solo allora capiranno che il silenzio non era assenza, ma attesa.

 

Atanasio Pizzi Architetto                                                                                    Napoli 2025-09-14

Comments (0)

Advertise Here
Advertise Here

NOI ARBËRESHË




ARBËRESHË E FACEBOOK




ARBËRESHË




error: Content is protected !!