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I LETTERATI ARBËREŞË ALLA RICERCA PERENNE DELL’ALFABETO CON LA “Z” PERDUTA

I LETTERATI ARBËREŞË ALLA RICERCA PERENNE DELL’ALFABETO CON LA “Z” PERDUTA

Posted on 14 settembre 2025 by admin

Zeta ArberesheNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – C’è chi ha detto, con ironia e forse con un filo di disprezzo, che gli arbëreshë sono un popolo senza poesia, senza scrittura, ma pieni di voce, parola e canto.

Come se la scrittura fosse l’unico segno della civiltà, e la parola cantata non bastasse a fondare memoria, identità, esistenza e saggezza.

Ma gli arbëreshë, i discendenti degli esuli che migrarono dai Balcani e dalle terre sino ai confini Greci quando con il sorgere della luna apparvero le ombre ottomane, non hanno mai smesso di raccontarsi e fare memoria.

Lo hanno fatto attorno al fuoco, nei canti epici, nei riti liturgici in greco-bizantino e, nei proverbi, usando solo la voce, con il corpo e con il riverbero noto dei luoghi paralleli ritrovati.

Secondo le consuetudini di una cultura profondamente orale e, se la scrittura era assente, con molta probabilità non venne ritenuta necessaria o essenziale rispetto ad altre necessità.

Finché non inizio il cammino di cercare un alfabeto dove era stata smarrita la zeta che non dava conferma di un protocollo completo o noto alle intelligenze dell’epoca.

Non si può parlare di “alfabetizzazione” arbëreşë senza considerare la Chiesa, che per secoli ha cercato di formare generazioni di preti, poeti e studiosi.

Dai seminari di San Benedetto Ullano, San Demetrio Corone, e altri luoghi con capitale Napoli, uscivano giovani arbëreşë che conoscevano il latino, il greco, l’italiano… ma che volevano scrivere in arbëreşë, la lingua dei padri.

Ed ecco il paradosso: una lingua che nasce per essere detta, cercava ora di essere letta e, nel mentre codificano alfabeti, regole grammaticali, e fonemi, una voce ironica, forse dal fondo di un villaggio, forse dal margine della modernità, si fa sentire: “Un alfabeto che non avrà mai una z di fine”

L’ironia della “Z”, vera o apocrifa, assume un valore profondamente vero nel suo significato, in tutto è un rasoio, una critica sottile e tagliente.

La “Z di fine “ diventa simbolo di una lingua portata al suo estremo, chiusa in sé, priva di scopo pratico o reale, come a dire, cosa serve un alfabeto completo se la voce non o sente di essere padrona.

In molte lingue, la Z è la fine, il compimento, il sigillo, ma nella lingua degli arbëreşë, la fine non è scritta, perché cantata e, il canto non ha bisogno della Z, perché non ha bisogno di finire mai.

Il canto torna, si ripete e, riecheggia ogni volta che una nonna racconta una storia, che un giovane impara un proverbio, che un prete canta la liturgia in arbëreşë.

E allora l’alfabeto arbëreşë, senza una Z, sarà eternamente incompleto e consapevole di una lettera in grado si chiudere e confermare un parlato utile all’ascolto.

Gli arbëreşë non cercano la perfezione normativa, ma l’impronta culturale idonea all’ascolto e, un alfabeto senza meta, serve solo a chi crede che la meta sia la standardizzazione, l’omologazione e, la grammatica chiusa non ha senso.

Per gli arbëreshë, la scrittura è memoria che si fissa, ma non sostituisce la voce, in tutto è la cura del passato, non tradimento dell’oralità.

L’alfabeto arbëreshë non è nato per necessità linguistica, ma per sopravvivenza culturale, esso rappresenta l’esito di un popolo che ha scelto di non sparire, anche se i suoi suoni non si adattano facilmente a nessun sistema ortografico, anche se quella Z di fine, non è mai arrivata.

In buona sostanza, non serve l’ultima lettera per raccontare una storia di un popolo che non ha alcun titolo per dichiararsi termine.

Tra i nomi meno celebrati ma profondamente emblematici di questa curiosa vicenda, c’è quello di Pasquale Baffi, figura d’eccellenza della cultura arbëreshe, lui filologo, grecista, letterato, bibliotecario, lettore o interprete di ogni documento antico conoscitore del latino e delle lingue classiche, in tutto una figura che rappresentava ciò che di più raffinato poteva esprimere l’eredità intellettuale di una minoranza diasporica.

Eppure, proprio lui, che conosceva le strutture del sanscrito e comparava l’arbëreşë con le lingue indoeuropee, trovatosi davanti a un paradosso linguistico-tecnologico.

E siccome i caratteri di stampa di Gutenberg, giunti in Italia e divenuti standard nei torchi tipografici, non erano sufficienti a rendere graficamente i suoni della lingua arbëreşë, perché mancavano lettere, segni diacritici, soluzioni fonetiche.

Secondo Baffi, questo limite impediva al parlante di riconoscersi nella lettura ciò che veniva stampato e non rifletteva la musicalità, le nasalità, le aspirazioni e le combinazioni vocaliche dell’arbëreşë parlato.

Di conseguenza la scrittura, quindi, diventava una maschera, e non uno specchio, questa consapevolezza lo portò ad atteggiamenti molto cauti che nessuno ha mai concepito per diventare cauto come lo fu lui.

Infatti egli non rinnegò la scrittura, ma non cercò di forzarla in forme che non rispettassero la sostanza della lingua ereditata dal suo luogo natio.

Infatti la sua opera si concentrò sulla comparazione etimologica e filologica, lasciando alla parola orale, ancora una volta, il compito di portare e sostenere l’anima della lingua.

Pasquale Baffi, figura centrale dell’erudizione arbëreşë di fine Settecento, è l’unico arbëreşë che non seguì un percorso formativo lineare.

Infatti abbandonò il Collegio ancora adolescente, perché riteneva inadatti gli insegnati e, allontanatosi da quell’istituzione con atto di ribellione, nonostante fosse stata creata per la formazione culturale e religiosa dei giovani arbëreshë.

La scelta o forse la necessità di proseguire gli studi altrove, tra Salerno, Avellino e infine Napoli, segnò una rottura non solo biografica ma simbolica, una cesura rispetto a un progetto di formazione che, già allora, mostrava i suoi limiti strutturali e politici molto elevati.

Non si tratta oggi di mitizzare una breve permanenza al Corsini, né di attribuire a quella fase un peso eccessivo nel definire l’identità intellettuale di Baffi.

Al contrario, è proprio dalla sua distanza da quell’ambiente che si misura la sua originalità, la cultura che egli andò a formare fu, infatti, frutto di una tensione, tra le radici albanesi e l’attrazione per i grandi centri della cultura italiana ed europea del tempo.

Infatti tra il desiderio di preservare la lingua e la consapevolezza dell’emarginazione culturale subita dagli arbëreshë, anche nei momenti in cui sembrava aprirsi uno spazio per la scrittura e la codificazione.

Emblematico rimane, in questo senso, il caso di Monastir, quando si diede inizio alla formalizzazione dello scritto albanese e, in quel contesto, nonostante le premesse di apertura, gli Adrianensi non furono coinvolti né ascoltati anzi vennero pregati di rimanere a casa a cercare quella Zeta che mai nessuno ad oggi è stato in grado di ritrovare.

L’esclusione fu totale e nessuna accoglienza, nessuna parola, nessun ruolo fu assegnato agli studiosi ad ovest del fiume Adriatico.

E magari proprio lì come alcuni favolerei raccontano, vennero trascinati i bauli colmi di libri dalla madre patria e, chissà che proprio la Z ribelle non si sia stata trascinata in fondo al mare nostro.

Un episodio che rivela quanto la cultura arbëreşë fosse divisa, frammentata da logiche locali, da gerarchie ecclesiastiche e da interessi spesso lontani dalla reale salvaguardia di un parlato di una memoria comune.

A noi arbëreshë di oggi, eredi di questa storia interrotta, non resta che ripartire da dove altri si sono fermati. Il lavoro di Pasquale Baffi è una di queste linee spezzate: parte dei suoi scritti, stampati, si conservano oggi in Svezia, lontano dai luoghi che gli hanno dato origine.

 E chi si approprio dei suoi scritti, inconsapevole del valore di orientamento contenuto in esse, si ostino a stamparli dopo decenni, con i caratteri gutemberghiani incompleti senza la Zeta di fine e, chi conosce la lingua arbëreşë se oggi legge con attenzione quelle stampe, non può non rilevare quel rimprovero antico.

Una lontananza materiale che riflette una più profonda distanza culturale e, la sua opera resta, in larga parte, ancora da studiare, da integrare, da mettere in dialogo con le urgenze e le domande del presente.

Ma vi è un ostacolo ulteriore, forse più grave, ovvero l’inconsapevolezza, infatti è lecito domandarsi se i letterati odierni e, non solo quelli arbëreşë, abbiano piena coscienza della portata di questa eredità, di ciò che è stato lasciato in sospeso, di ciò che si potrebbe ancora ricucire.

Eppure, come ricorda un vecchio olivetano di Napoli, «la memoria, se non ha voce, marcisce» e quindi l’auspicio, allora, è che da queste pagine possa emergere non solo un omaggio al passato, ma un invito alla continuità a informarsi delle cose del passato per orientarsi a riflettere, parlare e cantare meglio.

Perché la cultura Arbëreşë, come ogni cultura minoritaria, non si salva con la nostalgia, ma con il lavoro ostinato e consapevole di chi sceglie di darle futuro e il futuro non lo si conquista da soli ma con larga e fraterna condivisione.

Nessun dipartimento moderno, nessun centro studi o commissione accademica ha avuto il coraggio, o l’umiltà, di volgere lo sguardo verso gli studi di Baffi, eseguiti a Napoli nel 1775, là dove l’alfabeto della nostra lingua aveva cominciato a tremare, a mostrare segni di vuoto, di omissione.

Si cercava la Zeta, non come ultima lettera, ma come elemento mancante, come suono negato, segno perduto, tessera invisibile nel mosaico della nostra identità ische contiene ad oggi solo una alfa e una beta iniziatica.

Eppure, invece di tornare a quel manoscritto dimenticato, polveroso ma vivo, si è scelto di affidarsi alle grafie c gli archivi rigidi e autoritari, dove le lettere erano più formule che parole, più dominio che espressione, in tutto immaginabile come una strada illuminata e con tanti vicoli dove si regala il cucinato.

Poi vennero le derivazioni spurie, le scritto-grafie germogliate senza seme, cresciute nei corridoi asettici del Collegio, dove si insegnava a scrivere senza dire, e si leggeva per non capire.

In quei luoghi, la lingua veniva forgiata con strumenti sordi al popolo, ciechi alla voce collettiva e, le tematiche adottate da queste istituzioni non erano solo inopportune: erano estranee, imposte, incapaci di parlare al cuore di un popolo che, nel suo silenzio, sapeva solo parlare, ma non leggere, e ancor meno scrivere.

L’Ottocento passò come un secolo di alfabeti incompleti, e fu allora che si moltiplicarono le grammatiche, i trattati, i vocabolari normativi, ma tutti ruotavano attorno a un vuoto mai colmato per essere terminato. La Zeta, o ciò che essa rappresentava, continuava a mancare e, non era questione di fonetica, ma di visione.

Una lettera può mancare anche quando è presente nell’ordine alfabetico, se non ha funzione, riconoscimento, respiro nel parlato e nello scritto della moltitudine.

Baffi lo aveva compreso e aveva annotato che tra le pieghe della parlata napoletana, nei vicoli e nei mercati, emergeva un suono che non trovava corrispondenza nello scritto.

Un passaggio, una cesura, un’interpunzione fonica che sfuggiva all’alfabeto ufficiale e, non era solo una lettera: era un simbolo di ciò che non si voleva registrare.

La voce del popolo, la lingua del corpo, l’incedere delle parole non normate non ricevevano nessuno ascoltò.
Troppo occupati a purificare la lingua, a renderla specchio dell’istituzione invece che dell’uomo.
E così la Zeta restò assente, presente solo come fine dell’ordine, mai come inizio di qualcosa di nuovo.

Oggi si compilano vocabolari al contrario, o manuali di consultazione, strumenti didattici, dizionari stampati con fondi pubblici o accademici, nei quali compare prima la parola arbëreşë, seguita dalla sua corrispondente grammatica italiana.

Un gesto che, a prima vista, potrebbe sembrare neutro, o peggio, inclusivo, ma è invece un errore gravissimo.

Perché a tutti è sfuggito il dato che l’arbereshe non è una lingua scritta, non lo è mai stata nel senso pieno, formale, codificato.

È una lingua parlata, memorizzata, trasmessa da bocca a orecchio, fragile come il soffio di chi l’ha conservata per generazioni senza poterla mai vedere su carta.

Ogni arbëreşë e questo è un dato storico, non un’opinione, non sapeva leggere né scrivere il proprio parlato.
In quanto essa è una lingua del cuore, della casa, del vicolo e, non è mai stata dell’aula, del banco mai del libro o documento dirsi voglia.

E allora ci si chiede: come può un individuo non alfabetizzato nella propria lingua madre orientarsi in un vocabolario che gli presenta, come primo riferimento, un llemë che non ha mai visto scritto, e per di più in una forma ortografica che varia.

Quello che doveva essere un ponte si è diventato labirinto e, il parlante, già spaesato, si ritrova a cercare il significato di una parola che conosce solo per suono, ma ora deve indovinare come venga scritta in albanese, secondo una norma che spesso non gli appartiene, perché è la lingua da cui dovette fuggire.
Diventa così un’impresa quasi impossibile anche trovare il più banale dei vocaboli e, l’italiano, lingua di scuola, di stato, di struttura, invece che fungere da orientamento, viene relegato in secondo piano, messo dopo, come se fosse marginale.

Questa è una inversione ideologica, più che linguistica, un tentativo goffo e spesso accademico di “nobilitare l’arbëreşë” non attraverso il rispetto della sua natura orale e viva, ma attraverso una falsa parità grafica e geografica.

Come se bastasse scriverla per renderla legittima, come se la scrittura valesse più della voce, ma la lingua arbëreşë non chiede di essere scritta per forza, chiede di essere capita, riconosciuta, salvata come è nella sua funzione originaria, parlata.

Ogni tentativo di tradurla nei termini rigidi della lessicografia moderna deve tenere conto di un fatto fondamentale, ovvero non si può alfabetizzare retroattivamente un popolo che non ha mai avuto una lingua scritta, e farlo partendo dalla parte sbagliata del vocabolario, non è una buona prospettiva illuminata.

Un altro dato fondamentale, sfuggito al dipartimento storico e linguistici per oltre un secolo e mezzo a quelli più moderni, ovvero: l’arbëreshe, più che una lingua scritta, è una lingua vissuta.

È un linguaggio parlato, tramandato oralmente, legato al gesto, al corpo, alla fatica quotidiana e alla stretta relazione con l’ambiente naturale.

È una lingua di sopravvivenza, che non ha mai avuto il lusso dell’astrazione o della decorazione letteraria, se non in rare eccezioni.

Per questo motivo, l’arbëreşë vive dell’essenziale: non costruisce castelli di parole, ma utensili, come i verbi del fare, le azioni primarie formano l’ossatura di questo idioma.

In queste parole si nasconde un’intera filosofia dell’adattamento, della conservazione, della necessità.

La lingua arbëreşë non racconta, mostra e, parla del corpo umano perché il corpo è strumento, è mezzo attraverso cui si lavora, si cura, si ama e si combatte.

Descrive la natura non per estetica, ma per necessità e, conoscere il vento, il tempo, le stagioni, il terreno, gli animali, era questione di vita o di morte.

Tutto il resto, i ghirigori, le esagerazioni letterarie, le favole inventate a tavolino, appartengono a una cultura del superfluo.

L’arbëreşë non si presta a questo: non perché non ne sia capace, ma perché non ne ha bisogno, perché essa è una lingua che resiste alla modernità proprio grazie alle sue radici profonde nella realtà concreta, nel quotidiano vissuto, nell’equilibrio tra l’uomo e il mondo che lo circonda.

Ed è qui che si cela il punto cieco degli studi accademici, quando si sono avviati nel bosco a cercare nella lingua arbëreşë, un’evoluzione simile a quella delle lingue ufficiali, senza capire che essa si è invece conservata proprio nella sua funzione più antica e originaria.

L’arbëreşë non cambia come cambiano le lingue di stato, mutate dalla politica, dalla burocrazia, dai media, ma si trasforma lentamente, rispettando i ritmi della terra, delle due stagioni ritmo e della voce umana.

Capire l’arbëreşë significa quindi rientrare nel corpo, riconnettersi con i gesti, con i mestieri, con l’oralità che plasma la memoria collettiva e in questo senso, ogni parola è una testimonianza, ogni verbo un’eredità, ogni frase un atto di resistenza.

Nel cuore dell’Ottocento, in un’Europa in fermento, attraversata da rivoluzioni, ideali nazionalisti e aneliti di unità, i fratelli Grimm si trovarono di fronte a una missione che andava ben oltre le fiabe. Jacob e Wilhelm, filologi e studiosi della lingua tedesca, erano mossi da una convinzione profonda: che dietro la molteplicità delle parlate germaniche, dietro i dialetti dispersi nei villaggi, tra le montagne e le pianure del Nord Europa, si celasse un’anima comune.

Un’essenza primitiva, un linguaggio originario che raccontava non solo la storia di un popolo, ma la sua natura più profonda.

Nel 1871, l’anno dell’unificazione della Germania, quell’ideale prese forma anche sul piano linguistico.

L’impresa dei Grimm era già iniziata da tempo, ma in quel momento storico acquistò un valore politico e culturale nuovo.

Non si trattava solo di raccogliere parole, né di uniformare la lingua per decreto, perché la vera sfida era scoprire ciò che univa, piuttosto che ciò che divideva.

Fu così che rivolsero lo sguardo verso il corpo umano, verso le attività primarie dell’uomo: il mangiare, il dormire, il costruire, il seminare, il cacciare, il generare.

Parole che non mutano mai del tutto, perché radicate nell’esperienza quotidiana e ancestrale dell’essere umano.

I Grimm notarono che, pur nelle differenze fonetiche e lessicali delle varie parlate, alcune radici tornavano con una regolarità sorprendente.

Il verbo essen (mangiare), per esempio, si ritrovava con minime variazioni in ogni angolo delle terre germaniche.

Così anche gehen (andare), hand (mano), herz (cuore), haus (casa), esse non erano solo parole, ma erano segni della vita, impronte lasciate da generazioni di uomini e donne che avevano vissuto, sofferto, amato e lavorato in quelle terre.

Anche per gli Arbëreşë vale la stessa regola e, quando si tratta del corpo umano o della natura, tutto è uguale in ogni parallelo.

Se i dipartimenti ne avessero avuto consapevolezza, dovevano solo trovare la zeta e, invece si sono smarriti nel bosco delle parlate locali, perdendo l’essenza universale delle cose.

I fratelli Grimm capirono allora che il linguaggio non si impone, si riconosce e, ciò che si riconosce è già dentro nel gesto, nel ritmo del respiro, nella necessità del fuoco, dell’acqua, del pane.

La lingua comune germanica non andava inventata, né raffinata, ma andava riscoperta scavando nel tempo, raccogliendo ciò che era rimasto sotto la polvere delle varianti locali.

Non fu un’operazione scientifica fredda, ma un atto quasi sacrale per i Grimm, la lingua era il sangue del popolo.

Era nella voce delle madri che cantavano ninne nanne, nei proverbi dei contadini, nei canti degli artigiani, nelle formule magiche che proteggevano i bambini dai lupi.

Fu così che emerse l’idea di una lingua unificata, non come imposizione, ma come ritorno all’origine, in tutto una lingua che parlava con mille voci, ma che aveva un solo cuore.

E così giungiamo al termine di questo viaggio in diplomatica attraverso la lingua che non scrive, la poesia che non si legge, l’identità che si balbetta nei corridoi dell’etnografia di provincia.

Gli arbëreshë, figli di una diaspora antica e custodi di una memoria a lungo idealizzata, si trovano oggi al cospetto di una verità semplice e scomoda: la loro lingua, un tempo viva come un canto tra gli ulivi, oggi lotta per esistere, e non sempre trova alleati sinceri.

Ci sono stati tentativi, certo, alcuni nobili, altri improvvisati, con accademie improvvisate nei retrobottega della buona volontà, laboratori dove cuciva la scrittura con ago e filo sulla pelle di dialetti sopravvissuti a stento.

Si è cercato un alfabeto comune, un codice condiviso, sacrificando suoni, si sono selezionate lettere. E in questo processo chirurgico o forse estetico, dove qualcuno ha deciso che la Z non serviva, perché forse faceva troppo rumore.

E allora si può anche sorridere, con un filo di amarezza, pensando che chi ha scolpito queste scelte nella pietra fragile di un’identità ricostruita, oggi si meriti almeno una lettera.

Non la Z, certo, perché quella è stata bandita o come presuppone lo scrivente smarrita nel fiume adriatico.

Ma una A, magari, una bella A scarlatta, cucita come marchio, chi in fronte, chi al collo, chi sul petto e, tutti gli altri che seguono, con quella A attaccata alla schiena.

Non per adulterio, come nell’antica allegoria, ma per l’ambiguità con cui si è adulterata una lingua senza averla mai veramente amata.

Eppure, non è solo colpa loro, perché ignari, in quanto l’oblio è una responsabilità collettiva, e la dimenticanza si costruisce giorno dopo giorno, con ogni madre che smette di cantare in arbëresh, con ogni scuola che non insegna, con ogni festa che diventa folklore da sagra.

Resta la domanda sospesa, che è certezza: le parole che non si scrivono si dimenticano, le canzoni che non si sanno pronunziare muoiono in silenzio, come le verità che nessuno ha il coraggio di dire ad alta voce.

Questo non è un addio, né un epitaffio, ma solo un punto fermo, forse, l’unico che ci possiamo permettere e fare tesoro per non dimenticare di parlare e cantare tutti assieme senza stonature.

Atanasio Pizzi Olivetano e Basile Architetto                                                                  Napoli 2025-09-14

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LA STORIA SVUOTATA LUNGO I MURI DI MEMORIA DEGLI ARBËREŞË  (Arrasù doitë ishia pa veshë e pa sij kurë bhënë këtà pisciàlljoka)

LA STORIA SVUOTATA LUNGO I MURI DI MEMORIA DEGLI ARBËREŞË (Arrasù doitë ishia pa veshë e pa sij kurë bhënë këtà pisciàlljoka)

Posted on 13 settembre 2025 by admin

Valigia2NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Nel corso della storia, le città e ogni centro abitato hanno reso omaggio a personaggi o eventi importanti, dedicando a memoria vie, piazze, vicoli e altri spazi condivisi o resi pubblici.

Tuttavia, anche questo gesto simbolico rispetta regole precise, per evitare usi impropri o decisioni affrettate, secondo la materia regolata dalla Legge dell’11 agosto 1927, n. 1188 e, tuttora in vigore.

Essa stabilisce i criteri per l’intitolazione di strade, piazze e altri luoghi pubblici a persone o eventi significativi di un ben identificato luogo.

Secondo questa legge, nessuna strada o piazza può essere intitolata senza la preventiva autorizzazione del Prefetto, che rappresenta l’autorità statale sul territorio.

Inoltre, la legge prevede che si possa intitolare un luogo pubblico a una persona solo dopo che siano trascorsi almeno dieci anni dalla sua morte.

Questo limite temporale è stato pensato per garantire un periodo di riflessione e valutazione sull’effettivo valore storico, morale o civile della persona, evitando commemorazioni spinte da motivazioni politiche o emotive del momento.

Esistono però delle eccezioni, previste dallo stesso testo di legge, infatti se una persona è ritenuta di particolare rilievo, come un eroe nazionale, una figura di altissimo valore civile, culturale o patriottico, è possibile chiedere una deroga al limite dei dieci anni.

Questo meccanismo, pur essendo semplice, permette di mantenere un equilibrio tra il desiderio di commemorare e il dovere di rispettare criteri storici e civili, allontanandoli dall’impeto dell’avvento.

In conclusione, la Legge n. 1188 del 1927, pur essendo una norma di quasi un secolo fa, continua a svolgere un ruolo importante nel garantire che la memoria storica venga onorata in modo ordinato e rispettoso.

Le intitolazioni che incontriamo ogni giorno passeggiando i nostri Katundë nel caso specifico degli arbëreşë, non sono frutto del caso, ma rispecchiano scelte ponderate che contribuiscono a costruire l’identità e la cultura dagli arbëreşë e della Nazione Italia.

Infatti, si osserva un aspetto particolare, come quelli delle minoranze storiche italiane, che hanno iniziato ad adottare in modo sistematico la regola della doppia denominazione sulle targhe stradali, riportando sia il nome in italiano sia quello della minoranza.

Questo uso, simbolo di una forte identità culturale, anticipa in parte il riconoscimento ufficiale delle minoranze linguistiche in Italia.

Tuttavia, questo processo, pur mosso da buone intenzioni, ha innescato anche alcuni effetti negativi e, in molte realtà locali si sono diffuse inesattezze grammaticali nelle traduzioni, spesso dovute alla mancanza di persone adeguatamente tessere nella lingua antica arbëreşë scritto grafie pertinenti.

Ciò ha portato, in alcuni casi, alla perdita del significato autentico di storici avvenimenti o esigenze di luogo e la progressiva alterazione del valore linguistico e culturale originale, di sovente venne e viene posto alla berlina.

I tutto rischia di far scomparire, per mancanza di competenze specifiche nella trasmissione corretta della lingua di quello specifico luogo di avvenimento.

Resta inciso nei fatti un dato evidente, secondo cui per comodità intellettuale, invece di analizzare con rigore e sensibilità linguistica il sostantivo italiano nel contesto Arbëreşë, si è spesso preferito tradurre direttamente e senza impegno, in albanese moderno, ignorando le particolarità storiche, fonetiche e grammaticali della lingua locale che non trova logica o immaginario di memoria.

Questo approccio ha facilitato il lavoro, ma ha anche contribuito a un’ulteriore perdita di autenticità e a un impoverimento sostanziale del patrimonio storico e linguistico locale.

Nonostante sia semplice dimostrare che meriterebbe un’attenzione molto più profonda e rispettosa sia del luogo e sia di quello che quel luogo rappresenta o ha rappresentato.

Questo problema emerge soprattutto quando si devono tradurre concetti ed elementi moderni, che la lingua arbëreşë tradizionale non contempla.

E invece di assemblare o adattare con creatività e rispetto linguistico un’espressione coerente arbëreşë, si ricorre con superficialità a traduzioni automatiche, spesso ottenute da strumenti come Google Traslatore, basati sull’albanese standard.

Questo approccio, oltre a generare errori lessicali o sintattici, mina l’autenticità della lingua arbëreşë e contribuisce al suo graduale snaturamento.

Negli ultimi decenni, il rinnovato interesse per le minoranze linguistiche ha riportato l’attenzione sulla toponomastica bilingue nei Katundë arbëreshë, fondati tra il XV e il XVIII secolo.

Questo fenomeno, pur sorretto da intenti lodevoli finalizzati a rendere fruibili questi articolati centri antichi, ha spesso subito deviazioni dovute all’intervento di studiosi acerbi o appassionati poco informati, che, nel tentativo di “ripristinare” o “tradurre” i nomi dei luoghi in chiave arbëreşë, finiscono per mescolare tempi, luoghi e storie in maniera anacronistica.

Capita così che toponimi nati in contesti italiani medievali o post-unitari vengano arbitrariamente reinterpretati con strutture linguistiche albanesi moderne o, peggio, con inflessioni che nulla hanno a che fare con l’arbëreşë originario.

Si vedono cartelli che propongono versioni “albanizzate” di nomi che non hanno mai avuto un corrispettivo nella lingua dei padri fondatori, o peggio ancora, si attribuiscono significati etimologici fantasiosi, costruiti su ipotesi mai verificate dal punto di vista storico.

Il rischio maggiore, in questo processo di “restauro toponomastico” spesso condotto senza rigore filologico, è quello di creare un’identità artefatta, scollegata dalla memoria reale della comunità.

La toponomastica non è solo linguaggio, ma anche stratificazione storica, documento vivente di migrazioni, conquiste, economie e relazioni interetniche.

Reimpaginare i nomi dei luoghi, degli istituti o delle istituzioni, civili, religiose, militari o di soccorso, senza considerare il modo per essere intercettati dall’occasionale passante, significa riscrivere una storia che non appartiene né al passato italiano né a quello arbëreşë, ma disorienta ideologia e servizi.

È auspicabile, quindi, che il lavoro sulla toponomastica bilingue venga affidato a, storici locali arbëreshë, che vivono e crescono e vivono sulla scorta di un dialogo diffuso ma continuo tra scienza, memoria e identità.

Solo così sarà possibile produrre una narrazione toponomastica fedele, rispettosa e davvero rappresentativa della complessità culturale che si articola e trova agio moderno in questi Katundë.

Un tempo, i nomi delle vie erano pagine scolpite nella memoria collettiva e, ogni toponimo custodiva un frammento di storia, un’eco di gesta che avevano forgiato il carattere di un popolo.

Tuttavia oggi, assistiamo a una riscrittura sistematica, dove il passato viene giudicato con lo sguardo miope delle ideologie moderne.

Le strade che portavano i nomi dei valorosi sono state rinominate secondo canoni, appiattiti su una morale di superficie, spesso più utile alla propaganda personale che alla verità locale.

I luoghi simbolo del vissuto locale, quelli che un tempo richiamavano al dovere, al sacrificio, alla fedeltà, vengono oggi calpestati, non fisicamente, ma spiritualmente.

Gli eroi o, i testimoni di una forza antica, radicata nella terra e nell’onore, vengono dimenticati o peggio, scambiati con coloro che tradirono sé stessi, travestiti ora da martiri ora da vittime virtuose e sin anche da bell’imbusti.

Ciò che era chiaro, netto e, orgogliosamente divulgato è diventata confusione che non distingue, l’acqua con l’olio che miscelati ostinatamente per fare targhe, vanno a scapito del cittadino, smarrito, che camminando su strade che non parlano più la sua lingua interiore, espongono tutti al rischio di rovinare a terra.

Nessuno ricorda chi fosse davvero il portatore di quel nome inciso, nessuno si chiede più perché quella via sia stata guida di sviluppo o di tenacia.

Il Katundë, che un tempo vibrava di orgoglio e appartenenza, assiste ora in silenzio, anche se i nomi non muoiono e vivono sottopelle, nei racconti sussurrati, nei canti sommessi, nei cuori di chi ancora non ha ceduto all’oblio.

E forse, un giorno, la verità tornerà a chiedere il proprio posto sulle insegne di questo tempo smemorato, tuttavia valga di esempio una targa, grigia anche se e ben curata, apposta con solennità su un muro del vile interesse agrario, che non è monumento di coraggio, né un omaggio al sacrificio pagato a caro prezzo, ma memoria ufficiale e, perciò ancor più oltraggiosa di un mandante.

Un nome inciso nel marmo che la Storia, se fosse stata onesta, avrebbe dovuto relegare all’infamia e, invece eccolo lì, onorato tra squilli di fanfare, omaggiato da figure istituzionali, posto sotto lo sguardo cieco di una cittadinanza distratta, educata a dimenticare, perché non vuole sapere.

Quel nome, più che evocare una vita di servizio, gronda la responsabilità morale e, forse ben più concreta di una strage epica, storicamente nota per cinismo mafioso.

Peggiore persino delle stragi siciliane che colpirono i giudici storici, quelle che ancora oggi bruciano nella carne viva del Paese.

Ma qui, l’ipocrisia si fa legge e, la memoria selettiva riscrive i ruoli, i colpevoli si travestono da vittime, i traditori da statisti.

È così che si calpestano i simboli, non con la violenza esplicita, ma con la sostituzione lenta, con la manipolazione del ricordo.

Le lapidi non mentono da sole, mentono quando sono appoggiate da chi ha potere, ed è in quel momento che la storia non è più storia, ma farsa.

Nel Katundë, dove un tempo l’onore era più che una parola, simili scempi non sarebbero stati tollerati e, la memoria, lì, aveva un prezzo, ma anche un valore.

Oggi, invece, pare che basti il consenso del presente per riscrivere il passato, tuttavia l’auspicio di queste parole non è la polemica fine a sé stessa, né la nostalgia sterile per un passato idealizzato, ma piuttosto, un invito alla responsabilità.

La toponomastica non è un esercizio burocratico, ma un atto di memoria pubblica, essa plasma il paesaggio simbolico delle nostre città, educa le generazioni future, riflette ciò che riteniamo degno di essere ricordato.

Per questo, ogni adempimento toponomastico futuro dovrebbe essere condotto con educazione, memoria e garbo, non solo verso i nomi da celebrare, ma verso il contesto storico, culturale e morale in cui quei nomi si inseriscono.

Non bastano gli entusiasmi del presente per fondare l’eternità di una targa, ma serve il buon senso, e soprattutto urge la conoscenza viva e onesta di ciò che un luogo ha significato e continua a significare.

Ogni via, ogni piazza, ogni targa dovrebbe essere un ponte tra ciò che siamo stati e ciò che vogliamo diventare, non una menzogna incisa nella pietra, o stampata sul ferro valere di più, ma un segno autentico di rispetto per chi ha camminato prima di noi, e per chi camminerà dopo, onde evitare di perdere l’orientamento specie quando si immagina di essere accompagnati dalla storia, si consiglia di chiedere se è un cetriolo o la storia, prima di avviarsi in quel cammino di memoria.

Nel caso in questione, si individuano due date di particolare rilievo per la toponomastica locale, la prima è legata alla Legge n. 1188 del 1927, che rappresenta un punto di partenza fondamentale per la ricostruzione storica del Katundë, tracciandone i passaggi principali sin dalla sua origine del centro antico.

Questa data costituisce un riferimento imprescindibile per comprendere le radici profonde di un luogo che ha saputo conservare, nel tempo, la memoria della propria identità.

La seconda data, il 28 settembre 1935, segna invece un momento di ridefinizione del significato stesso attribuito al centro storico, una sorta di rilettura simbolica e politica che ha cercato di ordinare, forse semplificare, ciò che era stratificato e complesso.

È proprio attraverso questa seconda tappa che diventa possibile leggere, o almeno intuire le dinamiche, le trasformazioni e gli avvenimenti che il Katundë continua a raccontare, quasi a voce alta, nonostante il silenzio assordante di chi oggi lo attraversa senza ascoltarlo.

Atanasio Pizzi L’Architetto                                                                                Napoli 2025-09-13

 

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LA STORICA VICENDA VISSUTA DAGLI ABITANTI ARBËREŞË DI UN CENTRO ANTICO (Gnë përalesë arbëreşë)

LA STORICA VICENDA VISSUTA DAGLI ABITANTI ARBËREŞË DI UN CENTRO ANTICO (Gnë përalesë arbëreşë)

Posted on 11 settembre 2025 by admin

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NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Correva il millenovecento e novantacinque, appena finito febbraio e si aprivano gli scenari di primavera, quando si presentarono nella piazza del paese arbëreşë, un Imprenditore Economico e il suo seguito di Muratori, Geometri, Faccendieri e un “Pretore Venduto” e, tutti insieme, dopo aver riunito gli abitanti, li informarono su come si sarebbe dovuto trasformare il loro centro antico, in Borgo.

Aggiungendo che a breve quel centro, sarebbe stato circoscritto da solide mura con una porta sola, dove tutti avrebbero dovuto pagare pegno, ogni volta che vi sarebbero transitati, perché la campagna doveva diventare una discarica, diffusa a cielo aperto a iniziare fuori di quelle mura.

Il progetto che sottraeva l’agro tutto dalle disponibilità degli abitanti, che come tutti sappiamo per gli Arbëreşë storicamente sono risorsa vitale, e cosi tutti sarebbero diventati prigionieri di quelle mura, obbligandoli nel contempo tutti a cambiare mestiere e fare cose inaudite.

Il paese divento così un luogo dove ogni cittadino iniziò a lamentarsi e manifestare il proprio diniego diffuso, perché tutti si vedevano relegati a vivere un nuovo modo, che era un carcere a vita, millantato come una nuova opportunità per il futuro di quel centro parlante e operante in arbëreşë.

A quel punto “i Componenti Storici della Bashkia Locale” proposero un’invito, secondo il loro protocollo di ironia e raggiro.

A questo punto è bene precisare che “i Componenti Storici della Bashkia Locale” era un gruppo di frequentatori dell’angolo della chiesa, dove genericamente si riunivano pensionati o nulla facenti, che qui progettavano pranzi e scherzi di ogni genere, sulla base di una ironia locale.

Essi si appellavano non con il nome ed il cognome, ma con un alias e, i più famosi e continuamente presenti erano, Pizària, Roku, Pizùti, Pedali, Kardakj, Scupkjni, Professùrj, Garibaldi, Lliamallioni e, tutti assieme facevano la Bashkia, sempre pronti a ironizzare sul conto di ogni genere che li si trovava a transitare o dialogare cose assurde.

Questo gruppo una volta che ebbe notizia del cambiamento si recò dal “Pretore Venduto” e, proposero una sfida, o meglio un confronto di dialogo nel piazzale davanti la cantina storica di Mardùminkà, nel corso del quale chi avesse avuto ragione e forza di convincimento del proprio progetto, avrebbe potuto, previo il parere del “Pretore Venduto” avere ragione di futuro.

Nella penombra della cantina storica, incastonata nella zona dei “Baffa di Sotto”, le parti in causa si radunarono in silenzio pesante, ciascuna con il proprio seguito.

I Tradizionalisti o solidi conservatori locali di ironica radice, fieri eredi dell’essere arbëreşë, occupavano il lato occidentale del vicoletto e, i Rinnovatori, con occhi vigili e menti ardenti, sedevano a oriente, il volto contratto in espressioni tese.

Fu il “Pretore Venduto”, arbitro della contesa, fu il primo a rompere il silenzio, affermando: “Che oggi non si alzino spade, ma calici e che il vino sia mediatore e, giudice il tempo di questa riunione.”

Con un gesto largo della mano, ordinò che si versassero le prime botti del vino scuro delle Colline presilane, invecchiato sotto segreto e giuramento, colmò le coppe con riflessi di porpora e cenere.

Gli astanti brindarono, seppur con cautela, ciascuno tenendo un occhio al bicchiere e l’altro al volto dell’avversario.

La discussione, all’inizio, seguì un copione civile e, i Rinnovatori illustrarono i loro piano, secondo un’apertura alla nuova logica del “Borgo Murato” per, il superamento dell’Antico Codice e, la rimozione dei vincoli rispettosi dei cunei agrari che producevano sudore e fatica.

I Tradizionalisti replicavano con pacata fermezza, difendendo la linea della continuità e l’ordine parallelo qui solidamente ricostruito.

Ma fu il secondo vino, quello delle Vigne delle kote, a mutare l’aria, perché colme e dense, di antico, imbottigliate in anni di promesse mantenute e, fu il suo gusto ad aprire le antiche memorie ancora sanguinanti.

Qualcuno, forse per errore o intenzione, lasciò che una parola cadde troppo pesante e, “Tradire il giuramento è come vendere la madre alla Fiera del Soldo!”

Una coppa cadde, poi un’altra e, una sedia fu rovesciata, allora un giovane Rinnovatore balzò in piedi, il volto acceso più dal vino che dall’ira, “E voi preferite marcire nell’obbedienza, come cani legati alla catena di un morto!” e, fu allora che la conciliazione cedette il passo allo scontro.

Il Pretore Venduto batté il bastone tre volte, ma la sua voce fu inghiottita dal frastuono. I calici si rovesciarono, e insieme al vino colarono sul pavimento insulti, vecchi rancori e giuramenti infranti. Alcuni giunsero alle mani, altri si ritirarono in silenzio, come se tutto fosse già stato previsto.

Fu così che quella che doveva essere una tregua, un patto siglato nel vino e nella memoria, si rivelò solo una tregua illusoria.

La Kantina Storica, testimone di antichi accordi e silenzi secolari, si trovò a essere teatro di una frattura insanabile e, all’alba, i due schieramenti lasciarono la sala. Mentre il Pretore restò solo, seduto al tavolo centrale, il volto stanco, il bastone spezzato a metà.

“La pace,” mormorò, “non si versa nei calici, ma si semina nei cuori, tuttavia oggi i cuori… erano già altrove.”

Mentre nella penombra della Cantina Storica si consumava il fallimento del dialogo, altrove, al margine delle vecchie mura, il tempo scorreva in un ritmo diverso.

Il Giovane Architetto Olivetaro, ignaro forse del tumulto o semplicemente disinteressato alle contese vuote, avanzava con passo sicuro nel cuore del Centro Antico.

Al suo seguito camminavano uomini e donne di ogni età, artigiani, contadini, pensatori e sognatori, dei quali nessuno impugnava spada o inneggiava proclami.

Tuttavia ciò che portavano erano attrezzi, mappe, e la volontà di ricostruire, secondo il modello del passato e sotto la bandiera del futuro, secondo la misura dell’essere umano.

Lì, dove si era pensato di fare mura e costringere le genti a sottostare a ragioni assurde, iniziò a prendere forma qualcosa di diverso.

Lo chiamarono Katundë, una parola antica e nuova insieme, il cui suono sembrava evocare radici dimenticate e promesse future, perché esso era un luogo di confronto e movimento per costruire una società nuova fatta di Gjitonie e iunctura familiare.

Non era un villaggio, né una città o borgo, ma era un’intenzione fatta pietra, una comunità nata da mani e scelte, non da decreti o leggi o guerre, ma di una solida interazione basata sull’accoglienza di popoli e generi.

La iunctura familiare, quell’intreccio sacro di legami, reciproca cura e ospitalità, si fece più alta di qualsiasi muro, più solida di ogni muraglia, perché eretta per lavorare e includere.

Nessuna torre, nessuna cinta, ma solo case aperte, cortili comuni, campanili e la voce dei bambini che tornava a riempire l’aria.

Le genti accorrevano, non per combattere, ma per appartenere e, il rinnovamento, così come era stato pensato nella teoria e nella retorica dei suoi promotori, apparve improvvisamente vuoto, distante, scollegato dalla vita vera.

Le genti accorsero dalle valli alte con gerle di semi antichi e mani temprate dal sole e dal gelo, arrivarono anche coi volti impietriti dalla salsedine, portando reti per intrecciare storie e racconti.

Vennero i pastori, gli artigiani, le madri, i vecchi, i bambini e, nessuno era stato chiamato, eppure tutti sapevano, perché era venuto il tempo di rigenerare.

L’Olivetano, tornato tra loro dopo stagioni d’esilio silenzioso, non parlò, ma camminando lento tra i vichi e i vicoli ciechi, dove il muschio aveva inghiottito la pietra e le erbacce spezzato gli stipiti.

Dietro di lui, come un’eco che prende corpo, la gente seguiva, non per curiosità, né per dovere, ma per destino.

Insieme iniziarono a rigenerare case, alcune ormai ridotte a gusci svuotati, vennero ripulite, rintonacate con fango e calce viva, decorate con simboli arcaici che solo gli anziani ricordavano.

Nei vicoli ciechi crebbero orti botanici, fioriti tra le fessure e sorretti da intelaiature rigenerate e, ogni angolo morto venne rivendicato dalla vita.

Gli orti botanici li chiamavano kophëshët nato forse da un sogno, dove venivano piantate varietà salutari il fagiolo del sangue, la lattuga cobalto, il basilico d’ambra, cose che nessun manuale li descriveva più, ma la terra li ricordava.

I cunei dell’agro, un tempo scavati per incanalare l’acqua piovana, ora erano solchi per la semina. L’Olivetano li percorreva all’alba, lento, seminando a mani nude e, dietro di lui, i bambini gettavano i fiori, non per decorare, ma per nutrire.

E gli archi, tanti archi, come bocche antiche riaperte, si svelarono sotto la coltre del tempo, archi che nessuno ricordava più, ma che ora spalancavano la via, la grande via verde che correva come vena viva attraverso l’agro rinato e, chiunque vi passasse sentiva crescere nel petto una musica silente, come un canto di radici e linfa.

Furono ricollocate le antiche targhe toponomastiche e senza errori perché, l’Olivetano sapeva, conosceva e ricordava ogni cosa, supportato dal suo essere studioso storico che non consentiva o conosceva fare errori.

Non era più solo rinascita, ma fioritura, e l’Olivetano, solidamente accolto tra la sua gente come un ulivo millenario, vedeva la nuova stagione innalzarsi, non con clamore, ma con la credenza di un ulivo bianco.

Perché ogni mano aveva toccato la terra, ogni voce aveva cantato la semina, ogni passo aveva scelto il ritorno.

E così, anche ciò che sembrava perduto cominciò a fiorire e, quando il Rinnovatore, col volto contratto e il mantello sporco di vino e vergogna, giunse ai margini del Katundë, vide ciò che non aveva previsto, in tutti la forza tranquilla di ciò che cresce, non di ciò che conquista.

Restò immobile un istante, poi si voltò e, con voce bassa, raccolse il suo sparuto seguito, esclamando: “Andiamocene, qui noi… abbiamo già perso.”

E fu così che il nuovo modo di intendere un luogo vitale vinse, non con la spada, non con il prevaricare, ma con la parola e il lavoro sui campi e la consapevolezza di possedere un tesoro immateriale che non è solo lamento di canto, quello incontaminati con il fare tipico degli arbëreşë e, fu da allora che il Katundë restò, testimone silenzioso di una rivoluzione profonde non di urla, ma silenzioso costruire.

Atanasio Pizzi architetto Olivetano                                                                                  Napoli 2025-07-09

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