NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Nel corso della storia, le città e ogni centro abitato hanno reso omaggio a personaggi o eventi importanti, dedicando a memoria vie, piazze, vicoli e altri spazi condivisi o resi pubblici.
Tuttavia, anche questo gesto simbolico rispetta regole precise, per evitare usi impropri o decisioni affrettate, secondo la materia regolata dalla Legge dell’11 agosto 1927, n. 1188 e, tuttora in vigore.
Essa stabilisce i criteri per l’intitolazione di strade, piazze e altri luoghi pubblici a persone o eventi significativi di un ben identificato luogo.
Secondo questa legge, nessuna strada o piazza può essere intitolata senza la preventiva autorizzazione del Prefetto, che rappresenta l’autorità statale sul territorio.
Inoltre, la legge prevede che si possa intitolare un luogo pubblico a una persona solo dopo che siano trascorsi almeno dieci anni dalla sua morte.
Questo limite temporale è stato pensato per garantire un periodo di riflessione e valutazione sull’effettivo valore storico, morale o civile della persona, evitando commemorazioni spinte da motivazioni politiche o emotive del momento.
Esistono però delle eccezioni, previste dallo stesso testo di legge, infatti se una persona è ritenuta di particolare rilievo, come un eroe nazionale, una figura di altissimo valore civile, culturale o patriottico, è possibile chiedere una deroga al limite dei dieci anni.
Questo meccanismo, pur essendo semplice, permette di mantenere un equilibrio tra il desiderio di commemorare e il dovere di rispettare criteri storici e civili, allontanandoli dall’impeto dell’avvento.
In conclusione, la Legge n. 1188 del 1927, pur essendo una norma di quasi un secolo fa, continua a svolgere un ruolo importante nel garantire che la memoria storica venga onorata in modo ordinato e rispettoso.
Le intitolazioni che incontriamo ogni giorno passeggiando i nostri Katundë nel caso specifico degli arbëreşë, non sono frutto del caso, ma rispecchiano scelte ponderate che contribuiscono a costruire l’identità e la cultura dagli arbëreşë e della Nazione Italia.
Infatti, si osserva un aspetto particolare, come quelli delle minoranze storiche italiane, che hanno iniziato ad adottare in modo sistematico la regola della doppia denominazione sulle targhe stradali, riportando sia il nome in italiano sia quello della minoranza.
Questo uso, simbolo di una forte identità culturale, anticipa in parte il riconoscimento ufficiale delle minoranze linguistiche in Italia.
Tuttavia, questo processo, pur mosso da buone intenzioni, ha innescato anche alcuni effetti negativi e, in molte realtà locali si sono diffuse inesattezze grammaticali nelle traduzioni, spesso dovute alla mancanza di persone adeguatamente tessere nella lingua antica arbëreşë scritto grafie pertinenti.
Ciò ha portato, in alcuni casi, alla perdita del significato autentico di storici avvenimenti o esigenze di luogo e la progressiva alterazione del valore linguistico e culturale originale, di sovente venne e viene posto alla berlina.
I tutto rischia di far scomparire, per mancanza di competenze specifiche nella trasmissione corretta della lingua di quello specifico luogo di avvenimento.
Resta inciso nei fatti un dato evidente, secondo cui per comodità intellettuale, invece di analizzare con rigore e sensibilità linguistica il sostantivo italiano nel contesto Arbëreşë, si è spesso preferito tradurre direttamente e senza impegno, in albanese moderno, ignorando le particolarità storiche, fonetiche e grammaticali della lingua locale che non trova logica o immaginario di memoria.
Questo approccio ha facilitato il lavoro, ma ha anche contribuito a un’ulteriore perdita di autenticità e a un impoverimento sostanziale del patrimonio storico e linguistico locale.
Nonostante sia semplice dimostrare che meriterebbe un’attenzione molto più profonda e rispettosa sia del luogo e sia di quello che quel luogo rappresenta o ha rappresentato.
Questo problema emerge soprattutto quando si devono tradurre concetti ed elementi moderni, che la lingua arbëreşë tradizionale non contempla.
E invece di assemblare o adattare con creatività e rispetto linguistico un’espressione coerente arbëreşë, si ricorre con superficialità a traduzioni automatiche, spesso ottenute da strumenti come Google Traslatore, basati sull’albanese standard.
Questo approccio, oltre a generare errori lessicali o sintattici, mina l’autenticità della lingua arbëreşë e contribuisce al suo graduale snaturamento.
Negli ultimi decenni, il rinnovato interesse per le minoranze linguistiche ha riportato l’attenzione sulla toponomastica bilingue nei Katundë arbëreshë, fondati tra il XV e il XVIII secolo.
Questo fenomeno, pur sorretto da intenti lodevoli finalizzati a rendere fruibili questi articolati centri antichi, ha spesso subito deviazioni dovute all’intervento di studiosi acerbi o appassionati poco informati, che, nel tentativo di “ripristinare” o “tradurre” i nomi dei luoghi in chiave arbëreşë, finiscono per mescolare tempi, luoghi e storie in maniera anacronistica.
Capita così che toponimi nati in contesti italiani medievali o post-unitari vengano arbitrariamente reinterpretati con strutture linguistiche albanesi moderne o, peggio, con inflessioni che nulla hanno a che fare con l’arbëreşë originario.
Si vedono cartelli che propongono versioni “albanizzate” di nomi che non hanno mai avuto un corrispettivo nella lingua dei padri fondatori, o peggio ancora, si attribuiscono significati etimologici fantasiosi, costruiti su ipotesi mai verificate dal punto di vista storico.
Il rischio maggiore, in questo processo di “restauro toponomastico” spesso condotto senza rigore filologico, è quello di creare un’identità artefatta, scollegata dalla memoria reale della comunità.
La toponomastica non è solo linguaggio, ma anche stratificazione storica, documento vivente di migrazioni, conquiste, economie e relazioni interetniche.
Reimpaginare i nomi dei luoghi, degli istituti o delle istituzioni, civili, religiose, militari o di soccorso, senza considerare il modo per essere intercettati dall’occasionale passante, significa riscrivere una storia che non appartiene né al passato italiano né a quello arbëreşë, ma disorienta ideologia e servizi.
È auspicabile, quindi, che il lavoro sulla toponomastica bilingue venga affidato a, storici locali arbëreshë, che vivono e crescono e vivono sulla scorta di un dialogo diffuso ma continuo tra scienza, memoria e identità.
Solo così sarà possibile produrre una narrazione toponomastica fedele, rispettosa e davvero rappresentativa della complessità culturale che si articola e trova agio moderno in questi Katundë.
Un tempo, i nomi delle vie erano pagine scolpite nella memoria collettiva e, ogni toponimo custodiva un frammento di storia, un’eco di gesta che avevano forgiato il carattere di un popolo.
Tuttavia oggi, assistiamo a una riscrittura sistematica, dove il passato viene giudicato con lo sguardo miope delle ideologie moderne.
Le strade che portavano i nomi dei valorosi sono state rinominate secondo canoni, appiattiti su una morale di superficie, spesso più utile alla propaganda personale che alla verità locale.
I luoghi simbolo del vissuto locale, quelli che un tempo richiamavano al dovere, al sacrificio, alla fedeltà, vengono oggi calpestati, non fisicamente, ma spiritualmente.
Gli eroi o, i testimoni di una forza antica, radicata nella terra e nell’onore, vengono dimenticati o peggio, scambiati con coloro che tradirono sé stessi, travestiti ora da martiri ora da vittime virtuose e sin anche da bell’imbusti.
Ciò che era chiaro, netto e, orgogliosamente divulgato è diventata confusione che non distingue, l’acqua con l’olio che miscelati ostinatamente per fare targhe, vanno a scapito del cittadino, smarrito, che camminando su strade che non parlano più la sua lingua interiore, espongono tutti al rischio di rovinare a terra.
Nessuno ricorda chi fosse davvero il portatore di quel nome inciso, nessuno si chiede più perché quella via sia stata guida di sviluppo o di tenacia.
Il Katundë, che un tempo vibrava di orgoglio e appartenenza, assiste ora in silenzio, anche se i nomi non muoiono e vivono sottopelle, nei racconti sussurrati, nei canti sommessi, nei cuori di chi ancora non ha ceduto all’oblio.
E forse, un giorno, la verità tornerà a chiedere il proprio posto sulle insegne di questo tempo smemorato, tuttavia valga di esempio una targa, grigia anche se e ben curata, apposta con solennità su un muro del vile interesse agrario, che non è monumento di coraggio, né un omaggio al sacrificio pagato a caro prezzo, ma memoria ufficiale e, perciò ancor più oltraggiosa di un mandante.
Un nome inciso nel marmo che la Storia, se fosse stata onesta, avrebbe dovuto relegare all’infamia e, invece eccolo lì, onorato tra squilli di fanfare, omaggiato da figure istituzionali, posto sotto lo sguardo cieco di una cittadinanza distratta, educata a dimenticare, perché non vuole sapere.
Quel nome, più che evocare una vita di servizio, gronda la responsabilità morale e, forse ben più concreta di una strage epica, storicamente nota per cinismo mafioso.
Peggiore persino delle stragi siciliane che colpirono i giudici storici, quelle che ancora oggi bruciano nella carne viva del Paese.
Ma qui, l’ipocrisia si fa legge e, la memoria selettiva riscrive i ruoli, i colpevoli si travestono da vittime, i traditori da statisti.
È così che si calpestano i simboli, non con la violenza esplicita, ma con la sostituzione lenta, con la manipolazione del ricordo.
Le lapidi non mentono da sole, mentono quando sono appoggiate da chi ha potere, ed è in quel momento che la storia non è più storia, ma farsa.
Nel Katundë, dove un tempo l’onore era più che una parola, simili scempi non sarebbero stati tollerati e, la memoria, lì, aveva un prezzo, ma anche un valore.
Oggi, invece, pare che basti il consenso del presente per riscrivere il passato, tuttavia l’auspicio di queste parole non è la polemica fine a sé stessa, né la nostalgia sterile per un passato idealizzato, ma piuttosto, un invito alla responsabilità.
La toponomastica non è un esercizio burocratico, ma un atto di memoria pubblica, essa plasma il paesaggio simbolico delle nostre città, educa le generazioni future, riflette ciò che riteniamo degno di essere ricordato.
Per questo, ogni adempimento toponomastico futuro dovrebbe essere condotto con educazione, memoria e garbo, non solo verso i nomi da celebrare, ma verso il contesto storico, culturale e morale in cui quei nomi si inseriscono.
Non bastano gli entusiasmi del presente per fondare l’eternità di una targa, ma serve il buon senso, e soprattutto urge la conoscenza viva e onesta di ciò che un luogo ha significato e continua a significare.
Ogni via, ogni piazza, ogni targa dovrebbe essere un ponte tra ciò che siamo stati e ciò che vogliamo diventare, non una menzogna incisa nella pietra, o stampata sul ferro valere di più, ma un segno autentico di rispetto per chi ha camminato prima di noi, e per chi camminerà dopo, onde evitare di perdere l’orientamento specie quando si immagina di essere accompagnati dalla storia, si consiglia di chiedere se è un cetriolo o la storia, prima di avviarsi in quel cammino di memoria.
Nel caso in questione, si individuano due date di particolare rilievo per la toponomastica locale, la prima è legata alla Legge n. 1188 del 1927, che rappresenta un punto di partenza fondamentale per la ricostruzione storica del Katundë, tracciandone i passaggi principali sin dalla sua origine del centro antico.
Questa data costituisce un riferimento imprescindibile per comprendere le radici profonde di un luogo che ha saputo conservare, nel tempo, la memoria della propria identità.
La seconda data, il 28 settembre 1935, segna invece un momento di ridefinizione del significato stesso attribuito al centro storico, una sorta di rilettura simbolica e politica che ha cercato di ordinare, forse semplificare, ciò che era stratificato e complesso.
È proprio attraverso questa seconda tappa che diventa possibile leggere, o almeno intuire le dinamiche, le trasformazioni e gli avvenimenti che il Katundë continua a raccontare, quasi a voce alta, nonostante il silenzio assordante di chi oggi lo attraversa senza ascoltarlo.
Atanasio Pizzi L’Architetto Napoli 2025-09-13