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LA GIOCONDA ARBËREŞË MANI TESSE CON LE TESTE DI MARITO E MOGLIE

Posted on 08 ottobre 2025 by admin

asaNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Una donna arbëreşë si dispone come la Gioconda, con un sorriso appena accennato che trattiene memorie lontane.

I suoi occhi, azzurri e profondi, riflettono il mare Adriatico come uno specchio silenzioso e, in quello sguardo scorrono barche leggere, spinte da braccia operose che cercano una riva accogliente, una terra buona dove il vento non porti più solo nostalgia ma nuove promesse di vita.

Il volto fiero e, segnato da rughe storiche, come la terra che conosce i semi e sa come allevarli, con le mani o gesto iconico, tenendo i palmi, batte l’eco della lingua antica, dell’esilio e della speranza.

Dietro di lei, non colline toscane, ma i suoi occhi azzurri allargano la prospettiva delle onde l’Adriatico, che non è mai stato dimenticato.

Le sue mani non segnano confini ma sono pronte per fare abbracci, o meglio un infinito abbraccio del lato occidentale, quello che accolse, che ascoltò, che custodì, come fa il mare buono che sa cullare le partenze e onorare i ritorni immaginati.

All’orizzonte, la costa si dissolve nella luce e, a est, non c’è chiarezza ma lascia intendere una situazione naturale frastagliato, frammentata, in tutto un est che ad oggi rimane confuso, come un sogno in bilico tra ciò che fu e ciò che non è più.

Ma l’ovest, della prospettiva della nostra madre Gioconda, tutto appare tenerezza, con le colline che si chinano, ulivi che offrono ombra, mani che accolgono altre mani, ed è lì che il popolo arbëreşë trova riparo.

È lì che con le sue vesti di regina della casa rivive, ogni volta che viene nominata, cantata, dipinta e, nel suo sguardo non c’è solo nostalgia, ma resistenza silenziosa.

L’identità non si grida, si porta, come una veste ricamata a mano, come una lingua parlata sottovoce ai figli, come un nome che torna nei canti.

Non ha bisogno di essere riconosciuta per esistere, perché la sua verità è nel gesto semplice del cuore, le dita non formano simboli, ma ascoltano il battito, un battito che non appartiene solo a lei, ma a chiunque sappia ancora sentire il mare anche quando non si vede.

C’è un’immagine che nessun libro di storia riporta, eppure vive incisa nella memoria di chi, senza bandiere né riconoscimenti, ha custodito la verità più profonda degli Arbëreşë.

Non è un dipinto né una fotografia, ma una visione scolpita dal lavoro, dalla resistenza quotidiana, dal silenzio che non cerca gloria ma fa e unisce Gjitonia.

Le vicende degli Arbëreshë non sono state sostenute da alcuna aquila, né quella della patria perduta, né quella delle istituzioni moderne.

Nessuna protezione simbolica, nessun volo alto a garantire giustizia o memoria, perché la loro storia non è stata sorretta da emblemi, ma da fatica, dedizione e coscienza, in tutto da due teste vive, pensanti, operanti che hanno generato presenza senza pretendere di diventare icona.

Non emblema, ma origine, non immagine da esibire, ma sostanza da coltivare, ovvero quella realtà o, quella degli Arbëreşë autentica, mai vissuta come si racconta oggi nei circuiti ufficiali, e mai la natura, così com’è, imprevedibile e libera, potrà renderla possibile se continua a essere forzata dentro rappresentazioni false come una aquila a due teste, che non gi guadano per intendersi.

Tutto ciò che è stato costruito attorno all’identità arbëreshe negli ultimi tempi non nasce dal popolo, non da un potere occulto che non conosce la fatica.

Un potere che, invece di sostenere chi crea, chi lavora, chi custodisce, immagina e, impone visione conforme ai suoi interessi.

Un potere che ha fabbricato immagini vuote, cerimonie senza anima, simboli che parlano di una realtà che non è mai esistita, e mai potrà esistere.

E allora, nell’aria, non si innalza una rabbia sterile, ma una coscienza lucida, non come dottrina chiusa, ma come memoria viva,

Come rifiuto dell’occultamento, affermazione di chi ha tenuto acceso il fuoco mentre gli altri si limitavano a guardare le ceneri sollevate dal vento.

Infatti l’immagine che conta, l’unica che conta davvero, non è fatta per essere stampata nei manuali o celebrata nei congressi, ma vive fuori dalla storia scritta, fuori dai discorsi ufficiali, vive nel canto sussurrato in una casa isolata, nella lingua trasmessa senza scena, nel gesto ripetuto da chi non ha mai smesso di essere.

Vive nelle due teste che, da sempre, portano il peso e la forza della continuità, senza aquila, senza protezione, senza privilegio, ma con la potenza di ciò che non può essere cancellato, ovvero il senso della famiglia.

La Gioconda, con il suo volto sereno ma determinato, potrebbe rappresentare l’emblema delle madri arbëreshe, donne laboriose, silenziose ma centrali nella costruzione della famiglia e della comunità e, crea ambiguità come lo stemma dell’aquila bicipite, simbolo storico ereditato dall’Impero Bizantino e poi adottato dagli Albanesi e dalle comunità arbëreshe.

Quest’aquila, con due teste che guardano in direzioni opposte, è spesso letta come segno di forza e vigilanza, un corpo unico che sorveglia due mondi.

Ma questa immagine può anche essere riletta in chiave più intima e familiare, con le due teste che rappresentare i due genitori, la madre e il padre, che pur condividendo un unico corpo (la famiglia), si guardano sempre e direttamente negli occhi.

creando un equilibrio delicato e, ognuno guarda verso il futuro, il lavoro, il dovere riflesso negli occhi dell’altro/a.

Ma la vera forza di una famiglia, specie in una cultura come quella arbëreshe, dove la trasmissione orale è fondamentale, non sta solo nello stare fianco a fianco, ma nel sapersi guardare negli occhi anche senza parole, nel comprendersi profondamente per costruire insieme.

E quando entrambi “aprono la prospettiva”, voltano inevitabilmente le spalle alla prospettiva che coglie il compagno, la compagna un simbolo, un invito a ritrovare l’intesa per progredire come famiglia e comunità.

L’aquila bicipite è da secoli emblema delle genti arbëreshe, nata dal grembo della storia bizantina, adottata dal popolo diasporico e portata oltre il mare, essa è rimasta impressa sugli stendardi, nei canti e negli occhi di chi ha lasciato la propria terra per salvarne la memoria e, le sue due teste, rivolte in direzioni opposte, sorvegliano mondi lontani che comunque l’altro non sa, ascolta o immagina.

In quella postura fiera, tuttavia, si nasconde una ambiguità sottile e, le due teste non si guardano mai. Ognuna custodisce il proprio orizzonte, il proprio compito, la propria fatica.

Così, come non è uso nelle famiglie arbereshe, madre e padre che non camminano insieme non si incrociano nello sguardo e non costruiscono futuro.

Vivono nello stesso corpo simbolico ma orientati a sopravvivere, più che a costruire e forse potrebbe essere la storia si oggi che non ci appartiene in nulla.

Questa aquila che non si guarda porta addosso la lettera scarlatta: un marchio invisibile, un segno di incompletezza culturale.

Non è vergogna, ma memoria di una parola non ancora detta, di un’identità sospesa, in tutto è la lettera che brucia ma non parla, che pesa ma non costruisce, una lingua lasciata a metà, la tradizione che si tramanda ma non si rinnova, la famiglia che resiste ma non dialoga.

Eppure, nell’immaginario che appartiene ai sognatori e agli eredi di una storia viva, esiste anche un’altra aquila.
Una doppia testa che si guarda negli occhi, non per sorvegliarsi, ma per riconoscersi, diventando l’emblema di chi, pur restando custode della propria eredità, sceglie di confrontarsi con l’altro, con il compagno, la compagna, la comunità.

In quello sguardo reciproco si accende un nuovo alfabeto, un linguaggio condiviso e, questa seconda aquila porta non una cicatrice, ma una Z, l’ultima lettera dell’alfabeto.

Non perché rappresenti una fine, ma perché completa ciò che mancava, rappresenta la chiusura di un cerchio, il tassello che rende intera l’identità arbëreshe, ancora oggi in cerca della sua piena forma scritta, della sua voce autonoma.

Tra la lettera scarlatta e la Z si muove la storia di un popolo, non solo di bandiere e di lingue, ma di famiglie, di donne e uomini che hanno imparato a guardare lontano.

Forse il futuro della cultura arbëreshe non è né solo nel passato né solo nel domani, ma in quello sguardo reciproco, tra due teste che finalmente si guardano e scelgono di parlare la stessa lingua e camminare insieme come fecero Janarj e Adùlina.

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                                            Napoli 2025-10-08

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