Archive | maggio, 2022

LA REGOLA DEL CAOS “bëni valijet”

LA REGOLA DEL CAOS “bëni valijet”

Posted on 31 maggio 2022 by admin

lA REGOLA DEL CAOS NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Facite ammuina è una frase della lingua napoletana che per gli Arbër suona come “Bëni Valijet” ovvero: “Facciamo Confusione”.

E’ l’invito a creare il disordine nel quale si possa mestare al fine di conseguire dei vantaggi di ordine storico e di confusione delle attività del passato non più nelle disponibilità di quanti si espongono a divulgare consuetudini.

L’espressione riporta a un comando che negli ultimi decenni è contenuto in ogni evento che vorrebe delineare le vicende storiche, della minoranza, sia in forza di consuetudini e specie quando si deve valorizzare le cose secondo gli addetti delegati dai Kuscetari ignari delle cose della storia

Ormai da decenni le note “Bëni Valijet” assumono connotazione, di bassi valore identitario, passate dal puro canto di genere, alle grida di altezzosi/e, secondo accordi e disaccordi qui elencati:

  • tutti quelli che stanno thë Shëshi, vanno al Bregù e ka kishia vadano the Kaliveth;
  • quelli che si trovano nei pressi della fontana di sotto devono andare a quella di sopra e viceversa;
  • gli operatori dei frantoi, corrano ai mulini e quelli dei mulini vadano a infornare le pizze;
  • tutti quelli che sono a casa devono uscire e vestire gli abiti di quelli che stanno fuori che ignudi corrono dentro;
  • quelli che stanno nel balcone devono entrare e quelli di dentro devono uscire fuori me Bërlocunë;
  • chi non ha niente da fare, vada qua e là a lavare con acqua e sapone shëshin;
  • chi non sa fare nulla, suoni una fisarmonica,un tamburo e/o un tamburello;
  • i vignaioli si rechino al museo e allestisca le vesti sui pali delle viti;
  • quelle che hanno i capelli che coprono gli occhi, ordinassero libri nella biblioteca;
  • chi è stonato strilli parole al vento o faccia rumori molesti;
  • chi sa ballare stia immobile, in un angolo a bere vino, sino all’ubriacatura:
  • chi non sa ballare salga sul palco ed emuli movenze di arem solo o accoppiato;
  • chi conosce le cose della storia resti nella capitale;
  • chi non conosce alcun argomento di storia nel parli con ignoranza alla Trapsa in forma di regine maritate;
  • chi conosce l’architettura la illustri oralmente agli ignari interessati di altra radice;
  • chi non la conosce la scruti in forma di fumetto disegnato sui muri, come ornamento murala;
  • i bambini irrequieti calpestino e deturpino i luoghi del sangue versato;
  • date da mangiare i partecipanti della processione, che alla fine arrivano ubriachi e sazi;
  • eliminate la sfera che sostiene la croce, fatene piramide blasfema;
  • chi non sa parlare di urbanistica da docente va sotto la casa di Jakar a e fa l’ubriaco;
  • chi la conosce la storia lasci prendere al Kuscëtarù gli appunti, così inizia a ragliare e mangiare biada;
  • chi è basso di ogni morale virtù, suoni la chitarra emulando persone alte:
  • chi è grossa e vuota di mente, attraversi con sgarbo la folla, facendosi largo con la grossa testa vota che fa eco;
  • chi non sa nulla apra dibattiti pubblici, speranzosa che dalla finestra aperta le arrivino nozioni buone;
  • chi sa tutto teniamolo dentro il limite del pascolo, tanto e risorsa inutile per la pletora ignara;
  • le spose le facciamo vestire dagli amanti che entrano dalle finestre e ne provano le virtù;
  • lo sposo lo veste il suo prediletto, con gonnelle sotto il ginocchio e scamiciata di merletto;
  • chi veste di sposa, sulla strada mostri la coda agli amici dello sposo;
  • chi veste di sposa, sull’altare mostri la ruota al prete;
  • ai bambini mettiamo come identificativo di purezza Bërlokun;
  • recatevi in chiesa a cantare lodi di stella bella al cielo dorato;
  • recatevi nella gjitonia per parlare del vicinato indigeno;
  • recatevi nel rione per parlare del limite della gjitonia;
  • fate tutti quello che non avete mai fatto nelle vita, oggi è il momento di dimostrare quello che non siete;

Andiamo avanti così fino all’ultimo, tutto il tempo cë “Bëni Valijet”, così gli sgomenti, spariranno per sempre della nostre sceneggiate e l’oblio coprirà finalmente con un sottile velo di pena, “la fossa  d’Arberia”.

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LA CULTURA DEL NON CONFRONTO IN BASKIA

LA CULTURA DEL NON CONFRONTO IN BASKIA

Posted on 21 maggio 2022 by admin

La cultura fa beneNAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Il termine cultura deriva dal verbo latino “coltivare”, esteso in seguito a quei comportamenti che imponevano “cura verso gli dei”, per diffondere l’insieme di conoscenza.

La definizione generale, rappresenta l’insieme dei saperi, opinioni, credenze, costumi e comportamenti di un determinato gruppo umano, in leale confronto con altri; eredità storica indispensabile a definire i rapporti all’interno di gruppi sociali coesi, pronti a confrontarsi con il mondo esterno per il proseguimento della specie.

Naturalmente opinioni e modi di interpretare le cose, frutto di un civile confronto, in grado di affinare le cose, rendendo tutto l’insieme della conoscenza più solido, per la comunità e come vuole la parola cultura, coltivare per aver germogli idonei per le nuove generazioni.

La cultura per questo rappresenta il segno distintivo di ogni comunità ed è tutt’altro che una condizione, immobile, inerte, la cultura non deve essere mai statica o trarre linfa da se stessa, perché si nutre di confronto, si sviluppa nel dialogo e nelle relazioni con quanti sono disposti al costruttivo vivere comune.

La cultura non è nulla più che la metrica, secondo cui il metronomo del tempo batte i ritmi della storia, rappresenta la chiave che apre le porte che uniscono passato, presente per progettare il futuro, rimanendo protagonisti dei cambiamenti che ci fanno rimanere sempre a casa nostre senza bisogno delle cose altrui.

La Cultura va arricchita sempre, e resa partecipata, questo è il fine che ogni buon amministratore dovrebbe perseguire, specie quando si apre alla conoscenza e al rispetto delle differenze, le capacità altrui, che non vanno intese o considerate antagonistici, perché sanno e conoscono meglio degli altri il patrimonio che rende tutti più ricchi, di umanità e solidità delle proprie  cose innanzitutto.

La storia dimostra e racconta di grandi passi fatti dalle civiltà evolute, nate solo ed esclusivamente da incontri di confronto multidisciplinari definendo cosi il meglio, non fatto di forme circolari egocentriche, ma di sfaccettature, come si usa fare con i diamanti più rari che la natura genera.

La storia a tal proposito rende noti regimi totalitari, “in note di vergogna riconosciuta”, anche se poi in piccoli anfratti non molto illuminati, di sovente si cerca di imitare quelle gesta, immaginando che l’appartenenza politica li salvi dalla vergogna.

La degenerazione dei regimi totalitari, raggiunge l’apice della “pena sociale”, non per quanto predisposto da quanto/i gestiscono il potere, verso figure e categorie di ricca cultura, ma dal popolo spettatore notoriamente svogliato, sin anche divertito nell’accogliere la propria deriva culturale che gli piove addosso .

In altre parole gli utilizzatori finali dei futuri sbagliati in costruzione, sono proprio questi che non avendo consapevolezza delle cose, accolgono di buon grado quando gli viene negato,in forma di ripicca altrui, per il bene e il futuro delle relative prole.

Per concludere, se il popolo spettatore, non si ribella e prende consapevolezza di cosa gli vene sottratto giorno dopo giorno, prima o poi dovrà pagare pegno diffuso, immaginate cosa dovranno pagare gli ideatori e i figli che si concepiscono o nasceranno nel tempo della cultura non condivisa o addirittura negata.

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LA CULTURA NON È ALTRO CHE IL LIEVITO PER FARE IL BUON PANE

LA CULTURA NON È ALTRO CHE IL LIEVITO PER FARE IL BUON PANE

Posted on 16 maggio 2022 by admin

Carmina non da PaneNAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – La sentenza secondo cui “Carmina non dant panem” o “Litterae non dant panem” diffusamente nota, non tiene conto di un dato fondamentale, Ovvero, di come si fa il pane, essendo la cultura solo il lievito di questo alimento antichissimo e fondamentale, a ben vedere, la farina impastata con l’acqua rimane inerme e senza vita, sino a che non interviene la reazione di questo elemento per dare forma volume e sostanza al fondamentale alimento, avviando così l’affascinate evoluzione.

La cultura non va intesa come una pietanza fumante a disposizione di pochi eletti; essa o meglio il Lievito, rappresenta l’elemento, in tutto, la misura per regolare il rapporto tra il pieno della farina e la reazione, che produce il lievito; l’energia capace di innalzare la forma e restituire valori indispensabili ai cinque sensi dell’uomo.

La cultura non si mangia, non si mette in tasca, giacché rappresenta l’energia incamerata nei vuoti, i labirinti, le cavità per reazione del lievito.

La sostanza di reazione, ovvero, la cultura, produce crescita all’impasto, altrimenti inerme e senza mutazione, esso va a nutrire di aromi incameranti, gli unici in grado di rinvigorire i cinque sensi del genere umano, il cui finale effetto si traduce in educazione o volontà di fare cose buone, in senso di fragranza, delicatezza del prodotto più antico dell’uomo, l’unico in grado di illuminare la mente delle persone preparate a gustare, il manufatto  fissato con il calore buono del fuoco.

In altre parole, il lievito rappresenta le tradizioni dei nostri genitori, in particolare delle nostre madri che con saggezza e antica sapienza sapevano calibrare impasto di farina con il lievito madre, “il lievito madre appunto”, quello che da madre in figlia è giunto sino a noi portandoci suoni, odori sapori e sostanza che allieta la vista attraverso quelle bianche cavità che pur se diverse e mai uguali, riportano le cose del passato al nostro cospetto in maniera identica.

La cultura assomiglia alle monete di Licurgo che potrebbero paragonarsi ai pesanti libri del passato, quelli più voluminosi scritti dalla consuetudine, infatti, il principale legislatore di Sparta, contrario all’accumulo di ricchezza, educava, la comunità a non superarsi gli uni dagli altri, visto che la disuguaglianza culturale è la causa principale che porta a squilibri sociali e genera prevaricazione.

Tutto ciò frena il libero transito a fare lavoro per quanti si dedicano all’arte per formare il genere umano al rispetto delle proprie, le altrui cose e all’ambiente naturale.

Oggi si ritiene la cultura come un alimento da mangiare, senza avere consapevolezza che le cose buone le ha fatte la manualità, saggezza delle nostre madri, le biblioteche di casa nostra.

Sono state esse a incamerare nelle piccole cavità della lievitazione con il riverbero delle loro voci e con la saggezza del rivoltare e calibrare, quello che di li a poco avrebbe germogliato il prezioso impasto, colmo di storia, tradizioni e rispetto verso gli altri meno fortunati.

Il genere umano si ciba di pane con o senza glutine, ma tutti assaporano i contenuti ideali, espressi nelle forme nelle pieghe e in quelle sottili membrane del lievito comunicatore.

Chi si ciba del pane e non trae spunto dai suoni, i riflessi, i sapori e le prospettive minuscole provenienti dalle cavità prodotte, dalla cultura, nel pane, termina:

  • con lo stendere bandiere a terra;
  • andare vestita da sposa con l’inconsapevole bjrëllokù al collo:
  • alzare le vesti di gioventù, del padre e del marito.

Lenta e inesorabile si consuma il calibrato olio, la fiammella poi barcolla ma resiste, arriva il turno dell’acqua, che addormenta la fioca luce, quando il sole prende la via della notte.

P.S.- Bjrëlloku; fascia scura aderente attorno al collo della sposa, con ciondolo in oro, allestito con dovizia di luogo e particolari i giorni seguenti le nozze, conferma della spartizione del dolce.

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TRATTO DA: IL TEATRO CALABRESE

TRATTO DA: IL TEATRO CALABRESE

Posted on 12 maggio 2022 by admin

Maschera calabreseNAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Nel leggere il volume su citato, colmo di spunti e fornire ragione a quanto prodotto inutilmente, per delineare un itinerario storico logico delle regioni minoritarie.

Le mille difficoltà che s’incontrano quotidianamente, ritenute un’avversità verso persone specifiche, non cambia  il peso della delusione, tuttavia,  nel leggere questo breve episodio fa comprendere che lo stato delle cose, conserva tutta l’identica radice locale, immaginabile da quanti sentono e vivono le cose a distanza riguardevole, ragion per la quale, qui di seguito viene riportato il” testo integrale” di questa antica esperienza riportata nell’edizione del 1973:

Immigrazione  calabrese

La metà del cinquecento vede una Calabria polo di attrazione della cultura rinascimentale. L’essere la Calabria nel Vice­reame equiparata ad una provincia di Spagna con tutti i diritti e conseguentemente con tutti i doveri determina un flusso immigratorio delle più qualificate correnti culturali del tempo.

Da Firenze arriva a Cosenza Tideo Acciarino. È un letterato di chiara fama e porta in questo estremo lembo della penisola l’eleganza letteraria toscana che si incontra con la con­cezione virile della vita di una gente che innesta a questo filone la raffinatezza di una Magna Grecia perennemente viva nelle azioni della pratica quotidiana. Si affina così uno spirito rina­scimentale che ricerca il bello e che considera la bellezza il canone di una vita protesa verso le più raffinate posizioni spiri­tuali Tideo Acciarino, amico del Poliziano, fonda a Cosenza una scuola che polarizza subito l’attenzione dei ceti culturalmente più sensibili. La scuola di Acciarino conta discepoli illustri quali, tanto per fare un esempio, il Parrasio che nel 1511 fonda, quale diramazione della Pontaniana di Napoli, la Accademia Cosentina, il sodalizio che vedrà le glorie di Bernardino Telesio, il primo degli uomini nuovi.

Il caso di Bisignano

Acciarino viene in Calabria su invito del Principe di Bisi­gnano. Ma Bisignano non è la Calabria. Bisignano — la Bisignano del tempo con il Principe — è la mortificazione ed è la vergo­gna della Calabria.

La ragione? In una Calabria equiparata alla provincia spagnola con tanto di diritto e tanto di dovere, in una Calabria dove la dignità spirituale è sinonimo di sana concezione della vita, in una Calabria rimasta indipendente persino allo strapotere della Spagna in virtù della saggia opera di una classe nobiliare in linea con le esigenze e con i bisogni del popolo, in questa Calabria caratterizzata ancora dalla intelligente fattività di una classe dirigente tutta protesa alla soluzione dei problemi più urgenti, il Principato di Bisignano non fa riscontro.

È un governo autoritario e meschino cui la mancanza di una classe di nobili imprime un carattere feudatario e comunque negatore delle individuali e generali libertà.

Ci si indugia a parlare di Bisignano non per l’importanza che riveste nella storia calabrese — importanza che del resto non ha — ma per la eccezionalità, ovviamente negativa, di un governo che fonda la sua effìmera potenza su un popolo inetto e vagabondo soddisfatto da una manciata di pasta e fagioli.

La mancanza di nobiltà — qui si parla della classe sociale — offre al Principe di Bisignano la possibilità di uno strapotere che arriva alle cime più assurde. È una mortificazione ed è di più la vergogna della Calabria.

Tideo Acciarino nella bella villa fiorentina confortato dalla amicizia del Poliziano pensa che Bisignano è la Calabria. Orribile illusione! Si mette in viaggio ed arriva in quella brut­tura di aggregato inurbano in una notte di tempesta. È questo Bisignano? Chiede alla sua delusione l’Acciarino.

Rispondono positivamente le galere zeppe di galeotti, le cantine fumose piene di signorotti che trascorrono il tempo ad insidiare le serve, i contadini macilenti, le botteghe scure e vuote.

Risponde positivamente lo strapotere di un Principe che esercita con mano di ferro la dittatura e la tirannia su una gente che non ha esigenza e bisogno di indipendenza. È uno squallore; uno spettacolo penoso,

Tideo Acciarino non si lascia scoraggiare.

Monta su un cavallo e varcata la valle del Crati raggiunge il giorno seguente Cosenza.

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IL CASALE TERRA DA BIZANTINO A GRANCIA SI VESTE IN ARBËR PER SBOCCIAR LATINA

IL CASALE TERRA DA BIZANTINO A GRANCIA SI VESTE IN ARBËR PER SBOCCIAR LATINA

Posted on 12 maggio 2022 by admin

SEcolo XV

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MINORANZE STORICHE NELLA PENISOLA MEDITERRANEA

MINORANZE STORICHE NELLA PENISOLA MEDITERRANEA

Posted on 01 maggio 2022 by admin

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Il tema che ha in argomento le minoranze storiche italiane non si può aprire e terminare esclusivamente in forma linguistica, racchiudendo un insieme raffinato e articolato, al mero rivolgersi in lingua altra.

Oggi nonostante numerose attività di studio, siano volte verso questa disciplina di studio, della storia Italiana, si preferisce illustrarle, senza dubbio alcuno, come esercizio monotematico.

Lo scrivente come ricercatore e discendente della minoranza approdata nel meridione italiano nel XV secolo,  “gli arbanon” a cui per spirito di appartenenza, dopo decenni di studio, supportato da titoli e titolati, in specifici ambiti di studio, suddivide le minoranze storiche, quelle resilienti, in Arbanon; della Magna Grecia e l‘Occitana, le quali  storicamente ligie a non sovrapporsi territorialmente nel corso dei secoli.

Non si fa errore alcuno nel concentrare lo studio alla sola Calabria e  rendere l’analisi riferibile a tutte le province storiche del meridione, dove si possono intercettare con facilità gli identici modelli urbani  architettonici e territoriali  della terra di provenienza.

A tal proposito per affrontare un discorso univoco e senza alcuna discriminazione, è opportuno precisare che le minoranze storiche calabresi, sono rispettivamente: i Grecofoni, gli Arbër e gli Occitani, esse rappresentano il contributo del progredire comune con gli indigeni; per la Calabria in particolare si suddivisero senza mai sovrapporsi secondo le seguenti aree geografiche: ultra ulteriore o “Gran ducato di Calabria” per i Grecofoni e citeriore, ulteriore per Arbër e Occitani.

Come citava Pasquale Baffi nel suo discorso del 1775: Gli Albanesi, che ora esistono nel Regno, e  ven­nero in diverse riprese nella fine del XV secolo, non bisogna confonderli coi Greci, eli da tempo antichissimo trovansi situati nelle nostre provincie della Calabria Ulteriore, e ne abbondano; siccome non mi ho proposto «di par­lare che delle Colonie Albanesi, così fo ammetto di en­trare in discorso de’Greci che per la loro remota anti­chità possono benissimo chiamarsi indigeni di questo suolo meridionale.

Questo breve accenno storico a ben vedere, è la base si partenza delle analisi territoriali d’insediamento; esso segna un confine invalicabile, rispetto dei luoghi dove fornirono contributo di sostenibilità economica in forma produttiva e lavorativa.

In conformità a questa premessa, va rilevato che: la Grecofona approda e resiste in quella parte della Calabria storicamente noto come  il gran ducato o il thema di Reggio Calabria; la minoranza Arbanon, si insedia nelle terre cella Calabria Citeriore e ulteriore, prevalentemente segnate dalle emergenze del credo bizantino, che guarda verso lo Jonio; gli Occitani si insediano entro la linea che fu dominio di longobardi e Normanni, verso il Tirreno.

Tutte queste per le vicende storiche in atto, nel breve periodo si diressero tutti sulla media collina, oltre i 350 m. sul livello del mare, perché erano le aree, dove le anofele perdevano la  mortale efficacia.

Lo studio tuttavia, oltre ad aver appurato i sistemi paralleli abitativi della terra di origine si è preoccupato di avere come indicatore non solo quanto sancito dalla legge 482/99, ma si è seguito l’indicatore definito dall’articolo nove della Costituzione Italiana, ovvero, i beni materiali, quelli immateriali, l’ambiente naturale e il costruito dei minori.

In definitiva, l’intero sistema di vita della minoranza, dalle metriche della consuetudine, importate dalla terra di origine, queste ultime,  dopo il breve periodo di scontro e di confronto con gli indigeni,  germogliarono in terra parallela, grazie alle attività di genius loci, secondo il modello delle città della Grecia e le tipologia Arbanon secondo i dettami della famiglia allargata Kanuniana.

Per questo il tema prodotto non ha avuto come indicatore solo, l’idioma, caratteristica non testimoniata dalla forma scritta.

La lettura è stata eseguita sulle architetture il veicolo principale della memoria; le consuetudini agricole, silvicole e pastorali per il sostentamento, secondo il vigile rispetto dal credo religioso bizantino, rigidamente dettato dal calendario che segnare la stagione del tempo lungo, “l’estate” e del tempo corto, “l’inverno”.

Partendo da questi presupposti di base sono stati indagati gli elevati abitativi, confrontandoli con  le documentazione degli atti di sottomissione depositati negli archivi.

La lettura dei documenti posti a confronto con la rispondenza in loco, di elevati e memorie storiche locali, ha definito quale sia stato il periodo dell’architettura estrattiva o del nomadismo rispetto la più sicura additiva dello stazionamento definitivo.

Con questi hanno consentito di risalire alle epoche in cui furono definiti i rudimentali ”moduli abitativi primari mono cellula” l’epoca in cui furono articolati in forma lineare e in elevato.

In Calabria numera circa cinquanta centri antichi realizzati o riadattati dalle genti di minoranza Grecanica, Arbër e Occitana, tutti riconducibili a precisi rioni, la cui toponomastica originaria utilizza il valore linguistico di appartenenza in senso di agglomerato urbano: Hòrë, Katundë e Castrum.

Momenti della storia condivisa con gli indigeni di quello che è stato l’antico regno di Napoli o delle due Sicilie, dal XV secolo, oggi nazione Italiana.

Questi primi dati hanno delineato il percorso di Indagine verso cui proseguire e segnare la storia in comune convivenza con le genti indigene.

A queste ultime senza nulla togliere è stato aggiunto una schiera di figure in eccellenza verso attività sociali, economiche, politiche, delle scienze e della cultura in senso generale.

Una vera e propria storia irripetibile d’integrazione, che definire a buon termine potrebbe apparire riduttivo in quanto, è un modello che si ripropone ciclicamente da sei secoli in ogni centro antico minoritario e solo a pochi non sfugge.

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