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LA MENSA DI FERRANTE

LA MENSA DI FERRANTE

Posted on 12 novembre 2021 by admin

La mensa di FerranteNAPOLI (di Giovanni Panzera) – Il canonico napoletano Carlo Celano  nell’opera “Notizie del bello, dell’antico e del curioso della città di Napoli per i signori forestieri”, pubblicata nel 1692, descrivendo Castel Capuano, destinato ai Tribunali del Regno, scrive: Nel cortile, presso la porta picciola vi si vede un leone di marmo, che sta sopra diverse fonticelle; e queste erano l’antiche misure del vino, dell’oglio, e d’altre cose simili, che si vendeano da bottegai.

Notizia è confermata da Giuseppe Sigismondo che nel libro Descrizione della Città di Napoli”, edito nel 1788, così narra: D.  Pietro  Toleto poi volendo unire  tutti i Tribunali, né trovando luogo più opportuno quanto il vecchio Castello di Capuana, se lo fe cedere dal Principe di Sulmona, con dargli altro Palazzo nella strada detta  della Incoronata verso il Castel Novo; con grandissima spesa lo ridusse comodo a tal’uopo,e nel 1550 vi trasportò i Tribunali, cioè la Gran Corte della Vicaria Civile, e Criminale, La Regia Camera della Summaria, quello della Regia Zecca dei pesi e misure, quello del Bajulo, ossia della Bagliva, ed il Sacro Regio Consiglio: dopo vi  fu unito anche il Tribunale del Commercio come diremo a suo luogo.

In un lato del Cortile vi si osserva un Leone di marmo sopra di un piedistallo anche di marmo, nel quale, e propriamente sotto al leone suddetto, si osservano le antiche misure di Napoli, cioè tomolo, mezzo tomolo, quadra, ecc., e vi si legge scolpito:

Ferdinandus Rex

In utilitatem Reipublice

Has mensuras per Magistros Rationales

Fieri mandavit.

Maggiori dettagli li fornisce Ferdinando Visconti, che nel testo del sistema metrico della Città di Napoli e della uniformità de’pesi e delle misure che meglio si conviene a’ reali dominj di qua dal faro, scrive: Non si conosce documento alcuno che stabilisca con precisione la grandezza de’ pesi e delle misure presentemente in uso nella città di Napoli; ma ci è noto che le dobbiamo agli Aragonesi, poiché nel cortile del Castello Capuano, ora Vicaria, esiste un gran masso parallelepipedo di marmo, ove sono incise ed incavate le varie misure che dovevano servire da archetipi in tutto il regno. Le misure incavate sono ormai così guaste che nulla si può trarne sulla vera e precisa loro capacità; e le misure lineari non più vi si scorgono perché logore affatto, rimanendovi soltanto qualche indizio di esse e delle di loro denominazioni.  Quelle  misure  furono  in  tal modo determinate e conservate come originali campioni, ed autenticate con una iscrizione in parte or logora ma che abbiamo tratta da una memoria sulla uniformità de’ pesi e delle misure diretta nel 1787 a Ferdinando I di gloriosa memoria dal chiarissimo Melchiorre Delfico.

L’iscrizione è la seguente;

FERDINANDUS . REX . IN . UTILITAT

EM . REI . P . HAS. MENSURAS . PER . MAGIST

ROS . RATIONALES . FIERI . MANDAVIT.

È questi Ferdinando I d’Aragona che successe ad Alfonso I il magnanimo, e che regnò dal 1458 al 1495.

Sul marmo suaccennato vi erano scolpiti gli stemmi aragonesi, che appena vi si distinguono presentemente.

Ma nel 1856 nel cortile di Castel Capuano si ritrova il solo leone poggiato a terra. Giovanni Battista Chiarini, infatti, nel ripubblicare l’opera del canonico Carlo Celano con aggiunte de’ più notabili miglioramenti posteriori fino al presente estratti dalla storia de’ monumenti e dalle memorie di eruditi scrittori napolitani, nel descrivere dettagliatamente Castel Capuano, così afferma: Nel fondo del cortile al lato d’oriente vedevasi un basamento di marmo con alcuni piccoli vasi, ai quali sovastava il geroglifico  simulacro  d’un  leone,  indicante  esser provvedimento di Re Aragonese, perché in realtà il nome del primo Ferrante tuttavia si legge in questi sensi:

FERDINANDUS . REX

IN . UTILITATEM . REIPUBLICAE

HAS. MENSURAS . PER . MAGISTRATOS . RATIONALES

FIERI . MANDAVIT.

Or è d’uopo sapere, che questo allegorico simbolo esprimeva il potere della Polizia Municipale sull’economica distribuzione delle nostre misure del vino, dell’olio e di altri liquidi ed aridi, che da’ bottegai al popolo si vendevano.

È tradizione che tali fossero le antiche nostre misure, quali erano quei recipienti incavati a piè del leone.

Per buona sorte nella distruzione dei nostri patrii monumenti, questo marmo fu salvato; che se vediamo tuttora a terra dimenticato il leone (di ben ordinario scalpello) il cippo trovasi custodito nel R. Museo Borbonico, dove fu trasportato nei primi mesi dell’anno 1849.

Savio divisamento fu questo ove si consideri, che se il passo geometrico di ferro fu, come dicemmo, incastrato in una delle colonne del Duomo acciò inviolabilmente custodito vi rimanesse; e se le misure in discorso furono collo stesso fine collocate nella corte del Palagio di Ma nel 1856 nel cortile di Castel Capuano si ritrova il solo leone poggiato a terra.

Giovanni Battista Chiarini, infatti, nel ripubblicare l’opera del canonico Carlo Celano con aggiunte de’ più  notabili  miglioramenti  posteriori  fino  al  presente estratti dalla storia de’ monumenti e dalle memorie di eruditi scrittori napolitani, nel descrivere dettagliatamente Castel Capuano, così afferma: Nel fondo del cortile al lato d’oriente vedevasi un basamento di marmo con alcuni piccoli vasi, ai quali sovastava il geroglifico  simulacro  d’un  leone,  indicante  esser provvedimento di Re Aragonese, perché in realtà il nome del primo Ferrante tuttavia si legge in questi sensi:

FERDINANDUS . REX

IN . UTILITATEM . REIPUBLICAE

HAS. MENSURAS . PER . MAGISTRATOS  . RATIONALES

FIERI . MANDAVIT.

Poiché non sono riuscito a trovare immagini o disegni, mi son messo in giro alla ricerca dei tre pezzi: il leone, il passo geometrico di ferro e la mensa ponderale.  

In verità ho rinunciato ben presto al leone perché essendo di ben ordinario scalpello potrebbe  essere  finito  ovunque  ovvero  in  nessun luogo e, considerando che la città di Napoli, tra luoghi pubblici e murature o giardini privati, è ricca di leoni, in mancanza di qualsiasi indizio, sarebbe più arduo che cercare un ago in un pagliaio.

Il passo geometrico di ferro (passus ferrus) l’ho visto. Si trova incastrato nell’ultima colonnna destra della navata sinistra del Duomo. D’altro canto lo stesso Carlo Celano, nell’opera già richiamata, descrivendo la Cattedrale, scrive: Ed in  una  colonna  scannellata di bianco marmo, che sostiene il primo arco dalla parte del Coro, vi si conserva il passo geometrico Napolitano in ferro: in modo, che negli antichi istromenti, quando si vedeva qualche Territorio da misurasi, si diceva: Ad passum Sanctæ Ecclesiæ Neapolitanæ.

Prima di procedere alla ricerca della mensa ponderale, un parallelepipedo di marmo piuttosto pesante, mi son fermato a considerare qualche data.

L’apparato fu realizzato durante il regno di Ferdinando (o Ferrante) I d’Aragona, che divenne re di Napoli nel 1458 alla morte del padre Alfonso I.

Pochi cenni biografici dicono che era l’unico figlio maschio di Alfonso I il magnanimo, ma, ahimé!, illegittimo; il padre non si perse d’animo: lo legittimò e lo fece dichiarare erede al trono, ottenendo anche l’assenso di ben due papi, Eugenio IV e Niccolò V.

Non c’è da meravigliarsi: erano i tempi.  

Lo stesso Ferrante ebbe due mogli, otto figli (sei dalla prima e due dalla seconda) e un numero imprecisato di figli illegittimi

Per metà era napoletano, perché la madre, Gueraldona Carlino, era di origini partenopee.

Regnò per 36 anni fino alla morte nel 1494.

Riprendo la ricerca della mensa e mi reco al Museo Archeologico, dove Giovan Battista Chiarini afferma che è stata trasportata nei primi mesi dell’anno 1849.

Non c’è. Che fine ha fatto? Nessuno lo sa dire.

Io sì. L’ho trovata, poco distante da dove doveva essere: è sistemata dinanzi all’ingresso dell’Istituto Paolo Colosimo per ipovedenti, che prospetta sulla facciata settentrionale del Museo Archeologico, ma a una quota nettamente superiore.

Chi l’ha fatta trasportare in quel luogo e perché e quando? È all’aperto, senza alcuna protezione e appare in condizioni più precarie di quelle descritte dal Chiarini (maltrattato dal tempo e quasi distrutto).

Sul piano superiore sono scavate otto semisfere di diverse dimensioni, delle quali alcune, quelle destinate ai liquidi, hanno un foro di scolo sulla faccia   laterale più piccola

Su una delle due facce laterali più grandi sono riportate a rilievo due anfore biansate per la misura del vino e dell’olio.

Sulla faccia opposta vi sono tre stemmi: in quello centrale si riconoscono le armi degli Aragonesi.

Sopra gli stemmi vi è la scritta su tre righi già letta nei libri degli storici, dei quali solo il Visconti riporta correttamente anche gli accapo, ma che confessa di non essere riuscito a leggerla bensì di averla riportata da una memoria del 1787 di Melchiorre Delfico.

Dall’iscrizione, però, è stato scalpellato il nome del re (FERDINANDUS  REX), a mo’ di damnatio memoriae.

Troppe incognite circondano ancora questo pezzo di marmo, che gli studiosi sono certamente in grado di derimere.

L’importante è averla individuata, onde procedere al più presto al suo ripristino, essendo una testimonianza unica di un periodo storico fondamentale per lo sviluppo della città di Napoli e della sua società.

La sua sede naturale è il cortile di Castel Capuano

 

 

 

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11-11-1799: ANCORA NON CAMBIA L’ANIMA DEL igNOTO TRADITORE

11-11-1799: ANCORA NON CAMBIA L’ANIMA DEL igNOTO TRADITORE

Posted on 10 novembre 2021 by admin

01 - RaccontiNAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) – Aver dato se stessi per ideali di un nuovo pensiero civile e culturale, incassando il titolo di una strada, una lapide e un busto a memoria dai suoi gjitoni, denotano quanta gloria, dopo oltre due secoli, sia inghisata nella figura e il ricordo di Pasquale Baffi, l’uomo più colto, sapiente, gentile e garbato della discendenza Arbéreshè.

Poco o nulla si conosce di eventuali atteggiamenti in forma di protesta di stati generali, i luoghi di pensiero minoritari cui apparteneva o gli eventuali titoli prodotti dagli anni sessanta del secolo scorso dai concittadini ormai tutti scolarizzati.

Dopo la battaglia di Vigliena del 28 giugno del 1799 e il conseguente ordine di arresto, disposto dal vertice dalle autorità; eseguito la fine di luglio definitivamente, è iniziato  un estenuante calvario, protratto per altri tre mesi, durante i quali, ha germogliato il protocollo del più vile tradimento, dopo quello dei trenta tre danari.

Solo per una ricompensa,  di poche decine di ducati, oggi poco più di sessanta euro; il valore della viltà, per quanti, sedevano sui bordi del “lavinaio”,  a dirigere.

Lo stesso luogo  tra i più insani del mediterraneo arbëreshë, lì, dove le cose false , riportate per nome e per conto di figure altre, amalorano ogni cosa, appartenenti alla memoria e al buon senso arbëreshë.

Lo stato di malafede e senza alcun principio morale o religioso, valorizza l’ambasciatore di pene, accolto da quanti le notizie non le sottopongono neanche al ragionevole dubbio, loco di virtù  assente, nonostante doveva essere  spazio di coesione sociale.

Seguirono nel corso di questo stato di cose, un numero imprecisato d’illusioni, offese, umiliazioni, cattiverie, disposte, da vili figure, sin anche nei confronti della moglie e i figli dell’illustre uomo di pensiero libero.

Il conseguente trasferimento, quel Novembre del 1799, quando, il generale della suprema corte condanna l’illustre e libero pensatore “per colpe riportate da generi vilmente allevati”.

Definendo eseguirsi la sentenza lunedì, undici corrente novembre, si diede luogo a quanto stabilito dagli organi preposti, conducendo l’illustre e libero pensatore, nella struttura, davanti il Palazzo di supplizio senza fine.

L’ordine, in oltre, precisava che si doveva predisporre le truppe per accompagnare al pubblico patibolo, disponendo, preventivamente pattuglie per le vie e le piazze del borgo, onde evitare ogni genere di contatto o adesione in favore della colta figura .

Così dopo la falsa apparizione di gjitoni e germani, il giorno 11 novembre, verso l’ora “diciassettesima e mezzo”, in otto coppie vestite a festa escono, dalle porte dei palazzi, regine del fuoco povero; e verso l’ora “diciottesima” di quel dì, mentre la madre dell’ignoranza  gioiva e ballava divertita, come i turchi con le resta del Castriota portavano per le terre in trionfo al grido; “ abbiamo fatto fuori, un altro”.

Da quel momento in poi, liberi da ogni genere di figura, si vestono da attori protagonisti; il valere della corona va avanti, certa che alcun antagonista si schiera in difesa del libero pensatore.

Le date e le tappe che ricordano quella storia che denota il cattivo gusto dalla corte reale, originaria dove i generi hanno solo “in dote la casa”, si articolarono così come segue:

– giugno segna la svolta; inizio di un’epoca buia;

– agosto il tempo del tradimento e della china senza fondo;

– settembre il tempo per violare il patto di unione;

– ottobre viene sprecato per sciupare le tracce del costruito storico;

– novembre la fine del riscatto: il ritorno a essere come un tempo casale;

La storia si ripete imperterrita il 13 giugno, sino l’11 novembre; un Pasquale Baffi è sempre, basta ripetere, fatti e gesta; germogli che non smettono di compromettere il grano buono; la falce del “potere” protagonista, fa da giudice e testimone, in favore del fatuo, nel mentre il buon grano è lasciato lontano dalla filiera della mietitura, sperando non germogli più.

Pur consapevoli che le madri vestite di raso, conoscono quali sono i germogli del grano che lievita e fa crescere il pane buono e pur se poco non manca mai, giacche, sufficiente a  garantire domani migliori, in certezze e cose garbatamente tramandate.

Per finire e aprire un nuovo stato di fatto, è opportuno precisare che Pasquale Baffi rappresenta il più alto emblema culturale e di pensiero della minoranza storica arbëreshë, noto  “non”  ad aver scritto discorsi, trattati in tema sociale, perché, quanti idoneamente formati, ogni volta che sentono o leggono i temi citati, quale farina buona di altri favellanti, sanno che il sacco di grano buono, da cui è stato prodotto, appartiene all’illustre e libero pensatore Sofiota.

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LE COSE ARBÈRESHÉ CHE MI COMPLETANO. (Shiurbisetë arbèreshé cë më varrògnènë)

LE COSE ARBÈRESHÉ CHE MI COMPLETANO. (Shiurbisetë arbèreshé cë më varrògnènë)

Posted on 07 novembre 2021 by admin

Colombo

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – È solito leggere trattazioni riferite alla Regione storica Arbëreshë, comunemente appellata Arberia; argomenti estratti da carte archiviate, interpretate da ignari senza titolo o formazione, famosi alla ribalta storica come referenti di luogo, epoca e uomini senza tempo.

Non si trova trattazione che abbia esposizione semplice in forma d’inizio, uno svolgimento e conclusione, frutto di studio e quindi assunzione di responsabilità degli argomenti trattati, perché vi è sempre la forma espositiva per conto e per nome di altri.

Tutto è trattato per sentito dire o per atti e capitoli, il più delle volte indicatori di altre cose, altri avvenimenti e altrui fatti, i quali pur se importanti, non servono quale supporto ai discorsi intrapresi e divulgati sulla storica minoranza.

La favola più assurda è comunemente riferita nel corso da secoli,  dipingono  gli esuli con le braccia stese verso il cielo, inneggiando una favela ignota(????????).

Mai immagine più  banale e senza senso è stata riferita per conto degli arbëreshë, nonostante altre figure della storia quali Cristoforo Colombo, eseguisse lo stesso rituale  nell’approdare, alla fine dei viaggi; stessa postura, se proprio vogliamo analizzare l’immagine di luogo, di fatti, di uomini e credenze, quella favella ignota, rivolta verso il cielo era  sempre una semplice preghiera.

Partendo dal presupposto che s’inneggia al cielo, per ringraziare nostro Signore, specie chi viaggiava per mare era un rituale normale; così come gli arbëreshë  accompagnati  da  preti ortodossi;  come riferimento di credenza, come ben noto,  ragion per cui, non dovrebbe essere tanto ignota la favella, negli approdi della Sibaritide luogo di Antica Grecità.

Se a questo aggiungiamo l’enunciato caratteristico e caratterizzante la minoranza Arbëreshë nell’identificarli per esigenza della legge 482, ovvero, “la Gjitonia”, identificato come  mero “Vicinato Alloctono”.

Chi ha prodotto un inopportuno postulato avrebbe almeno dovuto essere un  parlante e rappresentante la consuetudine della minoranza, non un intervistatore accompagnato da giovani inesperti.

Se poi volessimo approfondire uomini, fatti della storia, le cose materiali e immateriali definiti dal genius loci, finiremmo in una palude da cui non si emerge aggrappandosi alla sola ancora dell’articolo sei della costituzione.

Specie chi va per mari non ha solo bisogno di un’ancora a “6”pollici, ma ci vogliono le “3”caravelle e  orizzontamento e testa le “9”cose indispensabili.

Oggi quello che più attrae sono il numero imprecisato di migrazioni, le quali per la variabile d’inizio, svolgimento fine e ritorno a casa, sembrano più caratteristica di un cambio sequenziale di velocità, ovvero: I° – II° – III° – IV°- V° – VI° – VII° e VIII° oltre Retro marcia  per tornare alle origini.

Le migrazioni nel fiume Adriatico, sin dove intercetta il mare Ionio, sono una costante che non ha tempo, sminuirle in maniera numerica, offende quanti studiano per realizzare le diplomatiche di coerenza storica, con formazione e titoli, il cui fine è la conoscenza e non il miraggio del palcoscenico dei media.

Se poi dobbiamo dare un senso storico alla venuta degli Arbanon, definiti Arbëreshë dalla storia, diventa fondamentale porre l’accento su ogni trattato della storia di quest’antico popolo, che per alcuni ha vissuto in forma di eroi, cavalieri e figure senza macchia.

Gli Arbëreshë, non sono figli illegittimi dell’antica Grecia, anzi, magari è il contrario; tuttavia, notoriamente si fa riferimento all’eroe Giorgio Castriota, non certo residente o appartenente al meridione d’Albania,  terra suddivisa storicamente in numerosi, governarati.

Come può essere possibile che le genti di una regione  scenario di scontri violenti e cruenti, vede sono la parte meridionale emigrare, mentre le altre, del centro, del settentrione,  oriente e occidente, imperterriti attendono  il terminare delle ostilità candidamente.

Il terzo millennio è iniziato, la tecnologia grazie alla connessione diffusa raggiunge ogni dove, per chi ha voglia, nel tempo di un’estate Arbëreshë, può acquisire dati, con lo scopo di tracciare  tempo e genti, provenienti dalle sponde inospitali a est dell’Adriatico.

Quando la parabola dell’impero romano con capitale Costantinopoli ha iniziato la china, questa contrapposizione di forze ha determinato due fronti, i quali trovarono il fulcro di frizione nelle terre oltre adriatico, e da questo momento, si sono formate onde di risacca latente di esuli.

Prima come soldati mercenari, poi in assetto di contadini, artigiani, cavallerizzi e uditori, in tutto come forza certificata, avente tutte la caratteristica della partecipazione del gruppo familiare di appartenenza tutto, come erano organizzati gli stradiotti a i tempi del Romano Impero.

Se di migrazione si deve parlare, essa è una sola; essa ha luogo dal 1769 al 1502, tempo in cui la moglie, dell’eroe Giorgio Castriota, Donica Comneno Arianiti, si stabili a Napoli, in forza del patto dell’ordine del drago, al fine di tutelarla sia dal punto di vista fisico e sia economico l’emblema  regina e la prole di quanti capitolavano in battaglia.

Se ancora oggi si continua ad indicare in forma sequenziale, sin anche la fine dell’impero romano con le navi del Doria, con qualche sparuto gruppo di arbanon e  nel settecento la forza della Real Macedone voluta da Carlo III° e il segno di una storia che si vuole imporre, ma priva di forma e notizia migratoria.

In conformità a questi espedienti, se escludiamo la visita di Giorgio Castriota nel meridione, la vicenda di accoglienza della Moglie Donica Arianiti Comneno, il disegno di una svolta storica, definibile come arretramento di fronte di quelle frizioni storiche che da adesso in poi vaporizzano nel breve tempo, il resto sono vicende riferibili ad altri temi, che non fanno storia.

Sono episodi comuni senza ne luogo e ne tempo; essi lasciano il tempo che trovano, cosa ben diversa sono gli atti posti in essere, le disposizioni e i luoghi di allocamento, prima in forma estrattiva o dei materiali deperibili (periodo breve del nomadismo) e poi in forma additiva e dei materiali inalterabili, epoca della residenza (periodo lungo della residenza storica).

Se a questo associamo i quartieri storici che legano tutti gli oltre cento paesi di origine Arbanon e il modello sociale dei cinque sensi, muoversi all’interno dei centri antichi Arbéreshè è molto semplice e facilmente navigabili.

Tutto poi è consolidato dalla lettura del vestito da sposa femminile della macro area citeriore Ionica, un libro di temi consuetudinari realizzato in forma di vestizione, esso contiene tutti gli intervalli di continuità storica della minoranza, conservati in tutti i punti di unione fatti con filo e ago.

Queste  cose, sommate, all’eredità in forma di costume, consuetudini e appuntamenti dell’estate e dell’inverno Arbëreshë (Moti i Madë e Moti i Viker)  completano la formazione culturale di ogni buon addetto che studia la conservazione delle tracce storiche, con il fine di offrire  solidità alla lettura, alla traduzione poi resa disegno, progetto di ogni elemento finito, che vede protagonisti gli Arbëreshë (Shiurbisetë arbèreshé cë më varrògnènë)

Per concludere le figure che oggi servono sono lo storico e il progettista, esponenti inscindibili secondo il teorema, per il quale: 

  • lo storico che camminare all’indietro; con lo sguardo rivolto  al passato; di fianco il presente; spalle al futuro.
  • il progettista  procede in avanti; futuro di fronte, il presente a fianco e la storia alle sue spalle.
  • Vale Vale, sino alle albe che seguono i tramonti che verranno.

 

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