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PER QUESTO DELOCARONO IL COLLEGIO CORSINI (1792)

PER QUESTO DELOCARONO IL COLLEGIO CORSINI (1792)

Posted on 25 maggio 2021 by admin

NAPOLI (di Atanasio Pizzi  Basile) – La minoranza che vive gli ambiti culinari del meridione dell’Italia, nota come arbëreshë, comunemente è posta alla ribalta quale fenomeno immateriale linguistico, senza alcun flebile atto di forma materiale se si escludono le eccezioni sartoriali oltre le attività di rito greco, alessandrino.

Non si fa menzione del genius loci e  del costruito, né della metrica canora quale sorgente fondamentale dell’atto idiomatico, pur non avendo storicamente alcuna forma scritta.

Da questi brevi accenni e inconfutabile, il dato che la confusione vegeta e si auto rigenera sovrana; giacche pochissimi sono in grado di intraprendere una rotta coerente, in grado di fornire elementi utili e senso al passato, al presente in solida coerenza per un futuro sostenibile.

Ritenere che la minoranza storica si tale, perché, parla diverso, sminuisce e traduce secoli di storia in un fenomeno da baraccone che si esibisce senza traccia.

Per questo è il caso di invitare quanti si occupa della trattazione degli ambiti della regione storica, di avere adeguata professionalità e particolare dedizione, nel trattare gli argomenti senza errori, rispettando la scaletta qui di seguito riportata:

  • Realizzare un vocabolario Italiano Arbëreshë, che riporta il corpo umano e gli elementi prossimi a consentire la sua sostenibilità.
  • Indagare il modello urbanistico diffuso, tipico delle città aperte, sulla base dei quattro rioni fondativi che uniscono gli oltre 110 centri antichi, di simili origini, allocati nel meridione italiano.
  • Estrapolare il tipo abitativo, che ha risposto e contiene il riverbero e le necessità storiche degli arbëreshë.
  • Produrre il postulato unitario per il modello sociale noto come Gjitonia.
  • Tracciare le alternanze religiose, poste in essere nel corso dei secoli, oltre tutte le inquietudini imposte, per giungere alla quiete della credenza.

Non è più tempo di vagare, alla ricerca di vicende storiche, protocolli o eventi sociali, negli archivi; è il tempo di studiare i luoghi, attraversati, bonificati, per essere vissuti e valorizzati secondo il modello kanuniano arbëreshë.

Smettere di andare a Barcellona, Madrid, Vienna ,Venezia e ogni altro capitale europea o americana per cercare atti di ambiti costruiti arbëreshë, la storia si cerca scavando con pala e piccone, li dove è stata resa sterile per inadempienze culturali di tutela.

Chi sa fare ricerca, la faccia a casa propria prima di tutto, non in casa di altri, tanto più lontano si va a cercare e meno si sa della propria radice.

Il costume arbëreshë, quello originario della macro area della media valle del Crati, è stato scritto secondo il lume del Collegio Corsini, prima e appena trasferito nel 1794, per comprenderlo serve solo sfogliarlo, leggerlo e riportarlo con garbo, perché non è trascritto in nessun loco, il vestito stesso è il trattato.

Quest’ultimo punto non perché meno importante, è stato elencato per ultimo, proprio perché argomento di questo breve secondo l’itinerario qui di seguito riportato..

Quando il collegio Corsini fu istituito, aveva quale fine la formazione del clero per accompagnare nel corso della vita terrena gli arbëreshë, avendo come fine le attività in senso prettamente culturale.

Tuttavia trascorsi circa due ventenni, chi sedeva a capo dell’istituzione, si rese conto che quanto predisposto in origine era grossolano e non avrebbe condotta verso i risultati attesi di completa identificazione sociale e religiosa.

Infatti, serviva formare anche fuori dal perimetro religioso, attività secondo canoni identitari che potessero trovare conferma, nelle attività clericali.

Quale migliore momento di unione tra chiesa e ambiti laici potevano essere inglobati, se non nell’atto dell’unione matrimoniale e il suo protocollo, prima, durante e dopo l’avvenuto rito.

Il matrimonio più di ogni altra cosa rendeva solida la chiesa e lo scorrere del tempo nelle attività sociali, il costume a questo punto doveva essere il trattato religioso e civile, in cui tutti, senza distinzioni di sorta, dovevano riconoscersi e rendersi partecipi al vivere comune.

Attività consuetudinarie emblemi identificativi, colori, momenti di unione e ogni sorta di struttura in forma di arte sartoriale, racchiudevano la credenza dei generi, nel vivere civile e nel momento di riconoscimento religioso.

Il Collegio Corsini dal 1792 diventa un emblema non solo religioso ma un’identità locale attraverso cui riconoscersi e identificarsi in colori gesta e simbolismi, che finalmente univano gli arbëreshë sotto la stessa luce, divina e solare.

In conformità a queste considerazioni storiche, è palese la ricostruzione che è stata fatta del costume arbëreshë, i cui emblemi le virtù della donna, la trama per diventare donna, la figura maschile primaria, ovvero il padre primo guardiano delle diplomatiche della purezza, lo sposo marito e le diplomatiche della inviolabilità, il confine tra generare ed allevare, la ramificazione della fonte, la chioma regina, tutti avvolti e segnati da trame dorate, temi sartoriali bene auguranti di un fuoco familiare che non si deve spegnere mai.

Sono tutti elementi che quanti si dovessero trovare al cospetto della sposa  arbëreshë, sono di facile lettura, ed è inutile ipotizzare che le risposte di questo manufatto, unico nel suo genere, possano esse trascritte nel documento notarile prodotto nelle aule del Corsini, depositato a Barcellona, quando magri a gestire quei territori era Parigi Capitale.

Il costume arbëreshë della macro area della media valle del Crati, non è un componimento sartoriale nato solo ed esclusivamente da consuetudini sociali e religiose.

Esso rappresenta è un componimento ragionato tra i più sopraffini del mediterraneo, è un tema, anzi una diplomatica storica di radici antiche senza eguali,.

Quanti hanno capacità di osservarli perché conoscono la storia, riescono brillantemente apprezzarne il valore, gli altri, i comunemente, alla vista di una tale opera senza eguali, sanno solo umiliarla indossandola male o consumarne i confini senza alcuna cognizione, perché non sanno cosa dicono e non hanno null’altro da fare.

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DALLE CITTÀ, SI TORNA A RESPIRARE CON LA FILIERA CORTA DEI CENTRI RURALI DIFFUSI

DALLE CITTÀ, SI TORNA A RESPIRARE CON LA FILIERA CORTA DEI CENTRI RURALI DIFFUSI

Posted on 23 maggio 2021 by admin

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NAPOLI (di Atanasio Pizzi  Basile) – La fuga dalle Metropoli, consigliata da quanti, le allestirono, con quartieri e rioni senza identità, palesa in che misura si conosce la storia, visto che  sommariamente suggeriscono di correre verso il buio medioevale dei “Borghi”.

Quanti attraverso i media riferiscono di allontanarsi dal purgatorio metropolitano, indicando quale alternativa ideale l’inferno medioevale,  denota quale impegno in fase formativa hanno seguito in campo storico e sociale, al punto tale da ignorare l’esistenza dei paradisi abitativi minori, dove ha trovato loco ideale, il trittico mediterraneo.

L’incauto, suggerimento evidenzia la non padronanza storica e lessicale di quanti si riconoscono nella categoria degli ” archi crusconi” notoriamente irrispettosi dell’Accademia Sopraffina.

Nasce così la parabola antropologica senza ne storia e ne radice, ideata per contrastare il senso della storia e la cultura locale, ben prima della Pandemia, iniziasse a evidenziare la deriva. 

Se le stesse figure, ancora oggi, sono in prima linea a dispensare consigli secondo i quali, è opportuno corre  verso i luoghi meno adatti alle esigenze del “nostro prossimo futuro”,  indicando soluzioni in muri classisti e fossati invalicabili per gli uomini normali, non è certo un bel consiglio.

Gli “archi crusconi stellati” dopo aver allestito boschi verticali, al nord, foresta d’acciaio che generano d’ombra, al sud, boschi multi piano e ogni sorta di alchimia mediterranea, oggi allestiscono senza titolo il progettano preliminare, per il futuro; e alla luce di ciò, non sarà certamente roseo, se prodotto sulle ceneri dei borghi del medio evo.

Oggi bisogna concentrarsi e leggere le nuove forme sociali all’interno dei piccoli centri antichi, non come  gruppo di nostalgici compagnoni, con il cuore sagomato sull’estate del 1967, epoca che doveva cambiare tutto, facendo solo ed esclusivamente il contrario del corrente vissuto.

La deriva di ciò ha inizia quando nel tempo dell’industrializzazione, furono costruiti gruppi di residenze, rioni/quartieri in prossimità degli insediamenti industriali, in forte ascesa, con una solida ragione esclusivamente economica.

In seguito, per la crescita sociale, si ritenne continuare con lo stesso accatastamento di individui, avendo cattiveria sufficiente, per sottrarre la fonte industriale e raggiungere l’ironico traguardo privando i rioni sin anche dei minimali sistemi di collegamento, innescando così la ribellione del malaffare organizzato, la cui risposta sociale al questo fenomeno si concretizzò nel costruire i carceri di prossimità sub urbani.

Trovandosi, adesso, ad abbandonare le città, quale peggiore modello indicare, se non quello ancor più buio e dismesso, proprio  perché non in grado di rispondere alle strette necessarie medioevali, noti oggi in appellativo di ” Borgo”.

Il frettoloso percorso concettuale a ritroso, immaginato senza respiro, non lascia spazio alla ragione e alla storia, perché dalla fine del secolo scorso, è andata ad affermarsi la cultura diffusa, in forma  più turistica che paesaggistica sostenibile, dove si è mescolata ogni cosa per meglio operare disinvoltamente.

L’evidente risultato porta a essere comunemente abbagliati dalle stradine storte e massiccia di pietra, il profferlo a stringere vichi, il rudere archeo-religioso, in tutto, elementi sminuiti del valore e le sofferenze sociali, considerando ogni cosa come alternativa benevola, al martoriato respiro cittadino.

Appena è stata negata la libertà di fare viaggi esotici, anzi direi ultra-turistici, ci rendiamo conto da dove siamo venuti e ci inginocchiamo al nostro patrimonio genetico-architettonico, promettendo di tornare alle abitudini, di cibi,  regole e tempi di una realtà che non abbiamo mai studiato se non per sentito dire, pur avendole avute da sempre alla nostra portata.

Il modello alternativo tanto diffuso noto come “Libertà di espressione e pensiero” ci ha fatto precipitare, in una Metropoli diffusa, che solo oggi, nel costatare il danno prodotto, ci fa correre indietro sperando di recuperare il danno prodotto.

Sicuramente la priorità delle cose, le arcaiche privazioni, la fatica per mangiare, il disagio quotidiano e le consuetudini che sopravvivono, li dove la campagna ancora riverbera suoi, valori, attività e cose antiche, non posso essere certamente ricordate da quanti non sanno perché “arche di crusca”  e sanno comunemente solo di borghi.

Sono proprio loro a non rendersi conto, che abbiamo vissuto, abitato e prodotto, economia, per millenni in luoghi senza frontiere e prospicienti la campagna, ambiti minori che diedero la radice alla città, la quale divenuta arroganza credeva di poter essere migliore e sostituirsi a ogni cosa.

Solo oggi diventa ipotesi esistenziale da utilizzare, quale prospettiva, in grado di offrire spazi e luoghi alle nuove energie, idee, forme sociali e aggregative, che prima di essere violate, andavano riproposte, rese note  con parsimonia, garbo e nel pieno rispetto della storica consuetudine.

Sono gli archiRè e quanti hanno visibilità in prima linea che si pone l’invito ad essere rispettosi della storia, prestare attenzione a quanto   dicono e propongono, specie quando,alternativa alle città metropolitane è il comunemente Borgo.

Scappare dalle città metropolitane dove la storia moderna ha raggiunto il suo apice di sostenibilità, per raggiungere i borghi che segnarono il confine tra vita e natura è come scappare dall’olio moderno della padella e cadere nella brace del fuoco camino.

La soluzione: sta nel mezzo e si chiama “paesi diffusi”, luoghi senza murazioni e ne fossati, in quando centri minori costruiti secondo le disponibilità della natura, quando facilita l’opera dell’uomo, il genio locale, questa è la vera rinascita a cui gli uomini e le espressioni dell’architettura, nota la storia, dovrebbero indicare.

È terminata l’era della “brigata degli archi crusconi” non è più il tempo di sintetizzare ogni cosa, tralasciano epoche, espressione artistiche, in forma di urbanistica e architettura per le esigenze degli uomini che rispettavano luogo ambiente, natura e società.

Nel terzo millennio una vite, un ulivo e una distesa di cereali sono la garanzia sostenibile lasciata in eredità dai nostri nonni i quali, bonificarono, la campagna grazie ai piccoli centri minori delle colline del meridione, gli stessi che oggi vorremmo abitare da post-cittadini, perennemente interconnessi, e mediatici, pronti a calpestare ogni cosa come di sovente fanno “gli archi crusconi”.

Un progetto di insediamento urbanistico che è anche una sorta di programma di ri-educazione etica ed estetica, non è impossibile da realizzare; tuttavia deve partire dai centri antichi di origine arbëreshë che ancora resistono nelle colline del meridione italiano e possono essere utilizzati come radice benevola.

Il post- Paese, Frazione, Poggio, Casale, Castro, Motta, Villaggi, Vico, Contrada, Shesho o Katundë non sarà più quello che è stato per secoli, perché i componenti la gjitonia, quelli che si confrontavano secondo le regole dei dei cinque sensi, i cui confini arrivavano sin dove la vista e la voce, adesso dovranno essere supportati delle innovazioni digitali, avendo ben chiaro sempre il tema primario dei loro confini identificativi.

L’urbanistica delle grandi e piccole dimensioni, deve fare i conti con una nuova sequenza di flessibilità che riguardano tutte le attività umane, sia nel luogo abitato e sia nel luogo produttivo, filiera corta sostenibile e rispettosa dei tempi e le peculiarità di un ben identificato territorio.

Possiamo immaginare che gli insediamenti originari possano dar luogo a forme dialettiche innovative oggi impensabili, e parti di città tornino ad essere centro antico, riverberando nella costellazione disseminata sul territorio circostante diventino,” poli sostenibili di un programma diffuso”.

Il fine deve mirare ad attinge dal modello originario attraverso cultura locale, sulle forme più ambite di ricettività ambientale e soprattutto la celebrazione costante del sistema agro-alimentare detto trittico mediterraneo.

Solo se saremo in grado di attuare il duplice sistema progettuale: ambientale e urbanistico, potremmo ambire a valorizzare tutto il territorio collinare, creando il più imponente piano di investimento della storia di questo paese, con la conseguente eliminazione di una consistente fascia di disoccupazione (giovanile e senile), ma per questo ci vorrebbe un’istituzione come è avvenuto ogni volta che nel nostro paese si sono mosse le persone capaci, non quelli che valgono uno, ma che sanno come fare almeno il doppio.

Naturalmente questo è un sogno che non tiene conto delle complessità politiche e culturali di un paese frantumato e confuso ma, come è avvenuto per gli arbëreshë dal XV, i quali senza risorse e con la sola forza delle braccia e della mente, hanno costruito un modello sociale che ancora è vivo e pochi conoscono, luoghi socialmente sostenibili, capaci di superare senza problemi, sin anche i travagli dell’integrazioni diventando per questo i più solidi centri antichi del mediterraneo.

Un modello da cui partire per ricomporre il vocabolario dei piccoli centri antichi, della campagna, e del loro coesistere all’interno di un diverso sistema antropocentrico e ambientale, senza gerarchie e conflittualità da riversare e dare sollievo alle città.

Una nuova “geografia prima di tutto sociale, più economica e urbanistica, espressione di valori”, capaci di tutelare la qualità dei territori, la vera eredità di ogni buon cittadino dei tempi passati odierni e futuri.

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LA FAVILLA MADRE, NELL’ALTARE DELLA KALIVA ARBËRESHË

LA FAVILLA MADRE, NELL’ALTARE DELLA KALIVA ARBËRESHË

Posted on 19 maggio 2021 by admin

Annetta1NAPOLI (di Atanasio Pizzi  Basile) – Il monte Olimpo con le sue figure più rappresentative ha ispirato storicamente le vicende e le consuetudini degli arbëreshë nel corso della storia sin anche gli aspetti più reconditi della tipica consuetudine.

Prima di attingere e presentare come mitico personaggio Giorgio Castriota, raffigurato nelle gesta e gli emblemi di difesa, è opportuno delineare cosa abbia caratterizzato la definizione, durante lo scorrere del XVIII secolo, degli elementi caratteristici e caratterizzanti il costume della pre-Sila, in media valle del Crati.

In questo breve si vuole rilevare cosa rappresenta, il panno in porpora(Panj), che la signora Annina F. da Santa Sofia, (in figura), porta avvolto sul braccio sinistro, storico messaggio di consuetudine per ogni moglie e madre, regina del fuoco domestico.

Premesso che il costume della media valle del Crati rappresenta la radice, in forma di arte sartoriale, o meglio, atti di credenza civile è religiosa, arbëreshë; è un identificativo completo della sposa, moglie e madre, rispettivamente arco di tempo a seguito del quale  all’interno del perimetro costruito, dove vive la famiglia, diverrà  il luogo dove la donna, sposa e poi madre assumerà il ruolo di regina del focolare .

Lei come, Hestia, la prima figlia di Cronos e Rhea, per non sottrarre il trono al fratello minore Zeus, assume il ruolo, in tutte le dimore degli uomini, identificandosi, dea del focolare domestico acceso.

Per questo essa è la dea della casa, degli affetti e dell’ospitalità, perché nel centro della casa, trova luogo il focolare, il suo storico altare.

È qui che ricevere ogni bene, assumendo il ruolo di forza trainante della casa, sacro diventa così il focolare, amministrato senza soluzione di continuità; qui trovano asilo i supplici, qui si sacrifica la sposa, essa non è onorata solo al centro delle singole case, ma contemporaneamente nel focolare comune che le comunità accendono quando si riuniscono in pubblica piazza.

Solo attraverso il fuoco possono costituirsi e fiorire nuove famiglie, esso rimane indistinto nel mondo figurativo perché rappresenta la fiamma in continuo mutamento.

Il fuoco è il fulcro, centro, di ogni casa, nell’antichità quando una parte dei suoi figli partiva per insediarsi in nuove terre parallele, si affidava una favilla di fuoco, da poetare nella mano sinistra, al fine di accendere nuovi focolai e potersi ritrovare a casa attorno a quel luogo, che grazie a una favilla della madre casa continuava legittimamente a progredire.

La sposa arbëreshë quando diventa moglie porta sempre il suo panno color porpora nel suo braccio sinistro, specie nei giorni di festa, quando deve ricordare alla sua famiglia che anche quando e festa, che il fuoco della sua casa e sempre vivo.

Il costume arbëreshë della pre-Sila, in media valle del Crati è uno elemento caratterizzante che non trova eguali in nessuna macro area della regione storica.

Spetta alla posa, poi moglie e in seguito madre, ogni volta che indossa quelle vesti, inviare messaggi di continuità storica, spetta alle nuove generazioni comprenderne il valore e il senso di quei messaggi.

Sono questi che una volta fatti propri, in lingua madre nell’atto della vestizione, è opportuno saperli esporre in forma di vestizione e messaggi, con modestia, garbo e buon senso, come dicevano le nostre madri;  magari rimanendo in silenzio, per consentire alla “favilla madre” di illuminare ogni cosa, esposta agli osservatori incuriositi.

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L’ABITO DA SPOSA ARBËRESHË  (Stolithë i Nusesh Arbëreshë)

L’ABITO DA SPOSA ARBËRESHË (Stolithë i Nusesh Arbëreshë)

Posted on 13 maggio 2021 by admin

gjakNAPOLI (di Atanasio Pizzi  Basile) –

Nota in Anteprima-

Il componimento sartoriale che porta la donna a diventare moglie, è un insieme di messaggi, bene auguranti, che la donna sposa e il marito sposo hanno come prima dote; esso diffonde il giorno delle nozze e nei tempi a seguire ogni volta, indossate o quando sono depositate negli appositi contenitori, i temi di attività condivise, per il proseguimento della specie in senso tangibile ed intangibile.

A tal fine, chi indossa quelle vesti, è opportuno che abbia consapevolezza, dei messaggi e del significato di ogni atteggiamento, postura o elemento indossato di rifinitura, che è esposta.

Agghindarsi con quelle vesti, immaginando che sia puro folclore, sminuisce il valore dell’atto, terminando per essere inopportuni, incoerenti per terminare nel seminato dell’inopportuno, specie se ad essere esposti imprudentemente tratta minori.

L’abito nuziale rappresenta un manuale rigido e chiuso, una fortezza di messaggi, composto da strati in vestizione; insieme di oggetti per confermare l’evoluzione della coppia, dopo l’atto legale e religioso di unione.

Il disciplinare è eseguito da persone adulte, quanti conoscono il senso di quegli oggetti e di quelle vesti,  sono molto cauti e informano l’indossatrice di turno, gli altri cadono in errore e quando non hanno argomenti per difendersi dal volgarmente esposto, considerano le note cquale disprezzo personale.

L’abito nuziale rappresenta un manuale di atteggiamento composto da strati di vestizione, oggetti per confermare lo l’evoluzione della coppia dopo l’atto legale e religioso di unione, eseguito da persone adulte, quanti conoscono il disciplinare sono sempre molto cauti  e informano l’indossatrice di turno, gli altri cadono in errore e quando non sanno come difendersi dal volgarmente diffuso, considerano le note come disprezzo.

Premessa-

Il tema che segue vuole dare lustro e significato al prodotto sartoriale che identifica il matrimonio arbëreshë, forma artistica, realizzata seguendo l’itinerario storico disciplinare consuetudinario, contenuto in ogni dettaglio che da forma al costume nuziale quando è indossato nelle varie fasi della vita della donna.

Si mira, in oltre, a mettere in luce il valore di ogni elemento o facente parte la vestizione, associandolo al matrimonio, espressione del sistema famiglia, portato con orgoglio dalle donne arbëreshë e per questo sintesi della loro vita , prima durante e dopo il matrimonio.

Seguendo per questo la rotta che collega consuetudini di vita quotidiana illuminate dalla luce di credenza diffusa Greco Bizantina.

Prima di dare inizio alla trattazione, è doveroso ringraziare: Caterina e Carmela da Frascineto, Lucia da Santa Sofia, Anna Maria da Vaccarizzo, Gabriella da San Benedetto Ullano, Fortuna Vicchio da Lungro, Anna Rita da Falconara, Adriana di San Demetrio, in quanto espressione contemporanea per come si indossa, si espone il costume e si esegue  la vestizione correttamente.

Va in oltre rilevato che esse hanno contribuito a esprimere pareri e sensazioni di vestizione cogliendo oggi giorno quegli attimi della vestizione di oltre due secoli or sono.

Un’occasione sprecata da un numero considerevole di addette, che ritenendo esse sufficientemente formate, hanno preferito la via fatua del sentito dire, protagoniste in forma illusoria di favole per restare al cospetto della vestizione per caso.

Questi ultimi, in specie, continuano imperterriti a vivere orfani dei principi fondamentali dell’identità arbëreshë, imbibendosi della stessa teoria malevola dei volgari, che invece di unire separano i minoritari, verso mete prive di trascorsi del componimento sartoriale.

Introduzione- 

Di sovente si racconta o si espongono i costumi arbëreshë, elencando cosa lo componga, secondo la mera sequenza in fredde, nel frattempo, colorate vesti; enunciazioni locali, ben distanti dal loro reale significato storico rispettoso del disciplinare generazionale da madre a figlia.

Il più delle volte, infatti, la consegna orale, del prezioso manuale del matrimonio, non avviene come la storia vuole, ma per sentito dire, terminando la consegna nell’esprimere pare su un’ipotetica vestizione, coronando il tutto con errori a dir poco paradossali, amalgamando addirittura arte sartoriale, con attività non proprio di radice e trama tessile.

Un’altra metodica che ormai è diventata regola certificata, consiste nel proporre il tema della vestizione nuziale,  divagando liberamente in tesi di laurea o esperimenti editoriali, i cui docenti o esperti/e di riferimento, non essendo titolati/e in tal senso, finiscono per approvare, invece di correggere, quanto portato inventato dagli improvvisati stilisti della storia.

Questi comuni atteggiamenti, producono un duplice danno verso quanto dovrebbe essere sostenuto e valorizzato del prezioso modello, arbëreshë; il primo consiste nel avere un prodotto di tutela certificato da istituti, che non posseggono alcuna capacita culturale in tale area; il secondo ancor più pericoloso, in quanto lascia variegati componimenti scritti che primo poi sarà adottato come originale, traducendo tutto in una perdita della tradizione più intima della minoranza.

In questi componimenti che poi non sono altro che riversamento malevolo di concetti senza alcuna attinenza, con il protocollo quadrangolare chiuso arbëreshë, si fa grande sfoggio nel citare l’appartenenza in forma della tipica parlata, senza avere alcuna consapevolezza del significato dell’oggetto esposto o misura, sia dal punto di vista pagano o religioso.

Questo è il motivo che ha determinato la deriva, senza precedenti, mina vagante, del significato della vestizione in sposa; le cui parti, da quando le università e l’editoria hanno ritenuto tutelare e promuovere ben distanti dai temi della ricerca, aspettando seduti nelle cattedre che gli elementi sfilassero al loro cospetto senza alcun metro di misura, ricerca storica o titolo.

Tutto ciò ha condotto l’unico elemento artistico della regine storica confondere persino il tema di cinque sensi, liberando nelle disponibilità di quanti non avevano e ne hanno olfatto, tatto, lungimiranza, gusto e orecchio.

Premessa al discorso della vestizione-

Il matrimonio rappresenta l’unione fisica, morale e legale dell’uomo (il marito) e della donna (la moglie) in completa comunità di comuni intenti e vita, al fine, di fondare “la famiglia e perpetuare la specie”.

Il termine matrimonio come genericamente lo intendiamo, non collima con gli usi delle popolazioni del passato, in cui le unioni coniugali hanno avuto forme svariatissime per innumerevoli atti complessi, sin anche riferibili alla durata del rapporto in senso di tempo e di fatti.

Pochi sono i popoli che concepiscono il vincolo coniugale come indissolubile e nella maggior parte degli altri, la separazione, sotto forma di abbandono, di ripudio, di divorzio, largamente praticati, spesso per la sola volontà del  marito; meno spesso per il deliberato proposito della donna, che generalmente persegue la meta del tetto maritale.

Dalla disposizione che mostrano i popoli a contrarli, con persone della famiglia, della parentela o della tribù; o con  persone estranee al  proprio gruppo,  i  rapporti  matrimoniali si chiamano endogamici o esogamici.

Una forma estrema di endogamia è il matrimonio tra fratello e sorella, che si è osservato in vari luoghi, sebbene  per lo più, entro l’ambito delle classi sociali più  elevate.

Fra le norme che regolano l’endogamia, non va dimenticata quella in cui il fratello può sposare la sorella, ma non la maggiore di età.

Partecipano del principio endogeno le unioni obbligatorie entro le caste o le classi, nati allo scopo di mantenere integra la purezza del sangue o delle tradizioni genealogiche. 

L’orrore del sangue, cioè dei rapporti sessuali fra consanguinei, è alla base delle unioni esogamiche, le quali sono  variamente stabilite, secondo che l’interdizione o tabù riguarda il gruppo intero o il sottogruppo. 

Presso molte genti la proibizione ha un campo più ristretto specie le popolazioni riunite in clan o le fratrie, a queste ultime, se differenti è permesso il legame coniugale. 

Questo perché le fratrie sono divise in più clan, che formano dei veri e propri aggruppamenti esogamici, la caratteristica del clan totemico, per la mitica genealogia che affratella tutti i suoi membri.

Ordinariamente, in rapporto col sistema di parentela adottato o seguito dai differenti  nuclei  etnici, secondo che la genealogia segue la linea femminile o maschile, il matrimonio è vietato nella parentela maternale ammesso in quella del padre, o viceversa.

Gli atti che nella vita popolare dei primitivi intervengono a formare o a sanzionare le unioni coniugali, possono rappresentare o il contrasto delle parti, per il possesso forzato o violento della donna; o l’accordo delle stesse, per la  cessione della  sposa.

Da qui i due principali tipi di connubio, che portano i nomi di matrimonio per ratto e per compra-vendita della donna, queste divengono il manifesto dei rapporti sociali o regime di convivenza tra popoli:

  • il primo caratterizza la vita dei nomadi sfruttatori del suolo, e cacciatori sin anche della figura femminile.
  • il secondo caratterizza la vita dei sedentari, pastori, agricoltori, per i quali la donna, diventa o costituisce un valore aggiunto, al pari di tanti altri oggetti che  rappresentano la  proprietà.

È chiaro che se questi erano i presupposti antichi nel corso delle varie epoche, i principi si sono uniformati verso altre forme più rispettose specie nei confronti della donna, ciò non toglie che nelle consuetudini non troppo lontane, dalle nostre ere, il rito che precede e segue, l’atto del matrimonio celi nelle pieghe ritualità che attingono a da questi estremi modelli di porre in essere l’atto della procreazione riconosciuta.

Se a questi brevi accenni sono allocati all’interno del percorso, evoluivo/consuetudinario arbëreshë, danno la misura e rendono più chiaro ancor la linea seguita nelle tappe del matrimonio riferibile al popolo arbanon.

Sicuramente rappresenta l’evoluzione da modello endogeno a esogeno per giungere alle ritualità di unione,espresse sino agli inizio del secolo scorso, sia in forma materiale se sia in espressioni immateriali.

Certamente avendo ben chiare tutte le ritualità che si adopera nel matrimonio arbëreshë, si possono intercettare, quanto sia il valore dello sposo e della sposa rispetto e la parità degli sposi e cosa è rimasto ancora presente come atteggiamento in forma di emulazione rituale.

Di tutti i piccoli segni subliminali, valga il detto che: lo sposo deve non appartenere alla medesima gjitonia, “il luogo di ricerca della radice familiare, attraverso l’esame sensoriale dei cinque sensi”.

Il ratto figurato o simbolico, in età moderna, si risolve in una serie di formalità che le parti compiono dopo l’intesa o dopo la stipulazione dei patti, per la consegna della sposa .

Tali formalità possono assumere, talvolta, la forma di veri e propri giochi, secondo l’usanza esogamica, che porta il  fidanzato dopo  aver condotto a termine  le trattative con la famiglia  della donna, si  reca nel giorno  stabilito a rilevare la sposa, seguito  dai parenti e dagli amici, ai quali è affidato il compito di trarre in inganno la fanciulla e di per condurla  nell’abitazione maritale. 

La compravendita e il ratto della moglie vanno insieme, il contratto segue il ratto, come il baratto dopo il furto.

E che la compravendita sia la forma più recente di matrimonio si rileva dal fatto che il matrimonio si concretizza attraverso un ben noto protocollo, non scritto, secondo il quale all’interno della nuova unione, ogni facente parte depone la sua dote sia in forma di mestieri o arti e sia in forma di solidità economica con mobili immobili e ori. 

La fusione della consistenza economica nuziale, relativa alle disponibilità che si attribuisce alla donna richiesta dall’uomo richiedente, determina anche la raffinatezza di tutti gli elementi che compongono l’abito della sposa e rappresenterà l’emblema della famiglia anche dopo il matrimonio, svolgendo ance nel proseguo della vità l’emblema rappresentativo in ogni occasione pubblica sia religiosa e sia civile.

In  un primo momento le offerte hanno il valore di compensi; in un momento successivo, l’idea  del compenso  è mascherata  da quella del dono;  onde,  nel primo caso, il matrimonio  per compravendita  reale; e, nel secondo, per compravendita  simulata  o simbolica.

Il Costume e la sua radice.

Gli elementi più rilevanti della riforma amministrativa promossa nell’Italia rivoluzionaria e napoleonica, generalmente sono identificati nei meccanismi che governarono le istituzioni e i conseguenti processi storici definitori dei referenti.

Soprattutto per il Regno di Napoli, gli studiosi hanno rivolto la propria attenzione ai meccanismi amministrativi, trascurandola configurazione territoriale e nello specifico delle macro aree locali.

Questo modo di indagare ha adombrato i legami con la più generale strutturazione del territorio e con l’importanza che strade, architettura, arte e paesaggio incisero sull’evoluzione in forma tangibile e intangibile.

Solo di recente, anche, nel campo degli studi meridionali è emersa la necessità di occuparsi degli sviluppi che hanno prodotto la configurazione territoriale e i confini tra comuni e comunità.

Essi rappresentano foriere di grande novità, nel panorama degli studi meridionali, per questo, le ricerche danno frutti, di fondamentale importanza che in molti casi ribaltano la sequenza degli accadimenti, rappresentando una vera e propria radiografia degli insediamenti.

La nuova metodica, d’indagare del territorio in età moderna, apre nuove prospettive per leggere meglio, il rapporto tra abitato e campagna, un quadro della geografia feudale, lasciato in cantina perche difficile da interpretare.

L’emergere di nuove strutture amministrative autonome, fanno perno nei primi decenni del Seicento, sulla fiscalità dei casali e sulla loro richiesta di autonomia in occasione dell’avvio di analisi per il catasto conciario.

La discussione preparatoria della legge del 14 dicembre 1789, che anticipa lo stesso ritaglio della maglia dipartimentale per l’evidente necessità di sostituire con istituzioni più solide le municipalità rivoluzionarie, nate nel caos dei mesi precedenti, prospetta l’opportunità di porre un limite demografico al di sotto del quale non si sarebbe potuto costituire il comune, indicandolo in 4-5 mila abitanti, con l’evidente disegno di sottrarre i piccoli insediamenti alla più facile influenza della chiesa e della nobiltà, ma anche per la non meno evidente carenza di un sufficiente numero di cittadini attivi, reclutabili per l’amministrazione della comunità.

In Italia il problema dell’adeguamento della maglia amministrativa si pone definitivamente con la nascita della Repubblica Cisalpina e, poi, con la Repubblica Italiana e con il Regno d’Italia per la Lombardia, il Veneto e gli altri territori di riferimento.

Per quel che attiene il Mezzogiorno, la legislazione d’impianto della riforma amministrativa e della configurazione territoriale relativa alle istituzioni locali arriva all’ombra delle armate dell’aquila imperiale durante il regno di Giuseppe.

Nel periodo precedente gli studiosi ricordano due tentativi recenti, il primo al tempo della Repubblica Napoletana del 1799, che attraversa come una cometa, il firmamento dell’universo politico italiano del tempo e l’altro durante la prima Restaurazione Borbone che per la verità in qualche modo richiama il progetto del 1767, relativo anche a un articolato piano di gerarchizzazione del territorio.

Con i nuovi provvedimenti sono finalmente riempiti di contenuti e attività amministrativa e giu­diziaria, ma quello che più conta e dalla prima nota territoriale al nostro discorso la divisione di compartimenti territoriali cui faranno parte da ora e sino all’unità d’Italia le macro aree della regione storica arbëreshë e in particolare i mandamenti territoriali di Calabria citeriore.

Esaminando con dovizia di particolari i paesi che sono la fucina di studio del nostro discorso, sotto l’aspetto amministrativo, sociale e religioso, si rileva che i paesi contenenti la quasi totalità degli elementi caratteristici del costume tipico da sposa, fanno parte dello stesso mandamento e sono sotto la giurisdizione religiosa di radice, Greco Bizantina, e per questo caratterizzato, indelebilmente il territorio.

Questo conferma un dato inconfutabile, in altre parole, dalla fine del 1767 in avanti, il voler identificare con radice, meno appariscente all’interno del presidio religioso più incisivo, la caratterizzazione religiosa non più forgiabile si caratterizza con le attività di unione matrimoniale, attraverso, il tipico costume arbëreshë che ne contiene fondamenta, radice di prosecuzione, crescita e guida.

Le consuetudini nella settimana prima della domenica di vestizione-

La rotta storica che andremo a percorrere mira a focalizzare non la mera esposizione delle vestizione o la elencazione sterile  degli elementi che compongono il costume tipico, cuore pulsante della consuetudine arbëreshë, ne tantomeno realizzeremo illustrazioni o apparizioni comunemente interpretate con sceneggiate di vestizioni, appartenute ad altre donne, con evidenti differenti anatomie, per questo senza  avere consapevolezza di cosa si va a compiere o si finisce di rappresentare il profano e non il sacro vincolo.

Per questo ogni cosa esposta o raffigurata, mira a rendere noto il significato che nel matrimoni assume quel determinato capo di abbigliamento, sia esso intimo, intermedio o visibile, tratteremo i temi di ognuno di essi e cosa rappresentano, a partire da ogni piccolo dettaglio in forma figurata o di pigmentazione.

Un discorso di continuità generazionale raccontato, cui si da ruolo e senso alle vesti, compreso il significato che hanno le eventuali movenze e posture che inconsciamente si assumono nel corso della vestizione

Quella vestizione che in molti inopportuni sceneggiati viene attuata da persone improvvisate, ma quello che più duole senza alcuna grazia conoscenza del rito, si elevano a saggi di atti che per questo si traducono in atteggiamnti a dir poco volgari per una sposa.

La vestizione della sposa il giorno del matrimonio, segue un protocollo antico e si compone di adempimenti, disposti nell’arco temporale della settimana che precede la domenica del matrimonio, generalmente nell’arco temporale dell’estate arbëreshë.

Tutti gli adempimenti di conoscenti, nëdrikùla, familiari, sposi e shëniagnëth svolgevano nell’ora e il giorno stabilito per adempiendo i doveri di credenza e di consuetudine.

I più salienti erano l’allestimento del letto nuziale il giovedì precedente il matrimonio e la mattina di domenica quando la sposa veniva vestita, con quelle sacre e rappresentative vesti.

Le Vesti della Sposa da nuda-

Scutina: Una fascia di cotone che si avvolgeva tra le parti intime a modo di mutando.

Petilia:  Una fascia di seta rettangolare che conteneva i seni nella parte anteriore, legata alle spalle con quattro lacetti di cotone che erano fissati nei quattro angoli del rettangolo,una sorta di reggiseno a fascia senza i tiranti superiori

Linjè-a: Camicia di cotone bianco a contorno del collo e l’unione dei seni dal Merletto (Mèrlletin) di tulle ricamato a mano e rigidamente impostato sino alla vita; questo rappresenta il limite di appartenenza, dalla vita sino ai polpacci come luogo per generare e dalla vita sino al collo come il luogo per allevare, uno rappresenta la semina, e il secondo la fonte per la prole.

Petilè-a: Striscia di stoffa rettangolare in seta con legacci in cotone annodati alle spalle, sul davanti contiene il seno e interrope all’altessa superiore del seno l’ampia scollatura che scende dal collo;

Sutanin-i: Sottoveste bianca ricamata alla base finemente con allegorie delle virtù della sposa, fissata in corrispondenza della vita, in corrispondenza di Linjè, si estende verso il basso sino nella parte delle gambe tra polpacci e caviglie;

Sutanin-i verd: Sottoveste a trame, (Pieghe) perpendicolari, pigmentate secondo le priorità di credenza familiare, tessuto in raso, con rinforzo nella parte della vita, questo serve ad avvolgere uniformemente le caratteristiche anatomiche dalla vita in giù della sposa, oltre ad assumere il significato allegorico di confine o frontiera invalicabile del suo primo tutore maschio: il padre.

Sutanè-a razi: Sottogonna in raso pieghettata con un bordino d’oro, essa rappresenta la dote e quindi la figura paterna, simbolo di rispetto e solidità morale della giovane; il padre perche nelle consuetudini antiche rappresentava il primo tutore maschio della giovane figlia; le pieghe rappresentano la barriera esoterica e religiosa dell’inviolabilità della donna a cui si affida il padre tutore che sarà sempre il riferimento ultimo per la difesa,

Cohè-a Gonna pieghettata di raso in seta e oro, così denominata, perche rappresentano il marito e la casa che assieme andranno a costruire; duecentoquaranta pieghe rappresentano la barriera esoterica e religiosa dell’inviolabilità della donna affidata dal padre alle attenzioni del marito.

Xhipun – i Nastri: Corpetto con ricami in oro e colore porpora: azzurro, rosso, verde, di stoffa; rappresenta la storia della famiglia che si va a formare; riassunto delle nove generazione che dall’unione e dalla fonte del seno materno renderà possibile la prosecuzione della specie, unione tra uomo e donna che attraverso la fonte materna genera e da senso alla unione che si va ad attuare.

Kezè – a: Diadema nuziale riposto in testa; di estrazione o meglio di radice dogale prende spunto dalla massimo esponente sociale e religioso di quella società, unico e solo ad avere la direzione di ogni cosa, in quale fonte insostituibile di sapere e tutela.

Il  tipico copricapo con la sfera nella parte sommitale posteriore rappresentava la fonte materna di ogni cosa,;m cosi anche per il costume arbëreshë, riposta in capo alla donna, sopra la topica pettinatura figurativamente emulava, il seno in senso di saggezza che attinge dal passato, le prospettive del futuro.

Kallucieté, -t: Calze bianche lavorate a mano; erano l’emblema della calore a che tiene sempre solida l’istituzione che genera la prole, prua e divinamente inviolabile.

Kèpucè, -t: Scarpe realizzate dello stesso tessuto della “Zoha” rappresentano le fondamenta della famiglia e per questo filate e tessute in oro, la rappresentazione del divino, in quanto, espressione di luce senza origine.

Per terminare questo breve si vuole accentuare il valore sociale del costume, che vuole rappresentare un’insieme di valori consuetudinari, pagani e religiosi, essenza bene augurante, per il sostenere e valorizzare attraverso i colori e raffinate stoffe lino, cotone, raso, broccato, di seta e oro, in una armonica combinazione, la fonte di un’identità che si consolida nel tempo e non smette di esistere.

                                                                                                            Napoli 2021-05-13

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L’ARBËRESHË NON È UN ACROLITO

L’ARBËRESHË NON È UN ACROLITO

Posted on 08 maggio 2021 by admin

AcrolitoNAPOLI (di Atanasio Pizzi  Basile) – Un arbëreshë non ha bisogno di atti archivistici per sapere di esserlo, perché già conosce quanti e quali valori lo identificano culturalmente e lo rendono protagonista nella storia del meridione.

Un arbëreshë è tale prima, durante e dopo le vicende che hanno visto protagonista Giorgio Castriota e se oggi tutta la regione storica lo ricorda è il segno che è stato un un buon “gjitonë”.

Un arbëreshë è venuto nel meridione da persona desiderata per assolvere, almeno tre compiti; pochi sono consapevoli e molti non lo sanno, quali sono.

Alcuni arbëreshë impiegano il tempo che passa a intrecciare i due distinti estratti della stessa ginestra, non in forma scritta dell’idioma, che non serve a nulla, ma con la manualità tipica di chi sa tessere senza sprecare filato.

Un arbëreshë non è colui che termina e inizia la sua giornata, levando le mani al celo e favellar una lingua ignota come diceva il comune viandante.

Un arbëreshë cresce aggrappato al candido merletto della madre, fa i primo passi sostenendosi nelle pieghe delle zoha e  inizia a camminare sicuro di farcela, si libera perché conosce bene la solidità di quelle pieghe che lo hanno aiutato a crescere.

Un arbëreshë, conosce la storia che gli appartiene, non ha bisogno del parere di figure altre, specie se stravaganti registi, distratti alchimisti o ironici giullari.

Un arbëreshë non è un esperimento linguistico, perché è un modello completo e trova la sua linfa nei comportamenti di libertà impressi nella sua natura di essere umano.

Se un arbëreshë nasce nel paese capitale della cultura, si forma sotto il sole e l’aria della capitale NÀrbëreshë, non ha bisogno della crusca del mugnaio o inutili alchimie.

Un arbëreshë non è l’uomo che dopo aver pulito una casa abbandonata, si siede davanti all’uscio e parlare una lingua altra, sperando che tutto gli sia offerto dal cielo e la casa cresca per opera di altrui genti.

Un arbëreshë, per quanti non hanno consapevolezza, è un componimento mediterraneo di alto valore sociale e culturale, solo lui può dire chi è, cosa vale, e quante missioni è in grado di onorare, perché vive di codici che gli altri non sanno e ne possono comprendere.

Un arbëreshë è la radice solida dei labili e discreti albanesi, questi ultimi in specie, si devono astenere, dal riferire argomenti e principi di radice culturale, perché non concepiscono come portare sulle spalle e idealmente nel cuore e nella mente la radice dell’antico ceppo.

Un Arbëreshë può essere di esempio e guida agli albanesi, il contrario è impresa ardua, anzi impossibile; tutte le volete che nella storia hanno provato l’esperimento, dai Balcani sono emersi scuotimenti, guai e vicende paradossali, che certamente non sono annotati per la nobiltà di atteggiamenti.

Un arbëreshë è fiore; sboccia si moltiplica e consolida la sua raffinatezza, ogni volta che il sole appare e accarezza le colline a ridosso del “fiume Adriatico”, affluente preferito del mare Jonio; il processo naturale, ripete senza mutazioni di genere, il singolare avvenimento dalla prima luce dei tempi .

Un arbëreshë non balla, canta solamente, lo fa per lavorare meglio e con profitto, si lega ai suoi simili dandosi la mano; il segno di leale operosità e se per dovere lavorativo deve distaccarla, avvicina i cuori in un ideale battito di fratellanza circolare.

Un arbëreshë danza è balla,per valje, tutto nasce dall’imposizione di cambiare religione e lui onesto per non ferire, distrae quanti credono di esser riusciti nell’impresa, e il giorno dopo si rendono conto che nulla hanno cambiato; bizantina rimane ogni cosa.

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STORIE DEI PICCOLI CENTRI MINORI NEL MERIDIONE ITALIANO (Janë përàlesë arbëreshë)

STORIE DEI PICCOLI CENTRI MINORI NEL MERIDIONE ITALIANO (Janë përàlesë arbëreshë)

Posted on 02 maggio 2021 by admin

PER AMORE D’ARBERIA.NAPOLI (di Atanasio Pizzi  Basile) – Generalmente la storia dei centri minori del meridione italiano, si basa sulle note prodotte dal parroco, l’alchimista, il notaio, il medico o l’aio; in tutto, le uniche figure all’epoca dei fatti, in grado di leggere, scrivere; generalmente di parte e privi di competenze specifiche verso i temi e le note lasciate in eredità ai posteri.

Lo scorre lento, sostenuto dal consuetudinario locale, lasciava il tempo alle citate figure, di annotare le cose e catalogarle secondo personali descrizioni, che non rientrano nelle materie della propria formazione, professione o arte manuale.

I lasciti così prodotti, assumono più un valore campanilistico, che traccia della storia locale, quella che poi serve come lascito da tramandare.

Tuttavia, se le note opportunamente interpretate, si confrontano con le cose del territorio locale, il riferito di memoria è  presumibile catalogare quali i temi in due distinte categorie: le romanze locali utili a valorizzare ceppi campanili familiare  e  il veritiero realmente accaduto, quest’ultimo in specie, ricoperto da dubbi di ogni genere .

La consuetudine da annotare, la storia in forma campanilistica, attinge le informi pieghe dai trattati dei romani, questi ultimi, notoriamente per esaltare le gesta dell’impero in ascesa, mescolavano presente, passato e futuro, a cui si è dovuti ricorrere ai temi delle diplomatiche della storia.

Oggi a rivestire il ruolo di scriba dei latini, sono figure con funzione di  modellatori della storia locale arbëreshë o indigeni, i quali, invece di annotatore note da tramandare, esaltano senza ragione cose mai avvenute o da nessuno prodotte o rese in forma veritiera.

Per questo la storia dei piccoli centri minori, come avveniva con i romani, si ripete e promuove accadimenti, raffigurazioni, costumi e riti, senza un supporto di senso compiuto, rimanendo incapace di rendere credibile, forme fisiche e le risultanze del genius loci, in altre parole argomenti senza fonte storica possibile, per un ambito ben circoscritto o identificabile.

L’impossibilità di confrontare elementi finiti del territorio, parallelo allo sviluppo economico e sociale, immaginando che siano il prodotto del tempo di una stagione, restringe secoli di storia secondo la metrica di una favola o di una leggenda.

Chi oggi crede di poter tracciare o far apparire credibile la storia di un centro minore, brandendo capitolo, onciari liberamente interpretati da comuni addetti, in oltre produce danno alla radice della comunità.

Non è concepibile continuare a dare di giorno, in giorno, significati pittoreschi perennemente alle note locali senza avere come fondamento una visione globale dell’ambito in esame, in altre parole si costruisce forme con la polvere e alla prima flebile brezza, sottratta da quanti attendono d’incamerarla senza misura di cosa raccolto, se polvere di storia o stelle filanti, certamente non sono ne vicende e ne avvenimenti della radice  locale.

Quale migliore auspicio identificativo può essere, per un ambito minore, l’analisi del paesaggio, le bonifiche, gli elevati dove le genti hanno iniziato a vivere, le vie, le piazze, in tutto l’insieme “sheshò”  atto di ritualità, giacché, componimento, eseguito non secondo le note ereditate, ma grazie il genius loci, in altre parole, gli atti dell’uomo con l’aiuto della natura.

La storia di un centro minore, è cammino culturale, intrapreso da un gruppo di lavoro, in continuo fermento e confronto; esso mira a raggiungere obiettivi certi, individuando bagliore, dopo spiragli, la storia del passato.

Alla luce di ciò si può ritenere che ogni piccolo centro minore dell’Italia collinare, sia esso Paese, Frazione, Poggio, Casale, Castrum, Motta, Villaggi, Vico, Contrada, Sheshi o Katundë, tutti volgarmente appellati Borghi, Borgate o Bovàrë; o il risultato matematico di una  somme, sempre in numero primo.

Altrimenti si termina per inglobare ogni cosa nel calderone dei piccoli imperi romani, in piena evoluzione; racconti di  luoghi idilliaci, i cui attori principali sono sempre nobili cavalieri, spose in festa e nessuno intento a lavorare;  una società priva d’ingiustizie, soprusi, prevaricazioni o pregiudizi verso le altrui genti, cui oggi, nessuno crede.

In altre parole una popolazione gioiosa intenta a stare seduta nei tipici artefatti murati, di fianco all’uscio della propria dimora, in attesa che la storia li annoti, toponimi di quartieri, rioni o gjitonie.

Per analizzare le dinamiche di crescita dei centri antichi detti minori, in passato, non si sono occupate, le grandi menti in campo architettonico, sociale, antropologico e urbanistico, generalmente inclini a osservare e studiare  centri maggio, ritenendo a torto, che il confronto tra uomini e natura, splendeva solo nelle grandi opere.

Purtroppo per loro, non è così perché l’uomo, ha sempre iniziato con le cose piccole, per poi crescere e fare cose grande.

Oggi finalmente si è compreso che è arrivata la stagione per recuperare e iniziare il percorso di recupero dai centri minori, avendo ben chiaro il principio che a svolgere questo complicatissimo compito devono esse i grandi e non i comunemente, senza formazione culturale, sensibilità, garbo, in tutto educazione, per leggere e tradurre le fondamenta dell’architettura che è appartenuta alla maggior parte degli uomini, in tutto la parte operosa del mediterraneo.

Ragion per la quale, dare significato alla storia e agli eventi seminati nei perimetri dei centri antichi detti minori delle colline italiane, bisogna essere “imprenditore storico colturale” menti libere da pregiudizi, prevaricazioni politiche, senza mire e accomodamenti di genere/ colore.

L’imprenditore storico colturale, preferisce libri, mappe, atti impolverati, memoria del territorio, in tutto, cosa è in grado di fornire ricchezza storico/culturale, per delineare il processo di sviluppo locale, in stretta aderenza con la storia in senso ampio, di un territorio in fermento identitario.

La ricchezza culturale così intercettata, renderà possibile aprire nuovi stati di fatto, attraverso cui si possono vedere, le vicende locali in forma di architetture.

Sono proprio queste ultime grazie alla consistenza degli elevati murari, gli orizzontamenti, i piani inclinati, ad essere espressione lampante del genio locale, atti materiali, elevati nel corso dello scorrere dei secoli; aggiunte, sovrapposizioni, conquiste di spoglio, sono l’espressione economica della crescita di un ben identificato gruppo familiare.

Gli stessi, che fino agli anni sessanta del secolo scorso rappresentavano i libri, gli atti disegnati sul territorio; la stessa architettura, s che da oltre cinque decenni accoglie superfetazioni e angherie di ogni genere;  senza  che una cultura professionale figlia della formazione scolastica, accademica e di categoria prenda il volo e osservi.

Quando si riferisce di tutela, non si dovrebbe intendere a quella delle leggi degli uomini, ma della fonte del rispetto che ha origine dalla formazione del progettista cui viene affidata l’opera, dalla committenza, lasciando ai preposti  il compito di memoria e non tribunale, da aggirare con espedienti o esperimenti.                                                                                                                

Solo quando il tecnico progettista inizia il suo itinerario sostenibile. attingendo da fonti storiche per impastare il suo progetto. fatto di antropologia, valori sociali, architettonici, analizzando le attività di luogo, potrà mirare a un buon progetto di riqualificazione.

È tempo di prendere consapevolezza che le epoche di edificazione di questi ambiti, nasce per rispondere a esigenze, non più possibili dentro i recinti delle città murate, questo è il tempo. in cui si termina di esse il modello per accogliere e sostenere le esigenze dei suoi abitanti, ma di allargare le prospettive sociali.

Ha così origine la città aperta o policentrica, prima con le appendici di prossimità fuori dalle mura, la conseguente eliminazione di queste ultime  per scelta strategia e rispondere adeguatamente alla nuova economia in forza lavoro.

È in questa epoca che nasce l’elenco citato di agglomerati, gli unici in grado di predisporre attività intensive in forme produttive, agricole, silvicole e pastorali, in prossimità di queste ultime.

L’agricoltura e la bonifica del territorio diventano la risorsa per la sostenibilità demografica in forte crescita, ed ecco che in prossimità dei luoghi di lavoro, nascono quelli che oggi identifichiamo come Paese, Frazione, Poggio, Casale, Castrum, Motta, Villaggi, Vico, Contrada, Shesho e Katundë.

Modelli urbani che non hanno mura, ma si difendono con la tipica configurazione articolata in forma di rughë, shëpi e aie adagiate rispettosamente senza intaccare l’orografia naturale; rioni in aderenza che danno origine a forme urbane policentriche, il Sheshi, la nuova murazione fatta di case e strade per la difesa.

Questi s’identificano in due tipologie distinte; la prima, espressione sociale del modello di vicinato e riguarda gli indigeni locali; la seconda gli agglomerati etnici dei gruppo provenienti dalle sponde a est dell’Adriatico, questi, una volta intercettati gli ambiti paralleli della terra di origine, avviarono le loro attività di sostentamento, affidandosi al modello sociale denominata gjitonia, battiti sociali intercettabili all’interno dei quattro rioni tipici arbëreshë.

Analizzare gli ambiti e la relativa storia, per quanto accennato, consente di avere consapevolezza dei trascorsi delle popolazioni distintesi sotto il sole del mediterraneo collinare.

Secondo il noto filosofo Aristotele, i centri  quelli collinari, erano storicamente riconosciuti ideali per crescere, coltivare e nel contempo allevare coltura, scienza e arte, grazie alla luce più longeva del mediterraneo, la stessa che consente di indagare le sfumature più profonde, in ombre e si oppongono alla luce del sole.

A tal fine è il caso di citare alcuni esempi, se non i più emblematici componimenti realizzata in ambito architettonico e urbanistico, direttamente connessi con le narrazioni delle figure elencate all’inizio del capitolo.

Utopie storiche, componimenti dell’uomo senza indagine, producendo  prevalenza o favori di pochi verso i molti in sofferenza perenne.

Gli esempi sono rispettivamente: San Leucio in Campania, Filadelfia in Calabria, Ulteriore, Matera in Lucania e Cavallerizzo in Calabria Citeriore; quattro modelli  della storia moderna il cui sunto attinge dalla narrazione che supera supera la vera radice delle cose che servono; tutto diventa leggenda e quanti non sanno, producono identità violate.

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