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ARBËREŞË E ALBANESI: LA SOLIDA RADICE E IL FATUO RAMO DI UNA CIVILTÀ ANTICA

ARBËREŞË E ALBANESI: LA SOLIDA RADICE E IL FATUO RAMO DI UNA CIVILTÀ ANTICA

Posted on 27 giugno 2024 by admin

Drago

NAPOLI (Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Sono in continuo affanno le istituzioni a est e ad ovest del fiume Adriatico e, ormai ogni esternazione pubblica di quanti dovrebbero aver capito cosa sono i due fronti, lasciando perplessi e basiti quanti conoscono e hanno consapevolezza della gogna allestita dal XIV secolo.

La regione Storica Diffusa Sostenuta dagli Arbëreşë, è un bacino culturale esempio di caparbia conservazione di fatti, cose e uomini, in tutto, radice linguistica, consuetudinaria, culturale, religiosa della moderna Albania che ancora non sa e non prende misura.

Quest’ultima, invece di avvicinarsi e collaborare con intellighenzia e affiancandosi alla Regione Storica, si prodiga a portare a termine il progetto, che sei secoli orsono, l’invasore non ha avuto modo di completare, estendendolo a tutto il bacino balcano.

Infatti sfuggiti gli Arbëreşë, come la storia ricorda menziona e sottolinea, secondo trama diffusa incerta degli storici moderni, confusi e imprecisi, i prodi che trovarono agio nelle terre parallele del meridione italiano, senza conoscere anche da dove siano giunti e, senza tregua tutelato, sfuggendo all’invasore e, nonostante continuino a tessere valori di terra madre, sono definiti, traditori senza rispetto o figli degeneri, da quanti furono forgiati con forme di cupole e minareti dell’arte islamica.

Tuttavia e come se nulla fosse accaduto in era moderna, per quanto attiene le forme prodotte degli Albanese verso i tutori Arbëreşë, questi ultimi, sono affiancati ad oggi con interesse mirati ed energicamente apporre memorie del nostro eroe Giorgio Castriota, solo perché fu “Scanderbeg con effigi ed elmo non certo di memoria cristiana”.

La tendenza per questo, non è certo a favore o seve a sottolineati gli emblemi per e con i quali ottenne la guida del mutuo soccorso, come è impresso nella porta bronzea Angioina Partenopea, a memoria dei suoi seguaci Arbëreşë, ma con quelli dell’esaltazione di cupole anomale sormontata da effigi improprie e, prive di ogni referenza o valore Cristiano.

Si raccontano migrazioni, senza addurre particolari storici in atto di quello specifico intervallo, si contano, otto, nove, dieci e forse di più approdi, senza considerare la reale necessità balcanica dell’epoca o cose diverse da quelle proposte per la salvaguardi del patrimonio storico, come quello perfettamente conservato, tutelato e difeso sino ad oggi dagli Arbëreşë.

Si esaltano cavalieri battaglie e sterminio di pari dignitari, per valorizzare un valore che non certo la storia ricorda con fatti uomini e cose prodotte per il bene diffuso delle genti in attrito.

Si millanta la provenienza di esaltazione grecanica dell’sud dell’Albania e poi si appellano toponimi o identificativi comuni, riferimento del centro nord, lasciando intendere che furono genti di formazione paritaria alla magna greca storica.

Si numerano migrazioni, ben diverse da quelle innescate per necessità a seguito della battaglia della Piana dei Merli, nota anche come battaglia del Cossovo, combattuta nell’omonima località il 15 giugno 1389.

È da questo atto che nasce la necessità di difesa Cristiana contro l’Invadenza e la prepotenza delle corti con cupole e minareti di esaltazione, che in quell’epoca erano veri e proprie fucine di perversione e arrembaggio di esaltazione.

Tutto questo, nasceva in modo perverso, per ricattare i principi delle terre Balcane una volta circondati e costretti a consegnare la discendenza maschile, per allevarla e piegare al loro volere, morale o fisico dirsi voglia.

Come capito a molte famiglie, delle quali, valgano di esempio quanto incuneato al Castriota Giovanni e al principe Vlad II Tepes, e molti altri ancora come loro.

A tal proposito va ricordato cosa accadde nel marzo del 1444, ad Alessio, quando Giorgio Castriota, il minore dei figli di Giovanni, fu proclamato all’unanimità, guida cristiana, e siccome tutti erano consapevoli, tutti uniti secondo il sancito del mutuo soccorso dell’Ordine del Drago, per affrontare dignitosamente e alcune volte un po’ meno alle ingerenze e soprusi Mussulmani.

Allo scopo è opportuno “rilevare, sottolineato e illustrare che la migrazione Arbëreşë, storicamente valida, è una sola”, ha inizio nel settembre del 1469 e termina nel marzo del 1533, ogni cosa che ha portato migranti prima e dopo questa data, in terra meridionale dell’o stivale mediterraneo, non è da ritenersi migrazione di esuli figli della diaspora Balcanica, perché appartengono ad altra filiera sociale politica e di bisogno culturale, delle due rive del fiume Adriatico.

Va in oltre sottolineato che un flusso latente, tra le due rive è sempre esistito senza mai terminare, per le inquietudini storiche dei Balcani, che hanno sempre innescato frotte di, mercenari contadini, nobili, faccendieri, artigiani e ogni sorta di figura in cerca di agio e tranquillità, nel vedere le rive ad ovest colme di abbracci buoni di accoglienza.

Cosa diversa sono gli Arbëreşë, che istituirono con garbo rispetto e opera di genio locale, la regione storica, secondo principi e prospettive di assenso specifiche e, se poi a questi nel corso dei secoli si sono sovrapposte altre genti proveniente dagli stessi ambiti, oggi continuano a sottolineare la diversità culturale di radice debole per i dissimili protocolli di promessa data.

Sono Arbëreşë tutte le genti che giunsero a seguito della permanenza partenopea di Donica Arianiti Commento, dopo la scomparsa del consorte Giorgio Kastriota, colui che i mussulmani appellavano impropriamente Scanderbeg.

Questa fu una pianificazione che Giorgio, realizzo con dovizia di particolari con i regnanti Aragonesi, assicurando loro che gruppi o macroaree abitate, potevano fornire oltre che valore al territorio, una più eccellente vigilanza di queste popolazioni di suoi sudditanti, garantendo la rinascita dei territori il controllo degli Arbëreşë fedeli oltre ogni misura umana in favore dei regnati, che per questo diedero agio sino al 1563.

Oggi queste attività di comune accordo sfuggono dalle diplomatiche dei comuni studiosi, i quali, perdono tempo nel realizzare elenchi di approdi, privi di senso e capacità insediativa, come se le attività di confronto, dialogo e cooperazione che hanno consentito la finalizzazione del modello irripetibile, di integrazione mediterranea, sia un caso fortuito caduto nelle braccia levate al cielo perché incompresi.

Restano alla memoria dell’era moderna gli atteggiamenti che dall’Albania hanno avuto come mira gli Arbëreşë, storicamente individuati come figli degeneri o fratelli traditori, ad iniziare dalla doppia decima del secolo scorso, con gli ecidi di quanti si esposero per rialzare la deriva che il paese delle aquile viveva quando erano terminate le guerre mondiali.

A memoria non vanno sottovalutate le azioni o atteggiamenti a seguito di questa doppia decade, che non sono mai stati benevoli o tipici di una fraternità riverberata nell’aria, ma nei fatti espressa con misura di provincia pronta ad essere occupata per poterla piegare come non si riuscì fare sei secoli orsono.

Oggi vediamo un andare dietro e avanti, di ogni sorta di figure, che appaiono come falchi millantano di essere Aquile Bicipite e, nel corso dei diversificati eventi, denotano solo due facce della falsa medaglia che vuole elevare minareti e non certo campanili di fratellanza.

È inutile elevare miti, effigi, scalfiti marmorei o scritto grafici moderni, privi dei minimali apporti storico linguistici di radice e, non approfondiamo nulla del protocollo di pronunzia linguistica, riferito al corpo umano e delle sue pertinenze.

Questo ultimo accenno avrà a breve una più ampia diplomatica, al fine di terminare questa deriva, nata con la legge che doveva essere di tutela degli Albanesi e che invece ha fatto più danno che l’invasore mussulmano agli Arbëreşë.

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ERA LA PRIMA DOMENICA DI ESTATE QUANDO SI MARITARONO IL CANTO ARBËREŞË E LA MUSICA LOCALE

ERA LA PRIMA DOMENICA DI ESTATE QUANDO SI MARITARONO IL CANTO ARBËREŞË E LA MUSICA LOCALE

Posted on 26 giugno 2024 by admin

011NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Storicamente gli arbëreşë hanno sempre affidato la loro metrica per la continuità del proprio idioma, allo strumento voce e, le informazioni passavano di bocca in bocca con il tempo del lento camminare.

una cultura a oralità primaria usa ripetere a voce alta per evitare che le parole svaniscano presto e, devono investire molta energia nel ripetere più volte ciò che è stato faticosamente appreso nel corso tempo.

Questa esigenza crea una mentalità altamente tradizionalista e conservatrice che, a ragion veduta, inibisce la sperimentazione intellettuale.

La conoscenza e preziosa ed è arduo raggiungerla, per cui la società tiene in gran conside­razione i vecchi saggi che si specializzano nel conservarla, perché co­noscono e possono raccontare le storie dei giorni che furono.

Tutto questo avviene rimando e creando ironici concetti, che aiutano la memoria a ripeterli quando ancora la musica non faceva parte di queste società antiche dove la parola rappresentava ogni cosa per confrontarsi.

Questo in tutto non sono altro che le vituperate Vallje, le quali nel corso dell’era moderna sono intese o paragonate a cose senza alcuna forma storica che dia senso ai contenuti conservativi del parlato Arbëreşë.

Infatti esse non sono altro che canti o rime di genere, tra gruppi di uomini e gruppi di donne, nelle lunghe giornate sia nei tempi di andata, che di ritorno dal duro lavoro agreste.

In altre parole non sono altro che rime ironiche, colme di significato che, a primavera diventavano momento di conviviale condivisione con indigeni, lì dove tutti assieme accorrevano a esibire la propria fonia.

Il pensiero dei processi comunicativi delle culture orali è caratterizzato da uno stile paratattico, cioè da una costruzione del periodo fondato sulla coordinazione di corpo e voce.

Questi raffinati atti di memoria erano per pochi specia­listi, tuttavia altri mezzi di più fa­cile uso comune erano utilizzate in queste società a cultura orale come ad esempio quella arbëreşë, dove il contenitore verbale ritmico e formulaico prende piede.

In breve, avevano scoperto la poesia e di essa ne avevano fatto uno strumento essen­zialmente funzionale alla conservazione e alla trasmissione delle conoscenze, da una generazione all’altra all’intero del proprio sapere.

In particolare, le società a cultura orale come gli arbëreşë, sono riusciti a conservare una memoria sociale collettiva associando poesia, musica e danza.

Nella civiltà moderna si verifica o meglio si applica tutto ciò con i testi delle canzoni e, nel caso specifico delle Vallje, a cui seguono storicamente, dal 1765 con le carmina conviviali, o festeggiamenti di integrazione, intercettati dal grande esperto di lingue latine e greche, P. Baffi, secondo cui la primavera degli Arbëreşë, da luogo allo storico matrimonio, la cui fioritura ha generato i variegati modi di riverberare canto e musica.

Sancito il matrimonio storico tra musica e canto, ha avuto inizio una stagione, che ormai si ripete come quelle della natura e senza soluzione di continuità, unisce ogni anno, come tutte le cose fatte dagli uomini comuni, Generi, Katundë, Macro aree e Nazioni.

Tutto ebbe inizio con rime semplici e ripetitive le stesse nate sotto il governo delle donne, queste tutte attente a seminare nella parlata dei propri figli, non rime scritte e lette grazie alla vista offerta dagli occhi, ma poesie ripetute e acquisite dall’orecchio che armonizza il corpo.

Era la fine degli anni cinquanta del secolo scorso quando T. Miracco, G. Capparelli e A. Bugliari, nel leggere il discorso degli albanesi, quello edito da Masci e scritto da P. Baffi con il dicta che quella edizione “non era quella errata del1807 per colpa delle stampe di Gutenberg, fu allora che si ebbe consapevolezza che la tradizione andava svelata e resa pubblica con la storica “ Vèra i Arbëreşë” Estate degli Arbëreşë, con espressioni canore musicate da strumenti a percussione fiato e mantice.

In Terra di Sofia nasceva così il “Festival della Canzone Arbëreşë”, ufficializzando il matrimonio tra il “Cantato Storico degli esuli e la Musica Indigeni”.

Quel concetto che negli anni trenta del XIX secolo, l’editore di Barile, Vincenzo Torelli privilegiava a favore del Canto, innescando le ire dei maestri che in quei tempi venivano a Napoli per esprimere arte musicale nell’edificato del teatro San Carlo.

Il primo matrimonio tra musica e canto nasce proprio in quell’arco di cerchio a modo di Teatro, che divide il paese In terra di Sofia in parte di sopra e parte di sotto, “duellarti e dreshimì” l’unione ideale tra Storia Arbëreşë, con la parte Indigena Locale.

E qui che tutti assieme senza mai stancarsi si ritrovano gruppi di cantori musicati; e da sopra il palco esprimono il meglio di loro in conformità con lo scorrere del tempo, senza mai dimenticare le sonorità antiche, così come ereditate del governo delle donne Arbëreşë.

Lo stesso che oggi è diventato un vero e proprio festival dove ogni anno a vincere sono sempre di più le nuove generazioni che alzano e riverberano una lingua antichissima, secondo i ritmi che al tempo serve per sostenere la Regione Storica diffusa in Arbëreşë nella sua interezza.

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TORNANO NEI KATUNDË SENZA ARTE MA ARMATI CON LO SCUDO DI LODE OLIVETARA (Viceù Karusjtë thoj: janë profesùra mosë ju chias se bëgnènë dëme)

TORNANO NEI KATUNDË SENZA ARTE MA ARMATI CON LO SCUDO DI LODE OLIVETARA (Viceù Karusjtë thoj: janë profesùra mosë ju chias se bëgnènë dëme)

Posted on 22 giugno 2024 by admin

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NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – La diplomatica che delinea questo trattato di storia è il risultato di oltre un quarantennio di ricerca, eseguita con confronti e approfondimenti documentali, interpretati dal genio di numerose figure dipartimenti partenopee, oltre lo studio in Geographic Information System (G.I.S.), attraverso il quale è stato possibile produrre e proporre contenuti responsabili e certi, dei trascorsi Arbëreşë, dai tempi del regno di Napoli sino ad oggi, Meridione Italiano.

Se a questo sommiamo il saper interpretare le cose vernacolari dell’idioma, il genio locale e le nozioni ereditate dalle eccellenze locali più illustri e trainanti, sia nel loco natio che nella capitale del regno, la genuinità dei contenuti non può essere che eccellenza.

L’intento qui perseguito, senza soluzione di continuità, quindi, mira a fornire agio e solidi principi, per quanti devono esercitare il ruolo o essere funzionari della salvaguardia, le cose e i contenuti, materiali ed immateriali, dei luoghi che le figure su citate, hanno esposto per i principi di salvaguardia, promozione e tutela, delle radici incuneate nel terreno più fruttifero della storia locale.

L’auspicio quindi, mira ad innalzare l’operato dei compiti a disposizioni delle istituzioni tutte, ogni volta che dovranno adoperarsi a divulgare o promuovere cultura e cose del passato, in tutto un solido impegno diffuso, al fine di segnare ogni cosa, soprattutto nei tempi di maggior disagio, come quelli che stiamo vi­vendo da un secolo e, nel quale prevale la crisi di valori fondamentali, gli stessi che hanno intaccato l’operato di molti addetti, convinti di dover vivere un disagio storico disarmante senza alcuna nozione che possa recuperare interamente quanto già compromesso diffusamente.

Questa diplomatica, affiancata ad altre iniziati­ve “Socio-Culturali-Agili”, hanno tutte consentito di produrre atti sufficienti per la stampa di cinque volumi i cui contenuti sono qui ripostati: il primo; sulle vicende che definirono l’esodo nelle terre parallele del meridione Italiano; il secondo, riferito alle figure emblematiche che salvaguardarono il genio locale e articolarono la cultura e le credenze; il terzo, sui tipici sistemi urbani dei centri storici, facente parte la regione storica diffusa sostenuta in Arbëreşë; il quarto, riferito al costume tipico e del valore di sostenibilità morale della minoranza, il percorso tra casa e chiesa; il quinto, la trattazione e l’uso del canto affiancato in età moderna dalla musica secondo i temi di metrica per conservare l’originario idioma.

Il tutto cer­tamente consentirà la diffusione a tutti i nuovi e antichi parlati e, soprattutto ai giovani inesperti o acerbi cultori, senza alcuna formazione plausibile, o meglio senza titoli di maturità, in specie di tutti i generici, subito rincasati dopo essere stati coronati, di comuni strumenti con lode, mai validato con le cose antiche della storia di radice esclusivamente Arbëreşë.

Questi in particolare i più determinanti alla perdita di ogni valore antico atto a comprendere meglio e di più, le motivazioni che hanno determinato lo stato della realtà fortemente penalizzante barcolla od oggi in ogni evento prodotto.

I cinque temi citati, sono stati soprattutto realizzati con – l’auspicio, il coraggio e la volontà – di porre in essere una diversa mentalità, oltre un più fattivo modo di interagire con le multiformi dinamiche dei tempi nuovi, che non certo collimano con le cose del passato, garantendo futuri solidali di una identità parallela che ormai si va estinguendo in nome non degli arbereshe, ma della moderna Albania balcanica (?).

È convinzione che questo lavoro sminuisca l’inquietudine, lo smarrimento e le dif­ficoltà di ogni genere che si autoelegge o viene eletto in attività di oggi, o del passato breve e secolare, addebitando, a tutti i livelli istituzionali, senza alcu­na remora, la cattiva conduzione dei privilegiati, i quali privi di ogni sorta di substrato culturale adeguato, considerano la funzione pubblica, qualsiasi essa sia (politica, amministrativa, scolastica, ecc.), come uno strumento di potere e non di servizio.

Questo ha fatto sì che una nuova epoca nascesse per condurre a superare le difficolta di questo cuneo anomalo, geometricamente piatto, seminando per questo, nostro mal grado, raccolti che non possono alimentare le cose della nostra esistenza, asservendola ad interessi personalistici e spesso giunge ad utilizzare il po­sto di responsabilità per tessendo oscure e adombranti tele, il cui messaggio finale non conduce a nobili principi di fratellanza leale.

In queste contingenze, la conoscenza della storia locale potrebbe apparire un insi­gnificante artificio o vano esercizio al modello di iunctura locale, non potendo rappresentare la soluzione dei grandi temi che interessano e coinvolgono la resilienza posta in esame.

Tuttavia, premesso che tale soluzione è una questione di ricambio generazionale, nella speranza che quelli che verranno, saranno migliori di noi, a ben considerare, il contesto in cui la storia locale è inserita, costituisce uno strumento insostituibile per la presa di coscienza di taluni risvolti dei tempi prossimi e lontani che siano; l’importante è adesso, per questo serve segnare­ un percorso ben determinato a cui si dovranno organizzare i Katundë gli şeşi e i due governi locali: ovvero quello delle Donne la Gjitonia e quello degli Uomini Kuşetë.

Una presa di coscienza che, mira ad abiurare all’uso delle più nobili facoltà umane, per fare un primo passo per interagire con le contingenze attuali e, non fre­nare ulteriori riflessioni sul passato per confrontarlo col presente con mono temi o riflessioni che co­stituiscono un valido mezzo per “leggere e comprendere” le complesse dinamiche odier­ne riversate, come si fa con l’aceto quando, la speranza, è l’unica arma per far diventare buon vino l’aceto corrente.

Sono proprio le cose minime che ci permettono di comprendere meglio ogni cosa della nostra storia locale che unisce la regione storica, perché più vicine al nostro animo e al nostro quotidiano, laddove le vaste conflittualità internazionali tendono a sacrificare ciò che è ritenuto marginale.

La ricerca dei fatti, per quanto di portata limitata, che hanno interessato un qualsiasi Katundë, costituisce un mezzo formidabile per avvicinarsi alla verità, laddove i documenti ufficiali, proprio in quanto tali, testimoniano per lo più solo ciò che l’ufficialità deve dire proporre o dimostrare in favore dei poteri forti.

Per questo diventa fondamentale “tradurre per capire” le cose necessarie, oggi più che mai, dal mo­mento che gli artifici dei messaggi politici sono intesi solo ad assicurare il consen­so ma non a risolvere i problemi che un certo tipo di politica ha causato nello svolgersi delle cose.

Siamo coscienti che in questi ambiti e in queste contingenze ci vuole coraggio nel proporre di seguire la strada della conoscenza e della coscienza, anche individua­le, e a proporre di lasciare uno spazio per “pensare con solare mira”.

Tutto questo è necessario farlo, af­finché la via prescelta nella qualità di operatori culturali non sia stata percorsa in­vano.

Ecco allora una “proposta” di lettura di alcuni “temi fondamentali” della regione storica diffusa sostenuta in Arbëreşë, che si possono identicamente riversare in ogni Katundë.

Storia di estremo interesse che affonda le sue radici nei tempi della magna Grecia, poi dei Romani, i Longobardi, i Bizantini, i Cistercensi sino alle vicende che dal 1473 iniziarono sollecitare la diaspora balcanica, quando tramite vari insediamenti agricoli costoro occuparono il territorio ispirati dagli abbracci posti ad ovest del fiume adriatico, sino dove riposa lo Jonio; se ne ha traccia nei pochi cocci che ancora si possono rilevare nella modeste Kallive prime, inglobate nel costruito del palazzi nobiliari ottocenteschi.

La cultura agricola e pastorale venne rivitalizzata dai “mo­naci” greci i quali, sulle basi della solidarietà religiosa di  Llighjia, interagendo con l’ambiente naturale, rifondando la nuova civiltà nate lungo i “lavinai” le quali, unite attorno all’edicola religiosa prima, costituirono il nucleo dove il “Genius loci ” diede i frutti che ancora oggi sono rinvenibili. Civiltà che poi si risolse nella dismissione di ogni senso di unità per sfociare in un duro contrasto tra nobiltà e Signoria civile e religiosa.

Superati an­che i dissidi, in tale occasione venne ridotto il rito Ortodosso in favore del Latino e, nel Set­tecento visto la deriva di credenza in atto, si avviò un loco di formazione clericale moderata Bizantina, della società Arbëreşë controllata sempre dai clerici Latini di locale pertinenza una ricchezza che nell’Ottocento inoltrato finì col soggiacere alle diverse dinamiche socioeconomi­che della nuova borghesia dell’Italia unita.

Il substrato religio­so eredità di numerosi luoghi di culto rappresentò sempre un elemento trainante di alcune macro aree della Regione storica.

Terminando con la determinazione due opposte fazioni di rito latino e greco bizantino, determinando anche contingenze e vantaggio di una sempre più stretta cerchia di famiglie, il cui potere si espresse nelle forme consuete di dominio dei Katundë.

Tali aspetti della storia dei centri storici, sono stati ricostruiti dagli autori ricorrendo alle indispensabili ricerche o indagini sul territorio.

Esse rappresentano le basi per ulteriori studi che, tramite saggi monografici, potrebbero contribuire a meglio conoscerne le dinamiche storiche anche dal punto di vista della credenza locale delle diverse macro aree.

Perciò, nella coscienza va considerato un punto di partenza segnato con un edito in tale direzione che deve servire a far emergere nuove domande, e nell’auspicio che anche questo sarà da stimolo a pochi o a molti per farli riflettere sulle proprie radici locali, residenti o emigrati, ma soprattutto ai giovani, affinché, tramite una maggiore presa di coscienza, li aiuti a meglio intera­gire coi tempi nuovi in prospettiva e per costruire un futuro sostenibile con la solida radice Arbëreşë.

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GIS e Beni Culturali: beni tangibili e beni intangibili GIS and Cultural Heritage: tangible and intangible assets Caterina Gattuso a, Atanasio Pizzi b, Valentina Roviello c

Posted on 22 giugno 2024 by admin

a Professor, Dep. of Biology, Ecology and Earth Sciences, (DiBEST), Univ. of Calabria, Rende (Cosenza), Italy, caterina.gattuso@unical.it

bArchitetto ricercatore sulla storia arbëreshë, atanasio@atanasiopizzi.it

c Dep. of Chemical, Materials and Production Engineering (DICMaPI), Univ. degli studi di Napoli Federico II, Napoli, Italy, valentina.roviello@unina.it

 

Abstract

La valorizzazione dei beni culturali presenti in un determinato contesto territoriale può essere perseguita anche attraverso strumenti avanzati di catalogazione, composizione e rappresentazione delle informazioni in un dossier articolato in cui le componenti siano relazionate in modo da fare emergere ulteriori elementi caratterizzanti. Fra questi strumenti si (Sistemi Informativi Geografici). Un GIS permette di sovrapporre diversi tematismi o livelli informativi per produrre nuove informazioni e quindi dati utili per la gestione di banche dati territoriali.

In questo paper si propone un approccio metodologico, fondato sull’uso di GIS, finalizzato alla ricostruzione di scenari storici e al disegno di percorsi turistici, mettendo in risalto i beni d’interesse culturale situati in un’area.

Il lavoro propone e illustra due casi applicativi che, pur molto diversi, si prestano ad esprimere le potenzialità dell’approccio metodologico. Il primo, di tipo tangibile, consiste in  una ricerca mirata ai siti archeologici della colonia di Vulturnum, rintracciabili nel sistema fluviale della bassa pianura del fiume Volturno (Campania); il secondo caso, di tipo intangibile, è relativo alla redazione di una carta della tutela della Regione Storica Arbëreshë”.

 

Abstract

The promotion of cultural heritage present in a particular local context can be pursued through advanced tools for cataloging, composition and representation of information in a dossier articulated in which the components are related in order to bring out more distinguishing features. Among these tools (Geographic Information Systems). A GIS allows you to overlay different thematic information layers or to produce new information and therefore data for the management of territorial databases.

In this paper we propose a methodological approach, based on the use of GIS, aimed at the reconstruction of historical scenarios and to design tourist routes, highlighting the cultural interest located in the area.

The paper proposes and illustrates two case studies which, though very different, are suitable to express the potential of the methodology. The first, of a tangible, consists of a targeted search of the archaeological sites of the colony Vulturnum, traceable in the river system of the lowlands of the river Volturno (Campania); the second case, an intangible one, is related to the drafting of a charter for the protection of Region Historical Arbëresh “.

 

Parole chiave: GIS, Beni culturali tangibili, Beni culturali intangibili

Keywords: GIS tangible cultural heritage, intangible cultural heritage

 

  1. Introduzione

Nel relazionare informazioni e dati reali, espressi sotto forma di simboli, riguardanti un luogo geografico riportato su mappe in scala, la cartografia offre la possibilità di operare specifiche elaborazioni a fini conoscitivi, che possono estendersi non solo nello spazio, ma anche nel tempo.

È noto che un GIS (Geographic Information System) permette di sovrapporre diversi tematismi o livelli informativi per produrre nuove informazioni e quindi dati utili per la gestione del territorio.

La sovrapposizione (overlay) delle carte storiche con quelle più recenti consente di tracciare l’evoluzione fisica, ambientale e culturale di un determinato territorio.

Le informazioni in tal modo acquisite diventano quindi di riferimento sia per il patrimonio dei beni culturali di tipo tangibile costituito dal patrimonio monumentale ed archeologico, sia per il patrimonio di tipo intangibile, quale è la cultura arbëreshë solidamente radicata sul territorio dell’Italia meridionale.

I dati territoriali incrociati e posti a confronto, con l’utilizzo di un software GIS, possono fornire importanti riferimenti concernenti i beni tangibili per la gestione e la valorizzazione del patrimonio materiale esistente in una macro-area definita. Nel caso di beni intangibili invece diverranno fondamentali per la stesura dei contenuti di una “carta per la tutela” quale ad esempio quella di una determinata minoranza storica linguistica che presenta nuclei diffusi sul territorio.

  1. Beni tangibili e aree archeologiche

La colonia di Vulturnum prende il nome dal fiume che attraversa buona parte della pianura campana. L’area in esame è stata a lungo oggetto di studi multi-disciplinari, volti:

  • alla ricostruzione della stratigrafia del sottosuolo, che nel tempo è stato condizionato da frequenti variazioni eustatiche e da eventi vulcanici, con conseguenti interdigitazioni di depositi di ambiente marino, alluvionale, vulcanico, e la formazione di una circolazione idrica sotterranea superficiale (Sacchi M. et al., 2014, Amorosi A. et al., 2012);
  • allo studio dell’uso del suolo e della geo-morfologia costiera dall’antichità ad oggi, ossia lo studio dei processi di tipo naturale o antropico che hanno determinato l’evoluzione del territorio e della costa (D’Ambra G. et al., 2009, Ruberti D. et al., 2008);
  • allo studio delle popolazioni floristiche e faunistiche che popolano l’area, mirato alla conservazione del paesaggio, conferendole un’importanza non solo a livello naturalistico, ma anche ecologico (l’Oasi dei Variconi e la Pineta di Castel Volturno) (D’Ambra G. et al., 2005).

Pochi studi sono stati condotti su quest’area, per la ricerca dei siti di interesse archeologico mirati alla loro conservazione. Tuttavia, dalla ricerca bibliografica ne emerge uno molto dettagliato (Crimaco L., 1991), nel quale viene sviluppata in modo dettagliato una applicazione GIS (Roviello V. 2008). Si racconta che, dove sorge ora il centro di Castel Volturno, nell’antichità sorgeva la colonia romana di Vulturnum. Alcuni autori come Varrone, più tardi Plinio e Pomponio Mela, la definiscono come un oppidum, altri la annoverano semplicemente perché sorgeva nei pressi del mare o nei pressi del fiume Volturno, ma essa non è menzionata in alcuna fonte di età tarda. Fondata nel 194 a.C, fu sede episcopale, come sembrano confermare alcuni documenti dell’età di Papa Simaco (498-514) e anche una lettera attribuita a Papa Pelagio I (551-556). La diocesi di Vulturnum rimase ancora attiva durante il pontificato di Papa Gregorio Magno (540-604), alla fine del VI secolo. La ricerca topografica condotta a tappeto su circa 70 kmq di territorio, nelle varie località della colonia di Vulturnum, ha fornito parecchi dati utili a ricostruire le abitudini della civiltà insediatavi e alcune delle attività che producevano sviluppo nell’area.

All’interno di case coloniche, ville, villaggi, santuari e necropoli, sono state recuperate numerose ceramiche, suppellettili, frammenti di pavimento e mosaici, statue, teste votive, articoli di corredo funebre, tutti databili tra la seconda metà del IV sec. a.C. e il VI sec. d. C. (Figura 1a). L’ampio utilizzo della ceramica è testimoniato anche da un esteso scarico di anfore, ritrovato nei pressi di un ansa fluviale, che probabilmente riconduce alla presenza di un vero e proprio quartiere industriale specializzato nella produzione di ceramiche. Inoltre il ritrovamento di diverse macine da grano in lava leucitica, richiama l’attività di coltivazione cerealicola lungo le allora fertili sponde fluviali. Le religiosità erano molto sentite all’epoca, basti pensare alle numerose pratiche e luoghi di sepoltura presenti nelle necropoli (tombe a cappuccina, a cassa e a camera).  L’overlay eseguito in ambiente GIS, mediante il software Geomedia Professional, ha permesso di ampliare le conoscenze su questa colonia, sovrapponendo a tali dati, la ricostruzione storica dei meandri abbandonati del fiume Volturno (Figura 1b).

 

Probabilmente il motivo per cui i siti ricadono sulle antiche anse abbandonate è da ricondurre al ruolo di via di comunicazione che aveva il fiume, che consentiva di raggiungere più facilmente le  aree interne dal mare, ma   anche e soprattutto alle attività urbane e commerciali, in quanto le fertili sponde offrivano alle popolazioni un grande beneficio, che quindi qui vi si insediavano. Purtroppo l’area presenta oggi un notevole livello di inquinamento e degrado, con ogni sorta di rifiuti accumulati nel corso degli anni nelle acque del fiume, sulle sponde, nei suoli e perfino nella falda idrica sotterranea.

 

  1. Beni intangibili e cultura arbëreshë

Gli ambiti naturali e i sistemi urbani diffusi sulle colline dell’Italia meridionale, rappresentano l’humus ideale dove i beni tangibili e intangibili della minoranza “arbëreshë” hanno trovato dimora e vita per riverberarsi ciclicamente sino a oggi. Storicamente la minoranza è riconosciuta come una delle poche in grado di tramandare, grazie alla consuetudine, all’idioma e ai riti, utilizzando la sola forma orale (Figura 2a). Per tale motivo gli studi hanno privilegiato gli aspetti prettamente linguistici, sottovalutando per decenni il rapporto che gli esuli hanno avuto con i territori posseduti, abitati, frequentati o attraversati; in altre parole, è venuto a mancare l’attenzione verso il GENIUS LOCI (Pizzi A., 2003). Ciononostante, la storia sin dai tempi dei romani con Servio, ricorda che “nessun luogo è senza un genio” (nullus locus sine genio).

Per sopperire a tale carenza storica è possibile trarre informazioni, attraverso la sovrapposizione (overlay) e il confronto di carte storiche con quelle più recenti fornite dall’Istituto Geografico Militare (IGM) che, tenendo conto anche dei rilevamenti digitali odierni, permetteranno di tracciare un percorso storico, ambientale e culturale della minoranza e sopperire così alla mancanza di informazioni documentali.

Per delineare un quadro delle aree prese in esame, il territorio del Regno delle due Sicilie è stato suddiviso in macro-aree omogenee corrispondenti alle Regioni dell’Italia meridionale (Figura 2b) come di seguito riportate:

Abruzzo: Provincia di Pescara; (Macroarea della Strada Trionfale);

Molise: Provincia di Campobasso; (Macroarea del Biferno);

Campania: Provincia di Avellino; (Macroarea Irpina);

Lucania: Provincia di Potenza; (Macroarea del Vulture, del Castello e del Sarmento);

Puglia: Provincia di Lecce e Taranto; (Macroarea del Limitone e della Daunia);

Calabria: Province di Cosenza; (Macroarea della Cinta Sanseverinense suddivisa in sub m.c. del Pollino, delle Miniere, della Mula, della Sila Greca); Provincia di Crotone; (Macroarea del Neto); Provincia di Catanzaro; (Macroarea dei Due Mari); Provincia di Regio Calabria; (Macroarea dei Caraffa di Bruzzano);

Sicilia: Provincia di Palermo; (Macro-area del Primo Maggio).

 

         Fig. 2 – Regione Storica: aspetti caratteristici, a. Italia : carta delle regioni Arbereshe, b.

 

Va rilevato inoltre che, nel Mediterraneo, i nuclei insediativi e i loro contesti naturali ricadenti in questi macro-sistemi abitativi essendo ritenuti “preziosi frammenti dell’umanità non replicabili”, vanno considerati oggetto di studi privilegiati e necessari per garantirne una corretta tutela.

La realizzazione di un G.I.S., diventerebbe, quindi, un supporto fondamentale, in cui far convergere tutte le informazioni acquisite.        

L’implementazione di un Relational Data Base Management System (RDBMS), inoltre, fornirebbe informazioni dettagliate riferibili a momenti storici di zone ben identificate, inquadrandone l’evoluzione e gli aspetti che hanno caratterizzato l’insediamento dei minoritari albanofoni.

 

 

  • Carte storiche e disposizione dei centri urbani

 

L’analisi delle carte storiche consente già, semplicemente mediante la loro sovrapposizione, di rilevare una linea altimetrica lungo la quale sono situati gli agglomerati diffusi arbëreshë corrispondenti agli odierni centri storici.

 

 

L’interessante informazione ottenuta rafforza il principio secondo cui le scelte d’insediamento nella provincia Citeriore, come storicamente accade, non sono da ritenere casuali, ma dettate da esigenze strategiche preordinate e studiate per rilanciarne l’economia e per garantire opportune difese da incursioni alloctone.

Nel confrontare i rilievi cartografici di varie epoche relativi ad aree a rischio malarico (Figura 5), si è rilevato che l’edificato residenziale segue sempre lo stesso tracciato della linea riconducibile alla detta cinta Sanseverinense o della linea isoglossa, facilmente tracciabile mediante strumenti largamente utilizzati nella geografia linguistica, che collega tutti gli agglomerati della provincia citeriore calabrese su uno stesso livello (Figura 3 b).

Il tracciato trova conferma anche nelle abitudini storiche delle genti che vissero le terre oltre il mare Adriatico così come richiamato dal teorema del filosofo Aristotele, riportato nel libro VII° che si riferisce alla città buona.

 

Fig. 3 – Calabria: aree a rischio Malarico, a; Calabria: disposizione dei paesi Albanesi, b.                                         

Tali informazioni consentono di comprendere i criteri seguiti ed utilizzati per riconoscere e selezionare aspetti climatici, orografici e di salubrità adeguati che in terra citeriore erano garantiti nei territori posti a 400m sul livello del mare; si tratta delle isoipse sulle quali sono posizionate le residenze albanofone. I presidi di residenza, furono trasformati dagli abitanti, abituati da secoli al rispetto del territorio, stabilendo un rapporto di mutua e rispettosa convivenza con i parametri morfologici, orografici, climatici, vegetali e faunistici delle aree. (Mazziotti I., 2004, Giura V, 1984) In queste macro-aree, assicurata la salubrità dei luoghi di residenza, confermate le costanti dei sistemi urbani, si è costruito utilizzando tipologie abitative ancora presenti su tutto il territorio della RsdA (Regione storica diffusa Arbëreshë), adoperando esclusivamente materiali reperibili in loco senza troppo incidere sul territorio, composte da tre componenti:

  • il recinto delimita il territorio ove la famiglia allargata aveva il controllo assoluto;
  • la casa, anch’essa circoscritta dal cortile, costituita da un unico ambiente in cui conservare le poche suppellettili e alimenti;
  • il giardino, luogo della prima spogliatura, dimora dell’orto stagionale.

La presenza di tali elementi segna il territorio occupato dagli albanofoni, dando vita nel corso della storia ai rioni che ne caratterizzano i paesi con i toponimi storici.

Per quanto attiene agli aspetti sociali, nel periodo che va dal XV secolo, data di arrivo degli albanofoni, sino al XXI secolo, gli esuli lentamente si dissociano dal modello familiare allargato, per quello urbano e in seguito, in tempi più recenti, si afferma il modello della multi-medialità (Mandalà M. 2007).

 

Quando la famiglia allargata inizia ad assumere la connotazione di famiglia urbana, si realizzano i primi isolati (manxane), seguendo schemi indissolubili sociali, dando inizio allo sviluppo degli agglomerati diffusi albanofoni, tendenzialmente accolgono le direttive dell’urbanistica grecanica, ciò è identificabile nella regola che allocava prevalentemente gli accessi delle abitazioni sulle strette vie secondarie, ruhat e con molta diffidenza nel tardo periodo in quelle principali hudat (Capasso  B. 1905). Un’ attenta disamina comunque non può sorvolare su un aspetto fondamentale: il significato di “rione” e di “quartiere”, due momenti storici che identificano ambiti prettamente urbanistici e quindi elastici, da quelli delle disposizioni rigide dei presidi militari; il rione, diviene elemento fondamentale degli assetti urbanistici diffusi, dei modelli caratteristica arbëreshë. Per confermare quanto detto è stato eseguito un confronto su aero-foto e planimetrie dei Comuni di Cavallerizzo, Santa Sofia De Leo P. (1988) e Civita Cirelli F. (2006), da cui emergono schemi tipologici di sviluppo urbano diffuso, riferibile al concetto di famiglia allargata Dodaj P. (1941), lo stesso che accomuna gli ambiti minoritari del Regno di Napoli dal XV secolo abitati da albanofoni. (Figura 4 a, b). Lo schema di sviluppo segue due parametri fondamentali: “articolato”, quello più antico, mentre in tempi più recenti riconducibili a quello “lineare”; essi vengono generati da presupposti sociali che poi sono riconducibili all’antico concetto di Gjitonia (Pizzi op. cit) .

 

Fig. 4 – Insediamenti rupestri in Albania, a. Insediamento di Cavallerizzo in Calabria, b.

 

Quest’ultima è riconducibile alla frase “dove vedo e dove sento”, che tradotta letteralmente dall’albanese antico, vuole individuare il luogo in cui gli arbëreshë riescono a convergere i cinque sensi; infatti la Gjitonia si avverte, si respira, si assapora, si vede, per certi versi è persino palpabile, senza poter essere tracciata fisicamente (Pizzi op. cit).

Nello specifico è stato esaminato in maniera più dettagliata il borgo di Civita, in quanto conserva intatto il suo antico assetto planimetrico, infatti il suo centro storico ha subito solo lievi ammodernamenti e la periferia si presenta pur essa intatta poiché non sono state realizzate aree periferiche di espunzione (Figura 5).

La costruzione di un GIS in cui inserire i dati, consentirebbe di gestire informazioni utili per creare un percorso storico-culturale riferibile ai beni tangibili e intangibili albanofoni e quindi di avviare opportune azioni di tutela del patrimonio. Ciò anche in considerazione del dibattito relativo ai centri storici minori tendenti ad avere più parsimonia nell’utilizzo del territorio e maggiore sensibilità nei confronti della tutela dell’immagine del paesaggio.

Poiché l’architettura può essere considerata una traccia sul territorio, simbolo del carattere distintivo    degli agglomerati albanofoni, le informazioni raccolte nel sistema geografico d’indagine possono essere di ausilio non solo per sostenere le azioni di recupero dell’antico edificato ma anche per tracciare in modo più approfondito la storia degli ultimi sei secoli. Determinati caratteri costruttivi rilevabili nelle architetture appartenenti ai sistemi (Pizzi op. cit) urbani arbëreshë apparentemente privi di significato, possono infatti, con l’ausilio di un sistema geo-referenziato, rivelarsi utili elementi (Pizzi op. cit) ai fini della ricostruzione delle modalità di crescita e delle trasformazioni urbane di una cultura caratterizzata soprattutto da un patrimonio di conoscenze che si tramanda solo oralmente.

L’intangibilità dei valori arbëreshë si può quindi cogliere anche attraverso segni chiaramente tangibili riscontrabili sul territorio quale ad esempio le tipiche rotondità che caratterizzano i vicoli e rappresentano i confini dei lotti (Gonzalès R. A. 2005).

Il recupero dei beni tangibili e intangibili dei centri storici albanofoni attraverso un RDBMS avrà come riferimento le cartografie riferite alle tappe della storia, i concetti della famiglia allargata e la sua ascesa, dati legati all’economia, i concetti dell’urbanistica e degli agglomerati diffusi, le arti edificatorie, l’analisi delle metodiche e l’utilizzo dei materiali, dati che, opportunamente intrecciati, forniranno un itinerario storico per interpretare e comprendere l’evoluzione delle singole macro-aree urbane. La conoscenza del GENIUS LOCI albanofono sarà fondamentale per un recupero funzionale più attendibile e corrispondente all’immagine architettonica arbëreshë, secondo un protocollo sancito dalla Carta della Regione Storica, la cui finalità è la tutela delle peculiarità del tessuto edificato storico. In quest’ottica le informazioni contenute nel GIS diventano basilari per il recupero e la valorizzazione di spazi, edifici e ambiti che rappresentano la vera risorsa dell’economia minoritaria, secondo consuetudini uniche; essi possono permettere inoltre di individuare tipologie, tecnologie pigmentazioni e materiali tipici che hanno tenuto vive le costanti dei minoritari albanofoni; lingua, consuetudine e religione, tramandate esclusivamente in forma orale.

 

Conclusioni

Informazioni e dati intangibili diversamente per quel che accade per quelli tangibili non possono essere facilmente trasferiti su mappe geo-referenziate; ne deriva la necessità di individuare elementi sul territorio che assumano funzione di supporto sulla base di opportune correlazioni.

Nello studio proposto vengono esaminate due tipologie di patrimonio, una di tipo tangibile ed una di tipo intangibile che hanno un comune forte riferimento rappresentato dal territorio in cui si trovano.

Il primo è costituito dai siti archeologici della colonia di Vulturnum, presenti nel sistema fluviale della bassa pianura del fiume Volturno in Campania; il secondo riguarda la cultura “Arbëreshë” che trova le proprie connessioni nel linguaggio tipologico-costruttivo e nella peculiare conformazione urbana dei centri albanofoni.

In ambedue i casi appare di notevole rilievo l’utilizzo delle potenzialità offerte dai sistemi GIS, essi attraverso la raccolta geo-referenziata di dati ed informazioni, consentono di acquisire un  importante bagaglio di conoscenze utili per valorizzare il patrimonio di beni tangibili di una comunità ed anche quelli apparentemente meno evidenti rappresentati dai beni intangibili la cui esistenza si esprime attraverso forme espressive singolari leggibili sul territorio a cui sono associati aspetti culturali.

Le informazioni contenute in un sistema geo-referenziato dovrebbero fornire dati attraverso i quali sviluppare attività e progetti di valorizzazione come la redazione della carta per la tutela della Regione Storica Arbëreshë” prevede.

 

References:

Amorosi A., Pacifico A., Rossi V., Ruberti D. (2012). Incisione tardo Quaternaria e deposizione in un ambiente vulcanico attivo: il riempimento della valle incisa del Volturno, Italia meridionale, Sedimentary Geology., 282, pp. 307-320, ISSN: 0037-0738.

Capasso B. (1905). Napoli Greco Roman, Arturo Berisio.

Cirelli F. (2006). Il Regno delle Due Sicilie descritto e illustrato 1853 – 1860Calabria  Papato edizioni per conto della Soprintendenza della Calabria

Crimaco L. (1991), Volturnum, Quasar Edizioni – Roma, ISBN 88-7140-027-5 .

D’Ambra G., Petriccione M., Ruberti D., Strumia S.,Vigliotti M. (2005). Analisi multidisciplinare delle dinamiche dei caratteri fisici, antropici e vegetazionali nella Piana Campana (CE), Atti della 9° Conferenza Nazionale ASITA, Catania, 15-18/11/05, vol.1, pp. 843-851.

D’Ambra G., Ruberti D., Verde R., Vigliotti M., Roviello V. (2009). La gestione integrata della fascia costiera: studio e correlazione di variabili a carattere biologico, ecologico, chimico e sedimentologico del Litorale Domitio, in Provincia di Caserta, Atti 13° Conferenza Nazionale ASITA, Fiera del Levante Bari, 1-4/12/2009.

Dodaj P. (1941). Il Kanun le basi morarli e giuridiche della società albanese, Besa.

Giura, V. (1984). Storie di minoranze: ebrei, greci, albanesi nel Regno di Napoli. Napoli: Edizioni Scientifiche Italiane.

Gonzalès R. A. (2005). Exstremadura Popular Casas y Pueblos, Collezione arte/arqueologia.

Mandalà M. (2007). Mondus Vult decipi – i miti della storiografia arbëreshë, Pa: A. C. Mirror.

Mazziotti I. (2004). Immigrazioni Albanesi in Calabria nel XV secolo, Edizioni il Coscile.

Pizzi A. (2003). Sheshi i Pasionatith.

Roviello V. (2008). Analisi geologico-ambientali del litorale domitio e del basso corso del fiume Volturno, Tesi magistrale inedita.

Ruberti D., Strumia S., Vigliotti M., D’Ambra G., D’Angelo C., Verde R., Palumbo L. (2008). La gestione integrata della fascia costiera: un’applicazione al litorale Domitio, in provincia di Caserta, Atti del Convegno Nazionale “Coste Prevenire, Programmare, Pianificare”. Maratea, 15-17/05/2008, Studi e ricerche della collana dell’Autorità di Bacino della Basilicata n. 9, 309-319.

Sacchi M., Molisso F., Pacifico A., Ruberti D., Vigliotti M. (2014). Evoluzione olocenica del Lago di Patria, Campania: un esempio Mediterraneo di laguna costiera associata a un sistema deltizio, Global and Planetary Change. 

De Leo P. (1988). Minoranze etniche in Calabria e in Basilicata, Di Mauro Editore

 

 

 

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DIVULGATORI PRIMA MENZUNASJ, POI DALL’IŞCHJ E OGGI ZAMANDÀRJ (Na bëmi me crje e garbë i tundurë)

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Posted on 15 giugno 2024 by admin

Aglomerati primariaaaa

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Uno dei più dolorosi episodi delle umane miserie, può definirsi la pena più antica del genere umano, in altre parole, mettere a disposizione dell’offerente tutte le intime cose del pagante; e ogni cosa si consolida in prostrazione fisico/morale.

I protagonisti sono sempre due, una meno illustre, alla spasmodica ricerca di viandanti o “faccendieri mercatali senza scrupolo” e, l’offerente disposto ad ogni cosa pur di ricevere compenso.

Entrambi lottano, per la propria sopravvivenza, fisica o morale dirsi voglia e, i vestimenti hanno sempre come scenario angoli di strade, piazze, lavinai e palazzi, dove non vi è mai nata erba buona, perché luogo buio e usurante, che riconduce e sottane usate come lenzuolo coprente.

Tutto davanti la casa dei clerici che chiedono, preghiera alla clientela, generando fedeli con mira del sacrificio in sole dieci paternostri, dopo aver avuto quanto richiesto, con poca spesa.

Questo atto antico pur se bandito da ogni credenza, con prescrizioni, ricompare sempre primeggiante, balda, sfrontata ed impudica, perché il bisogno di donazioni, premiata con l’olio concimato dalla pelle in decomposizione, di memorie antiche.

Sono note le vicissitudini dalle sue fioriture nella Gjitonia bizantina, fino ai giorni nostri e, i ricavi, prima di essere frantoiati sono depositati per arroganza lì dove è sepolto l’antico fonte battesimale.

Noi studiosi e divulgatori di questo lavoro di ricerca, poniamo ogni pena dove tutto ha origine, sia nel bene che si può ottenere conoscendo le cose e quindi, per il male prodotto, in tutto, una memoria che restituisca decoro e pudibondo all’involucro che si addice al buon costume e, alla pubblica onestà di questo luogo.

I quadri appariscenti e senza vergogna saranno coperti, ed apposite note serviranno a evidenziare il degrado umano, a cui hanno portato all’avvilimento di coloro che frequentano gli antri, ove infelicissime creature trafficano del loro onore senza avere mai un momento di vergogna o ripensamento pudico.

L’esposizione del cattivo gusto a buon vedere degli artisti, rappresenta il più efficace rimedio all’apparire come venditori di sé stessi, pronti ad infettarsi con sereno e gioioso animo di unione falsa per danaro.

Tuttavia nonostante le tante apparizioni pubbliche e private, i prodi addetti, non hanno avuto interesse verso niente e nessuno se non lasciare impronta con il loro godimento ai posteri, non con immagini benevole ma il tanfo del degradarsi della loro radice infetta, oltremodo ornata di femminei acconciamenti in pose di vilissimo, stesi a riposo, nel pieno delle proprie attività utili a ricondurli negli orti ornati con feci e cose deteriorate.

Noi sveliamo turpezze e brutture, ma speriamo che da queste abbiano beneficio, in rifugio tutti coloro che vi porteranno lo sguardo per rimanere sconcertati o offesi.

Se un tale orrore dovesse ancora oggi invade gli animi, i tristi fondaci rimarranno deserti, con l’infamia certa del commercio, di chi vende anima e corpo, ai compratori a buon mercato, gli stessi che non sanno fare famiglia, Gjitonia, Shëşë e Katundë.

Resta solo chi si occupa di storia, naturalmente quella vera, a partire dalla parlata, con argomento i trascorsi del governo delle donne, quello degli uomini e, solo quanti hanno segnato con attività benevole, le cose che hanno reso la minoranza l’esempio europeo di famiglia e integrazione.

Certamente sentir parlare di Gjitonia locale nominando l’addolorata madre “Clementina”, che morì sofferente in attesa del figlio che non rincasò mai, ad opera di una discendenza ignorante, blasfema e scostumata, che di quel nome inopportuno ne faceva bandiera.

Non da meno sono le tante storie diffuse in maniera inopportuna, in diverse occasioni e tutte nate da quella generazione di generi maschili e femminili in perenne competizione, le stesse che da oltre quattro decenni fanno danni e disperdono al vento quel matrimonio tra canto vecchio e musica nuova, in attesa che nasca la famiglia culturale, in questo secolo appena iniziato.

Scrivo de mio paese di costumi storia uomini architettura e i cunei agrari e della trasformazione, ma vengono preferiti infanti sena arte, siccome sanno rompere le cose, si sentono fabbri che sanno ferrare gli asini, che come loro per la poca manualità, diventano zoppi e ciechi non riconoscono neanche gli odori che emana il ferro caldo quando si aletta sull’unghia del quadrupede.

Arrivare ad udire che per la crescita demografica locale, si lasci nelle disponibilità e nella direttiva culturale di chi è nato da rapporti pagati a buon mercato o con semplici amuleti di mercatele produzione, rappresenta il termine storico dove sprofonda il buon gusto la cultura, valorizzando quanti vogliono apparire e non hanno un minimo di energia per retro illuminarsi.

L’acqua scorre è noto segua il tempo e, mentre il tempo non si ferma, l’acqua si arresta, cambia itinerario, fa solchi, nei luoghi ameni; qui l’uomo che osserva dalle prospettive desertiche e vuote, prende spunto da quelle scalfitture di acqua lenta e saggia, costruendo bisogni dettati dal tempo che passa.

Questa è una metafora che potrebbe aiutare molti addetti acerbi, ma purtroppo la media culturale risulta essere molto bassa o più volte labile dirsi voglia, qui fa da mediatore il vento che miete le cose deboli, deformando quelle più solide, risparmiando solo la saggezza, quella fatta di materia che ne tempo, ne acqua e ne vento, possono mutare.

Questa è una prospettiva che parte e trovano largo spazio in quest’opera pronta per le stampe, in cui l’autore – in anticipo su altri piccoli celebranti – fornisce certezze e, non parla di mondi paralleli di alcun che, in alcun dove avuto luogo.

Qui si inizia a trattare le Metodologie di radice mai utilizzata di tempi post industriali secondo le metodiche di “Percorsi di finalità Agili”, specie in campo di ricerca storica, sviluppo e indagine arbëreşë.

Un atto che se opportunamente, reso solidale, tra gli addetti potrebbe rappresenta l’atto o immagine atta a riaprire il portone dei liberi pensatori, del monte Echia, chiuso per disprezzo verso i regnanti di cultura anomala.

Nello specifico i “Percorsi di finalità Agili”, largamente diffusi nella ricerca a fini di progetti condivisi, specie se approvata da un numero di addetti, che per capacita professionali, progettuali, ricerca e conferma, delle attività, in  protocolli, restituiscono come atto finale un progetto/indagine, frutto di un confronto a cui non serve il timbro del dipartimento falsamente illuminato  o, blasonati attori non parlanti, perché il risultato ottenuto  è il nettare di una armata culturale che verifica e approva ogni fatto contemplato nel progetto, trattato dall’inizio alla fine dello studio condotto non da poveri e disarmanti singoli praticanti senza lumi.

Storicamente le cose tramandate dagli Arbëreşë sono definite o riportate da singole figure, le quali, per quanto possano essere precise, dopo il 1799 riportano elementi di caratura non, riconoscibili a discorso pregressi e presentati nel 1807 come novità e, non può essere farina di elementi capaci delle misure di fraterna fedeltà o di promessa data.

Oggi l’agio di sedere innalzato su una cattedra non può o non deve consentire libertà di arbitrio, o libera interpretazione per i frequentatori “solitari di archivi, biblioteche o vutti” per fare lavine che non fanno strade e ne segnano memoria.

Un tale disse un di: venite a me, non come maestri o professori, ma semplici scolaretti senza futuro e, così, potrete ambire un giorno a divenire genere colto senza peccato di prostrazione.

Privati, Gjitonie, Sheshi, Istituti, Istituzioni, sociali e di credenza, da troppo tempo realizzano editi, garantendo la loro genuinità storica, secondo la regola del riversamento di aceto di vino altrui, o meglio, in favore di quanti non hanno mai avuto modo di confrontarsi ed osservare, ragion per la quale le cose della storia degli arbëreşë sono opera di variegate garanzie editoria ripescate nel torbido incompreso di archivio biblioteche senza un futuro.

Sono innumerevoli le attività, le pubblicazioni e gli appuntamenti mai il frutto di gruppi di lavoro multidisciplinari, ma solo opera di liberi attivisti che non trovando altro agio si dilettano a definire i trascorsi arbëreşë come mera espressione linguistica in attività di consuetudine a memoria di battaglie epiche o di scritto tradotti all’incontrario.

Questo spinge a ritenere indispensabile sottoporre con adeguatezza all’attenzione le eccellenze certificate, oltre modo senza alcuna verifica o confronto pubblico, che ne definisca mai la genuinità, di cose non proprio in linea con i trascorsi di un ben identificato intervallo storico, sia in terra madre che in quella parallela del fiume Adriatico, sino allo Jonio.

A i tanti attivisti che hanno scambiato un buon maestro con un pessimo padrone ve tutto il nostro augurio di cose buone, ma non certo faranno mai storia o sveleranno cose che la storia della minoranza attende da secoli e non trova ancora agio e pace.

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NEI CASTELLI NORMANNI FANNO MESSA IN LINGUA ALTRA SENZA PRETE E ALTARE

NEI CASTELLI NORMANNI FANNO MESSA IN LINGUA ALTRA SENZA PRETE E ALTARE

Posted on 04 giugno 2024 by admin

Miracco ii

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – L’incoscienza del Collegio Olivetaro citeriore che promuove la storia della cultura Arbëreşë, nel cementarsi per sostenere le cose della storia, come: consuetudini, parlata, figure storiche, l’idioma con la frase da noi parliamo così, ponendosi al cospetto delle cose avvenute e prodotte, non trova diplomatica sufficiente, atta a fermare questa implacabile deriva chiacchierata, senza vergogna alcuna.

Ad oggi si parla, si espongono cose, fatti uomini, paesi, costumi, rimanendo nascosti sotto la zògha materna, a cui gli si impediscono sin anche ad accudire al fuoco domestico che riscalda e sostiene e illumina davanti al camino gli arbëreşë.

Ormai non sono i maestri di bottega o gli anziani a formare le menti locali, ma sono giovani studenti, che appena intascato un titolo dirsi voglia radice, tornano nei luoghi natii a esporre Genio senza forma culturale, civile e sin anche clericale.

Nessuno ha più misura delle cose che dice, che che traduce o che fissa con immagini oscure, a favole del proprio gruppo familiare, allargando e spianando strade come se fossero meriti, millantando tuttavia, ogni genere di profitto per la comunità, la stessa che si guarda attorno e si vede povera abbandonata, privata di ogni risorsa di vita possibile, per questo pronta a svendersi al migliore offerente una o più monete.

Si considerano tutti discendenti di cavalieri e di nobili principi, per questo in grado di aver scritto la storia delle cose utili alla minoranza, al punto tale da sentirsi in dovere di seminare storia, parlate e pubblicare editi carpiti e presentati come propri a quanti credono che di poter raggirare e, qui rimangono delusi e scottati di calore.

Oggi si esaltano i neri a cui si dedicano Biblioteche, Strade o s’innalzando busti nei vutti storici, di contro il mercato non è fatto di cose commestibili genuine da portare a casa, ma luogo di pensiero e misura senza “menzà kgurì”,l’unità di misura frumentaria che un tempo faceva economia e benessere di confronto leale, pagando il giusto a garanzia di non essere raggirati pubblicamente davanti la chiesa.

Ormai la deriva che va sempre allargandosi è fatta di aceto riversato non più irrecuperabile, in quando riverso delle generazioni antiche, che titolano e garantiscono una genuinità che non serve a niente e a nessuno se non sminuire il calore del prodotto locale che intanto si sperde.

Un tempo avevamo un luogo di confronto e di economia povera dove chi non aveva risorse riusciva a campare, oggi nel tempo di un ventennio questo luogo è diventato la vergogna locale, dove si espongono le eccellenze storiche di appartenenza a parti invertite nei vutti di cloaca pubblica e privata, senza avere un attimo di vergogna per quello che si espone e dove viene allestito.

Pietre dove un tempo si spegnevano per fare calce, la memoria del letterato primo lontano da casa sue e proprio lì dove era il cantaro pubblico, l’eroe con effigi mussulmane nel vuttò nobile, sono il componimento storico che racconta una pena locale che dura dagli anni ottanta del secolo scorso.

Queste figure oggi, per chi ha la mente lucida e pronta, sono individuati come il risultato perverso di quanti manovrati e se un tempo conoscevano bene il valore del perdono, diversamente da altri che apparendo nobili e fraterni, non palesano orizzonti di miglioramento, in quanto, dal purgatorio perseguono gli anelli più profondi dell’inferno.

Il risultato viene allestito con una sfera semi pietrificata, il busto del letteratura locale lasciato morire con pena e, l’eroico valicatore sormontato dalle effigi del diavolo, in tutto tre cose che riportano la mente a un antico grido di dolore rivolto a chi gestiva Terrae lavorava la terra senza ne frutti e ne prospettive di mercato.

Lo stesso ripetuto in pubblica piazza e per gli sheshi del Katundë, da un indimenticabile personaggio locale, il quale per redarguire l’incauto di turno malevolo e perverso, lo invitava senza fare nome, a tornare nel pascolo acquitrinoso familiare a rotolarsi in quel loco putrido e melmoso, assieme alle sue maleodoranti pecore, con la frase: all’işki, all’işki, all’işki, perché il luogo natio del quel gruppo llhitirë.

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AAAA

LA CHIAVE ALBANESE”, UN DIBATTITO ATTORNO AD UN’IDEA REALIZZATA PER SCUTARI

Posted on 02 giugno 2024 by admin

AAAA

ALBANESE

Tashmë kur gjithçka ka përfunduar dhe që do të finalizohet me inaugurimin më 6 qershor 2024, ora 17:00, kur përpjekjet rraskapitëse, debatet dhe diskutimet e tensionuara, kanë mbetur pas, kërkoj me përulësi leje, të ndaj me ju disa mendime dhe të qasem të sjell disa sqarime, për atë që ka nxitur një zemëratë publike, evidentuar kryesisht në mediat sociale.

E ndjej detyrim të jem përballë atyre, me shumë prej të cilëve njihem, bashkëndajmë mendime për artin dhe na dhemb çdo plagë e Shkodrës, siç na lumturon dhe na bën krenar gjithçfarë kësaj përkatësie të qytetarisë dhe kulturës, i jepet si një shpërblim, të asaj që është dhe asaj që do të mbetet, në kresht të lartësimit.

Pata privilegjin të jem i mikluar nga një dhuratë kaq e begatë, të jem kurator i skulpturës monumentale “The Albanian Key”, e cila është vendosur në hyrje të Shkodrës, siç nuk u gjenda i befasuar nga stuhia që u ngrit prej reagimit qytetar. Paraprakisht e kam informuar autorin e veprës, Alfred Mirashi – Milot për atë çfarë do të shoqërojë vendosjen e skulpturës, për papajtueshmërinë, mospranimin dhe keqkuptimin që do t’i rrethvijë kësaj kurajoje artistike, për të guxuar dhe besuar te arti novator, te risitë, te ajo që ka premisë të sjellë një mënyrë ndryshe të ndërtimit të marrëdhënieve dhe ofertës komunikuese, si me qytetarët e interesave periferike për artin, ashtu edhe për ata që janë artistë.

Jo vetëm kjo formë e komunikimit artistik që Milot rreket të formësojë përmes një ide-konceptim revolucionar, por çdo ngulm estetik në historinë e progresit shoqëror, është ndeshur me një qëndresë, shpesh të pakalueshme të opinionit publik. Kjo ka çuar deri te linçimi i artistëve dhe masakrimi i veprave, por shpirti krijues ishte ai që sfidoi mbi çdo turrë drushë e zjarr apokaliptik, fyerje dhe përdhosje, tortura dhe vrasje mizore, duke triumfuar. Historia e artit ka pafund beteja të tilla, të cilat vetëm sa e kanë përsosur artin dhe ftuar publikun në një bashkëjetesë të pakonkurreshme me shijen e rafinuar estetike dhe fuqinë e mahnitshme të së bukurës.

Tendenca e qëndrimit të publikut, kryesisht atij shkodran, ndaj “The Albanian Key”, kësaj vepre arti, fituese e Konkursit Ndrkombtar “Art në hapësirën Publike”, shpallur nga ministria e Kulturs, u përball me një stinë tejet të mbarsur rrebeshesh. Shpesh mendimi i atyre që u bën pjesë e këtij kuvendimi publik, degjeneron në sharje dhe fyerje të një larmie krijuese, e denjë për një debat publik me fokus artin. Dhe kjo është arsye për të reflektuar, duke ju kundërvënë kësaj situate me maturi, durim, tolerancë dhe mirëkuptim, sepse arti vjen të ndërtojë ura e jo të thellojë hendeqe.

Secili mund të kishte dhe të ketë të drejtë, në atë që tha dhe do të thotë, në lidhje me këtë skulpturë konceptuale, që artisti e ka huajtur nga fluturimi i shqiponjës (siç është e ilustruar në imazh), e cila gjithashtu në alegorinë e saj shprehëse bart një mesazh të fuqishëm siç është çelësi, një çelës që hap çdo derë dhe çel qiejt e së sotmes së çdo shpirti. Art për tempullin e artistëve. Art monumental për qytetin që vepra krijuese e shpirtit e ktheu në monument këtë qytet. Art aty ku flitet dhe jetohet për të bukurën dhe me të bukurën.

Më në fund njerëzit mund të flasin, të debatojnë dhe të parashtrojnë ide për artin. Mjaft më me kufizimet dhe ndalimin, me censurimin e fjalës dhe linçimin e mendimit. Sot më shumë se kurrë, ky legjitimitet le të triumfojë dhe arti është një vlerë e vërtetë arti, kur ndodhet nën një fokus kaq të gjerë dhe bombarduar me një interesim të admirueshëm, vetëm për një kryevepër arti.

Fjala dhe mendimi i secilit që u bë pjesë e këtij arti ndryshe, është ajo çfarë e bën një komunitet, një grup shoqëror, apo edhe një masë e madhe njerëzish, të cilët duke shfrytëzuar mundësinë e shprehjes së mendimit të tyre, të kontribuojnë që kjo vepër arti të shndërrohet në një ngjarje për Shkodrën.

Përfshirja në një debat publik të këtyre përmasave, tregon një nevojë të ngutshme të opinionit për të qenë i pranishëm në një event të tillë krijues, edhe atëherë kur gjithçka e vendos një juri ndërkombëtare profesionistësh. Ndoshta dëgjesat publike si në rastet e zgjidhjeve të problemeve me ndjeshmëri të lartë për komunitetin, duhet të konsiderohen edhe për veprat e artit gjithashtu me interes publik. Edhe nëse kjo nuk është një praktikë rutinë e mënyrës se si përcaktohen rregullat e përfshirjes së opinionit në vendimmarrje të tilla, zbatimi, me gjithë kokëçarjet që do të gjenerojë do të sillte përfshirjen e komunitetit në atë që do të jetë një event.

Sa këtu ndodhemi, kur arti luan me të tjerë rregulla loje, na mbetet të bëhemi dëgjues të vëmendshëm dhe reagues të matur, përkundër një ofensive të potershme dhe një lumi të mbarsuer nga stuhia që del nga shtrati. Secili që ka të drejtë fjalës, gëzon legjitimitetin të dëgjohet, siç do të ishte në integritetin e secilit të jetë në lartësinë e atij qëndrimi, me të cilin mediat e huaja dhe kritika e artit, kryesisht ajo italiane e kanë konsideruar dhe shtjelluar me një përkujdesje të veçantë.

Ekipi i “The Albanian Key”, ka trajtuar me vëmendje dhe përgjegjësi profesionale reagimet e qytetarëve për veprën. Ka mbajtur shënim qëndrimin e secilit që u bë pjesë e këtij debate, pavarësisht sensit përmbajtjesor dhe pamjaftueshmërinë për të pranuar një artist, i cili është i vlerësuar ndërkombëtarisht, por pa mundur ende të gjejë të njëjtën përzemërsi nga bashkëkombasit e vet.

Gjithsesi, e drejta e secilit të ketë një mendim dhe një qëndrim për një vepër arti publike, është eksluziviteti që i mundësohet një shoqërie të emancipuar, e cila reagon dhe përfshihet, duke shpërfaqur prezencën personale në mënyrën se si ai ose ajo vendos komunikimin.

Të favorizuar nga rrjetet sociale dhe vetëdija qytetare, lidhjet e veçanta që ka ky komunitet me artin, artkrijues dhe artpërjetues, nxiti atë që të gjithë u bënë aktorë në këtë ngjarje të rëndësishme artistike që troket në portat e qytetit të Shkodrës.

Është në obligimin e çdo krijuesi të jetë i njohur me mendimin dhe qëndrimin e çdo individi për veprën e tij, e cila është një krijesë që ai e ka ngjizur në mendime dhe krijuar në shpirt për t’ia besuar më pas një grupi të madh kuratorësh, inxhinierësh, krijuesish.

 

Tradotto in Italiano da Atanasio Pizzi Architetto Basile, con Google traduttore, come fan tutti.

Ora che tutto è finito e si concluderà con l’inaugurazione, il 6 giugno 2024, alle ore 17, una volta lasciati alle spalle fatiche estenuanti, dibattiti e discussioni tese, chiedo umilmente il permesso di condividere con voi alcune riflessioni e Questo approccio porta alcuni chiarimenti su ciò che ha alimentato la rabbia del pubblico, evidenziato principalmente nei social media.

Mi sento in dovere di trovarmi di fronte a coloro che, molti dei quali conosco, condividiamo pensieri sull’arte e ogni ferita di Scutari ci ferisce, perché ci rende felici e ci rende orgogliosi, tutto ciò che appartiene a questa cittadinanza e cultura è dato come una ricompensa, cioè, quella che resterà, al culmine dell’esaltazione.

Ho avuto il privilegio di essere benedetto da un dono così ricco, di essere il curatore della scultura monumentale “La chiave albanese”, che si trova all’ingresso di Scutari, poiché non sono rimasto sorpreso dalla tempesta che si è scatenata dalla reazione dei cittadini. Ho precedentemente informato l’autore dell’opera, Alfred Mirashi – Milot, di ciò che accompagnerà la collocazione della scultura, dell’incompatibilità, del rifiuto e dell’incomprensione che circonderanno questo coraggio artistico, di osare e credere nell’arte innovativa, nelle innovazioni, di quello che ha la premessa di portare un modo diverso di costruire relazioni e offerta comunicativa, sia con i cittadini di interessi periferici nell’arte, sia con coloro che sono artisti.

Non solo questa forma di comunicazione artistica che Milot cerca di plasmare attraverso un’idea-concetto rivoluzionario, ma ogni insistenza estetica nella storia del progresso sociale, ha incontrato una resistenza spesso insormontabile dell’opinione pubblica. Ciò ha portato al linciaggio degli artisti e al massacro delle opere, ma è stato lo spirito creativo a sfidare ogni incendio e incendio apocalittico, insulto e profanazione, tortura e omicidio crudele, e a trionfare. La storia dell’arte ha infinite battaglie di questo tipo, che hanno solo perfezionato l’arte e invitato il pubblico a una convivenza senza rivali con il gusto estetico raffinato e lo straordinario potere della bellezza.

L’atteggiamento del pubblico, soprattutto di Scutari, nei confronti di “La chiave albanese”, quest’opera d’arte, vincitrice del Concorso internazionale “Arte nello spazio pubblico”, indetto dal Ministero della Cultura, ha dovuto affrontare una stagione molto piovosa. Spesso l’opinione di chi fa parte di questa assemblea pubblica degenera in insulti e insulti di tipo creativo, degni di un dibattito pubblico incentrato sull’arte. E questo è un motivo per riflettere, affrontando questa situazione con prudenza, pazienza, tolleranza e comprensione, perché l’arte viene a costruire ponti e non ad approfondire fossati.

Tutti potrebbero avere ed hanno ragione, in ciò che ha detto e intende, in relazione a questa scultura concettuale, che l’artista ha alienato dal volo dell’aquila (come illustrato nell’immagine), che anche nell’allegoria della sua espressione porta con sé un messaggio potente come una chiave, una chiave che apre ogni porta e schiude i cieli presenti di ogni anima. L’arte per il tempio degli artisti. Arte monumentale per la città che il lavoro creativo dell’anima ha trasformato questa città in un monumento. Arte dove la bellezza si parla e si vive con bellezza.

Finalmente le persone possono parlare, dibattere e proporre idee sull’arte. Basta con le restrizioni e i divieti, con la censura della parola e il linciaggio del pensiero. Oggi più che mai, che questa legittimità trionfi e che l’arte sia un vero valore artistico, quando è sotto un’attenzione così ampia e bombardata da ammirevole interesse, solo per un capolavoro.

La parola e il pensiero di tutti coloro che sono entrati a far parte di quest’arte diversa è ciò che fa sì che una comunità, un gruppo sociale, o anche una grande massa di persone, cogliendo l’opportunità di esprimere la propria opinione, contribuiscono a far sì che quest’opera d’arte diventi un evento. per Scutari.

Il coinvolgimento in un dibattito pubblico di questa portata dimostra l’urgente necessità che il pubblico sia presente a un evento così creativo, anche quando tutto viene deciso da una giuria internazionale di professionisti. Forse le udienze pubbliche, come nei casi di risoluzione di problemi di elevata sensibilità per la collettività, dovrebbero essere previste anche per le opere d’arte anche di pubblico interesse. Anche se questa non è una pratica di routine su come vengono definite le regole per l’inclusione dell’opinione in tale processo decisionale, l’implementazione, con tutti i grattacapi che genererebbe, porterebbe al coinvolgimento della comunità in quello che sarà un evento.

Finché siamo qui, quando l’arte gioca con altre regole del gioco, non ci resta che diventare ascoltatori attenti e soccorritori prudenti, nonostante un’offensiva potente e un fiume nato dalla tempesta che esce dal letto.

Chiunque abbia diritto di parola gode della legittimità di essere ascoltato, poiché sarebbe nell’onestà di tutti essere all’altezza di quell’atteggiamento, con cui i media e la critica d’arte straniera, soprattutto quella italiana, hanno considerato ed elaborato con cura speciale.

Il team di “The Albanian Key” ha gestito con attenzione e responsabilità professionale le reazioni dei cittadini all’opera. Ha preso atto dell’atteggiamento di tutti coloro che sono entrati a far parte di questo dibattito, nonostante il senso del contenuto e l’inadeguatezza ad accettare un artista apprezzato a livello internazionale, ma senza riuscire ancora a trovare lo stesso affetto da parte dei suoi connazionali.

Tuttavia, il diritto di ognuno ad avere un’opinione e una presa di posizione su un’opera d’arte pubblica è l’esclusività concessa a una società emancipata che reagisce e si impegna, manifestando presenza personale nel modo in cui decide di comunicare. Il favorito dei social network della coscienza civica, il legame speciale che questa comunità ha con l’arte, l’ideatore sperimentatore dell’arte, ha incoraggiato tutti a diventare attori di questo importante evento artistico che tocca tutti i porti della città di Scutari.

È dovere di ogni creatore conoscere l’opinione e l’atteggiamento di ciascun individuo nei confronti della propria opera, che è una creatura che ha concepito nei suoi pensieri e creato nella sua anima per poi affidare ad un folto gruppo di curatori, ingegneri, creatori, ingegneri, creatori, metalmeccanici.

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