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NEI CASTELLI NORMANNI FANNO MESSA IN LINGUA ALTRA SENZA PRETE E ALTARE

Posted on 04 giugno 2024 by admin

Miracco ii

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – L’incoscienza del Collegio Olivetaro citeriore che promuove la storia della cultura Arbëreşë, nel cementarsi per sostenere le cose della storia, come: consuetudini, parlata, figure storiche, l’idioma con la frase da noi parliamo così, ponendosi al cospetto delle cose avvenute e prodotte, non trova diplomatica sufficiente, atta a fermare questa implacabile deriva chiacchierata, senza vergogna alcuna.

Ad oggi si parla, si espongono cose, fatti uomini, paesi, costumi, rimanendo nascosti sotto la zògha materna, a cui gli si impediscono sin anche ad accudire al fuoco domestico che riscalda e sostiene e illumina davanti al camino gli arbëreşë.

Ormai non sono i maestri di bottega o gli anziani a formare le menti locali, ma sono giovani studenti, che appena intascato un titolo dirsi voglia radice, tornano nei luoghi natii a esporre Genio senza forma culturale, civile e sin anche clericale.

Nessuno ha più misura delle cose che dice, che che traduce o che fissa con immagini oscure, a favole del proprio gruppo familiare, allargando e spianando strade come se fossero meriti, millantando tuttavia, ogni genere di profitto per la comunità, la stessa che si guarda attorno e si vede povera abbandonata, privata di ogni risorsa di vita possibile, per questo pronta a svendersi al migliore offerente una o più monete.

Si considerano tutti discendenti di cavalieri e di nobili principi, per questo in grado di aver scritto la storia delle cose utili alla minoranza, al punto tale da sentirsi in dovere di seminare storia, parlate e pubblicare editi carpiti e presentati come propri a quanti credono che di poter raggirare e, qui rimangono delusi e scottati di calore.

Oggi si esaltano i neri a cui si dedicano Biblioteche, Strade o s’innalzando busti nei vutti storici, di contro il mercato non è fatto di cose commestibili genuine da portare a casa, ma luogo di pensiero e misura senza “menzà kgurì”,l’unità di misura frumentaria che un tempo faceva economia e benessere di confronto leale, pagando il giusto a garanzia di non essere raggirati pubblicamente davanti la chiesa.

Ormai la deriva che va sempre allargandosi è fatta di aceto riversato non più irrecuperabile, in quando riverso delle generazioni antiche, che titolano e garantiscono una genuinità che non serve a niente e a nessuno se non sminuire il calore del prodotto locale che intanto si sperde.

Un tempo avevamo un luogo di confronto e di economia povera dove chi non aveva risorse riusciva a campare, oggi nel tempo di un ventennio questo luogo è diventato la vergogna locale, dove si espongono le eccellenze storiche di appartenenza a parti invertite nei vutti di cloaca pubblica e privata, senza avere un attimo di vergogna per quello che si espone e dove viene allestito.

Pietre dove un tempo si spegnevano per fare calce, la memoria del letterato primo lontano da casa sue e proprio lì dove era il cantaro pubblico, l’eroe con effigi mussulmane nel vuttò nobile, sono il componimento storico che racconta una pena locale che dura dagli anni ottanta del secolo scorso.

Queste figure oggi, per chi ha la mente lucida e pronta, sono individuati come il risultato perverso di quanti manovrati e se un tempo conoscevano bene il valore del perdono, diversamente da altri che apparendo nobili e fraterni, non palesano orizzonti di miglioramento, in quanto, dal purgatorio perseguono gli anelli più profondi dell’inferno.

Il risultato viene allestito con una sfera semi pietrificata, il busto del letteratura locale lasciato morire con pena e, l’eroico valicatore sormontato dalle effigi del diavolo, in tutto tre cose che riportano la mente a un antico grido di dolore rivolto a chi gestiva Terrae lavorava la terra senza ne frutti e ne prospettive di mercato.

Lo stesso ripetuto in pubblica piazza e per gli sheshi del Katundë, da un indimenticabile personaggio locale, il quale per redarguire l’incauto di turno malevolo e perverso, lo invitava senza fare nome, a tornare nel pascolo acquitrinoso familiare a rotolarsi in quel loco putrido e melmoso, assieme alle sue maleodoranti pecore, con la frase: all’işki, all’işki, all’işki, perché il luogo natio del quel gruppo llhitirë.

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