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MODELLO STRUTTURALE: INFORMAZIONI STORICHE DI UN EDIFICIO B.I.S. (Bulding Informarion Structural)

Posted on 29 novembre 2025 by admin

kalliveNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Nell’ambito dello studio del territorio, le indagini cartografiche basate sui sistemi GIS rappresentano gli strumenti fondamentali per la conoscenza dei processi orografici e idrografici che caratterizzano un’area geografica sottoposta a studio e indagine.

Tali analisi permettono di leggere e interpretare la struttura fisica del paesaggio, di comprenderne le dinamiche naturali e di individuare le relazioni tra ambiente, insediamenti umani e risorse disponibili. Tuttavia, quando l’attenzione si sposta verso l’analisi dell’edificato storico e delle forme insediative tradizionali, diventa necessario affiancare a queste metodologie territoriali un diverso approccio, più sensibile alle dimensioni culturali, sociali ed etno-antropologiche dello spazio abitato.

In questo capitolo si intende dunque illustrare le metodologie di indagine dedicate agli edifici vernacolari del Mediterraneo, che appelleremo: B.I.S. (Bulding Informarion Structural) con particolare attenzione volta all’analisi delle architetture sorte nei contesti di migrazione e adattamento, che hanno accompagnato, e spesso incarnato, le vicende umane delle genti coinvolte nella diaspora dei Balcani.

La casa vernacolare mediterranea non è soltanto una risposta funzionale al clima, ai materiali locali e alle difficoltà orografiche del territorio; essa rappresenta anche un documento vivente di identità, memoria e sopravvivenza.

Il progetto mira a compilare un archivio di saperi costruttivi tramandati oralmente, o habitat modellato dalla necessità, dall’ingegno, e al tempo stesso assumere il ruolo di simbolo silenzioso delle inquietudini e delle speranze di comunità spesso costrette a spostarsi, ridefinendo continuamente il proprio rapporto con il luogo.

Le indagini che hanno avuto come fine gli edifici vernacolari, verso i quali, è stata rivolta una approfondita attenzione multidisciplinare e, l’analisi morfologica delle strutture, lo studio dei materiali, le tecniche costruttive, la comprensione delle logiche distributive interne, fino alla lettura dei rapporti con il paesaggio circostante avendo sempre presenta la rete delle interazioni sociali, hanno restituito un percorso storico solido e inscindibile.

Non meno importanti sono gli aspetti immateriali, come le consuetudini sino alla soglia della porta di casa, le forme di Gjitonia la forma sociale degli spazi comuni, la percezione del limite tra pubblico e privato, hanno fornito una nuova metrica secondo cui interpretare questo fenomeno sociale.

E in tale prospettiva, l’edificato vernacolare diventa vero e proprio dispositivi narrativi, solidamente in grado di raccontare il rapporto tra le comunità e i territori, attraversati, bonificati e nel cntempo riconoscerne il parallelismo naturale simile alla terra di origine.

Analizzare queste architetture significa quindi non solo descrivere un patrimonio materiale, ma anche restituire un paesaggio culturale fatto di migrazioni arbëreşë, si scoprono anche gli atti e le attività di adattamenti e trasformazioni lenta, in coabitazione con quanto testato anche dalla natura.

In questa direzione, lo studio della diaspora balcanica rivela modalità peculiari di insediamento, strategie costruttive e continuità tipologiche, che possono contribuire alla costruzione di una lettura più profonda e complessa dei territori.

E il tutto poi diventa una lettura che, integrando i dati cartografici con le testimonianze dell’edificato vernacolare, permetta di cogliere l’intreccio tra geografia fisica, storia umana e identità collettiva.

La metrica di indagine adottata in questo studio trova origine all’interno delle ricerche che vedono come luogo di indagine i Katundë della regione storica diffusa e sostenuta degli arbëreshë, comunità, la cui presenza nel territorio mediterraneo è stata segnata da forme di insediamento frammentario, migrazioni episodiche e persistenti processi di adattamento ambientale che vanno dal XIII al XVIII secolo.

L’intervallo siccome risulta essere privo di fonti storiche certe o di elementi documentali univoci che possano determinarne la cronologia dall’origine, ha visto l’approccio metodologico spostarsi verso temi monocentrici che qui in questo progetto, cerca risposte attraverso il costruito e l’analisi diretta dei manufatti edilizi, considerati indicatori temporali e culturali del bisogno di epoca.

In assenza quindi di archivi ufficiali o di registri catastali storici, la lettura dell’edificato assume un ruolo centrale e diventa strumento indispensabile per ricostruire le tappe di formazione, crescita e trasformazione dei nuclei abitati dagli arbëreşë.

In questo quadro, lo studio dei manufatti del bisogno, ovvero quelle costruzioni nate per rispondere immediatamente a esigenze di sopravvivenza, difesa o sostentamento, rappresenta un elemento cardine della metodologia proposta.

Tali manufatti, spesso privi di ornamenti e concepiti secondo logiche progettuale del bisogno locale, sono stati eretti, nella totale assenza di architetti e, per questo, sapendoli analizzare, offrono preziose tracce temporali, dove la tipologia dei materiali impiegati, le tecniche murarie, la composizione degli impasti e l’evoluzione delle giunture, costituiscono indizi utili per determinare non solo l’epoca di compilazione, ma anche quelle fasi di espansione, consolidamento o ricostruzione che si sono succedute nei secoli.

Il rilievo e l’analisi stratigrafica degli elementi murari verticali, degli orizzontamenti, oltre i lastrici inclinati, sono dunque fondamentali per leggere la memoria sedimentata nelle costruzioni vernacolari. Attraverso l’individuazione delle fasi costruttive e delle sovrapposizioni materiche, attraverso cui si possono riconoscere le risposte architettoniche a eventi naturali che hanno interessato queste aree in diverse epoche: terremoti, smottamenti, alluvioni o carestie hanno determinato la necessità di nuove edificazioni, ampliamenti o adeguamenti strutturali.

In tali circostanze, i Katundë arbëreşe conservano ancora oggi, una notevole capacità di resilienza, reinterpretando le risorse locali e riformulando i modelli costruttivi ereditati, senza rinunciare alla propria identità culturale.

Le tracce di compilazione presenti nelle murature, e il variare del loro sviluppo altimetrico nei tipi di materiali utilizzata, i mutamenti nell’orientamento dei corsi, la diversa granulometria delle malte o presenza di sistemi di incastro arcaici, diventano quindi indicatori temporali e narrativi se saputi leggere e tradurre.

Esse testimoniano fasi di improvvisazione costruttiva, periodi di scarsità di materiali nei momenti di ricostruzione post-calamità, fasi di frazionamento dell’edificato a cui fecero seguito la stabilità e sviluppo economico secondo tipologie architettoniche espresse dalle arti illuministe.

Attraverso l’osservazione sistematica di tali elementi è possibile delineare una cronologia alternativa, fondata non su documenti scritti ma sul linguaggio silente della materia edilizia in continua crescita.

Questo approccio, nato nelle ricerche con tema gli insediamenti arbëreşë, ancora in evoluzione, se adeguatamente estese e applicate, aprono orizzonti nuovi per allestire una metodologia di lettura del territorio, basata su una profonda relazione tra spazio, comunità, tempo e ambiente.

L’edificio vernacolare diventa così, lo strumento di conoscenza dinamico e, non solo rappresenta un risultato costruttivo, ma si configura come un archivio vivente che conserva le tracce delle trasformazioni ambientali, sociali e culturali.

E ogni muro, ogni giunto, ogni travatura, ogni variazione materica diventa segno di una decisione, di una necessità o di un trauma collettivo, inscrivendo nelle forme dell’abitare una storia più ampia di resilienza e di adattamento.

In assenza di fonti certe, è dunque la materia locale stessa a divenire racconto compilato e, l’indagine architettonica, accompagnata dal rilievo ravvicinato grafico e fotografico dei manufatti, restituisce una narrazione storica capace di ricostruire la stratificazione delle epoche e delle comunità che hanno attraversato bonificato e ricostruito più volte questi territori.

Attraverso questa metrica di indagine si giunge a riconoscere il costruito vernacolare sino a quello illuminista, che non è mera risposta abitativa, ma una testimonianza concreta della continuità culturale e della tenacia umana, che compongono gli elementi fondamentali per comprendere il legame tra la diaspora arbëreşe e, i paesaggi storici che hanno visto le terre protagoniste della storia di un esodo storico portato a buon fine.

La varietà tipologica delle murature presenti nei territori arbëreşe, costituisce un patrimonio di dati materiali attraverso cui è possibile ricostruire, con metodo scientifico, le fasi evolutive dell’insediamento e le condizioni che ne hanno determinato sviluppo, crisi o riorganizzazione.

Ogni edificio vernacolare, se osservato con rigore, diventa una testimonianza della stratificazione storica e, i materiali impiegati, la qualità delle lavorazioni, le tecniche di giunzione e la distribuzione degli spazi interni rivelano precise corrispondenze con eventi naturali, cambiamenti sociali e trasformazioni politico-amministrative che hanno interessato questi luoghi nel corso dei secoli.

Tra le principali configurazioni costruttive analizzate si incontrano le murature in pietra, calce e arena, caratterizzate da un impasto semplice e funzionale, preparato in assenza di tecnologie complesse e con l’uso esclusivo delle risorse reperibili in loco.

Queste murature, spesso irregolari e prive di perfezione geometrica, identificano le prime fasi insediative e sono tipiche delle costruzioni del bisogno, erette allo scopo di garantire un riparo immediato o delimitare spazi di lavoro e sostentamento.

La qualità della calce, la granulometria dell’arena e l’irregolarità delle pietre impiegate consentono di riconoscere non solo l’epoca di realizzazione, ma anche le condizioni materiali delle comunità che le hanno costruite.

Un secondo tipo è rappresentato dalle murature miste, nelle quali compaiono mattoni di recupero, laterizi di spogliatura o frammenti riutilizzati all’interno dell’impasto murario.

Tali tecniche, adottate frequentemente in aree soggette a crisi demografiche o a eventi naturali distruttivi, testimoniano una fase di ricostruzione o di riorganizzazione insediativa.

La presenza di materiali di spoglio indica infatti la volontà di riutilizzare ciò che era disponibile, trasformando gli edifici preesistenti in risorse per nuove configurazioni abitative.

La calce, usata come legante universale, assume in questi casi una duplice funzione: tecnica, come elemento di coesione, e storica, come indizio della metabolizzazione culturale delle rovine.

Non meno significative sono le murature con pietre angolari, dove l’uso di blocchi più regolari e squadrati agli spigoli indica un avanzamento tecnico e una crescente consapevolezza strutturale.

L’inserimento di angolari serve infatti a stabilizzare la muratura, a proteggerla dall’erosione e a definire con maggiore chiarezza la geometria dell’edificio.

Questo dettaglio costruttivo corrisponde a fasi storiche di maggiore stabilità economica, nelle quali la comunità ha potuto dedicare risorse alla qualità costruttiva e alla durabilità delle strutture.

Particolarmente rivelatori sono anche gli ingressi contornati da laterizi o in pietra lavorata, elementi che segnalano un’evoluzione sociale dell’abitare.

Quando l’ingresso della casa è definito da cornici in laterizio o da architravi in pietra sagomata, si è spesso in presenza di una fase successiva di sviluppo, caratterizzata da una maggiore attenzione alla rappresentazione dell’identità familiare e alla dignità architettonica dell’abitazione.

L’ingresso, da semplice varco funzionale, diventa dispositivo simbolico: introduce alla sfera domestica, afferma un senso di appartenenza e segna il passaggio da necessità ad aspirazione.

Nello stesso modo, la distinzione tra piani di servizio e piani abitativi permette di cogliere l’organizzazione sociale della casa vernacolare.

Nelle macro aree arbëreşë, sono frequenti spazi destinati alla conservazione delle derrate alimentari, all’allevamento domestico o alla lavorazione dei prodotti agricoli nei livelli inferiori considerate vere e proprie proto industrie, mentre gli ambienti residenziali si ergono dal XVII secolo, nei piani superiori, in posizione protetta e ventilata.

Tale distribuzione indica la coesistenza di funzioni produttive e abitative all’interno dello stesso corpo edilizio, confermando l’idea della casa come micro-sistema economico e sociale autosufficiente.

Infine, le coperture ventilate, realizzate attraverso la presenza di intercapedini denominati kanikari e allestiti con opportuni sistemi di aerazione, che denotano con il loro utilizzo un approfondimento tecnico in rapporto alle condizioni climatiche locali.

Questo tipo di copertura, spesso costruito con tegole di diverso formato e con strutture lignee tradizionali, risponde alla necessità di controllare l’umidità e il calore, dove in oltre come barriera erano depositati alimenti naturali in maturazione invernale, che assicuravano oltre al comfort abitativo naturale senza il ricorso a tecnologie esterne per temperare e rifornire alimenti maturi in inverno.

L’insieme di queste componenti, quali: murature, ingressi, distribuzioni interne, coperture,

 costituisce una griglia interpretativa capace di restituire i tempi della storia in stretta aderenza con i processi naturali e politici che hanno progressivamente costruito il benessere e la stabilità dei vari nuclei insediativi. In ogni pietra, in ogni varco, in ogni segno di adattamento costruttivo convivono la memoria di un bisogno e la proiezione verso una possibile quiete o adattamento confortevole del gruppo sociale.

È attraverso la lettura paziente e sistematica di tali indizi, emerge la narrazione di ogni luogo o macro area specifica della regione storica arbëreşë,

In tutto una narrazione in cui il paesaggio, l’architettura e la storia si intrecciano, dando forma a quella continuità culturale che ancora oggi definisce il carattere identitario del Mediterraneo dalla Grecia sino al Portogallo.

Il qui progetto, avviato nel 2009, orientato alla lettura storica e materica del territorio arbëreşë, ha progressivamente acquisito solidità metodologica e riconoscibilità scientifica, trovando conferme in alcuni significativi dibattiti istituzionali.

In tali occasioni, le proposte emerse dalle ricerche sul campo sono state prese in considerazione dalle autorità competenti, contribuendo a fermare decisioni potenzialmente disastrose per la tutela del patrimonio insediativo vernacolare.

Questo elemento conferma, da un lato, la genuinità del percorso intrapreso e, dall’altro, la validità del prodotto finale, giunto a uno stato avanzato di definizione e, capace di proporre soluzioni concrete per la salvaguardia del paesaggio storico.

Eppure, oggi più che ieri, risulta evidente come le dinamiche politiche e amministrative che intercorrono tra le presidenze e i ministeri di Italia e Albania aprano nuove possibilità di confronto, scambio e cooperazione.

In tale prospettiva, ciò che è emerso dall’analisi degli insediamenti arbëreşe presenti sul territorio italiano potrebbe essere messo in dialogo diretto con i dipartimenti albanesi competenti in materia di pianificazione territoriale, architettura storica e tutela dei beni culturali.

Questo confronto transnazionale avrebbe il merito di estendere il campo d’indagine oltre i soli confini geografici dell’attuale presenza arbereshe, consentendo di risalire alla matrice originaria degli insediamenti e di confrontare i modelli costruttivi italiani con quelli ancora riconoscibili nei territori dell’odierna Albania moderna.

Un simile approccio non dovrebbe essere finalizzato alla ricostruzione edilizia o alla mera elevazione dei muri, ma piuttosto alla riscoperta di quella componente fondativa, materiale e immateriale, che in alcuni casi non esiste più o risulta frammentaria, alterata, sotterrata dal tempo.

L’ipotesi suggestiva è che parte di questa identità costruttiva e culturale possa essersi dispersa o rimanere sepolta, sia metaforicamente che fisicamente, nei suoli e nelle comunità che attualmente compongono il tessuto della Albania contemporanea.

Esplorare questi territori, attraverso una metodologia condivisa tra enti italiani e albanesi, significherebbe tentare un recupero delle radici dell’abitare arbëreşë, rintracciando i caratteri primari che precedono la diaspora e che, in parte, ne hanno determinato la forma.

La cooperazione istituzionale potrebbe quindi tradursi in un archivio comparato delle tecniche costruttive, delle morfologie dell’insediamento e delle dinamiche di adattamento ambientale.

Tale archivio, se costruito in modo condiviso e scientificamente rigoroso, costituirebbe uno strumento innovativo per la comprensione della storia mediterranea interna, mettendo in luce come la diaspora non sia solo movimento e dispersione, ma anche continuità, resistenza e sedimentazione culturale.

Un dialogo tra ministeri, università e centri di ricerca dei due Paesi aprirebbe inoltre la strada a nuove proposte di tutela e valorizzazione del patrimonio edilizio vernacolare.

Non si tratterebbe di restaurare edifici secondo logiche puramente conservative, ma di definire un modello di lettura e comprensione del paesaggio storico capace di restituire dignità alle tracce minori, le stesse che furono del bisogno e, quei frammenti murari marginali, quei segni del paesaggio rurale che spesso sfuggono alle classificazioni ufficiali, ma che rappresentano, in realtà, la parte essenziale e nascosta della memoria collettiva.

In conclusione, il progetto avviato nel 2009 non deve essere considerato soltanto come un’indagine specialistica sul territorio arbëreşe, bensì come una piattaforma di dialogo tra passato e presente, tra geografia fisica e identità comunitaria, tra Italia e Albania.

Recuperare ciò che nel corso della diaspora è stato dimenticato, trascurato o sepolto significa restituire valore a una storia che non appartiene a un solo luogo, ma attraversa diversi paesaggi e si manifesta nella materia dell’abitare, nei gesti costruttivi, nelle forme della sopravvivenza.

La vera sfida, oggi, è trasformare questa consapevolezza in un processo condiviso, capace di unire istituzioni, territori e comunità in una visione comune del patrimonio come risorsa viva e generativa.

 

Atanasio Arch. Pizzi – A.R.S.A. (Attento Ricercatore Storico Arbëreşë)

Napoli 2025-11-29 / sabato

 

 

 

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