NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Finché la lingua parlata arbëreşë rimase raccolta nel cerchio intimo del focolare, non oltrepassando il confine della casa dove si sosteneva semplice e naturale, dedita all’ascolto dei generi in crescita, sostenendo il legame tra una madre e i suoi figli, tutto riusciva a seminare germoglio fioritura e frutti, secondo l’antico protocollo identitario.
Ma da quando quella soglia di casa venne, superata e gli astanti hanno volto lo sguardo verso il mare e le montagne, intrecciando pieghe “senza cotone”, i figli e le figlie iniziarono a percorrere le vie con i capelli sciolti e senza fazzoletto terminando sotto lo sguardo degli angeli.
O nella memoria dei dogi che miravano a fare figli senza padre perché in battaglia a difenderei identità, nel contempo, la lingua smarriva il senso, il valore, la radice e la sostanziale e condusse quella madre che con l’angelo, lasciata sola ad attendere quella fioritura, davanti al fuoco di casa senza fuoco.
E fu così che ebbe modo di sbriciolarsi in appellativi compilati senza garbo, gesti irrispettosi senza garbo, rispetto o memoria, e ogni sua nuova parte diventa ironia della voce materna davanti a fuoco ormai spento; tutto diventa, suono senza eco, parola che non riceve ascolto, né compresa, tramandata, ma trascritta in con sottotitoli colmi di ironia e “offesa data”.
Così la lingua, privata della sua intimità viva davanti al camino, oggi è solo un guscio vuoto e non ricorda più la voce che l’ha creata e il canto che la cullava.
Questa è la sintesi silenziosa e profonda della storia che oggi vivono le nuove genitrici arbëreşë: donne che, senza più velo del capo e fuoco del camino, non sanno come custodire e tramandare quell’antico parlato, un tempo germoglio dal corpo, che percorreva la pelle per fare voce, posandosi sulla soglia delle case come un canto che tutti riconoscevano.
Il parlato arbëreşë nasce essenziale in solidale armonia con l’ambiente che lo circonda, diventa un filo caldo che lega generazioni e, non diventa appartenenza da respirare e condividere.
Bastava il gesto quotidiano della madre, il rumore lento del paiolo sostenuto dalla Camastra e riscaldato dal crepitio delle braci mentre la parola arbëreşe insaporisce le stanze come dono naturale, diventando confidenza e identità.
Un tempo c’erano luoghi dove il parlato poteva ancora riverberare, la soglia di casa, i muretti dove gli anziani sedevano prima del tramonto, le feste in cui il canto si intrecciava al passo della danza e sosteneva il senso di qui vicoli antichi.
Tutti questi luoghi ameni, ascolto o eco, dove ogni voce sapeva di avere un ritorno e, un cuore sapeva che sarebbe stato accolto pe fare famiglia e genere nuovo.
Così la lingua cresceva, si nutriva e, restava viva, diversamente dalle nuove ere odierne, che conducono le madri ad abitare in case senza focolare, cucine senza crepitii, giornate che corrono veloci e non lasciano riparo alle radici che ormai non ha bisogno di imbibirsi per crescere, in quanto è altra cosa.
Parlano ai figli con mille voci che vengono da lontano, voci luminose e confuse che le circondano ma non le riconoscono e, il tutto si conclude o che il figlio dice alla madre cosa fare, tanto ormai per i degeneri vale il motto che nessuno capisce nulla.
E la lingua antica, che una volta scorreva sicura come un’acqua familiare, oggi trema sulle labbra, incerta, quasi temesse di essere mal compresa o fuori luogo.
Non perché abbia perso valore, ma perché il mondo intorno non le offre più la sua cassa di risonanza, perché non ci sono più le campagne a custodire il suono, né le stanze piccole che lo trattengono, né le generazioni assise ad ascoltare.
Manca il silenzio che lasciava spazio alla parola; manca il ritmo lento in cui la memoria poteva affondare, crescere, e poi tornare alla luce, perché ormai tutti i figli battono i piedi e, fanno strimpellature musicali come “il napoletano irrequieto” che non sa se suonare la chitarra o echeggiare con l’armonica in bocca.
Così le nuove madri cercano di ricordare, nel proprio cuore la voce delle loro nonne, la trama di parole che le ha cresciute, il suono originario che le ha nutrite, quando ancora non sapevano parlare.
Eppure spesso questa ricerca diventa un cammino solitario, una nostalgia che non trova più la sua lingua completa, perché gli echi oltre adriatico salutano con un buongiorno compilato, senza chiede come stai.
La memoria del parlato sopravvive a lampi, nel modo in cui il figlio saluta la madre, in espressioni sfuggiti dal recinto delle pecore e senza pensarci, in una ninna nanna che ritorna solo a metà e diventa belato.
Sono frammenti preziosi, ma fragili, come schegge di un’antica ceramica che non si riesce più a ricomporre del tutto, anche perché se non si conosce la forma che faceva il contenitore, questo non potrà mai essere riconfigurato.
E tuttavia, in questa fragilità, qualcosa continua a pulsare, perché la lingua arbëreşë non è fatta soltanto di suoni, ma è un gesto, un calore, un modo di guardare il mondo.
Essa rappresenta una radice che non si spezza, ma aspetta una madre che la pronunci con coraggio; una madre che attende un figlio che la ascolti anche solo una volta pur se lontano, ed essa caparbia, attende una casa, qualunque casa, che voglia diventare nuovamente focolare di ascolto dove una madre e un figlio dialogano per sempre.
È in questa attesa che si compie la poesia della memoria: una parola che non muore, ma si nasconde; un parlato che non si spegne, ma chiede di essere riconosciuto.
E forse basta un gesto semplice, un sussurro, una storia, un nome detto con dolcezza, per far sì che la lingua torni a riverberare come faceva in tempo per scolarizzare storicamente quanti partecipavano al costruito sociale dei centri antichi arbëreşë.
Un edificato sociale non più astratto ma elevato con il cuore di chi ascolta, dove ogni voce, anche la più antica, può ancora rinascere e fare ascolto.
Non molto tempo addietro cominciò la ricerca di una lingua che tornasse poesia, dopo che il canto era stato abbandonato e, per dare spazio alla musica artificiale, di chi non aveva mai conosciuto un focolare di casa, né il calore che un tempo nutriva le parole.
Così prese avvio la deriva più dolorosa e, la lingua antica veniva svuotata, trasformata in suoni senza focolare, senza ombra, senza sangue.
Nonna Carmela fu la prima ad accorgersi di questa frattura, quando il figlio Temisto la accolse nella nuova casa, lei guardò quegli spazi lucidi e silenziosi come una condanna.
Accusandolo, con la semplicità schietta tipica di una donna saggia e anziana, di volerle far finire lì la sua vita, in una casa dove troneggiava una modernità fredda, e il fuoco non era più fuoco, ma una macchina di fuoco, un pozzo circoscritto da cerchi di ferro per cucinare a misura.
Nessun crepitio, nessun odore di legna, nessun luogo in cui la parola potesse germogliare come un tempo.
Si rammaricava di quella stanza che era più dove fu regina, perché non era più casa e, non conservava memoria, non accoglieva voci, non restituiva eco o crepitio alcuno.
Così preferiva sedersi fuori la soglia, come aveva sempre fatto, ed era lì che sentiva di poter ancora educare i vicini, i bambini, conversando con chiunque passasse, rimanendo seduta su quella linea sottile tra dentro e fuori, immaginando che dietro quella porta nuova e tinta di verde era vivo ancora il camino, e in quei gesti furi “Ina casa” ritrovava almeno in parte il suo mondo antico.
Sulla soglia, tra luce e ombra, continuava a vedere il fuoco che aveva custodito per tutta la vita e, quel fuoco che non scaldava soltanto le mani, ma manteneva vivo il parlato arbëreşë, lo faceva risuonare, lo faceva nascere e rinascere ogni giorno.
E lì, davanti all’uscio, nonna Carmela proteggeva ciò che restava della lingua, continuando a farle spazio, come si fa con un ospite antico e prezioso che non deve essere lasciato morire.
Ma quella stagione non durò a lungo e, nonna Carmela, ormai stanca, salì in cielo, e con il suo passo lento che si faceva sempre più leggero, portò via l’ultimo soffio caldo del focolare.
Fu allora che il parlato arbëreşë passò nelle mani dei meno adatti, mani che non conoscevano il silenzio del camino, né la pazienza delle braci, né il ritmo antico del cuore che ascolta prima di parlare.
Così, come accadde per il canto di Gelè, anche la lingua venne presa e schiacciata sotto i piedi, di chi batte il ritmo con tacco e suola, senza più sentire la vibrazione profonda dell’ugola che aveva dato origine al canto.
Il parlato, un tempo sacro, si ritrovò confuso nella frenesia di una musica che non aveva memoria, mescolato a un clamore che spegneva ogni eco, come se la parola fosse diventata solo un rumore da seguire, non più una radice da custodire.
E in quel passaggio brusco, quasi violento, la lingua perse la sua dimora naturale e, nessun fuoco a illuminarla, nessuna soglia a sostenerla, nessuna nonna a difenderla con il corpo e con la vita.
Rimase sospesa, come un canto tradito, come una preghiera dimenticata, affidata al vento e alla buona volontà di chi avrebbe potuto, un giorno, raccoglierla di nuovo.
E oggi, il battito di piedi che copre ogni cantato, assieme alla scrittura fatta dal carbonaio, ingabbia le parole come fossero segni muti, cancellano quei cuori che sapevano intrecciare parlato e canto, voce e sangue, memoria e respiro.
Erano cuori capaci di unire le generi per farli innamorare, sedere attorno allo stesso fuoco reale o immaginato, per riconoscersi in quell’unico filo sonoro che le attraversava.
Ora, invece, quel filo viene tirato, annodato, a volte spezzato e, il parlato non sgorga più libero dal grembo delle madri, non danza più sulle labbra dei vecchi, non scivola più breve e luminoso tra i giochi dei bambini.
Si perde tra rumori che non gli appartengono, tra scritture che non respirano, tra ritmi che battono forte ma non sanno ascoltare e, così i figli, che un tempo erano fieri di essere nati arbëreşë, rischiano di non riconoscersi più nello specchio della loro stessa voce.
Perché non è la lingua che scompare ma, il modo di portarla nel cuore che si assottiglia, che vacilla, che chiede silenziosamente di essere salvato.
E fu proprio il nipote di nonna Carmela, poco fuori da quel cortile che odorava ancora di legna spenta e di ricordi, a fermarsi un istante come se qualcuno gli sfiorasse la spalla.
Forse era la sua voce—la voce della nonna che non c’era più—che scendeva leggera dall’alto, come fanno le cose vere che non si perdono mai, a parlargli con il tono familiare di un tempo.
Di fronte a lui c’era il bambino cresciuto discolo, quello che gridava senza attenzione per il mondo e inciampava nelle parole come fossero pietre irregolari.
Proprio quello con un occhio birichino e quello stanco, con le mani sporche di polvere e saggezza, con l’anima già grande e precisa perché allievo, anche di nonna Carmela.
E fu proprio il nipote, quasi parlando per conto di lei, che si avvicinò con una dolcezza che non sapeva di avere.
Dicendo a quel discolo ormai adulto, domani «Parti» gli sussurrò, «impara, cresci e leggere questo paese,
non per fuggire da questo, ma per potervi tornare e racconta cosa è stato.
Perché un giorno qualcuno dovrà accendere il fuoco che la nonna ha sognato per tutta la vita, perché come nonna Carmela fece diventare saggio quel bambino che smise di gridare, e nella sua quiete improvvisa ci fu come un piccolo miracolo.
Sembrò che ascoltasse davvero, lui che ascoltava poco, e che capisse più di quanto potesse dire.
Forse sentiva anche lui quella presenza buona, quel respiro antico che aleggiava vicino ai muri del cortile.
Il focolare, quello desiderato, immaginato, atteso da nonna Carmela, che soltanto dopo il suo ultimo respiro venne costruito, oggi dorme lì, nuovo e silenzioso.
Pare attendere qualcuno capace di dargli una fiamma che non sia solo calore, ma memoria.
E in quel momento il nipote comprese che non era un compito suo soltanto, ma di tutti coloro che sarebbero venuti, e avrebbero portato con sé il filo del sapere e il peso lieve dell’amore.
Così rimasero, il ragazzo e il bambino, immobili nel cortile che si riempiva di ombre e promesse.
Due generazioni che si sfioravano, unite da una voce che parlava dall’alto e dal profondo.
Una voce che chiedeva solo questo: di continuare il sogno, di non lasciare spegnere la luce, di custodire il focolare della famiglia come un cuore che batte anche oltre la vita.
E il vento, passando tra le tegole e le foglie, sembrò portare lontano quel messaggio, come un testamento d’amore pronunciato senza mai essere scritto.
Arch. Atanasio Pizzi (Attento Ricercatore Storico Arbëreşë)








