NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – I Katundë arbëreşë dalla valle del Crati e sino al Pollino sono comunemente definiti “Borghi di crinale”, tuttavia la definizione non corrisponde né alla realtà geografica né alla logica storica degli insediamenti delle genti diasporiche.
In verità, i centri arbëreşe sono insediamenti “di versante”, collocati lungo i fianchi delle valli e, gemellati a depressioni di “canalone”, il che agevola sin anche i naturali percorsi di transito, utili alla comunicazione, lo scambio e osservare il transito di eventuali estranei.
A tal fine è opportuni precisare che le vie di crinale sono tipiche dei borghi medievali, edificati in tali cime per ragioni difensive e di controllo del territorio in epoche più oscure.
Va in oltre sottolineato che nel momento dell’arrivo gli arbëreshë (nel XV secolo), le prospettive che apriva il barocco non seguiva più il modello del sistema difensivo come paradigma replicabile.
Infatti gli arbëreshë, fuggiti dalla insopportabile deriva ottomana, guidati dai patti stipulati dal condottiero Giorgio, ebbero accoglienza e rifugio in Italia meridionale, accolti, nelle terre poco abitate.
La diaspora non fu un evento isolato, ma una serie di migrazioni, spesso concentrate nelle aree marginali del meridione e, strategicamente consigliate per valutare le ire francofone dei principi locali.
Proprio in questo contesto nasce la scelta del Katundë, che non è un piramidale a impronta del modello “chiuso e fortificato”, ma sistema urbano e civile “aperto e disposto per il dialogo con l’agro circostante”.
I Katundë arbëreşë non si arroccavano dietro mura, non disponevano sul crinale, ma si dispongono lungo il versante, a diretto contatto con, le vie di transito con al fianco di canaloni naturali o vie di transito.
Essi diventano spazio poroso, aperto e dinamico, in tutto, un luogo pensato per il movimento, il confronto solidale con l’agro, seguendo le dinamiche di memoria di accoglienza e fraterna cooperazione con gli indigeni locali.
Il “Borgo medievale” al contrario, rispondeva a esigenze che dovevano soddisfare, la necessità di protezione originata dalla frammentazione politica e la costruzione di nuclei chiusi, fortificati, e allocati su crinali senza possibilità di allargarsi.
Questo modello non apparteneva ai principi della comunità arbëreşe, in quanto, esse giunsero nel Mezzogiorno d’Italia, per dissolvere la logica del borgo chiuso ormai senza più futuro, anzi non era più memoria, perché era indispensabile fare agricoltura, cooperazione territoriale, secondo le regole dei cunei agrari di produzione e trasformazione.
Dunque, descrivere i paesi arbëreşë come “borghi di crinale” è un errore storico, orografico, in quanto, comunità di versante, nate lungo vie di canalone, per essere luogo di confronto, accoglienza e, allestire relazione di scambio, dove l’identità culturale qui depositata si mantenne proprio grazie alla apertura diffusa, rimasta solida, viva e indeformabile.
Oltre alla questione orografica e alla collocazione geografica dei Katundë, ciò che in epoca moderna, a partire dagli anni sessanta del secolo scorso è diventato un muro invalicabile e il produrre un parlato e un ascolto arbëreşë che racchiude la luce della memoria.
E progressivamente con passi da gigante viene dismesso l’uso dell’idioma, o lessico essenziale che dava forza e identità ai luoghi, agli oggetti e, alle relazioni conviviali.
In molti casi, i pochi “vagabondi restanti”, che ancora camminano e cantano suonando lungo i vicoli dei e dietro le chiese dei Katundë, usando con naturalezza le cose apparati, senza più nominarle o descriverle secondo la storica etica.
È come se ciò che è nuovo, tecnologico e attuale ha più etichetta della lingua originaria, privandola della possibilità di aggiornarsi, resistere e risuonare senza essere sostenuta come si fa con i terminanti.
Eppure, la lingua non è un semplice strumento musicale, in quanto memoria, ogni parola o luogo arbëreşe contiene un gesto, un modo di vivere, una capacità di nominare il mondo secondo una logica comunitaria.
E se un gruppo si organizzasse a raccoglierne tutti i tasselli oggi avremmo una certezza per parlare in arbereshe senza bisogno dei medioevali Albanisti.
Se quelle parole scompaiono dalla mente dei “vagabondi restanti”, continuano a risanare al ritmo dell’avanzare della pantera rosa, si disturba un intero modo di pensare o articolare un discorso in arbëreşë.
Ed è proprio così che i luoghi finiscono per non “riecheggiare parole”: resta solo la memoria di chi è partito a difendere e custodire la diaspora arbëreşë, quella nata da sacrifici e resistenza ad oltranza.
Una memoria che vive diversamente da ciò che viene sporadicamente “liberato” dalle strutture accademiche o istituzionali, spesso prive degli strumenti necessari per comprendere davvero quella realtà.
Così, incerte e goffe, provano a far passare la saggezza attraverso un imbuto, usato, da inesperti, al contrario; riversando dall’alto nozioni che non sanno gestire, incapaci di far confluire la conoscenza dalla parte del cono.
Questo ormai è una metafora largamente diffusa e utilizzata in variegate strutture accademiche che sembrano non conoscere l’autentico uso dell’imbuto.
Uno strumento che, nella sua funzione originaria, serve a raccogliere e concentrare il sapere, incanalandolo con precisione attraverso una stretta apertura, l’imbuto, dunque, non è un mezzo per “versare dal basso” una verità preconfezionata, ma un dispositivo che consente di ascoltare, raccogliere e dirigere la conoscenza verso una forma coerente e condivisa largamente accolta.
Quando, invece, lo si usa al contrario, come purtroppo accade e, ormai è regola diffusa, nei processi accademici, il sapere non si concentra, ma si disperde, si frammenta, si volatilizza e non si conosce più il luogo per raccoglierla.
Lo studio condiviso così, anziché consolidarsi e dare forza a un progetto di convergenza, si sparge in mille rivoli, perdendo la possibilità di diventare memoria viva e patrimonio comune.
La metafora dell’imbuto diventa il simbolo degli studi e la conoscenza gestita con superficialità dai comunemente e, non può essere sostenuto dall’inchiostro sparso dallo strumento ad inchiostro della scrittura, perché il dispositivo che rovescia dall’alto à, incapaci di raccogliere con la realtà dell’inchiostro che vorrebbero interpretare un modo nuovo di aiutare la memoria.
Ed è proprio questa distanza tra il sapere condiviso “versato dall’alto” e la memoria egocentrica “costruita e versata dal basso”, che impedisce l’emergere di un discorso autentico e solidale sulla diaspora fatta di esperienza, sacrificio e resistenza.
Finché l’imbuto sarà usato nel modo sbagliato, non si potrà davvero raccogliere la voce di chi ha attraversato la storia, specie per quanti ad oggi si dilettano a seminare echi, immaginando che l’imbuto sia megafono.
La lingua, dunque, non va “esposta” come un reperto in una bottega dipartimentale, ma riaffidata alla vita di chi la parla, di chi la abita, di chi la porta dentro e la vive nelle botteghe del parlato quotidiano “un tempo appellate Gjitonia”.
Senza questa bottega della continuità, confusa per altra cosa, la regione storica diffusa e sostenuta in arbëreşë rischia di essere un paesaggio svuotato e, irriconoscibile, perché mutato da suo didentro.
Riattivare il linguaggio, soprattutto quello delle cose semplici, degli oggetti, dei mestieri, del tempo atmosferico, del corpo, della natura, delle relazioni, significherebbe restituire forza ai Katundë, la identica forza indispensabile per una geografia umana che ancora esiste, ma attende di essere chiamata per nome, cognome e soprannome.
Finché il parlato non ritorna, senza l’ostinazione dello scritto, non esisterà una pietra in grado di fare difesa sufficiente del patrimonio e, ogni opera servirà solo a conservazione passivante, mentre la memoria si trasforma in museo dove nessuno riconosce una goccia, una piega, un colore conservati.
Non si può spettacolarizzare il valore dei luoghi attraversati, bonificati, per essere vissuti dagli arbëreşë, senza possedere competenza nell’accogliere altre materie oltre all’egocentrico idioma, perché la regione storica, notoriamente è fatta di costumi, pratiche sociali, credenza, valore vernacolare e tutte queste non solo una, hanno fatto in modo di plasmare, sostenere e tramandare identità.
Ogni parola, ogni gesto, ogni rito che la comunità diasporica ha sviluppato per secoli nel quotidiano, porta in sé una funzione vitale, non è solo memoria, ma vera e propria struttura del vivere, o meglio un codice privato che tiene insieme la società, le sue relazioni e il legame con il territorio.
Privare questi elementi della loro centralità, ridurli a “atto per apparire e mostrare”, equivale a leggere una mappa senza indicazioni, che si plasma in forma visibile, ma perde il senso, e con esso la capacità di comprendere ciò che quei luoghi significano e valgono davvero.
Gli arbëreşë hanno sostenuto, con fatica e lacrime, la conservazione del loro idioma e dei loro costumi, affrontando la diaspora, l’esilio, e la pressione di culture dominanti, che spesso li hanno relegati ai margini. Hanno seminato, metaforicamente e concretamente, ogni parola, ogni canto, ogni pratica sociale, affinché la radice di questa consuetudine antica potesse germogliare nel tempo.
Il loro impegno non si è limitato alla sopravvivenza fisica, diventando trattato di una lotta paziente, quotidiana, fatta di trasmissione orale, di scambio generazionale, di inventiva necessaria per adattarsi ai nuovi contesti paralleli ritrovati, ma sempre e costantemente senza perdere sé stessi.
Oggi, vedere quei luoghi esposti in senso spettacolare, ridotti a scenografie turistiche o a “borghi pittoreschi”, è un dolore tanto più grande in quanto evidenzia palesemente la dissonanza tra la vita reale che qui si è svolta e ciò che viene proposto al pubblico con i midia e altri apparati, che invece di sostenere tagliano la lingua e con la polvere che fuoriesce dalla bocca, butta granelli sugli occhi.
La lingua arbëreşë, il suo lessico dei mestieri, dei paesaggi, dei gesti, dei momenti domestici e agricoli, rappresentano un codice segreto che può essere ascoltato o visto per comprendere la geografia, la storia e le emozioni di un intero popolo.
Senza questa chiave, ogni percezione del luogo è incompleta e superficiale, privarla di spessore idoneo, destinandola a diventare una mera cartolina monocolore e senza respiro.
Non si tratta solo di conservazione culturale, ma di rispetto per quel vissuto collettivo dei nostri avi e, che hanno fatto la comunità arbëreşë, affrontando persecuzioni, fame, instabilità e il peso della migrazione; e, ogni sacrificio, ogni lacrima versata, ogni difficoltà superata ha contribuito a mantenere viva la memoria del Katundë, la struttura aperta e relazionale che li contraddistingue.
Il loro rapporto con il territorio non è mai stato astratto, ma segnato da vie di canalone, di prati, di boschi, di fonti e torrenti che diventano punti di riferimento sociali e simbolici, per quanti oggi si avvicinano per ascoltare quei gli echi antichi e tutte le cose fatte per vernacolo.
Ogni luogo è intriso di ricordi, di gesti, di nomi, di storie quotidiane che non si possono replicare o spettacolarizzare senza il rispetto del codice originale, specie da chi li ha da sempre ignorati inconsapevole che i capelli sciolti sono simbolo di vergogna o disperazione.
Il parlato, l’abitare del bisogno, i costumi sono strumenti insostituibili per dare voce a questa memoria e, non sono semplici dettagli o curiosità da esporre, ma il tessuto della storia custodita nel parlato in arbëreşë.
Ogni parola dimenticata è una radice recisa; ogni gesto non trasmesso è un ponte che crolla tra passato e presente e, la spettacolarizzazione dei luoghi, priva di questa misura, rischia di trasformare l’esperienza in un insieme di immagini vuote, dove si riconosce la forma senza garbo e sostanza a iniziare dalla chioma dei capelli sciolti esposti senza velo, l’esempio più semplice per tutelare l’intimità, il rispetto di cose sacre del fuoco di casa, sino a dove è l’altare della chiesa.
Eppure, chi conosce, chi ha vissuto e trasmesso le consuetudini in maniera esemplare, difende la memoria della diaspora arbëreşë, sa che la forza del luogo nasce da questo intreccio profondo tra parola, gesto e diffuso.
A tal proposito qui si vogliono accennare anche i luoghi all’interno dei Katundë dove la strada forma una croce, da un lato scende e segue il lavinaio, dall’altro taglia e va verso il noce antico.
Lì, secondo i vecchi saggi, non bisognava mai fermarsi, né lasciare che l’acqua della credenza, della brocca, versata bagnasse i piedi del viandante.
Perché una volta imbibita, quella non era più acqua ma, diventava destino, e da quel momento nessuno avrebbe avuto modo di ricomporla secondo luce divina.
Allo stesso modo, la crescita dei figli sotto il noce era considerata pericolosa e, si diceva che quell’albero fosse un confine tra luce e ombra, luogo prediletto di magare, che nelle notti di marzo venivano a sedersi tra le radici nodose e, chiamare il vento.
Per questo si piantavano i noci ai margini dei campi e, non come dono, ma come altare infernale e, nessuno dei saggi credenti avrebbe tenuto una culla sotto quelle fronde sleale.
La magara non era nata dal male, ma erano una domanda e, quando il paese perde la memoria, il sapere si rovescia come acqua sull’incrocio di prima.
Chi resta a custodire la chiave del mese di marzo distingue il raccolto fa carestia e, le prime attrici del paese che fanno dimenticare ogni cosa per fare il loro progredire.
Esse vivevano nei gesti trattenuti, nei silenzi, nelle parole non dette e, il loro potere non era lancio esplicito di malocchi, ma capacità di interpretare, un raccolto insufficiente, il pianto di una madre senza sonno.
Per scacciarle non bastava gridare, ma attenzione di dove e come sarebbero svanite se la gente avesse ricominciato a chiamare ogni cosa con il suo nome e adottare gesti e cose fatto con garbo de senso di credenza del modo più antico.
Per questo, diffondere l’intimità arbëreşë, significa innanzitutto restituire centralità alla parola, alla voce del passato che ancora parla attraverso chi la custodisce e chi la osserva specie se madre future deve apparire come fanno le spose quando iniziano a fare casa e dirigere famiglia per essere regina del fuoco.
Per questo serve riconoscere che la cultura non è un’esposizione statica, ma una vita in movimento, un fiume di memoria e atti di apparizione ragionati, specie per chi si espone a camminare tra le case, i canaloni, anche se con gesti più semplici della quotidianità.
Solo così i luoghi possono riecheggiare davvero, ma non come set scenografici, ma come spazi vivi, dove il passato non è un ornamento, ma il terreno fertile su cui continuare a crescere ed esporre i generi con senso e valore di genere.
Arch. Atanasio Pizzi direttore A.R.S.A. (Attento Ricercatore Storico Arbëreşë)
Napoli 2025-11-30 / domenica









