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LA MONETA DI MEMORIA E DIMENTICANZA CHE UNISCE ALBANESI E ARBËREŞË ghë gherë ishë kiana e kjepàtë thë bardà

Posted on 06 dicembre 2025 by admin

photo_2025-12-06_09-25-15NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Sono numerose, tra Italia e Albania, le manifestazioni che si svolgono in dipartimenti, palazzi istituzionali e consolari, per rinnovare, spesso in modo quantomeno singolare, la memoria di una sola liberazione.

Quando ad accadere sono due: la prima al termine della stagione lunga a novembre e, la seconda rimane ancora viva la sensazione di quella disdetta che accolsero in solitario, l’inizio di quella stessa stagione in marzo.

Un’appartenenza isolata arbëreşe, senza che si vedesse ombra, di coloro che oggi si ergono a conservatori o promotori di un modello consuetudinario che, ormai, non appartiene più a loro e che vide in solitario operare Domenico, Antonio, e Massimo; coadiuvati dagli instancabili e operosi “cavalieri di legalità, geologia e architettura”, onde evitare di subire una nuova diaspora, che cancellasse irreparabilmente le cose immateriali e materiali appena scalfite da quella benedizione ostinata del lagrimoso Abate.

Furono questi sei impavidi discendenti a dover trovare la forza di organizzarsi e di affrontare una diaspora moderna, che oggi nessuno ricorda e nessuno osa menzionare, perché non conosce fatti luoghi e cose.

Allora, nel cuore più profondo, tutto si dissolse, privando quella piana di ogni appoggio fisico e morale per conservare memoria, luogo e una tradizione antica che senza soluzione di continuità ostinatamente vive.

E non attende una strada, non attende istituzione ma almeno una processione che unisca tutti in una devozionale processione dello storico Katundë.

Infatti tutto si concentra oggi nell’apparire di un vecchio quadrupede sul cui basto si posano due pesanti fasci di rami, uno rivolto a oriente, l’altro a occidente.

E mentre il falso condottiero, ignaro e frettoloso, si incamminava lungo il torrente adriatico per ansare verso la veneta capitale, la sua mano priva di cautela lasciò scivolare nel nulla l’intero carico d’occidente che non era stato opportunamente avvolto dalla corda.

Così tornò a casa fiero soltanto dei rami d’oriente, incapace di vedere l’asimmetria, la perdita, la menzogna che portava con sé dal 2005 al 2011.

E mentre in Albania si festeggi la fine del dolore di novembre, qui in Regine Storica si continua a patire l’inizio di quel mese di marzo discioltosi lungo la via del ritorno del distratto contadino

Ed è questo, ancora oggi, ciò che appare all’occhio solitaria di chi osserva da un lato chi si esalta, celebra, si autoproclama custode di tradizioni che non gli appartengono più; dall’altro, nella piana dove la diaspora non concede tregua, lasciando soli ed isolati coloro che portano sulle spalle il peso silenzioso di ciò che è stato davvero vissuto in lacrimosa imposizione istituzionale e culturale.

In quel tempo d’inizio della stagione lunga, quando ancora risuonavano gli echi delle manifestazioni esaltate di un inverno piovoso, la gente di quel piccolo Katundë attendeva San Giuseppe con la lanterna accesa, sperando che potesse portare un raggio di luce nelle pieghe ancora umide dell’oscurità.

Ma quel canalone, lasciato per anni a compiere il suo lento dovere, come se il suo respiro fosse soltanto un dettaglio del paesaggio, si destò all’improvviso.

E il suo risveglio, repentino e furioso, fece uscire tutti dalle proprie case, come se un’antica voce avesse chiamato ciascuno a ricordare che le cipolle non si potevano più ripiantare.

Le istituzioni, che avevano ignorato troppo a lungo la condotta e gli avvisi del religioso “Abate solitario che continuamente benediva quel canalone”, si trovarono dinnanzi alla sua ira, un’ira non urlata, ma scolpita nei gesti storicamente ignorati e, tanto potenti da far vacillare perfino chi non avrebbe mai immaginato che un semplice luogo benedetto dalle acque potesse generare tanta pena.

Così, in quel frangente sospeso fra acqua e terra, fra colpa e risveglio, prese forma la consapevolezza di un abbandono che non poteva più essere nascosto.

E quando giunse il giorno dell’abbandono, nessuna istituzione si mosse da alcun luogo sia della regione storica o della fratria Albanese e, tutti si dichiararono estranei a quella pena arbëreşë, come se appartenesse soltanto a un passato remoto, come se bastasse immaginare un paese nuovo, “costruito attorno alle cinque Gjitonie”, per cancellare il dolore, le pene delle partenze subite.

E poi venne novembre, e con esso il giorno in cui Sant’Andrea salì al cielo, portando con sé un filo di luce da offrire al Paradiso.

Ma per quella piana, ormai trasformata in un canalone colmo di lacrime, che segnavano la loro ascesa segnò solo l’inizio di un’altra stagione, ovvero quella del tempo della “Dimenticanza”.

Un tempo in cui le voci si affievolirono, le memorie si sbiadirono, e il silenzio prese il posto dei racconti tramandati, come se tutto ciò che era stato vissuto potesse essere sepolto sotto lo scorrere lento e indifferente dei giorni.

Oggi è spontaneo domandarsi a cosa servano questi momenti di giubilo, qui, in questa nostra terra, quando le stesse istituzioni che ora innalzano vessilli e parole solenni furono le prime a negarsi e non venire in questa piana del canalone ad apparire solidali.

Nessuno venne allora a celebrare la fine dell’incubo di quanti furono costretti ad essere diasporici, raggirati con le ire dell’abate che adesso era in cielo a riferire che la piana affondava nella sua ferita e andava verso il Crati.

E così, nel vederli oggi festeggiare soddisfatti la liberazione albanese, sembra quasi di assistere a una scena rovesciata, come se affondassero benedizioni nel vuoto, proprio come faceva “l’Abate” su quella ferita storica che, ancora oggi, non termina in favore di quel luogo di memori diasporica antica.

Ci sono dolori che non conoscono giubilo, e memorie che non si lasciano riconciliare da una festa improvvisa specie se fatta dalle stesse istituzioni che dal quel marzo del 2005 voltarono in accordo sistematico le spalle.

Perché quelle negate sono radici che restano, anche quando chi dovrebbe custodirle sceglie invece di dimenticare e, mentre tutto questo scorre, in quella depressione storica che doveva andare nel Crati, la radice solida e viva ha germogliato alberi fieri che restano orgogliosamente inalberati e attenti a confermare che li “l’Abate” non benedice più con quelle acque virulente e vili.

Arch. Atanasio Pizzi (Attento Ricercatore Storico Arbëreşë)

 

 

 

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IL CRINALE È UN ERRORE GEOGRAFICO PER IDENTIFICARE UN KATUNDË Vitiriolètë venë me lljièshë thë spikësurë atìre rrhùgàve

IL CRINALE È UN ERRORE GEOGRAFICO PER IDENTIFICARE UN KATUNDË Vitiriolètë venë me lljièshë thë spikësurë atìre rrhùgàve

Posted on 01 dicembre 2025 by admin

CRESTA

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – I Katundë arbëreşë dalla valle del Crati e sino al Pollino sono comunemente definiti “Borghi di crinale”, tuttavia la definizione non corrisponde né alla realtà geografica né alla logica storica degli insediamenti delle genti diasporiche.

In verità, i centri arbëreşe sono insediamenti “di versante”, collocati lungo i fianchi delle valli e, gemellati a depressioni di “canalone”, il che agevola sin anche i naturali percorsi di transito, utili alla comunicazione, lo scambio e osservare di eventuali estranei.

A tal fine è opportuni precisare che le vie di crinale sono tipiche dei borghi medievali, edificati in tali cime per ragioni difensive e di controllo del territorio in epoche più oscure.

Va in oltre sottolineato che nel momento dell’arrivo gli arbëreshë (nel XV secolo), le prospettive che apriva il barocco non seguiva più il modello del sistema difensivo come paradigma replicabile.

Infatti gli arbëreshë, fuggiti dalla insopportabile deriva ottomana, guidati dai patti stipulati dal condottiero Giorgio, ebbero accoglienza e rifugio in Italia meridionale, accolti, nelle terre poco abitate.

La diaspora non fu un evento isolato, ma una serie di migrazioni, spesso concentrate nelle aree marginali del meridione e, strategicamente consigliate per valutare le ire francofone dei principi locali.

Proprio in questo contesto nasce la scelta del Katundë, che non è un piramidale a impronta del modello “chiuso e fortificato”, ma sistema urbano e civile “aperto e operoso per il dialogo con l’agro circostante.

I Katundë arbëreşë non si arroccavano dietro mura, non disponevano sul crinale, ma si dispongono lungo il versante, a diretto contatto con, le vie di transito con al fianco canaloni naturali o vie di transito.

Essi diventano spazio poroso, aperto e dinamico, in tutto, un luogo pensato per il movimento, il confronto solidale con l’agro, seguendo le dinamiche di memoria di accoglienza e fraterna cooperazione con gli indigeni locali.

Il Borgo medievale” al contrario, rispondeva a esigenze che dovevano soddisfare, la necessità di protezione originata dalla frammentazione politica e la costruzione di nuclei chiusi, fortificati, e allocati su crinali senza possibilità di allargarsi.

Questo modello non apparteneva ai principi della comunità arbëreşe, in quanto, esse giunsero nel Mezzogiorno d’Italia, per dissolvere la logica del borgo chiuso ormai senza più futuro, anzi non era più memoria, perché era indispensabile fare agricoltura, cooperazione territoriale, secondo le regole dei cunei agrari di produzione e trasformazione.

Dunque, descrivere i paesi arbëreşë come “borghi di crinale” è un errore storico, orografico, in quanto, comunità di versante, nate lungo vie di canalone, per essere luogo di confronto, accoglienza e, allestire relazione di scambio, dove l’identità culturale qui depositata si mantenne proprio grazie alla apertura diffusa, rimasta solida, viva e indeformabile.

Oltre alla questione orografica e alla collocazione geografica dei Katundë, ciò che in epoca moderna, a partire dagli anni sessanta del secolo scorso è diventato un muro invalicabile e il produrre un parlato e un ascolto arbëreşë che racchiude la luce della memoria.

E progressivamente con passi da gigante viene dismesso l’uso dell’idioma, o lessico essenziale che dava forza e identità ai luoghi, agli oggetti e, alle relazioni conviviali.

In molti casi, i pochi “vagabondi restanti”, che ancora camminano e cantano suonando lungo i vicoli e dietro le chiese dei Katundë, usando con naturalezza le cose o apparati, senza più nominarle o descriverle secondo la storica etica.

È come se ciò che è nuovo, tecnologico e attuale ha più etichetta della lingua originaria, privandola della possibilità di aggiornarsi, resistere e risuonare senza essere sostenuta come si fa con i terminanti.

Eppure, la lingua non è un semplice strumento musicale, in quanto memoria e, ogni parola o luogo arbëreşe contiene un gesto, un modo di vivere, una capacità di nominare il mondo secondo una logica comunitaria.

E se un gruppo si organizzasse a raccoglierne tutti i tasselli appartenenti all’idioma di radice, oggi avremmo una certezza per parlare in arbëreşë senza la necessità della islamica Albanistica.

Se le parole vere scompaiono dalla mente dei “vagabondi restanti”, continuando a risanare al ritmo dell’avanzare della pantera rosa, si disturba un intero modo di pensare o articolare un discorso in arbëreşë.

Ed è proprio così che i luoghi finiscono per non “riecheggiare parole”; resta solo la memoria di chi è partito a difendere e custodire la diaspora arbëreşë, quella nata da sacrifici e resistenza ad oltranza.

Una memoria che vive diversamente da ciò che viene sporadicamente “liberata” dalle strutture istituzionali, spesso prive degli strumenti necessari per comprendere davvero quella realtà.

Così, incerte e goffe, provano a far passare la saggezza attraverso un imbuto, usato, da inesperti, al contrario; riversando dall’alto nozioni che non sanno gestire, incapaci di far confluire la conoscenza dalla parte stretta del cono.

Questo ormai è una metafora largamente diffusa e utilizzata in variegate strutture che dicono di sapere e conoscere l’autentico uso dell’imbuto.

Uno strumento che, nella sua funzione originaria, serve a raccogliere e concentrare il sapere, incanalandolo con precisione attraverso una stretta apertura, l’imbuto, dunque, non è un mezzo per “versare dal basso” una verità preconfezionata, ma un dispositivo che consente di ascoltare, raccogliere e dirigere la conoscenza verso una forma coerente, condivisa che accolta e accoglie.

Quando, invece, lo si usa al contrario, come purtroppo accade e, ormai è regola diffusa, nei processi di confronto, il sapere non si concentra, ma si disperde, si frammenta, si volatilizza e non si trova più il luogo per raccoglierla.

Lo studio condiviso così, anziché consolidarsi e dare forza a un progetto di convergenza, si sparge come il vento del ventaglio, perdendo la possibilità di diventare memoria viva e patrimonio che unisce una comunità.

La metafora dell’imbuto diventa il simbolo degli studi e la conoscenza gestita con superficialità dai comunemente e, non può essere sostenuto dall’inchiostro sparso dallo strumento della scrittura, perché il dispositivo che rovescia dall’alto è, incapace di raccogliere con la realtà dell’inchiostro che vorrebbero interpretare un modo nuovo di aiutare la memoria.

Ed è proprio questa distanza tra il sapere condiviso “versato dall’alto” e la memoria egocentrica “costruita e versata dal basso”, che impedisce l’emergere di un discorso autentico e solidale sulla diaspora fatta di esperienza, sacrificio e resistenza.

Finché l’imbuto sarà usato nel modo sbagliato, non si potrà davvero raccogliere la voce di chi ha attraversato la storia, specie per quanti ad oggi si dilettano a seminare echi, immaginando che l’imbuto sia megafono.

La lingua, dunque, non va “esposta” come un reperto in una bottega senza un mestiere specifico, ma riaffidata alla vita di chi la parla, di chi la abita, di chi la porta dentro e la vive con l’operoso parlato e ascolto generazionale quotidiano “un tempo appellate Gjitonia”.

Senza questa bottega della continuità, confusa per altra cosa, la regione storica diffusa e sostenuta in arbëreşë rischia di essere un paesaggio svuotato e, irriconoscibile, perché mutato da suo didentro.

Riattivare il linguaggio, soprattutto quello delle cose semplici, degli oggetti, dei mestieri, del tempo atmosferico, del corpo, della natura, delle relazioni, significherebbe restituire forza ai Katundë, la identica forza indispensabile per una geografia umana che ancora esiste, ma attende di essere chiamata per nome, cognome e soprannome.

Finché il parlato non ritorna, senza l’ostinazione dello scritto, non esisterà una pietra in grado di fare difesa sufficiente del patrimonio e, ogni opera servirà solo a conservare passivante, nel mentre la memoria si trasforma in museo dove nessuno riconosce una goccia, una piega, un colore depositato.

Non si può spettacolarizzare il valore dei luoghi attraversati, bonificati, per essere vissuti dagli arbëreşë, senza possedere competenza nell’accogliere altre materie oltre al variegato idioma, perché la regione storica, notoriamente è fatta di costumi, pratiche sociali, credenza, valore vernacolare e tutte queste non solo “una”, ha fatto in modo di plasmare, sostenere e tramandare identità.

Ogni parola, ogni gesto, ogni rito che la comunità diasporica ha sviluppato per secoli nel quotidiano, porta in sé una funzione vitale, non è solo memoria, ma vera e propria struttura del vivere, o meglio un codice privato che tiene insieme la società, le sue relazioni, il legame e con il territorio.

Privare questi elementi della loro centralità, ridurli a “atto per apparire e mostrare”, equivale a leggere una mappa senza indicazioni, che si plasma in forma visibile, ma perde il senso, e con esso la capacità di comprendere ciò che quei luoghi significano e valgono davvero.

Gli arbëreşë hanno sostenuto, con fatica e lacrime, la conservazione del loro idioma e dei loro costumi, affrontando la diaspora, l’esilio, e la pressione di culture dominanti, che spesso li hanno relegati ai margini. Hanno seminato, metaforicamente e concretamente, ogni parola, ogni canto, ogni pratica sociale, affinché la radice di questa consuetudine antica potesse germogliare nel tempo.

Il loro impegno non si è limitato alla sopravvivenza fisica, diventando trattato di una lotta paziente, quotidiana, fatta di trasmissione orale, di scambio generazionale, di inventiva necessaria per adattarsi ai nuovi contesti paralleli ritrovati, ma sempre e costantemente senza perdere sé stessi.

Oggi, vedere quei luoghi esposti in senso spettacolare, ridotti a scenografie turistiche o a “borghi pittoreschi”, è un dolore tanto più grande in quanto evidenzia palesemente la dissonanza tra la vita reale che qui si è svolta e ciò che viene proposto al pubblico con midia e altri apparati, che invece di sostenere, tagliano la lingua e con la polvere che fuoriesce dalla bocca e, butta granelli sugli occhi.

La lingua arbëreşë, il suo lessico dei mestieri, dei paesaggi, dei gesti, dei momenti domestici e agricoli, rappresentano un codice segreto che può essere ascoltato o visto per comprendere la geografia, la storia e le emozioni di un intero popolo.

Senza questa chiave, ogni percezione del luogo è incompleta e superficiale, privarla di spessore idoneo, destinandola a diventare una mera cartolina monocolore e senza respiro.

Non si tratta solo di conservazione culturale, ma di rispetto per quel vissuto collettivo dei nostri avi e, che hanno fatto la comunità arbëreşë, affrontando persecuzioni, fame, instabilità e il peso della migrazione; e, ogni sacrificio, ogni lacrima versata, ogni difficoltà superata ha contribuito a mantenere viva la memoria del Katundë, la struttura aperta e relazionale che li contraddistingue.

Il loro rapporto con il territorio non è mai stato astratto, ma segnato da vie di canalone, di prati, di boschi, di fonti e torrenti che diventano punti di riferimento sociali e simbolici, per quanti oggi si avvicinano per ascoltare quei gli echi antichi e tutte le cose fatte per vernacolo.

Ogni luogo è intriso di ricordi, di gesti, di nomi, di storie quotidiane che non si possono replicare o spettacolarizzare senza il rispetto del codice originale, specie da chi li ha da sempre ignorati inconsapevole che i capelli sciolti sono simbolo di vergogna o disperazione.

Il parlato, l’abitare del bisogno, i costumi sono strumenti insostituibili per dare voce a questa memoria e, non sono semplici dettagli o curiosità da esporre, ma il tessuto della storia custodita nel parlato in arbëreşë.

Ogni parola dimenticata è una radice recisa; ogni gesto non trasmesso è un ponte che crolla tra passato e presente e, la spettacolarizzazione dei luoghi, priva di questa misura, rischia di trasformare l’esperienza in un insieme di immagini vuote, dove si riconosce la forma senza garbo e sostanza a iniziare dalla chioma dei capelli sciolti esposti senza velo, l’esempio più semplice per tutelare l’intimità, il rispetto di cose sacre del fuoco di casa, sino a dove è l’altare della chiesa.

Eppure, chi conosce, chi ha vissuto e trasmesso le consuetudini in maniera esemplare, difende la memoria della diaspora arbëreşë, sa che la forza del luogo nasce da questo intreccio profondo tra parola, gesto e memoria.

A tal proposito qui si vogliono accennare anche i luoghi all’interno dei Katundë dove la strada forma una croce, da un lato scende e segue il lavinaio, dall’altro taglia e va verso il noce antico.

Lì, secondo i vecchi saggi, non bisognava mai fermarsi, né lasciare che l’acqua della credenza, della brocca, versata bagnasse i piedi del viandante.

Perché una volta imbibita, quella non era più acqua ma, diventava destino, e da quel momento nessuno avrebbe avuto modo di ricomporla secondo luce divina.

Allo stesso modo, la crescita dei figli sotto il noce era considerata pericolosa e, si diceva che quell’albero fosse un confine tra luce e ombra, luogo prediletto di magare, che nelle notti di marzo venivano a sedersi tra le radici nodose e, chiamare il vento.

Per questo si piantavano i noci ai margini dei campi e, non come dono, ma come altare infernale e, nessuno dei saggi credenti avrebbe tenuto una culla sotto quelle fronde sleale.

La magara non era nata dal male, ma erano una domanda e, quando il paese perde la memoria, il sapere si rovescia come acqua sull’incrocio di prima.

Chi resta a custodire la chiave del mese di marzo distingue il raccolto fa carestia e, le prime attrici del paese che fanno dimenticare ogni cosa per fare il loro progredire.

Esse vivevano nei gesti trattenuti, nei silenzi, nelle parole non dette e, il loro potere non era lancio esplicito di malocchi, ma capacità di interpretare, un raccolto insufficiente, il pianto di una madre senza sonno.

Per scacciarle non bastava gridare, ma attenzione di dove e come sarebbero svanite se la gente avesse ricominciato a chiamare ogni cosa con il suo nome e adottare gesti e cose fatto con garbo de senso di credenza del modo più antico.

Per questo, diffondere l’intimità arbëreşë, significa innanzitutto restituire centralità alla parola, alla voce del passato che ancora parla attraverso chi la custodisce e chi la osserva specie se madre future deve apparire come fanno le spose quando iniziano a fare casa e dirigere famiglia per essere regina del fuoco.

Per questo serve riconoscere che la cultura non è un’esposizione statica, ma una vita in movimento, un fiume di memoria e atti di apparizione ragionati, specie per chi si espone a camminare tra le case, i canaloni, anche se con gesti più semplici della quotidianità.

Solo così i luoghi possono riecheggiare davvero, ma non come set cinematografici, ma come spazi vivi, dove il passato non è un ornamento, ma il terreno fertile su cui continuare a crescere ed esporre i generi con senso e valore per fiorire meglio.

 

 

Arch. Atanasio Pizzi direttore A.R.S.A.  (Attento Ricercatore Storico Arbëreşë)

Napoli 2025-11-30 / domenica

 

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MODELLO STRUTTURALE: INFORMAZIONI STORICHE DI UN EDIFICIO B.I.S. (Bulding Informarion Structural)

MODELLO STRUTTURALE: INFORMAZIONI STORICHE DI UN EDIFICIO B.I.S. (Bulding Informarion Structural)

Posted on 29 novembre 2025 by admin

kalliveNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Nell’ambito dello studio del territorio, le indagini cartografiche basate sui sistemi GIS rappresentano gli strumenti fondamentali per la conoscenza dei processi orografici e idrografici che caratterizzano un’area geografica sottoposta a studio e indagine.

Tali analisi permettono di leggere e interpretare la struttura fisica del paesaggio, di comprenderne le dinamiche naturali e di individuare le relazioni tra ambiente, insediamenti umani e risorse disponibili. Tuttavia, quando l’attenzione si sposta verso l’analisi dell’edificato storico e delle forme insediative tradizionali, diventa necessario affiancare a queste metodologie territoriali un diverso approccio, più sensibile alle dimensioni culturali, sociali ed etno-antropologiche dello spazio abitato.

In questo capitolo si intende dunque illustrare le metodologie di indagine dedicate agli edifici vernacolari del Mediterraneo, che appelleremo: B.I.S. (Bulding Informarion Structural) con particolare attenzione volta all’analisi delle architetture sorte nei contesti di migrazione e adattamento, che hanno accompagnato, e spesso incarnato, le vicende umane delle genti coinvolte nella diaspora dei Balcani.

La casa vernacolare mediterranea non è soltanto una risposta funzionale al clima, ai materiali locali e alle difficoltà orografiche del territorio; essa rappresenta anche un documento vivente di identità, memoria e sopravvivenza.

Il progetto mira a compilare un archivio di saperi costruttivi tramandati oralmente, o habitat modellato dalla necessità, dall’ingegno, e al tempo stesso assumere il ruolo di simbolo silenzioso delle inquietudini e delle speranze di comunità spesso costrette a spostarsi, ridefinendo continuamente il proprio rapporto con il luogo.

Le indagini che hanno avuto come fine gli edifici vernacolari, verso i quali, è stata rivolta una approfondita attenzione multidisciplinare e, l’analisi morfologica delle strutture, lo studio dei materiali, le tecniche costruttive, la comprensione delle logiche distributive interne, fino alla lettura dei rapporti con il paesaggio circostante avendo sempre presenta la rete delle interazioni sociali, hanno restituito un percorso storico solido e inscindibile.

Non meno importanti sono gli aspetti immateriali, come le consuetudini sino alla soglia della porta di casa, le forme di Gjitonia la forma sociale degli spazi comuni, la percezione del limite tra pubblico e privato, hanno fornito una nuova metrica secondo cui interpretare questo fenomeno sociale.

E in tale prospettiva, l’edificato vernacolare diventa vero e proprio dispositivi narrativi, solidamente in grado di raccontare il rapporto tra le comunità e i territori, attraversati, bonificati e nel cntempo riconoscerne il parallelismo naturale simile alla terra di origine.

Analizzare queste architetture significa quindi non solo descrivere un patrimonio materiale, ma anche restituire un paesaggio culturale fatto di migrazioni arbëreşë, si scoprono anche gli atti e le attività di adattamenti e trasformazioni lenta, in coabitazione con quanto testato anche dalla natura.

In questa direzione, lo studio della diaspora balcanica rivela modalità peculiari di insediamento, strategie costruttive e continuità tipologiche, che possono contribuire alla costruzione di una lettura più profonda e complessa dei territori.

E il tutto poi diventa una lettura che, integrando i dati cartografici con le testimonianze dell’edificato vernacolare, permetta di cogliere l’intreccio tra geografia fisica, storia umana e identità collettiva.

La metrica di indagine adottata in questo studio trova origine all’interno delle ricerche che vedono come luogo di indagine i Katundë della regione storica diffusa e sostenuta degli arbëreshë, comunità, la cui presenza nel territorio mediterraneo è stata segnata da forme di insediamento frammentario, migrazioni episodiche e persistenti processi di adattamento ambientale che vanno dal XIII al XVIII secolo.

L’intervallo siccome risulta essere privo di fonti storiche certe o di elementi documentali univoci che possano determinarne la cronologia dall’origine, ha visto l’approccio metodologico spostarsi verso temi monocentrici che qui in questo progetto, cerca risposte attraverso il costruito e l’analisi diretta dei manufatti edilizi, considerati indicatori temporali e culturali del bisogno di epoca.

In assenza quindi di archivi ufficiali o di registri catastali storici, la lettura dell’edificato assume un ruolo centrale e diventa strumento indispensabile per ricostruire le tappe di formazione, crescita e trasformazione dei nuclei abitati dagli arbëreşë.

In questo quadro, lo studio dei manufatti del bisogno, ovvero quelle costruzioni nate per rispondere immediatamente a esigenze di sopravvivenza, difesa o sostentamento, rappresenta un elemento cardine della metodologia proposta.

Tali manufatti, spesso privi di ornamenti e concepiti secondo logiche progettuale del bisogno locale, sono stati eretti, nella totale assenza di architetti e, per questo, sapendoli analizzare, offrono preziose tracce temporali, dove la tipologia dei materiali impiegati, le tecniche murarie, la composizione degli impasti e l’evoluzione delle giunture, costituiscono indizi utili per determinare non solo l’epoca di compilazione, ma anche quelle fasi di espansione, consolidamento o ricostruzione che si sono succedute nei secoli.

Il rilievo e l’analisi stratigrafica degli elementi murari verticali, degli orizzontamenti, oltre i lastrici inclinati, sono dunque fondamentali per leggere la memoria sedimentata nelle costruzioni vernacolari. Attraverso l’individuazione delle fasi costruttive e delle sovrapposizioni materiche, attraverso cui si possono riconoscere le risposte architettoniche a eventi naturali che hanno interessato queste aree in diverse epoche: terremoti, smottamenti, alluvioni o carestie hanno determinato la necessità di nuove edificazioni, ampliamenti o adeguamenti strutturali.

In tali circostanze, i Katundë arbëreşe conservano ancora oggi, una notevole capacità di resilienza, reinterpretando le risorse locali e riformulando i modelli costruttivi ereditati, senza rinunciare alla propria identità culturale.

Le tracce di compilazione presenti nelle murature, e il variare del loro sviluppo altimetrico nei tipi di materiali utilizzata, i mutamenti nell’orientamento dei corsi, la diversa granulometria delle malte o presenza di sistemi di incastro arcaici, diventano quindi indicatori temporali e narrativi se saputi leggere e tradurre.

Esse testimoniano fasi di improvvisazione costruttiva, periodi di scarsità di materiali nei momenti di ricostruzione post-calamità, fasi di frazionamento dell’edificato a cui fecero seguito la stabilità e sviluppo economico secondo tipologie architettoniche espresse dalle arti illuministe.

Attraverso l’osservazione sistematica di tali elementi è possibile delineare una cronologia alternativa, fondata non su documenti scritti ma sul linguaggio silente della materia edilizia in continua crescita.

Questo approccio, nato nelle ricerche con tema gli insediamenti arbëreşë, ancora in evoluzione, se adeguatamente estese e applicate, aprono orizzonti nuovi per allestire una metodologia di lettura del territorio, basata su una profonda relazione tra spazio, comunità, tempo e ambiente.

L’edificio vernacolare diventa così, lo strumento di conoscenza dinamico e, non solo rappresenta un risultato costruttivo, ma si configura come un archivio vivente che conserva le tracce delle trasformazioni ambientali, sociali e culturali.

E ogni muro, ogni giunto, ogni travatura, ogni variazione materica diventa segno di una decisione, di una necessità o di un trauma collettivo, inscrivendo nelle forme dell’abitare una storia più ampia di resilienza e di adattamento.

In assenza di fonti certe, è dunque la materia locale stessa a divenire racconto compilato e, l’indagine architettonica, accompagnata dal rilievo ravvicinato grafico e fotografico dei manufatti, restituisce una narrazione storica capace di ricostruire la stratificazione delle epoche e delle comunità che hanno attraversato bonificato e ricostruito più volte questi territori.

Attraverso questa metrica di indagine si giunge a riconoscere il costruito vernacolare sino a quello illuminista, che non è mera risposta abitativa, ma una testimonianza concreta della continuità culturale e della tenacia umana, che compongono gli elementi fondamentali per comprendere il legame tra la diaspora arbëreşe e, i paesaggi storici che hanno visto le terre protagoniste della storia di un esodo storico portato a buon fine.

La varietà tipologica delle murature presenti nei territori arbëreşe, costituisce un patrimonio di dati materiali attraverso cui è possibile ricostruire, con metodo scientifico, le fasi evolutive dell’insediamento e le condizioni che ne hanno determinato sviluppo, crisi o riorganizzazione.

Ogni edificio vernacolare, se osservato con rigore, diventa una testimonianza della stratificazione storica e, i materiali impiegati, la qualità delle lavorazioni, le tecniche di giunzione e la distribuzione degli spazi interni rivelano precise corrispondenze con eventi naturali, cambiamenti sociali e trasformazioni politico-amministrative che hanno interessato questi luoghi nel corso dei secoli.

Tra le principali configurazioni costruttive analizzate si incontrano le murature in pietra, calce e arena, caratterizzate da un impasto semplice e funzionale, preparato in assenza di tecnologie complesse e con l’uso esclusivo delle risorse reperibili in loco.

Queste murature, spesso irregolari e prive di perfezione geometrica, identificano le prime fasi insediative e sono tipiche delle costruzioni del bisogno, erette allo scopo di garantire un riparo immediato o delimitare spazi di lavoro e sostentamento.

La qualità della calce, la granulometria dell’arena e l’irregolarità delle pietre impiegate consentono di riconoscere non solo l’epoca di realizzazione, ma anche le condizioni materiali delle comunità che le hanno costruite.

Un secondo tipo è rappresentato dalle murature miste, nelle quali compaiono mattoni di recupero, laterizi di spogliatura o frammenti riutilizzati all’interno dell’impasto murario.

Tali tecniche, adottate frequentemente in aree soggette a crisi demografiche o a eventi naturali distruttivi, testimoniano una fase di ricostruzione o di riorganizzazione insediativa.

La presenza di materiali di spoglio indica infatti la volontà di riutilizzare ciò che era disponibile, trasformando gli edifici preesistenti in risorse per nuove configurazioni abitative.

La calce, usata come legante universale, assume in questi casi una duplice funzione: tecnica, come elemento di coesione, e storica, come indizio della metabolizzazione culturale delle rovine.

Non meno significative sono le murature con pietre angolari, dove l’uso di blocchi più regolari e squadrati agli spigoli indica un avanzamento tecnico e una crescente consapevolezza strutturale.

L’inserimento di angolari serve infatti a stabilizzare la muratura, a proteggerla dall’erosione e a definire con maggiore chiarezza la geometria dell’edificio.

Questo dettaglio costruttivo corrisponde a fasi storiche di maggiore stabilità economica, nelle quali la comunità ha potuto dedicare risorse alla qualità costruttiva e alla durabilità delle strutture.

Particolarmente rivelatori sono anche gli ingressi contornati da laterizi o in pietra lavorata, elementi che segnalano un’evoluzione sociale dell’abitare.

Quando l’ingresso della casa è definito da cornici in laterizio o da architravi in pietra sagomata, si è spesso in presenza di una fase successiva di sviluppo, caratterizzata da una maggiore attenzione alla rappresentazione dell’identità familiare e alla dignità architettonica dell’abitazione.

L’ingresso, da semplice varco funzionale, diventa dispositivo simbolico: introduce alla sfera domestica, afferma un senso di appartenenza e segna il passaggio da necessità ad aspirazione.

Nello stesso modo, la distinzione tra piani di servizio e piani abitativi permette di cogliere l’organizzazione sociale della casa vernacolare.

Nelle macro aree arbëreşë, sono frequenti spazi destinati alla conservazione delle derrate alimentari, all’allevamento domestico o alla lavorazione dei prodotti agricoli nei livelli inferiori considerate vere e proprie proto industrie, mentre gli ambienti residenziali si ergono dal XVII secolo, nei piani superiori, in posizione protetta e ventilata.

Tale distribuzione indica la coesistenza di funzioni produttive e abitative all’interno dello stesso corpo edilizio, confermando l’idea della casa come micro-sistema economico e sociale autosufficiente.

Infine, le coperture ventilate, realizzate attraverso la presenza di intercapedini denominati kanikari e allestiti con opportuni sistemi di aerazione, che denotano con il loro utilizzo un approfondimento tecnico in rapporto alle condizioni climatiche locali.

Questo tipo di copertura, spesso costruito con tegole di diverso formato e con strutture lignee tradizionali, risponde alla necessità di controllare l’umidità e il calore, dove in oltre come barriera erano depositati alimenti naturali in maturazione invernale, che assicuravano oltre al comfort abitativo naturale senza il ricorso a tecnologie esterne per temperare e rifornire alimenti maturi in inverno.

L’insieme di queste componenti, quali: murature, ingressi, distribuzioni interne, coperture,

 costituisce una griglia interpretativa capace di restituire i tempi della storia in stretta aderenza con i processi naturali e politici che hanno progressivamente costruito il benessere e la stabilità dei vari nuclei insediativi. In ogni pietra, in ogni varco, in ogni segno di adattamento costruttivo convivono la memoria di un bisogno e la proiezione verso una possibile quiete o adattamento confortevole del gruppo sociale.

È attraverso la lettura paziente e sistematica di tali indizi, emerge la narrazione di ogni luogo o macro area specifica della regione storica arbëreşë,

In tutto una narrazione in cui il paesaggio, l’architettura e la storia si intrecciano, dando forma a quella continuità culturale che ancora oggi definisce il carattere identitario del Mediterraneo dalla Grecia sino al Portogallo.

Il qui progetto, avviato nel 2009, orientato alla lettura storica e materica del territorio arbëreşë, ha progressivamente acquisito solidità metodologica e riconoscibilità scientifica, trovando conferme in alcuni significativi dibattiti istituzionali.

In tali occasioni, le proposte emerse dalle ricerche sul campo sono state prese in considerazione dalle autorità competenti, contribuendo a fermare decisioni potenzialmente disastrose per la tutela del patrimonio insediativo vernacolare.

Questo elemento conferma, da un lato, la genuinità del percorso intrapreso e, dall’altro, la validità del prodotto finale, giunto a uno stato avanzato di definizione e, capace di proporre soluzioni concrete per la salvaguardia del paesaggio storico.

Eppure, oggi più che ieri, risulta evidente come le dinamiche politiche e amministrative che intercorrono tra le presidenze e i ministeri di Italia e Albania aprano nuove possibilità di confronto, scambio e cooperazione.

In tale prospettiva, ciò che è emerso dall’analisi degli insediamenti arbëreşe presenti sul territorio italiano potrebbe essere messo in dialogo diretto con i dipartimenti albanesi competenti in materia di pianificazione territoriale, architettura storica e tutela dei beni culturali.

Questo confronto transnazionale avrebbe il merito di estendere il campo d’indagine oltre i soli confini geografici dell’attuale presenza arbereshe, consentendo di risalire alla matrice originaria degli insediamenti e di confrontare i modelli costruttivi italiani con quelli ancora riconoscibili nei territori dell’odierna Albania moderna.

Un simile approccio non dovrebbe essere finalizzato alla ricostruzione edilizia o alla mera elevazione dei muri, ma piuttosto alla riscoperta di quella componente fondativa, materiale e immateriale, che in alcuni casi non esiste più o risulta frammentaria, alterata, sotterrata dal tempo.

L’ipotesi suggestiva è che parte di questa identità costruttiva e culturale possa essersi dispersa o rimanere sepolta, sia metaforicamente che fisicamente, nei suoli e nelle comunità che attualmente compongono il tessuto della Albania contemporanea.

Esplorare questi territori, attraverso una metodologia condivisa tra enti italiani e albanesi, significherebbe tentare un recupero delle radici dell’abitare arbëreşë, rintracciando i caratteri primari che precedono la diaspora e che, in parte, ne hanno determinato la forma.

La cooperazione istituzionale potrebbe quindi tradursi in un archivio comparato delle tecniche costruttive, delle morfologie dell’insediamento e delle dinamiche di adattamento ambientale.

Tale archivio, se costruito in modo condiviso e scientificamente rigoroso, costituirebbe uno strumento innovativo per la comprensione della storia mediterranea interna, mettendo in luce come la diaspora non sia solo movimento e dispersione, ma anche continuità, resistenza e sedimentazione culturale.

Un dialogo tra ministeri, università e centri di ricerca dei due Paesi aprirebbe inoltre la strada a nuove proposte di tutela e valorizzazione del patrimonio edilizio vernacolare.

Non si tratterebbe di restaurare edifici secondo logiche puramente conservative, ma di definire un modello di lettura e comprensione del paesaggio storico capace di restituire dignità alle tracce minori, le stesse che furono del bisogno e, quei frammenti murari marginali, quei segni del paesaggio rurale che spesso sfuggono alle classificazioni ufficiali, ma che rappresentano, in realtà, la parte essenziale e nascosta della memoria collettiva.

In conclusione, il progetto avviato nel 2009 non deve essere considerato soltanto come un’indagine specialistica sul territorio arbëreşe, bensì come una piattaforma di dialogo tra passato e presente, tra geografia fisica e identità comunitaria, tra Italia e Albania.

Recuperare ciò che nel corso della diaspora è stato dimenticato, trascurato o sepolto significa restituire valore a una storia che non appartiene a un solo luogo, ma attraversa diversi paesaggi e si manifesta nella materia dell’abitare, nei gesti costruttivi, nelle forme della sopravvivenza.

La vera sfida, oggi, è trasformare questa consapevolezza in un processo condiviso, capace di unire istituzioni, territori e comunità in una visione comune del patrimonio come risorsa viva e generativa.

 

Atanasio Arch. Pizzi – A.R.S.A. (Attento Ricercatore Storico Arbëreşë)

Napoli 2025-11-29 / sabato

 

 

 

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UNA PROMESSA ARBËREŞË SENZA NOME  ezë bënu jatrua epriru nhdë katurndë

UNA PROMESSA ARBËREŞË SENZA NOME ezë bënu jatrua epriru nhdë katurndë

Posted on 25 novembre 2025 by admin


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NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – L’arbëreşë non si insegna, si impara davanti al focolare domestico, ogni volta che ricevi abbracci materni.

Per un arbëreşë, questo non è soltanto un limite fisico, ma il simbolo di un sapere caricato alle spalle di chi veniva stretto per generare memoria.

E tutto avveniva dentro quel cerchio materno, per ricevere, memoria come in una fiamma a cui si offre ossigeno per non spegnersi.

Eppure, quelle braccia come una porta non rappresentano un confino, come il comunemente immagina ma è attesa, desiderio, di una voce che si alzi per riaprire e illuminare ciò che è stato escluso e allontanato da quanti sanno ancora ascoltare.

Questa immagine, apparentemente semplice, è in realtà una metafora storica che coinvolge le “Terre di Sofia” e, il suo camminare ininterrotto si svolge tra i due mondi paralleli, dell’abbandono e del ritrovato.

Ogni giorno che passa, per chi è rimasto, il domani sembrano più bui e, il linguaggio si assottiglia, i rituali si disperdono, i nomi antichi si trasformano in echi senza un corpo che posa essere in grado di identificarli.

Tuttavia sino a quando uno tornerà, ci sarà chi si chiederà cosa giace oltre quel legno consumato del tempo, senza la luce del fuoco interrotto.

Perché una cultura non vive, o si trova nei libri ma, nella volontà dell’accoglienza per quanti diventano portatore sano di memoria.

Così, la storia degli arbëreşe non è soltanto un archivio di tradizioni, invito al presente, ma richiesta di guardare dentro quella stanza ancora piena di significati e domande incompiute.

Aprire una porta per accogliere, significa ridare voce a ciò che è stato messo ai margini, ed è solo attraverso questo gesto, semplice, che la memoria potrà tornare ad essere luce, e non ombra del passato.

Chi dovette partire quel 17 gennaio del 1977, non lo fece per vergogna ma perché gli venne caricato sulle spalle un compito più grande della sua età: ovvero studiare, formarsi, diventare voce e tornare per riconoscere cose, fatti e luoghi.

Gli dissero: “Vai, impara, e poi torna, spiega cosa significano quei palazzi, quella piazza, quel vicolo, quel supporto e quell’orto botanico”.

Non lasciare che restino nomi senza storia, pietre senza memoria e, nonostante quell’impegno venne sostenuto, ricordato, passo dopo passo, giorno dopo giorno, oggi attende di essere svelato.

Ho ascoltato le lezioni letto dei libri, ma anche quelle che non venivano scritte da nessuno, le lezioni del silenzio che fanno i muri senza intonaco, colmi di nostalgia e ricordo che esiste anche quando non viene pronunciato.

E per anni ha avuto negli occhi l’immagine di quei luoghi caricatigli sulle spalle e ogni volta che si voltava a ricordare ritrovava l’immagine sofferente di ogni facciata, ogni angolo, ogni gradino consumato dal tempo e, tutte insieme diventavano pagine che attendeva di essere letta e raccontate.

Sembrava che bastasse “tornare formato”, per trovare qualcuno disposto ad ascoltare ma purtroppo cosi ancora non è avvenuto, perché la conoscenza non è sempre una chiave che apre tutte le porte chiuse.

Ma oggi, a distanza di quasi cinque decenni, guardarsi attorno e scorgere quelle porte ancora serrate e, nessuna voce si leva per chiedere ragione dell’impegno dato, ma cosa più grave è che nessuno sembra voler accogliere il racconto che potrebbe portare senso e ragione a quella promessa data.

Oggi quella promessa data, assume il senso di un eco lontana, che invece di incuriosire e inteso come fastidio che insiste con l’atto del riecheggio.

Così la memoria rimbalza, non sostiene e quando ritorna in forma di eco, non genera nuovi ascolti così come anche la voce della memoria in esilio non trovano più dove posarsi in quel luogo ameno.

Forse la responsabilità non è solo dei restanti, i più esposti alle dinamiche della memoria smarrita, che capovolge tutto, cambiando passi, parole, priorità, oggi imposta dal potere imposto dal genio del mugnaio matto.

E così tutto termina con ignorare palazzi, piazze e supportici, tutti diventati passaggio di comodo per appendere e colorare quei giardini, ormai non più cattedre della storia, intesi soltanto terreno da attraversare e colorare senza ragione, senza chiedere cosa abbiano enunciato e custodito nel corso della storia.

E nonostante sia noti a tutti chi e quanto è partito, mentre chi rimane non è in grado di fermarsi ad ascoltarli e magari rendere quei luoghi momento di dialogo o almeno ricordare quella data dove inizia il ricordo e la memoria di quel luogo.

Oggi i Katundë arbëreşë hanno solo bisogno di ascolto, prima ancora di parlare, questa antica arte che possiedono solo quanti potrebbero tornare e fermarsi, il che non significa portare verità già pronte; ma significa tornare con l’umiltà di riconoscere o ascoltare, se la storia appartiene a chi effettivamente ha avuto modo di viverla.

Ed è da quel vissuto che nasce la vera narrazione, una narrazione che non impone, ma accoglie e non chiude, ma e sempre pronta a riaprire.

E allora mi chiedo: dove sono gli eredi di quella promessa, chi oggi raccoglierà il testimone o il dovere della memoria che non si esaurisce con chi parte, ma continuare ad avere ruolo con chi resta senza risposta alla domanda: cosa dicono.

E finché non ci sarà qualcuno disposto a porre questa domanda, la promessa resterà sospesa e la conoscenza sarà soltanto un bagaglio pesante portato da pochi, invece di un ponte che unisce i molti.

La speranza, oggi, si attesta sul principio che questa distanza, lunga quasi mezzo secolo non sia un confine definitivo, ma un tempo di attesa che difende la storia e il germoglio del passato.

E che la voce che non si leva ancora, si stia solo preparando compiutamente, a dare alle nuove generazioni che verranno, formazione secondo quella metrica antica sospesa e mai dimenticata, perché colma di coraggio arbëreşë, che non è stata mai rinunzia.

Perché ogni promessa data è un seme solitario, pronto a germogliare e, se qualcuno decide di coltivarlo, può diventare fioritura e futuro arbëreşe.

Finché ci sarà anche solo uno, che torna per spiegare, e uno che resta per ascoltare, il legame non sarà spezzato e forse, un giorno, quel seme antico troverà un solco per germogliare bene.

Sono trascorsi decenni, eppure nonostante il tempo e il sacrificio di chi partì, per tornare illuminato, nel mentre la flottilla dei non formati in presenza vacua, priva di ogni orientamento, non ascolta, ma occupa quel dolce mare di memoria che attende un capitano per essere ripulito.

La flottilla occupa spazi e deforma prospettive, come nebbia che entra nelle fessure e si adagia sulle strutture più fragili dell’anima di luogo.

Essa è una presenza che non costruisce, ma occupa l’acqua buona e genuina, non custodisce ma altera e, così rischia di sparire anche l’ultimo golfo di mare che univa il presente con gli antenati di fronte casa.

Quelle prospettive, che un tempo si aprivano come mappe della memoria, ora sono rese opache da chi crede di possederle senza averle mai sovrapposte per ricavarne risposte.

Oggi non esistono esperti locali capaci di ascoltare e decifrare ciò che ancora sopravvive tra pietre, vicoli, avvolti da intonaci in sofferenza, laddove sarebbe urgente creare una cattedra per interrogare la storia.

Li dove si innalzano i muri dell’indifferenza e, dove servirebbe voce identitaria, prospera l’apatia di quanti non hanno formazione, ma possiedono autorità per titolo politici paterni a misura perversa.

Le poche cose di casa che ancora resistono allo scorrere del tempo cosi come, i simboli, gli appellativi delle strade, i gesti delle feste, gli odori delle cucine, il parlato in arbëreşë, sopravvivono tra i denti dei pochi anziani, soffocati lentamente, come si fa con le luminarie ad olio quando viene a mancare l’aria.

E ciò che è peggio, non è solo la perdita il valore intrinseco a scomparire, ma con esso sin anche l’eco che tenta di parlare ancora.

Quelle pareti storiche che fanno da quinta al percorso del vicolo, se liberate dalle ere moderne e dalle sovrastrutture che le hanno rivestite, nascondendone l’anima, potrebbero ancora raccontare, liberare quei percorsi di vita che hanno lasciato scorrere, operosità, migrazioni, accoglienza, partenze e ritorni.

Ma per farlo, è necessaria l’ascolto e, non certo far prevalere o dominare il rumore che sovrasta, pretende il paradosso doloroso, in quanto si parla troppo, ma si capisce sempre troppo poco.

E chi resta nei luoghi fisicamente, abbandona la memoria e ciò che non si comprende, lentamente, la si lascia coprire o velare completamente.

Non basta dunque essere tornati formati, né aver studiato per aprire egoisticamente la propria mente e il valore familiare, perché occorre che almeno uno dei restati abbia piacere di riceverla.

La conoscenza non è un dono che si offre, perché rappresenta un ponte che si costruisce insieme, senza escludere l’altra parte, lasciando così il ponte sospeso nel vuoto.

Eppure, nonostante tutto, il limite non è definitivo, perché anche quando il silenzio sembra aver vinto, rimane ancora la possibilità che una sola voce, una soltanto, decida di guardare, di domandare, di aprire e dare la spalla per sostenere la parte del ponte sospeso.

Perché la storia non muore mai del tutto, ma smette soltanto di essere interrogata, così accade, anche in mezzo a quella flottiglia di non formati che navigano senza rotta e senza responsabilità, pur di velare il mancato sapere.

E se questo dovesse germogliare, gli echi non saranno solo tali, ma diventeranno voce viva, e la voce viva, si sa, può cambiare in ogni momento il destino di un luogo.

Non trovo giusto e neppure degno, che dopo aver mantenuto fede a una promessa data e tornare per dare voce a quelle porte gemellate, i vicoli le pietre e ogni elemento che fa e realizza un Katundë, quelle esperienze debbano riversarsi con la fratria originaria.

La fratria con cui venne stipulata quella promessa di studio e sacrificio non fatto solo di persone, ma di radici, di sguardi e di visioni comuni, in tutto un patto silenzioso, stretto nel nome della conoscenza e della memoria di uno specifico luogo.

Aver creduto e ancora credere oggi, che ciò che si apprende con dedizione non sia un bene comune, ma un dono da restituire a chi lo ha generato.

Perché la conoscenza, quando nasce da un legame profondo, porta in sé la forma del luogo in cui è stata concepita.

E ogni luogo, come ogni comunità, merita di rivedere il frutto di ciò che ha seminato e, non si tratta di chiudersi al mondo, ma di restituire dignità che lega il maestro all’allievo, il luogo alla sua storia, il passato al futuro.

Oggi, invece, il seme di rinascita viene spesso dirottato altrove, adattato ad ambienti paralleli, che appartengono ad altri.

Così, ciò che era destinato a rigenerare, finisce per evaporare tra mani estranee, trasformando ogni cosa in un racconto incompreso o testimonianza che non trova senso per formarsi.

Questa non è rabbia, ma un senso di giustizia culturale, secondo cui l’accoglienza non è una semplice appartenenza genealogica, ma un modo per emergere da stereotipi senza radice.

E la memoria non può essere tutelata senza il senso della radice, né trasformata in merce di scambio, abbandonando così che il frutto del sacrificio migri verso terreni non legati da quel patto con i luoghi originari dove rigerminare, il che significa anche privare il futuro della profondità necessaria al proprio passato.

Per questo oggi chiedo, non solo per me, ma per tutti coloro che hanno camminato su quel medesimo sentiero, che si riconosca il diritto del ritorno senza veti.

Il ritorno della conoscenza, della memoria, il parlato, l’esperienza condivisa, sostenuto non dalla mera nostalgia, ma per il principio di quel patto portato a buon fine.

Perché il sapere, quando nasce da un patto fatto di anima e passione, non è davvero compiuto finché non viene riconsegnato alla comunità che vaga alla ricerca di quel bisogno.

E forse, se questa restituzione avesse luogo, si potrebbe finalmente vedere ciò che da troppo tempo si attende per dare agio a quel sacrificio che non è stato vano e, lo studio non resti monologo e, la promessa diventi memoria certa.

Solo allora il patto, stretto tanti anni fa, troverebbe la sua forma compiuta e il cerchio, finalmente, si chiuderebbe per dare senso a quella promessa data.

La consapevolezza che il tempo, prima o poi, dà ragione ai giusti, a coloro che sono partiti con pena e sacrifici immani, non è una certezza, ma una speranza.

Una speranza fragile, ma tenace, che resiste anche quando tutto sembra ormai quieto e dimenticato, chi è partito non l’ha fatto per ambizione o per abbandono, ma per fedeltà a un compito assunto per rendere certo a ciò che era ormai buio, al fine di rigenerare le cose da custodire e che in quel momento l’oblio stava incamerando, per farne ricordo di pochi anziani.

È in questa attesa, fatta a volte di silenzio, altre di ostinazione, che vive l’ultima forma di giustizia: il tempo, infatti, non parla subito e, non risponde con la rapidità delle domande moderne.

Ma lavora in profondità, come un fiume sotterraneo che scava la roccia fino a trovare un varco, come accadrà anche per quei luoghi ameni, dove un tempo si respirava un’armonia antica, fatta di gesti condivisi, di sguardi familiari, di braccia materne che accoglievano senza mai chiudersi per non accogliere le cose buone della storia.

Braccia che non si sono mai concluse, ma solo interrotte, perché ciò che è materno, nei luoghi, delle comunità, delle culture, non finiscono, ma con pazienza attendono.

E attende nella forma dell’affetto che non ha più voce, racchiuse ancora un movimento, come se fosse invito sottile, percepibile solo da chi sa ascoltare perché conosce l’arbëreşë.

In tutto quei valori, nutriti da quella accoglienza silenziosa, che potrebbero tornare a vivere, non come ricordo folcloristico o come rito da museo, ma come linfa presente, come traccia che ricostruisce un’identità capace di dialogare col futuro senza perdere le sue radici.

Per questo essere ben accolti in quei luoghi, fisicamente o interiormente, significa immaginare una rinascita che non strappi il passato, ma lo metabolizzi e gli dia energia sufficiente per incamminarsi ad essere ricordato e diffuso.

Significa credere che la storia non sia un archivio morto, ma una presenza che attende di essere reinterpretata da nuove generazioni, senza cancellare ciò che le ha precedute.

È come entrare in un vico dove tutto appare in ombra, ma il sole esiste ancora e basta solo attendere lo svolgersi del suo arco, perché la luce e illumini ciò che sembrava sospeso.

Ed è così che ogni cosa porta apparire e dare risposta e i sacrifici, quelli veri, quelli che non chiedono applausi, sembreranno, finalmente, parte integrante di un cammino più grande.

Perché nessuna partenza è vana, se esiste almeno un punto di ritorno, anche solo ideale, secondo cui la conoscenza e la fraternità possano rialzarsi e dire: “Siamo ancora qui. E non abbiamo dimenticato nulla.”.

 

Arch. Atanasio Pizzi direttore A.R.S.A.N.O.  (Attento Ricercatore Storico Arbëreşë Napoletano e Olivetano)

Napoli 2025-11-22 / sabato

 

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PRIMA GRECI POI ARBËREŞË E OGGI ARBËRISHËTË sà kamë gjieghëmj ka këtà ljnëdrùnëra

PRIMA GRECI POI ARBËREŞË E OGGI ARBËRISHËTË sà kamë gjieghëmj ka këtà ljnëdrùnëra

Posted on 12 novembre 2025 by admin

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NAPOLI (di Atanasio Pizzi Olivetano Architetto Basile) – Nel caso delle popolazioni diasporiche provenienti dall’antica direttrice della Via Egnatia, esse furono inizialmente chiamate Greci, in riferimento alle credenze religiose e alle tradizioni delle genti dell’Ovest.

In epoca moderna, invece, acquisirono l’appellativo di Arbëreşë, una definizione che riconosce con maggiore precisione la loro terra d’origine, tra le più antiche d’Europa, situata lungo le sponde dell’Adriatico fino allo Ionio.

Alla luce di questo breve accenno va ribadito che nel corso della storia, i nomi che designano un popolo non sono mai semplici etichette, in quanto essi sono i ponti, di memoria, potere e faticoso progredire.

Essi mutano con il variare dei luoghi e dei tempi, trascinando nel contempo il riflesso delle epoche che li hanno resi noti.

Così è accaduto ai popoli dei Balcani trapiantati nella penisola italiana, che da “Greci” divennero “Arbëreşe”, poi “Italo-Albanesi” e infine “arbërishtë”, svuotando il senso di minoranza, della storica radice di luogo, di tempo e di fatto.

Tuttavia questo ultimo appellativo, suona o meglio si ascolta, come un’eco deforme di una radice antica, soffocando sin anche il respiro della dignità originaria, nota per essere diretta e indissolubile.

A tal fine è opportuno precisare che ogni parola, quando viene piegata dal tempo o dall’uso superficiale, può trasformarsi da segno di appartenenza in marchio dispregiativo.

E l’italiano, che è lingua d’equilibrio e misura, aveva saputo raccogliere con senso storico i primi appellativi come forme di riconoscimento per questo popolo diasporico; ma il recente ritorno a una dizione che suona straniera anche in terra che è ormai patria, rischia di risvegliare antichi fantasmi di esclusione e disprezzo.

Quando pronunziamo questi nomi dobbiamo riflettere sul significato che pronunziamo e interrogarci nel tempo che corre tra parlato, ascolto e, se essa è colma di rispetto o di altra cosa.

Perché appellare un popolo non è mai un atto neutro e, può diventare gesto ontologico, riconoscimento o negazione del suo essere stato, parte della storia degli uomini.

Ed è forse proprio in questa sottile frontiera tra il dire, ascoltare e ferire che si misura la civiltà di un’epoca in continuo progredire, specie come oggi accade nel continuo dualismo di correnti politiche contrapposte.

Eppure, ciò che desta più amarezza non è soltanto l’ironia implicita nel suono deformato di un nome, ma il fatto che essa venga accolta, e talvolta perfino rivendicata, da chi ne è oggetto.

La lingua, quando si piega al consumo o al compiacimento di altrui, diventa un’arma sottile che ferisce l’anima, il cuore e la mente di quanti si sentono coinvolti, in questo inopportuno regredire in citazione dei contrari.

Così, la desinenza “-shëtë”, che pare innocua a chi non ne conosce il peso in ascolto, contiene un veleno semantico e, suona come un distacco, un ridurre ciò che era grande, valoroso, nobile e definito a, qualcosa di sfocato, quasi minimale o dispregiativo, come lo è un pidocchio “Pie-shëtë”.

È il suono diventa dignità corrosa nell’indifferenza di quanti la dovrebbero rendere resiliente, solida e, duratura, tuttavia questa penosa deriva, vale anche per riconoscere il linguaggio che non è solo strumento di comunicazione, ma anche di coscienza e, quando questa nel tempo viene smarrita giunge urge il rivedere con essa, anche molte altre cose incomprensibili e sempre a vantaggio di uno dei due fronti paralleli praticanti.

Ogni popolo che smette di custodire il senso profondo del proprio idioma, dunque del proprio essere, si consegna a una lenta erosione spirituale che conduce al gesto di negare il ritorno, ma non quello di essere raggiunti per essere piegati perché un tempo furono caparbi al punto di sottrarsi lasciando alle spalle ogni cosa materiale.

Questa moderna deriva ha avuto inizio alla fine del secolo scorso, quando i primi segni del mutamento si confondevano ancora con l’eco delle grandi promesse moderne.

Da allora, passo dopo passo, il secolo corrente ne ha raccolto l’eredità: prima con leggi ambigue, scritte con la penna della cautela e l’inchiostro del compromesso, senza una logica matematica completa, poi con disegni e apparizioni equestri che celavano un’ironia sottile.

Sui disegni della regione storica ritrovata, i campanili si adornavano in forma di minareti illuminati dal sole che sorge, simbolo di un equilibrio imposto e, da cui si preferì essere diasporici sei secoli orsono.

Così, tra norme che smussano identità e arte che ridisegna orizzonti paralleli rinnegati, prese forma una nuova epoca, ovvero, della confusione elevata a sistema, della tradizione ridotta a ombra, della modernità trasformata in alibi e, tutto ciò divenne sole, quasi inosservato, da una fine che voleva essere un inizio di una nuova invasione sottile e senza rumori o echi di sorta.

Tuttavia il concetto più gravoso di questa deriva è racchiuso nel dato che essa non proviene soltanto da “Oltre Adriatico”, dove l’antico disprezzo verso i fratelli diasporici può, seppur ingiustamente, avere radici storiche; ma che provenga dentro il cuore della Regione Storica e, proprio, tra coloro che dovrebbero custodirne l’eredità in parlato è molto grave, anzi penoso.

L’assimilazione cieca di un termine che porta in sé un’ombra di denigrazione è il segno di un’epoca in cui la coscienza si è distratta e, il linguaggio, svuotato di verità, come la stagione della dimenticanza ad opera dei restanti.

E in questa deriva del regredire, non vi è solo perdita linguistica ma vi è lo smarrimento stesso della fierezza di un’origine che seppe un tempo essere “Arbëreshë” con dignità e misura, costantemente sostenuta da una lingua, rispettosa essenziale e limpida, infatti per le parti mancanti ci si è affidati agli indigeni italiani, che donarono senza esitare o palesare disprezzo nel loro sostegno.

Questa deriva, tutt’altro che improvvisa, affonda le radici in un antico modo di classificare, ridurre e, identificare intere regioni o popoli con etichette che ne sfumano l’umanità, la complessità e il valore storico.

Come accadeva con le antiche popolazioni, così accade oggi nella percezione più comune, dove il nome diventa cartina di tornasole di stereotipi e pregiudizi.

Non è diverso, in fondo, dal modo in cui un italiano all’estero può essere chiamati o associato a cibi, comportamenti o tratti culturali semplificati, talvolta con tono ironico e, con disprezzo implicito.

Ma nel caso della comunità arbëreshë, il suffisso “-shëtë” porta con sé un peso particolare e, non si tratta di una semplice identificazione geografica o culturale, ma di una stigmatizzazione che assume forme di discriminazione quasi programmata.

L’equivalente moderno di una forma linguistica potrebbe essere paragonato a termini che condensa in sé derisione, esclusione e riduzione dell’identità svuotandola di forma onorifica.

È la trasformazione di un nome originario, ricco di storia e dignità, in un marchio in forma denigratoria, con la voce di un popolo a cui si associa un ruolo senza gloria non è un bel gesto di parlato e di ascolto diffuso che possa essere ragionato con favore.

In questo caso, il linguaggio non è neutro, e la storia non è innocua, ogni parola che viene piegata del contesto culturale o sociale, ogni suffisso aggiunto, diventa uno strumento per marginalizzare o, escludere.

La battaglia per il rispetto di un nome diventa così la battaglia per il rispetto della memoria, della cultura e della stessa esistenza di chi quel nome lo porta e ne va fiero.

I rotacismi linguistici, come è ben noto agli studiosi di fonetica e sociolinguistica, rappresentano un fenomeno largamente diffuso, un gioco naturale della lingua che trasforma i suoni e modifica lentamente la pronuncia originaria smarrendo il senso delle parole.

Ciò che però lascia veramente perplessi è che questo mutamento non sia avvenuto in contesti periferici o estranei alla cultura originaria, ma proprio all’interno di quelle flottilla in mezzo al mare che naviga per raggiungere bacini e, difendere la memoria, la purezza di questo storico parlato.

In altre parole, ciò che era chiamato a proteggere e trasmettere il principio del patrimonio di questa comunità lungimiranti nel loro radicamento diventa, in un certo senso, il terreno in cui la perla più solida si piega e sin anche si corrode.

Laddove il linguaggio avrebbe dovuto essere veicolo di continuità e orgoglio, il fenomeno dei rotacismi trasforma suoni suffissi e distorsione, dando l’impressione che persino la propria voce interna tradisca l’eredità dei padri.

È una contraddizione che lascia senza parole: la custodia di una storia millenaria sembra cedere di fronte a dinamiche fonetiche, sociali e psicologiche che ne deformano il valore.

Ed è proprio in questo spazio ambiguo, dove il naturale cambiamento linguistico incontra la responsabilità storica, che emerge la fragilità dell’identità, costretta a confrontarsi con la propria rappresentazione esterna e con l’ombra della derisione.

Tuttavia, ritengo che questa coda dispregiativa, così chiaramente classista e offensiva, non nasca dal nulla, ma sia piuttosto la conseguenza di anni di errori, fraintendimenti e costruzioni culturali erronee.

Basti pensare alla diffusissima teoria secondo cui gli Arbëreshë sarebbero stati analfabeti, incapaci di leggere e scrivere: un giudizio così radicato da essere considerato “fatto compiuto” in molti contesti e, come per dispetto, questa percezione si sia tradotta in pratica è nella compilazione di vocabolari che elencano parole Arbëreshë o Albanese con la corrispondente traduzione italiana.

Il modello è quello di un qualsiasi vocabolario per l’apprendimento di una lingua straniera, dove a ciascun termine della lingua titolata dello studioso corrisponde il termine nella propria lingua madre che non si sa leggere e scrivere.

Ma la conseguenza involontaria e, al contempo gravemente simbolica, infatti crea una sorta di catalogo della “diversità” come alterità da conoscere, quasi sempre filtrata attraverso l’italiano, come se la lingua originale non fosse degna di autonomia.

Provando a consultare molti di questi vocabolari, e a cercare parole di uso quotidiano come “casa”, “pala”, “aia”, ci si accorge di una tendenza che mira ad evitare l’acculturarsi o apprendere una scrittura o per lo meno a saper leggere uno scritto coerente e privo di pregiudizio del compilato che diventa un labirinto senza bussola.

La lingua, che dovrebbe essere veicolo di identità e memoria, viene così ridotta a oggetto di catalogazione, trasformata in strumento per fare distinzione sociale e culturale in disprezzo dei meno formati.

In questo modo, la coda dispregiativa che oggi si percepisce nel suffisso “-shëtë” non è un fenomeno puramente fonetico o accidentale, ma l’epilogo di un lungo processo in cui la non chiarezza delle mete o degli intenti, hanno sedimentato un marchio di minorità e di marginalità.

È un esempio lampante di come l’errore storico e la distorsione culturale possano trasformarsi nel catalogare e innalzare la minoranza non proprio per il suo operato di accoglienza fatta di abbracci e parole materne che non sono state mai offensive o riduttive.

Per concludere, dopo anni in cui i vocabolari sono stati compilai in forma riversa con l’assunto storico, che non sapessero né leggere né scrivere, e dopo che oggi vengono appellati con una forma chiaramente dispregiativa, resta difficile comprendere quale sia l’obiettivo reale che si intenda perseguire e sotto la regia occulta di quale luogo di preghiera.

La valorizzazione di questo prezioso patrimonio identitario, che rappresenta non solo memoria ma anche accoglienza e integrazione, deve urgentemente iniziare.

Chi meglio di una associazione multidisciplinare, capace di affiancare diverse eccellenze specifiche, può garantire che tutti gli sforzi convergano verso risultati concreti e duraturi.

Proprio come lo Stato italiano, dopo il primo conflitto mondiale, mise in campo strumenti di valorizzazione per il Sud, mostrando come la collaborazione multidisciplinare pose termine alle situazioni complesse e penose, così può essere oggi per le comunità Arbëreşë.

L’esempio del protocollo Olivetti-Adriano, per il recupero e la delocalizzazione degli abitanti dei Sassi di Matera che rimane un esempio emblematico, o modello di intervento che coniuga competenza, rispetto culturale e pragmatismo, quello che manca in tutta la Regione storica e dovrebbe  diventare esempio atto a ispirare ogni azione volta a tutelare la lingua, la memoria e l’identità del popolo Arbëreşë.

In definitiva, la salvaguardia di un nome, di una lingua e di una storia non è un gesto puramente simbolico, perché diventa un atto di giustizia culturale, un dovere etico verso chi ci ha preceduto e verso chi erediterà questo patrimonio.

Riconoscere e valorizzare gli Arbëreşë significa restituire dignità a una comunità, riaffermare il valore della memoria storica e dimostrare che la lingua e la cultura non sono mai oggetti neutri, ma strumenti di civiltà e coesione.

Arch. Atanasio Pizzi direttore – A.R.S.A.N.  (Attento Ricercatore Storico Arbëreşë Napoletano)

Napoli 2025-11-12 – mercoledì,

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OGNI ANNO TORNA SILENZIOSO PER LE VIE DOVE IL SUO CUORE BATTE ANCORA - A memoria di Pasquale Baffi

OGNI ANNO TORNA SILENZIOSO PER LE VIE DOVE IL SUO CUORE BATTE ANCORA – A memoria di Pasquale Baffi

Posted on 10 novembre 2025 by admin

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Olivetano Architetto Basile) – Viviamo in un tempo di trasformazioni rapide, dove la modernità corre più veloce della memoria e, le nuove tecnologie, i linguaggi globali o i modelli culturali che ci arrivano da ogni parte del mondo, sembrano cancellare giorno dopo giorno, le tracce di ciò che siamo stati.

In mezzo a questo vortice, la nostra identità arbëreshë e il suo profondo valore spirituale, rischia di dissolversi come neve al sole.

È con questo spirito di riflessione e con tanto affetto che mi rivolgo a voi, nuove generazioni, Vashëş e Gagnunë, che crescete dove un tempo era Gjitonia e, voi oggi non avendo strumento alcuno per ascoltare quel riverbero fatto di sapori antichi che dovete avere saggezza in autonomia, quando viene il tempo della vostra formazione dipartimentale e non faticare per nulle o senza una memori dei vostri luoghi natii.

Vorrei chiedervi come vi sentite o, se siete ancora in grado di riconoscervi negli insegnamenti dei vostri nonni, dei saggi locali o avere memoria delle gesta dei vostri genitori, con le parole antiche, dei canti di genere che raccontano chi siamo e quali desideri avevano in cuore.

Orsù, ditemi qualcosa, siete felici in questo mondo moderno, ostile e velato di moderna tessitura, che vi fa gridare nell’animo vostro silenzioso, l’aver bisogno di qualcosa di più.

C’è forse un desiderio che vi spinge a cercare altro, mentre un velo cala sui tempi belli del passato che non conoscete e, vi ritrovate a desiderare un ignoto cambiamento lacrimoso, tuttavia sappiate, che anche io ho vissuto momenti difficili e, talvolta ho avuto paura di me stesso e dei miei orizzonti.

Oh Vashëşë e Gagnunë, ditemi qualcosa: siete stanchi di tentare di colmare quel vuoto identitario che vi accompagna, di cosa avete in bisogno per tornare ad essere arbëreşe laboriosi.

Noi, che abbiamo attraversato queste ere, le abbiamo superate, e oggi possiamo guardarci indietro con orgoglio, portando nel cuore il buon nome di quanti hanno saputo moralmente sostenere.

In tutti i bei tempi, mi ritrovavo a desiderare il cambiamento e, nei momenti difficili, ho avuto paura di me stesso.

Sono fuori dal profondo e, mentre mi tuffo non incontrerò mai il suolo, che non mi fa male, perché sono lontano dal superfluo locale che quanto ti avvolge, non è per farti percorrere il lento camminare dei vicoletti, ma buttarti sulle pietre scardinate, che non fanno gli abbracci materni di Case, Rrughe e Gjitonie

Ricordo bene le difficoltà che ho dovuto affrontare per diventare adulto e formato, so cosa significa perdersi e poi ritrovarsi, cadere e rialzarsi, assimilando tutto per fare vita e, non sogni, ma prove in silenzi lacrimosi di attesa.

Per questo, quando guardo i giovani di oggi, mi immedesimo nel loro animo e li vedo spaesati, desiderosi di apparire maturi, ma spesso ignari delle pieghe nascoste della vita e, allora per evitare che l’errore diventi condanna, noi adulti, dobbiamo aprire le braccia, non per giudicare, ma per sostenere.

Non come singoli, ma come un fascio di saperi, uniti e solidi come la nostra storia ci ha insegnato, perché la forza di un solo uomo può spezzarsi, ma quella di una comunità resta solidale e vive in pace con il tempo.

Guardando le generazioni che nascono oggi, sento nel cuore un misto di tenerezza e di timore, essi sono figli di un tempo veloce, in cui tutto cambia e nulla sembra durare.

Crescono tra schermi luminosi e parole che si perdono nell’aria, con il mondo intero a portata di mano ma con il rischio di non conoscere più la terra che scorre sotto i propri piedi.

Molti di loro non sanno più da dove veniamo, non conoscono le radici profonde che ci tengono uniti a questa storia antica, fatta di sacrificio, di emigrazione, di fede e di orgoglio che si raccoglie nell’animo.

Camminano sulle stesse strade che i loro avi hanno costruito con mani stanche, dove oggi non si sentono le raccomandazioni materne o i battiti dei sapienti padri ormai affidati al vento, gli stessi che vivono nei nostri paesi, ma talvolta si copre l’anima con colori e graffiti extra/indigeni.

Eppure ogni pietra, ogni canto, ogni parola in lingua arbëreshë, racchiude un racconto che non possiamo permetterci di perdere e, se la memoria si spegne, anche la luce della nostra identità rischia di affievolirsi fino a scomparire.

Noi adulti, che abbiamo respirato la forza di quei valori antichi, abbiamo il dovere morale di riannodare quel filo spezzato tra passato e futuro e, non basta parlare di tradizione, ma bisogna viverla, donarla, farla amare e renderla viva e presente pe tutti, bisogna insegnare che la lingua dei nonni non è una reliquia, ma un ponte che unisce le generazioni.

Che le nostre danze non sono solo folclore, ma il ritmo di un popolo che ha saputo resistere nel tempo, in oltre, la fede e la solidarietà non sono parole vuote, ma la linfa che ci ha tenuti in vita nei secoli.

Le generazioni nascenti cercano senso, e noi possiamo offrirlo non con rimproveri o nostalgia, ma con presenza e ascolto.

Mostriamo loro che le radici non sono catene, ma ali e, chi sa e conosce da dove viene sa anche dove andare, per valorizzarla.

Solo così potranno scoprire che la modernità non deve cancellare ciò che siamo, ma può diventare un nuovo terreno dove far germogliare l’antico seme della nostra identità.

Ricordiamo loro che l’essere arbëreşë non è un fatto del passato, ma un atto quotidiano, in tutto una parola detta nella lingua dei padri, un gesto di rispetto verso la comunità, un sorriso che custodisce memoria.
Se riusciremo a far vibrare nei loro cuori questa consapevolezza, allora nessuna ondata di modernità potrà travolgerli davvero i nostri luoghi natii.

Perché un popolo che conosce sé stesso non si perde, ma si rinnova e, a voi, giovani generazioni, voglio dire una verità che forse pochi osano ricordare, ovvero: partire non significa tradire.

Andate, sì partite pure verso i luoghi più prestigiosi, dove la conoscenza si fa scienza, dove le menti si incontrano, si accendono e vivono.

Andate a studiare, formarvi, a respirare il mondo, ma non partite mai vuoti dentro e prima di salire sul treno della vita, fermatevi un istante a guardare la vostra terra, a toccarla, ad ascoltarla.

Prendete atto della storia che vi ha generati, le lacrime e le speranze dei vostri avi, la lingua che è stata il loro scudo e, solo chi porta dentro di sé la consapevolezza delle proprie radici può camminare lontano senza perdersi.

Partire, per chi è arbëreşe, non è fuggire, ma è un atto d’amore verso la propria terra, andare in terre lontane per imparare, formarvi e, conquistare quella luce che un giorno dovrà tornare a illuminare i nostri Katundë.
Non partite per dimenticare, ma per ricordare e conservare memoria, non andate per cercare altrove ciò che qui non sapevate dove, come trovare e, tornare a costruirlo insieme a chi e rimasto a fare restanza che non conosce o avverte quei lamenti antichi che voi potrete rigenerare in voce saggia.

Perché chi parte con la memoria nel cuore conserva e rigenera, mentre chi resta senza coscienza della propria storia finisce, per cancellare e dimenticare.

È questo il principio che deve guidarvi a partire per ritornare per dare e, sappiate che i luoghi ameni non si salvano con la nostalgia, ma con l’impegno, con l’azione e con la mente illuminata dal sapere.

Troppe volte abbiamo visto svanire le forze migliori, e troppe volte abbiamo visto restare chi preferiva l’inerzia alla crescita.

Eppure la storia ci insegna che ogni rinascita nasce da chi ha avuto il coraggio di andare, imparare, e poi tornare con il cuore colmo di idee e di amore per la propria comunità.

Non lasciatevi ingannare dal facile miraggio di chi pensa che restare fermi, significhi essere fedeli alle proprie origini, perché chi lo fa giorno dopo giorno le cancella con il suo nulla fare, colmo di errori.

La vera fedeltà è nel movimento consapevole, nel viaggio che porta la radice con sé e la pianta di nuovo, più forte, dove il vento sembrava averla sradicata.

Partite, dunque, ma non come foglie trascinate via, ma partite come semi, pronti a tornare per dare frutto.

Vashëş e Gagnunë di questa terra sostenuta in arbëreşë, che portate negli occhi la luce del domani e nel cuore l’eco di un passato che non deve morire: ascoltate, non lasciate che il tempo cancelli ciò che siete.
Ogni parola della nostra lingua, ogni rito, ogni canto che ci accompagna da secoli è un frammento d’eternità, un filo che chiede di essere solidamente tessuto e, non dimenticate che appartenete a una stirpe che ha saputo resistere, che ha camminato tra montagne e mari senza mai perdere la dignità del proprio nome.

Vi auguro di partire senza paura, ma con la coscienza viva di ciò che rappresentate, e vi auguro ancora di portarvi dietro la voce dei vostri nonni, i loro gesti umili, la loro fede silenziosa e profonda.
E quando il mondo vi aprirà le sue porte e vi offrirà ricchezze, conoscenza e gloria, ricordatevi di tornare, non solo con le valigie piene, ma con l’anima rinnovata, con la mente illuminata e il cuore pronto a ridare vita a ciò che qui attende da troppo tempo di essere svelato e innalzato.

Non c’è onore più grande che rendere viva la propria origine, non c’è vittoria più nobile che ritornare per costruire, per riaccendere i fuochi che rischiano di spegnersi.

Perché ogni volta che uno di noi torna con la consapevolezza del proprio essere arbëreşë, la nostra storia si rinnova, il filo della memoria si riannoda e la speranza riprende forma al ritmo di battitura di tessitura antica.

Voi siete la continuità di un popolo antico, la promessa che la modernità non ci cancellerà, ma ci trasformerà senza distruggerci e, abbiate cura dei vostri sogni e del vostro nome, perché in essi vive la radice e il futuro della nostra gente.

E ricordate sempre, chi parte ricordando, conserva e rigenera; chi resta dimenticando, colora, disperde o copre verità antiche e, quanti rimangono non rimane che il vostro cammino di luce, in ogni luogo dove andrete portate con orgoglio il profumo e la voce della vostra terra.

Così, un giorno, quando ritornerete, non sarete solo figli del progresso, ma custodi di una storia che continua a parlare, a insegnare, e che rinasce con voi.

Arch. Atanasio Pizzi direttore A.R.S.A.N.  (Attento Ricercatore Storico Arbëreşë Napoletano)

Napoli 2025-11-11 – martedì, ma il ricordo è del 1799 quando era di lunedì

 

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ALLA RICERCA DEGLI ARBËR E ARBËN NON CONVERTITI ALBANISTI phërësjona jonë cë nhëdigamj arbëreşë

ALLA RICERCA DEGLI ARBËR E ARBËN NON CONVERTITI ALBANISTI phërësjona jonë cë nhëdigamj arbëreşë

Posted on 07 novembre 2025 by admin

comunicazione-3NAPOLI (di Atanasio Pizzi Olivetano Architetto Basile) – C’è un momento, per ogni uomo, in cui credere o non credere smette di essere una questione esterna, un dogma da accettare o rifiutare e, diventa un cammino silenzioso dentro di sé.

È lì, tra dubbi che graffiano e rivelazioni che sfiorano appena, che si disegna la mappa segreta della conoscenza.

Eppure, guardando intorno, si avverte qualcosa di diverso, quasi uno smarrimento sottile, come se fosse venuta meno quell’energia invisibile che un tempo univa gli esseri umani in un unico respiro.

Un tempo, forse, esisteva davvero un orizzonte condiviso: fatto di idee, di valori, di speranze intrecciate. Ora sembra più lontano, come un’eco che arriva da un mondo che abbiamo dimenticato di ascoltare.
Oggi, tale forza, che era il collante degli arbëreşë, la sorgente di fiducia reciproca e di intenti convergenti, sembra essersi dispersa nelle pieghe di un mondo frammentato dagli indigeni, dove l’individualismo prevale sulla coralità e la connessione autentica, che ormai è solo un lamento o addirittura riverbero lontano.

Eppure, senza questa linfa che nutre il senso del “noi arbëreşë”, nessun futuro potrà dirsi davvero condiviso se non addirittura terminale e, ritrovare quella corrente di vita che unisce e sostiene, che orienta i passi verso regole di convivenza e scopi comuni, è forse la più urgente tra le sfide del nostro tempo.

È chiaro che ciascuna comunità deve essere la prima a custodire le proprie memorie, poiché in esse si celano i valori che ne costituiscono l’anima.

La memoria è il filo invisibile che unisce passato, presente e futuro, secondo una tessitura che non è fatta di mero ricordo, ma radice viva che nutre il senso d’appartenenza e la continuità di una storia condivisa.
Senza la cura di queste tracce, la minoranza rischia di smarrirsi e, divenire un insieme di individui senza voce comune, senza quella trama sottile che dà significato ai gesti e orienta le scelte.

Custodire la memoria non significa chiudersi nel rimpianto del tempo andato, ma riconoscere in ogni frammento del passato la linfa che permette al presente di fiorire e al futuro di avere un fondamento.

È un atto di responsabilità collettiva, un gesto d’amore verso ciò che si è stati e verso ciò che ancora si può diventare.
Ogni documento, ogni parola tramandata, ogni rito o consuetudine condivisa è un frammento di questa memoria: un’eco che racconta chi siamo e da dove veniamo, ma anche una luce che illumina la strada di chi verrà dopo di noi.

Occorre che torni a vivere, nel cuore di ogni uomo e di ogni donna arbëreşë, l’orgoglio della propria storia, della propria famiglia di appartenenza.

È da questo sentimento profondo possano rivivere le radici del rispetto come erano quando varcarono il fiume adriatico e tutto quello che lo circondava da oriente, ovvero il paesaggio, le case, le chiese, i boschi, i campi e i fiumi che hanno accompagnato per secoli il ricordo r il cammino delle comunità arbëreşë.

Senza tale consapevolezza, tutto diventa fragile, sostituibile, indifferente. Si lasciano distruggere i boschi come se non fossero più custodi di respiro e silenzio; si accetta di stravolgere i paesaggi fluviali e campestri, di sbiadire gli affreschi che raccontavano la fede e il lavoro di chi ci ha preceduto; si demoliscono finestre e soglie di casa, simboli di passaggio e accoglienza, senza più avvertire il dolore di una perdita.
Quando viene meno l’orgoglio delle proprie radici, si seppellisce anche il linguaggio, si lascia spegnere il parlato che dava voce all’anima dei luoghi, si dimenticano i canti, i gesti, le tradizioni. E insieme a esse, lentamente, si lasciano andare in rovina le proprie chiese, non solo quelle di pietra, ma anche quelle invisibili dell’anima e della memoria.

Ritrovare l’orgoglio del proprio paesaggio e della propria cultura significa allora difendere il senso stesso dell’esistenza collettiva.

È un atto di resistenza alla dispersione, un modo per dire che l’identità non è un vincolo, ma una forza che illumina, che tiene insieme, che rende ogni comunità unica e viva nel grande coro del mondo.

Conservare ciò che è di tutti, ciò che appartiene al nostro passato, non è soltanto un atto di rispetto verso coloro che hanno costruito, amato e abitato queste cose: è, prima di tutto, un gesto di rispetto verso noi stessi.
Ogni muro antico, ogni ponte, ogni albero piantato da mani che non sono più, porta impressa una parte del nostro volto. Distruggere, trascurare o dimenticare ciò che è stato eretto prima di noi significa negare una porzione della nostra identità, spezzare il filo che ci tiene uniti al tempo e alla terra.

Custodire non è nostalgia ma consapevolezza, nel riconoscere che la bellezza e la memoria non appartengono al passato, ma continuano a vivere solo se qualcuno le osserva, le comprende per diffonderle difendendole.
In ogni pietra preservata, in ogni parola tramandata, in ogni rito che sopravvive al tempo, c’è la misura di una integrazione inimitabile.

E quando una comunità sceglie di salvare i segni del proprio cammino, non compie un atto di mera conservazione: rinnova il patto tra le generazioni, riafferma il senso di appartenenza e di dignità che dà sostanza al futuro.

Perché rispettare ciò che è stato significa, in ultima istanza, rispettare ciò che siamo e ciò che ancora potremmo diventare.

La china di ogni società inizia nel momento in cui si perde lo spirito comunitario, quando gli uomini smettono di riconoscersi in una storia comune e, condividere ideali che li uniscano oltre i propri confini.

È allora che i centri storici vissuti e sostenuti in arbëreşë, si svuotano di voce, che le piazze tacciono, e che ciascuno si rifugia nel proprio bozzolo, credendo di salvarsi isolandosi.

Ma una comunità senza legami e confronto, non è più una comunità, perché diventa un arcipelago di solitudini, un insieme di vite parallele che non si incontrano mai.

Quando si vive solo per sé stessi, quando il bene comune diventa un concetto remoto e, quasi fastidioso, tutto comincia a impoverirsi, le relazioni, la cultura, perfino la speranza viene smarrita e, l’uomo che non partecipa più al destino degli altri si rimpicciolisce, perde grandezza e visione; e con lui si inaridisce l’anima collettiva che dà forma al e solidità alla regione storica in esame.

Ritrovare lo spirito comunitario non significa tornare indietro, ma riconoscere che nessun progresso può esistere senza solidarietà, senza quella trama invisibile di fiducia e responsabilità reciproca che tiene insieme soprattutto le generazioni.

Solo dove esiste un “noi”, può germogliare un futuro vero, un futuro in cui l’uomo non è spettatore del proprio tempo, ma parte viva di un destino condiviso.

Per questi solidi principi di profonda speranza conservano il sorgere di comitati spontanei, o gruppi di persone che, partendo da zero, scelgono di incontrarsi, discutere e, progettare insieme.

In questa epoca dominato dall’individualismo, il semplice gesto di riunirsi per un fine comune è già un atto di coraggio, un segno che qualcosa di vivo ancora pulsa nel cuore delle nostre comunità.

In questi spazi di confronto, talvolta animati, talvolta difficili, ma sempre sinceri, si elabora un pensiero collettivo e, si raccolgono idee, energie, fondi, che sollevano frammenti di bellezza e memoria che, pur non appartenendo a nessuno in particolare, sono di tutti.

Ogni pietra restaurata, ogni documento ritrovato, ogni gesto di cura diventa allora testimonianza di una volontà ritrovata: quella di non lasciare morire ciò che ci unisce.

È da questi piccoli fuochi che può rinascere un senso nuovo di appartenenza, un modo diverso di abitare il tempo e la terra, fondato non sul possesso ma sulla condivisione, non sull’utile ma sulla gratitudine.
E forse proprio in questa semplice, ostinata volontà di prendersi cura delle cose comuni — con mani che riparano, parole che uniscono, e sguardi che comprendono e, celano la vera possibilità di futuro, un futuro che, finalmente, torni ad avere il volto dell’uomo e della comunità.

Arch. Atanasio Pizzi direttore A.R.S.A.N.  (Attento Ricercatore Storico Arbëreşë Napoletano)

Napoli 2025-11-04 – venerdì

 

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SEGNI DELLA TOPONOMASTICA CHE SEGNANO LA VIA SEGUITA PER FARE KATUNDË thë Kopëshëtj, ka Derë, thë Rruha, ku Hëshët

SEGNI DELLA TOPONOMASTICA CHE SEGNANO LA VIA SEGUITA PER FARE KATUNDË thë Kopëshëtj, ka Derë, thë Rruha, ku Hëshët

Posted on 07 novembre 2025 by admin

TerraNAPOLI (di Atanasio Pizzi Olivetano Architetto Basile) – Quando si leggono traducono o si trascrivono agli appellativi toponomastici nel circoscritto per fare Katundë, specie se formulati e affissi in seguito alla legge n. 1188 del 23 giugno 1927, essi diventano strumento prezioso e indispensabile, per risalire alle vicende di sviluppo e crescita di un centro antico.

Essi diventano tracia sempre vive presente, specie se conservate nel luogo di affissione e rendono evidente il riconoscimento della struttura urbana originaria, quella che definisce i rioni e gli ambiti del costruito primario e, tutto quello che qui divenne germoglio del bisogno vernacolare.

In questa breve trattazione seguiremo proprio le vicende in Terre di Sofia, cercando di coglierne, attraverso la toponomastica e, la stratificazione insediativa, le tracce di una memoria collettiva o storia radicata nel territorio che può divenire protocollo applicativo di altre realtà di simile radice identitaria.

La toponomastica, infatti intrecciata agli eventi della storia, tesse e restituisce il senso profondo del centro antico, affinando le valenze culturali, economiche e sociali che ne determinarono l’evoluzione nel corso dei secoli.

Ogni nome, ogni appellativo territoriale, conserva in sé la memoria di un passaggio di genere umano, una funzione perduta o trasformata, di una presenza comunitaria che ha lasciato tracce riconoscibili nella forma e nella struttura dell’abitato.

L’analisi dei toponimi non si limita dunque a un semplice esercizio linguistico o etimologico, ma si configura come uno strumento di indagine storico-sociale ad ampio raggio, capace di ricomporre la complessità dei processi insediativi e identitari che hanno interessato un territorio.

Tali studi, quando collocati all’interno di un contesto più vasto, o meglio definiti nella macro area in esame, assumono un valore ancora più significativo, e saputi leggere diventano un archivio a cielo aperto.

Nel caso specifico, l’attenzione si concentra sulle colline della valle del Crati e sulle pendici della Sila, un’area da sempre riconosciuta come crocevia di culture e, identificata nella tradizione storica come greca per la tessitura di credenza primaria.

In questo spazio, la stratificazione toponomastica riflette le sovrapposizioni di civiltà, lingue e religioni, testimoniando un continuo processo di adattamento e reinterpretazione del paesaggio.

I nomi dei luoghi, derivati da radici storiche greche, dei Balcani e, non solo descrivono il territorio, ma ne narrano la storia, dalle prime comunità rurali e monastiche ai centri aperti e di libera accoglienza post medievali, fino alle organizzazioni civiche dell’età moderna.

In essi si leggono le relazioni tra uomo e ambiente, le funzioni agricole o pastorali, le forme di difesa del lento scorrere all’interno, le devozioni religiose e gli assetti sociali che hanno scandito le fasi di vita del centro.

Pertanto, lo studio della toponomastica in questa area non rappresenta un mero esercizio descrittivo, ma diventa una vera e propria ricostruzione storica, capace di illuminare la continuità tra paesaggio, lingua e identità collettiva.

Valgano come esempio le fondamentali strade storiche, assunte a emblema nella toponomastica del Katundë e ufficialmente adottate a seguito della legge n. 1188, esse rappresentano non solo un riferimento urbano, ma soprattutto una testimonianza viva della stratificazione culturale e sociale che ha definito l’identità del centro antico.

La prima è la via Castriota, così denominata in memoria della stirpe eroica di Giorgio Castriota , simbolo di unità e resistenza per la comunità Arbëreşë .

Questa strada unisce le due chiese storiche del Katundë, quella bizantina e quella romana, che ancora oggi si ergono come segni identitari e spirituali, rappresentando le due anime religiose e culturali del luogo.

La via Castriota diviene così una sorta di “asse simbolico”, un percorso che non solo collega spazi sacri, ma racconta la coesistenza e il dialogo tra tradizioni differenti, fuse in una sola comunità.

La seconda è la via Albania, che conserva nella sua denominazione il ricordo delle origini e delle rotte migratorie degli Arbëreşë , giunti in queste terre portando lingua, riti e memoria dei luoghi d’origine.

Essa collega idealmente e fisicamente il luogo di arrivo delle prime famiglie con la parte indigena del Katundë, segnalando l’incontro tra chi proveniva da lontano e chi già abitava queste colline, dimenticando il frangente cistercense che viene menzionato solo al tempo dopo l’ultimo conflitto mondiale.

In questo senso, via Albania diventa la strada della fusione, il tracciato del riconoscimento reciproco, dove il radicamento si è progressivamente trasformato in appartenenza condivisa.

Poi venne il tempo della via Epiro, così chiamata in onore dell’antica regione balcanica da cui provenivano alcune delle famiglie più eminenti del luogo.

Queste famiglie, dopo una breve permanenza nella contrada detta “dote della prima casa”, probabilmente area di prima sistemazione e insediamento dei diasporici provenienti dai confini grecanici e, si stanziarono lungo questa strada, contribuendo alla formazione di un ambito urbano di particolare rilievo architettonico e sociale tipico delle antiche citta della Grecia.

Infine, un ulteriore tracciato, oggi in parte scomparso ma ancora riconoscibile nella memoria del luogo, era la strada del promontorio, che segnava la via per la montagna o per il bosco in alto.

Esse rappresentano tutte il legame antico con la natura e le risorse del territorio, via di transito per pastori, legnaioli e contadini, ma anche simbolo del confine tra il costruito e il selvatico, tra il paese e la libertà del paesaggio.

Queste vie, nella loro semplicità e nelle loro denominazioni, costituiscono un vero e proprio codice di memoria urbana e, raccontano la storia di un popolo, le sue radici e la sua capacità di conservare nel nome dei luoghi la traccia viva della propria identità.

Se oltre agli indicatori di massima che circoscrivono il centro antico si aggiungono gli elementi tipici della iunctura familiare e gli ambiti dei plateai e degli stenopoi, si completa un quadro toponomastico di grande valore interpretativo.

Questi elementi, veri e propri segni di connessione e di relazione tra le unità abitative, delineano la tessitura tra uomo e spazio naturale che ha modella nel tempo la forma tessuta del Katundë.

A seguito di ciò viene la iunctura familiare e, rappresentava l’unità di coesione tra gruppi parentali, articolata in case contigue, cortili comuni e spazi di lavoro condivisi, un microcosmo urbano dove la vita quotidiana e la solidarietà domestica costituivano l’ossatura del tessuto sociale.

I plateai, ovvero gli spazi più ampi di incontro e scambio, si opponevano agli stenopoi, i vicoli stretti e tortuosi, testimonianza del bisogno di difesa e della spontaneità costruttiva che caratterizza gli insediamenti di matrice mediterranea.

Combinando questi aspetti con la rete viaria principale, già descritta attraverso le vie Castriota, Albania, Epiro e del Promontorio, si ottiene una mappa toponomastica fondamentale, capace di restituire la complessità del centro antico, non solo nella sua forma materiale, ma anche nel suo significato sociale e simbolico/spirituale.

Grazie a questi riferimenti e, per essi, diventa possibile, seguire con chiarezza le vicende e le necessità storiche racchiuse in quella toponomastica che, a partire dal 1927, ogni Katundë dovette compilare per rendere intercettabile e riconoscibile ogni luogo del proprio centro antico.

La toponomastica si rivela dunque come una sfera narrativa o visione certa del territorio, in cui linguaggio, memoria e struttura urbana si fondono per tramandare, attraverso i nomi, l’identità viva di una comunità i trascorsi storici.

A ben vedere, il paese si sviluppa secondo un preciso disegno storico di crescita, o meglio, secondo una dinamica di insediamento equipollente ad altri siti di particolare rilevanza del Mezzogiorno antico.

Le sue fasi evolutive rivelano una logica interna che lega l’uomo al territorio, seguendo le necessità della sopravvivenza, della difesa e, definire convivenza.

La prima fase si riconduce alle origini più antiche, quando l’uomo si muoveva alla ricerca di terre migliori, spinto dal bisogno di sicurezza e di sostentamento, come coloro che “andavano per mare” e approdavano in luoghi fertili e protetti.

Successivamente, la funzione insediativa assunse un carattere difensivo, in risposta alle incursioni e alle minacce provenienti dalle soldataglie longobarde, un periodo in cui il costruito si addensava in posizioni strategiche, su alture e luoghi facilmente controllabili.

La fase seguente vide la nascita di un insediamento più stabile, volto a valorizzare il territorio e ad “operare in credenza”, ossia nella fiducia collettiva di un futuro costruito sul lavoro della terra e sulla condivisione delle risorse.

Fu in questo contesto che giunsero gli arbëreşë, portatori di una cultura distinta ma compatibile, che si integrarono progressivamente nel tessuto preesistente.

Essi, per affinità con le proprie terre d’origine, si insediarono inizialmente nella parte bassa del sito, dove il suolo era più fertile e vicino alle acque, condividendo spazi e vita con gli abitanti indigeni.

In seguito, alcuni gruppi si spostarono verso le zone più alte, “per meglio vedere il sole che sorgeva e seguirlo sino al tramonto”, un gesto simbolico, che racconta il desiderio di apertura, di visione e di armonia con la natura.

Altri, invece, scelsero di vivere lungo le vie dell’agro, continuando una tradizione di economia rurale e pastorale che rimase viva nel tempo.

Così, tra colline, rioni e sentieri, prese forma un paesaggio umano e urbano unitario, nato dall’incontro di popoli e culture diverse, ma legato da un unico filo, quello della memoria e dell’appartenenza.

In questa stratificazione di storie, nomi e percorsi, il Katundë di Terra in Sofia, viene letto come un piccolo ma significativo esempio di continuità identitaria, in cui la toponomastica non è semplice nomenclatura, ma racconto vivo del divenire storico e del rapporto profondo tra l’uomo e il suo luogo.

 

 

Arch. Atanasio Pizzi direttore A.R.S.A.N.  (Attento Ricercatore Storico Arbëreşë Napoletano)

Napoli 2025-11-04 – venerdì

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NAPOLI ATHANATOS Neapolis Immortale

NAPOLI ATHANATOS Neapolis Immortale

Posted on 05 novembre 2025 by admin

Napoli ImmortaleNAPOLI (di Atanasio Pizzi Olivetano Architetto Basile) – Napoli vive in sintonia con tutti gli atti della sua memoria ed è città che, più di ogni altra ha saputo fare del suo storico costruito, stratificazione articolata sopra, intorno e, attraverso ciò che già era stata, senza mai recidere il filo del tempo, che la unisce rendendola tessitura solidale, unitaria viva e, sostenibile.

Da Partenopee, Neapolis al sito greco e poi dei mitigatori Romani, disposti tra questi due poli, in tutte, si volgono azioni e ricorsi dei quali in questo breve si vogliono raccontare le gesta che come tante altre sono di radice immortale.

In questa trama di pietre chiare estratte dal centro del suo cuore, colmo di memoria, si inserisce, quasi come una costante carsica, con la presenza di un nome che attraversa i secoli, ritorna nei registri della memoria  con i suoi momenti più epici e, gli Atanasio, nome di origine greca, derivato da Athanasios (Αθανάσιος), che significa “immortale”, “eterno”, rafforzato, l’aggettivo che più le appartiene e l’accompagna lungo i plateai e gli stenopoi della storia.

Nel corso della storia, si incontra Attanasio Primario Architetto del Regno Angioino”, che succedette a Tino da Camaino nella direzione dei lavori di Castel Sant’Elmo.

Ma come non ricordare i vescovi duchi di radice bizantina, Attanasio I e Attanasio II del IX secolo, sicuramente la radice di questo casato, velato chissà in quale monumento della Napoli greco romana o del culto pagano in attesa di essere svelato.

Tuttavia ritornando al tempo in cui il “Palatium Castrum” di Sant’Erasmo prendeva forma sulla collina del Vomero, destinato a divenire nel corso dei secoli uno dei simboli più alti del controllo e della difesa della città.

Di quell’Attanasio si sa poco, ma il suo nome resta inciso tra i costruttori di un’idea di Napoli che guarda al cielo e domina il mare, da Castel Sant’Elmo, dove l’equilibrio tra potere e contemplazione, la contrappone alla ira incontrollata del Vesuvio.

Nel corso del tempo, altri Attanasio appaiono nelle cronache e nei documenti d’arte e, un Attanasio Francesco è menzionato come disegnatore e decoratore nel barocco napoletano, legato ai fasti del Palazzo dello Spagnolo ai Vergini, con le sue scale aperte e scenografiche, dove ancora oggi si incarna il teatro urbano del Settecento, associato a quel componimento architettonico, del regno dove “il sole non tramontava mai” e quella effige che lo rappresentava qui diventa emblema o disegno di architettura.

Lo stesso componimento che da Castel Sant’Elmo a Castel Capuano, abbraccia la Napoli Angioina con lo stesso stemma di un “regno tanto esteso e glorioso, che si narrava non vi tramontasse mai il sole.”

Un altro Attanasio, ingegnere del Sacro Regio Consiglio, compare nella ristrutturazione del Palazzo Terra Lavoro alla Sanità, confermando la presenza di una tradizione familiare che, pur non sempre lineare, si rinnova nel tempo attorno alla pratica del costruire e del restaurare.

Il Palazzo Terra Lavoro ha avuto anche funzioni “ospitali e diffusione di credenza Olivetana da cui prese tema l’università dell’Orientale”: e prima che fosse costruito il Ponte della Sanità, era punto di sosta per chi saliva verso Capodimonte, facendo un cambio di animali da tiro (da cavalli a buoi) per le carrozze per civili o da trasporto beni.

Questo filo ideale trova una nuova vitalità nel lavoro contemporaneo svolto da Atanasio Pizzi, architetto e studioso, che nel 1997 ha rilevato il senso architettonico dei prospetti dell’insula per il progetto di restauro e recupero funzionale dell’Archivio di Stato di Napoli.

Insula storica, collocato nel cuore antico della città, tra Via del Grande Archivio e Via Bartolomeo Capasso, noto come complesso dei Santi Severino e Sossio, già monastero benedettino, poi sede archivistica e, rappresenta una delle sintesi più alte tra architettura religiosa e funzione civile, dove il progettista Attanasio realizza quelle forme che danno forza al monumento e, Atanasio rilevatore in epoca digitale le ha unite in un file compilativo senza eguali.

Il rilievo eseguito e, redatto in scala reale è stato accompagnato da una campagna di studi metrici e documentari, ma non fu un semplice atto tecnico, ma un gesto di interpretazione in tutto, un modo per “leggere” la pietra, comprendere le deformazioni del tempo, e restituire all’edificio la dignità formale originaria.

Nelle sue linee, il rilievo del ’97 non è solo insieme di strumento per la misura, ma diventa anche un manifesto culturale, un esercizio di conoscenza che riconnette l’architetto al mestiere antico del costruire attraverso la memoria.

Il progetto, si inseriva in un più ampio programma dalle istituzioni preposte per valorizzare l’Archivio di Stato e, portava a compimento un’idea di “rigenerazione” intesa non come ricostruzione, ma come riscoperta della forma per renderla fruibile agli studiosi e i turisti, secondo due percorsi preorganizzati che avevano una propria autonomia di uso e notorietà.

E il rilievo, il restauro e, ogni tracciato conferma una dichiarazione di continuità per l’architettura che non si ripete, ma evolve, restando fedele alla propria origine dell’manufatto o insula come in questo caso.

Così, dall’Attanasio Primario che innalzava bastioni a difesa della città, all’Atanasio Olivetano ne misura. ne ricompone le facciate e, apre una narrazione coerente, simbolica di una Napoli che si rigenera attraverso i suoi costruttori, in cui il nome “Attanasio” non è più solo una firma, ma una linea genealogica della forma, un’eco che attraversa le pietre di Castel Sant’Elmo e i chiostri dei Santi Severino e Sossio, creano una trama colma di gesti antichi del costruire con la responsabilità moderna del preservare l’opera.

L’architettura, quando nasce, porta con sé un’idea di futuro, solo quando resiste, sopravvive alla sua funzione originaria, lasciandosi reinterpretare in ogni tempo perché memoria.

Napoli e la sua regione hanno fatto di questo principio una regola silenziosa e, le architetture per questo, non muoiono mai, cambiano pelle, attraversano le epoche come organismi vivi, capaci di respirare tempo e luogo.

Nel continuum che lega la tradizione costruttiva partenopea, l’asse ideale tracciato dal nome Attanasio trova nel XVIII e XIX secolo nuove manifestazioni di equilibrio tra monumentalità e misura umana.

Qui si inscrivono due luoghi-simbolo come: l’Emiciclo della Reggia di Caserta, il Quisisana di Castellammare di Stabia e l’insula del Duomo di Napoli e, queste sono opere che, pur appartenendo a contesti diversi, condividono la medesima tensione verso l’armonia tra forma e paesaggio, tra architettura e destino.

L’Emiciclo della Reggia o teatro della simmetria, che apre l’asse urbano e cerimoniale della Reggia di Caserta rappresenta uno dei più alti esempi di architettura come gesto politico e poetico di tessitura.

Concepite da Vanvitelli e dai suoi successori, componendo le cortine curve che avvolgono la piazza reale a modo di abbraccio geometrico, un’emanazione dell’idea di ordine assoluto che animava l’urbanistica borbonica anche in forma genitrice e materna.

Ma in quelle linee, che collegano il palazzo alla città, si ritrova anche l’eco della scuola napoletana dell’architettura e, la capacità di conciliare monumentalità e intimità, disegno e di trama quotidiana.

Ogni modulo dell’Emiciclo, al tempo stesso misura, memoria, esercizio di proporzione che si rinnova nel tempo grazie agli studi e ai rilievi contemporanei, tra i quali si collocano anche le ricerche condotte sul campo da Atanasio Pizzi, questo in specie interessato a preservare il valore di quelle curve del disegno vanvitelliano senza lenire la loro verità costruttiva e percettiva con elementi moderni.

In questo senso, l’Emiciclo non è rimasto soltanto un simbolo della grandezza borbonica incontaminato, ma un laboratorio di rigenerazione continua, un luogo dove la geometria incontra la storia e dove l’intervento moderno, fondato sulla conoscenza e sul rispetto, non rallenta il valore storico, ma amplifica la memoria del progetto originario senza emblemi in forma atti a deteriorarne la prospettiva.

Altro emblema che vede protagonista Atanasio è il Quisisana di Castellammare, la nota casa del respiro e, se la Reggia di Caserta rappresenta il trionfo dell’ordine e della forma, il Quisisana di Castellammare di Stabia ne è il contrappunto poetico ritrovato.

Arroccata tra monti e mare, la storica residenza reale, divenuta poi sanatorio, albergo e oggi centro di cultura, è una delle più delicate incarnazioni della bellezza mediterranea.

Il suo nome, “Qui si sana”, suggerisce già la sua vocazione, un luogo in cui la pietra e il paesaggio guariscono insieme, dove l’architettura si piega alla natura per trovarne equilibrio e misura.

Nel lavoro di rilievo e analisi condotto da Atanasio Pizzi su questo complesso, la ricerca delle antiche forme sgretolatesi diventano metafora della rinascita stessa dell’architettura storica.

Studiare, analizzare, disegnare e restituire le sue proporzioni non significa solo ricostruire il passato, ma ridare senso alla materia attraverso la conoscenza.

E qui ogni dettaglio sia arco, cornice, variazione di luce, diventa testimonianza di un sapere antico, che resiste al consumo e all’oblio.

Il ciclo compiuto, da Castel Sant’Elmo, la Reggia di Caserta, il Quisisana e l’Archivio di Stato di Napoli formano, insieme, un ciclo storico e simbolico, in tutto un itinerario della memoria che attraversa la Campania e che restituisce il senso profondo dell’architettura come linguaggio di continuità.

Dalla fortificazione medievale alla corte borbonica, dal sanatorio neoclassico al palazzo civile del sapere, ogni opera rappresenta un grado dell’evoluzione culturale del territorio, e il lavoro di rilievo, analisi e restauro contemporaneo, in particolare quello di Atanasio Pizzi, ne diventa la sintesi moderna.

In questo ciclo non si tratta di rifare, ma di riconoscere, l’epoca moderna, con la sua urgenza di consumo e velocità, rischia di cancellare la profondità delle forme; ma quando la conoscenza si fa progetto, e la misura si fa memoria, allora la modernità diventa custode, non predatrice.

Così si chiude, e insieme si rinnova, il cerchio della forma, dal bastione di Sant’Elmo che proteggeva la città, all’emiciclo che ne ordinava la grandezza, alla villa che respirava il mare, fino al prospetto dell’Archivio che ne custodisce la memoria.

Un’unica linea ideale, un’unica voce architettonica, che ci ricorda che la vera rigenerazione non è nel costruire nuovo, ma nel saper vedere il tempo dentro le pietre di ciò che già esiste.

Ogni città che possiede una storia lunga quanto la sua anima ha bisogno di punti di fede, di gesti simbolici che uniscano l’arte al credo, la pietra alla parola e, Napoli, in questo senso, è un organismo sacro e civile al tempo stesso, perché le sue architetture non solo proteggono e la rappresentano, ma credono.
Nel completarsi del percorso degli Attanasio, dalla pietra fortificata di Castel Sant’Elmo al rigore vanvitelliano della Reggia, fino alla misura poetica della Quisisana, al rilievo del Grande Archivio, si aggiunge ora un ultimo atto, quello della credenza, con il Duomo, un gesto di appartenenza spirituale che eleva la genealogia del costruire a dignità di culto.

Il Prospetto del Duomo, scolpita nella forma rimane custode della fede popolare più intensa d’Europa e, rappresenta l’essenza stessa del legame tra religione e arte scolpita nel marmo.

Nel suo prospetto, reinterpretato e restaurato nei secoli, sono depositate e si riconoscono, ancora una volta, gli echi della “scuola Atanasiana”, quella capacità di comporre l’ordine della fede attraverso la materia.

Le fonti più recenti citano l’Atto di Credenza legato al prospetto del Duomo, come documento di aderenza e riconoscimento di una committenza civile e religiosa nella quale gli Attanasio duchi e vescovi trovano il loro compimento di fede per la rinascita di questo luogo.

Non si tratta solo di un gesto di committenza o di restauro, ma di una dichiarazione d’identità e, il riconoscere che la forma architettonica può essere preghiera, e che ogni pietra del prospetto è testimonianza di una fede che si misura con la bellezza lasciando un segno indelebile per i credenti.

Il calendario marmoreo stipato nel vescovato, con le sue incisioni di date, santi, mesi e simboli, è una sintesi perfetta di questa vocazione e, il tempo che diventa materia, la cronologia che si fa architettura.

In esso, la lettura liturgica del mondo si trasforma in costruzione visiva, e il marmo, scolpito e ordinato, senza timore di tempo, diventa la pagina eterna di un racconto che unisce cielo e terra.

È in questo segno, nel calendario inciso nella pietra, che il tempo umano si eleva a tempo sacro, e l’architettura diventa rito e, i Duchi Vescovi: Atanasio I e II, con questo atto di credenza suggellare il ciclo, della storia divenendo i, simboli di un potere che sapeva unire il governo civile e la guida spirituale, non solo di Napoli, ma di tutte le credenze del vecchio continente sino all’equatore.

Atanasio I, fratello del duca Sergio, rappresenta l’inizio di quella duplice autorità che caratterizzerà a lungo la città.

Un dominio non solo sulla terra, ma anche sulle anime e, Atanasio II ne raccolse l’eredità, custodendo la città nelle sue fasi di transizione e di tensione tra Bisanzio e Roma, tra Oriente e Occidente.
Nella loro azione si può leggere, in chiave simbolica, l’origine profonda di quella “appartenenza degli Attanasio” che attraverserà i secoli, dal potere episcopale al sapere architettonico, dall’atto liturgico alla pietra costruita.

Essi incarnano la radice spirituale di una famiglia e di un nome che, nei secoli, diventa simbolo di unione tra forma e fede, tra politica e bellezza, tra l’umano, il divino e, con l’Atto di Credenza del Duomo, il Calendario marmoreo e la memoria dei duchi-vescovi Atanasio I e II, si chiude idealmente il ciclo storico e simbolico.

Un percorso che non è solo genealogia di sangue o professione, ma un continuum di spirito e di linguaggio:

dal castello che difende, al palazzo che rappresenta, alla villa che guarisce, al prospetto che conserva, fino alla cattedrale che crede.

È una linea che attraversa un millennio di storia, dalla pietra militare all’architettura sacra, dalla geometria della corte alla poesia del paesaggio e, in essa si compendia la più alta lezione della scuola napoletana: che la forma è memoria, che la memoria è fede, e che la fede, quando si fa architettura, diventa eterna.

Così la storia degli Attanasio non è soltanto cronaca di architetti, di vescovi o di studiosi, ma è un atto di resistenza contro l’oblio, un omaggio alla città che, nei secoli, ha saputo costruire la propria anima con la pietra, con il disegno e con la parola.

E nel nome degli Atanasio, che ritorna come un sigillo d’appartenenza, Napoli trova il suo più alto specchio e diventa una città che non dimentica, e che nella continuità della sua forma riconosce la verità della sua eternità.

Arch. Atanasio Pizzi direttore A.R.S.A.N.  (Attento Ricercatore Storico Arbëreşë Napoletano)

Napoli 2025-11-04 -Martedì

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L’INFINITA DIASPORA VISSUTA DAGLI ARBËREŞË E SOSTENUTA DALL’ALBANIA Moj e bukura Vòrèe si u rità erëda thë pèe i u bëra jàtrua  Vento del nord appena sono cresciuto ti ho seguito per essere dottore

L’INFINITA DIASPORA VISSUTA DAGLI ARBËREŞË E SOSTENUTA DALL’ALBANIA Moj e bukura Vòrèe si u rità erëda thë pèe i u bëra jàtrua Vento del nord appena sono cresciuto ti ho seguito per essere dottore

Posted on 04 novembre 2025 by admin

CatturaNAPOLI (di Atanasio Pizzi architetto Basile) – La parola diaspora, deriva dal greco diasporá e, significa letteralmente “dispersione” o “spargimento”, in essa si intrecciano due movimenti fondamentali, ovvero: la separazione dalla terra nata e la continuità dei valori identitari.

Da un lato c’è il dolore della distanza, dall’altro la tenacia della memoria che non si spegne, perché nata a descrivere la condizione del popolo ebraico dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme nel 70 d.C. e, la parola divenne simbolo universale di tutte le comunità costrette a lasciare la propria terra e a cercare altrove la possibilità di sopravvivere senza smarrire la propria identità.

La diaspora ebraica nella storia, fu, una delle prime e più profonde esperienze di dispersione, in quanto milioni di uomini e donne si trovarono lontani da Gerusalemme, dispersi nel vasto mondo mediterraneo, in Europa, in Asia e in Africa.

Tuttavia, in questa lontananza, gli Ebrei conservarono la loro lingua, la loro fede, le loro tradizioni e la speranza di un ritorno.

La diaspora divenne così non solo un destino di esilio, ma una forma di resistenza spirituale e culturale, un modo di restare uniti nonostante le distanze dal luogo natio.

Un’altra grande diaspora, meno conosciuta ma altrettanto significativa, è quella Arbëreşe, cioè la dispersione del popolo che dai Balcani sino alle porte della Grecia, tra la fine del quattrocento e il cinquecento, lasciò la propria patria per recarsi in quella terra o costa, colma di abbracci del meridione ancora non Italia unita.

A innescare questo spargimento fu un evento preciso e drammatico, la caduta di quelle terre ancora suddivise i governariati e quindi, non unita a una sola bandiera, dal dominio dell’Impero Ottomano che aveva effigi certe.

Dopo la morte dell’eroe nazionale Giorgio Castriota, figlio di Giovanni, che secondo i patti dell’ordine del drago nel 1468, visto che quelle terre non riuscivano, più a resistere alle cadenzate invasioni della potenza Islamica.

Molte genti di quei governariati, per sfuggire alla conquista e alla conversione forzata all’Islam, scelsero l’esilio e, trovarono accoglienza nelle regioni dell’Italia meridionale. in particolare in Calabria, Sicilia, Basilicata, Puglia, Molise, Abruzzo e Molise, dove fondarono la regione storica degli Arbëreşë, che ancora oggi conservano una lingua, un rito religioso e una cultura straordinariamente viva.

La diaspora arbëreşë rappresenta uno degli esempi più luminosi di come l’identità possa attraversare i secoli pur lontana dalla terra d’origine.

Queste comunità hanno mantenuto il perlato antico, i riti di credenza confrontati, i canti e, innalzando nelle terre parallele ritrovate una sintesi unica tra i patrimoni germogliati nelle terre ritrovate.

In loro la parola “diaspora” assume un valore doppio: è insieme memoria del dolore dell’esilio e testimonianza della forza della continuità nelle terre parallele ritrovate.

Così, da Gerusalemme alle montagne d’Albania, da un popolo all’altro, la diaspora racconta la stessa storia: quella di uomini e donne che, costretti a partire, hanno saputo portare con sé non solo il ricordo della propria patria, ma la volontà di farla vivere altrove.

È la storia di chi, pur perdendo una terra, ha trovato un modo nuovo di appartenere al mondo, stranamente i primi dovettero passare nella terra dei secondi, e chissà che transitando non abbiano seminario e lasciato fiorire quel germoglio di liberta in quelle terre e, che oggi le nuove generazioni meno formate interpretano e lo vedono, come un albero di novembre, che fa cadere foglie senza essere ascoltato.

La storia degli Arbëreshë in Italia è quella di un popolo che, pur costretto a lasciare la propria patria, seppe rinascere nella terra che lo accolse, diventando parte viva del suo progresso civile, culturale e morale. Quando nel Quattrocento l’Albania cadde sotto il dominio ottomano, dopo la morte dell’eroe Giorgio Castriota, migliaia di uomini e donne attraversarono l’Adriatico in cerca di libertà.

Portarono con sé il codice del parlato, la fede, le usanze, i canti e il senso profondo dell’onore e, in queste nuove terre diffuse, rigenerarono villaggi, posero in essere attività laboriose e conservarono con fierezza la propria identità, unendo alla memoria delle origini il desiderio di costruire un futuro.

Nel corso dei secoli, gli Arbëreşë si distinsero non soltanto per la loro fedeltà alle tradizioni, ma anche per il contributo dato alla scienza, alla cultura e alla giustizia e, la loro storia non è fatta solo di poesia e nostalgia, ma di intelletto, studio e coraggio civile.

Tra le figure più luminose si ricorda Giuseppe Bugliari, Pasquale Baffi, grande grecista e raffinato studioso della lingua, che con la sua opera contribuì alla diffusione della cultura classica e alla rinascita linguistica dell’Italia meridionale.

La lealtà di credenza nota sin anche al re Carlo III appena insediatosi, lo volle al suo fianco per accompagnare i suoi fidi della Real Macedone e quindi aprire a Napoli, la via di formazione che qui di seguito accenneremo.

Il suo sapere fu un ponte tra l’eredità ellenica e la modernità italiana, segno di un’intelligenza capace di unire le radici orientali e l’apertura occidentale.

Dopo venne il tempo della scuola di ponti e strade con emblema la figura di Luigi Giura, ingegnere geniale, progettista del primo ponte sospeso d’Italia, il Ponte Garigliano che per la prima volta uni idealmente nel corso della storia il papato romano con il Regno di Napoli.

Con la sua visione e la sua competenza, Giura portò l’ingegneria moderna nel Regno delle Due Sicilie e diede all’Italia una delle sue più straordinarie opere di progresso tecnico.

In lui si riflette lo spirito arbëreşë, come il pensiero primo, di mente concreta e visionaria di chi trasforma l’esilio in costruzione, la memoria in futuro.

Un altro nome di grande rilievo è Vincenzo Torelli, giornalista e innovatore, considerato il padre dell’editoria moderna.

Con la sua attività diede forma a una nuova idea di stampa, capace di parlare al popolo e di diffondere cultura, informazione e senso civico.

La sua opera segna il passaggio dall’erudizione di pochi alla conoscenza per tutti, e rappresenta uno dei contributi più profondi che gli Arbëreshë abbiano offerto alla modernità italiana.

Non meno importanti furono Rosario Giura e Scura, giudici coraggiosi che ebbero la forza di opporsi alle ingiustizie e alle imposizioni del potere monarchico.

La loro scelta di restare fedeli ai principi di libertà e giustizia, anche di fronte al rischio personale, li pone tra le coscienze più alte del loro tempo.

Essi incarnarono il valore morale di un popolo che non si piega, che preferisce la verità al silenzio, la dignità alla paura e, in queste figure si manifesta il vero genio degli Arbëreshë: non quello che cerca la gloria effimera, ma quello che lavora, studia e lotta per costruire il futuro di tutti.

Essi non furono soltanto testimoni di un passato glorioso, ma artigiani del progresso, protagonisti silenziosi del cammino dell’Italia verso la modernità.

La loro forza non veniva dalle armi, ma dalla mente che pensa. agisce in arbëreşe e dal cuore; non dal potere, ma dalla cultura, dalla fede e dalla coerenza.

Oggi, quando si parla di diaspora arbëreşe, non si può ridurla a un semplice ricordo folklorico o a una nostalgia romantica.

Essa è la dimostrazione che un popolo, pur lontano dalla sua terra, può radicarsi altrove senza perdere la propria anima.

Gli Arbëreshë hanno donato all’Italia scienziati, ingegneri, letterati, giuristi e uomini liberi e, hanno saputo unire l’eredità di credenza e lo spirito rinascimentale, portando nel Sud d’Italia una luce di una cultura, equilibrata e dignitosa.

Per questo, la loro storia non è un capitolo minore, ma una pagina fondamentale della civiltà italiana, che dalle colline della Calabria e della Basilicata, ai monti della Sicilia, nei paesi dove ancora risuonano i loro canti, si pronunziano parole dei padri, vive a testimonianza di un popolo che non ha dimenticato chi è.

Gli Arbëreşë non hanno avuto bisogno di idoli per sentirsi grandi e, la loro grandezza viene riportata nelle opere sempre in ombra ma, nella mente e nel coraggio dei loro figli resta sempre lucida e viva.

Perché uomini come Bugliari, Baffi, Giura, Torelli, e Scura, che con la forza dell’ingegno e la dignità del carattere materno hanno reso onore non solo alle loro origini, ma a tutta l’Italia.

Per secoli gli Arbëreshë hanno vissuto in Italia custodendo la memoria della patria perduta, quel frammento di quelle terre parallele in pena e che gli arbereshe per non smarrirla se la erano portata nel cuore al momento della fuga.

Hanno conservato il codice antico del parlato, la fede, i riti e le tradizioni, tramandandoli di generazione in generazione come un’eredità sacra che non aveva bisogno di essere scritta.

Intanto, dall’altra parte dell’Adriatico, la storia seguiva un altro cammino e, quella che diventava sempre più Albania, sotto il dominio ottomano cambiava volto, si adattava, resisteva a modo suo, ma finiva col dimenticare i figli partiti secoli prima e, quando la memoria tornava li ricordava come traditori.

Quelli che avevano scelto l’esilio per non piegarsi, assieme a quanti avevano rinunciato alla terra per salvare l’anima, rimasero a lungo esclusi dal ricordo collettivo della madrepatria.

Mentre gli arbëreşe vivevano la loro fedeltà in silenzio, gli albanesi della madrepatria godevano delle terre per cui gli avi comuni avevano lottato.

E così passò il tempo e, a secoli di distanza, di incomprensione, di un legame che sopravviveva solo nei canti e nelle preghiere.

Quando nel Novecento l’Albania tornò libera e cominciò a guardare di nuovo al mondo, scoprì di avere lontano, nelle regioni del Sud d’Italia, dei fratelli che per cinquecento anni avevano tenuto accesa la stessa fiamma.

Solo negli ultimi decenni, molti albanesi hanno iniziato a rendersi conto della pena, della solitudine e della fedeltà con cui gli Arbëreşë, avevano conservato l’onore del nome albanese.

Ma questa consapevolezza è arrivata tardi, e spesso offuscata da un nuovo fraintendimento, come quello di chi, dimentico della storia, si presenta oggi in Italia rivestito di miti diversi, a volte perfino lontani dalla radice cristiana e umanistica che un tempo univa i due popoli.

Così, mentre gli Arbëreşë, continuano a vivere nella coerenza della loro memoria, assistono al ritorno di chi un tempo li ha dimenticati, ora in cerca di fratellanza, ma senza sempre riconoscere il dolore causato dall’antico abbandono.

Eppure, la dignità in questa storia non conosce rancore e, la loro forza sta proprio nell’aver saputo resistere senza odiare, ricordare senza accusare, vivere senza rinnegarsi.

Oggi, se esiste una vera fratellanza possibile, essa deve nascere non dalle parole, ma dal riconoscimento sincero della storia, dal rispetto per chi, nei secoli, ha custodito la lingua, la fede e il nome di un popolo intero mentre altri lo avevano dimenticato.

Questi miti che resistono oltre adriatico, non chiedono riparazioni né onori, ma chiedono solo memoria e verità.

Chiedono che si sappia che, mentre l’Albania cambiava volto, loro continuavano a pregare in quella lingua antica, a celebrare lo stesso rito, a insegnare ai figli l’amore per una patria lontana, dove avevano trovato luoghi di termine fratelli e sorelle mai più viste.

E oggi, quando le nuove generazioni si incontrano sulle due sponde dell’Adriatico, la speranza è che il tempo non divida più, ma unisca nel rispetto e nella consapevolezza che ogni figura è stata protagonista nel bene o nel male di questa vicenda diasporica.

Perché l’abbandono delle colline di Balcane non fu una fuga, ma fu un atto di fedeltà e, chi resta fedele, anche nel silenzio, merita di essere ricordato come il vero custode della storia.

Negli ultimi decenni, con l’apertura dei confini e la ritrovata libertà dell’Albania, molti dalla madrepatria hanno cominciato a riscoprire l’esistenza delle comunità in Italia e, sono giunti nei nostri Katundë, spesso mossi da curiosità o da un sentimento di fratellanza tardivo, ma non sempre accompagnato dalla conoscenza reale di ciò che noi siamo.

Alcuni si presentano come eredi o portavoce della nostra storia, richiamando con orgoglio nomi come De Rada, Serembe, Santori o Masci, o travestiti da eroi con il copricapo ovino e, senza comprendere che questi uomini, pur nati da sangue Balcano ai tempi delle famiglie allagate tipiche di Balcani, non furono frutto della civiltà arbëreşë d’Italia ma discendenti lljtirë e, non tutti nutriti di parlato, fede, scuole, lotte e dolore di memoria, come sono stati i veri protagonisti che la storia moderna e la politica de saccenti preferisce mantenere velati.

È difficile per chi è rimasto in patria capire cosa significhi vivere secoli lontani dalla propria terra, mantenendo viva una cultura che altrove si era spenta.

Gli Arbëreshë non hanno avuto accademie o stati a proteggerli, ma hanno conservato la loro identità nei Katundë, nelle chiese, nelle famiglie, nei canti e nella parola tramandata.

La loro forza non è stata quella dell’apparenza, ma della memoria e, oggi, quando qualcuno viene a rivendicare il genio e la cultura di quei nomi illustri, senza averne compreso la radice, dimentica che la vera radice dei Balcani sino alla Grecia non si trova nei monumenti o nei discorsi, ma nel cuore di chi ha custodito per secoli la fiamma della lingua e della dignità.

Gli Arbëreshë non hanno bisogno di farsi grandi con simboli e medaglie, perché la loro grandezza sta nella continuità silenziosa di una fedeltà ininterrotta.

Hanno vissuto per cinquecento anni da italiani di cuore e da arbëreşë in silenziosa memoria, unendo due civiltà in un equilibrio che nessun potere politico o religioso è mai riuscito a spezzare.

E se oggi qualcuno arriva con scarsa conoscenza, arrogandosi il merito di una cultura che non ha costruito, la risposta non deve essere l’astio, ma la verità, perché la cultura arbëreşe è un’eredità viva che non si improvvisa, e chi vuole comprenderla deve prima imparare a rispettarla e magari un poco anche viverla.

Perché la memoria non si eredita, si conquista e, gli Arbëreşë l’hanno conquistata con secoli di fedeltà, di preghiera, di sacrificio e di silenzio operoso, fatto di sudore dolce per alimentare le terre aride o in attesa della pioggia per poi fiorire.

Oggi gli arbëreşe continuano a vivere tra memoria e futuro, tra l’Italia che li ha accolti come figli e i Balcani che un tempo li hanno perduti.

Le loro comunità sono un ponte tra due mondi, una testimonianza di come la cultura possa sopravvivere oltre la geografia e oltre il tempo.

Ma ogni volta che qualcuno dall’altra sponda dell’Adriatico si presenta con leggerezza, senza conoscere la profondità della loro storia, quel gesto, anche se inconsapevole, riapre una ferita antica, che non ha mai smesso di lagrimare sangue.

Gli Arbëreşë, che avevano trovato pace negli abbracci materni dell’Italia unita, sentono tornare a galla il dolore dell’abbandono, la nostalgia di ciò che non poté essere germoglio materno anche per loro.

E così, forse senza volerlo, gli albanesi di oggi risvegliano quel dolore antico che la vita, la fede e la cultura avevano lentamente guarito.

Un dolore che non nasce dall’odio, ma dal ricordo, quel ricordo di un popolo che seppe scegliere la libertà, pagandola con l’esilio, e che trovò in Italia non una patria adottiva, ma una madre vera, capace di accogliere, curare e far rinascere.

Per questo, nel cuore degli Arbëreşe, l’Albania resta una radice, ma l’Italia è il respiro che si fa quando si respira, si fiorisce e si prepara a dare frutti buoni.

E chi oggi viene a parlare di fratellanza senza comprendere la storia, non sa che così facendo risveglia quel dolore antico che gli abbracci materni dell’Italia unita ci avevano fatto dimenticare.

A margine di ciò esiste una diaspora minore che coinvolge un numero ristretto racchiuso in un palmo di mano, che in altra diplomatica racconteremo lagrimoso avanzare e memoria custodita gelosamente nell’animo e la mente di chi sa parlare e ascoltare in arbëreşë.

 

Arch. Atanasio Pizzi direttore A.R.S.A.N.  (Attento Ricercatore Storico Arbëreşë Napoletano)

Napoli 2025-11-04 -Martedì

 

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