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ALLA RICERCA DEGLI ARBËR E ARBËN NON CONVERTITI ALBANISTI phërësjona jonë cë nhëdigamj arbëreşë

ALLA RICERCA DEGLI ARBËR E ARBËN NON CONVERTITI ALBANISTI phërësjona jonë cë nhëdigamj arbëreşë

Posted on 07 novembre 2025 by admin

comunicazione-3NAPOLI (di Atanasio Pizzi Olivetano Architetto Basile) – C’è un momento, per ogni uomo, in cui credere o non credere smette di essere una questione esterna, un dogma da accettare o rifiutare e, diventa un cammino silenzioso dentro di sé.

È lì, tra dubbi che graffiano e rivelazioni che sfiorano appena, che si disegna la mappa segreta della conoscenza.

Eppure, guardando intorno, si avverte qualcosa di diverso, quasi uno smarrimento sottile, come se fosse venuta meno quell’energia invisibile che un tempo univa gli esseri umani in un unico respiro.

Un tempo, forse, esisteva davvero un orizzonte condiviso: fatto di idee, di valori, di speranze intrecciate. Ora sembra più lontano, come un’eco che arriva da un mondo che abbiamo dimenticato di ascoltare.
Oggi, tale forza, che era il collante degli arbëreşë, la sorgente di fiducia reciproca e di intenti convergenti, sembra essersi dispersa nelle pieghe di un mondo frammentato dagli indigeni, dove l’individualismo prevale sulla coralità e la connessione autentica, che ormai è solo un lamento o addirittura riverbero lontano.

Eppure, senza questa linfa che nutre il senso del “noi arbëreşë”, nessun futuro potrà dirsi davvero condiviso se non addirittura terminale e, ritrovare quella corrente di vita che unisce e sostiene, che orienta i passi verso regole di convivenza e scopi comuni, è forse la più urgente tra le sfide del nostro tempo.

È chiaro che ciascuna comunità deve essere la prima a custodire le proprie memorie, poiché in esse si celano i valori che ne costituiscono l’anima.

La memoria è il filo invisibile che unisce passato, presente e futuro, secondo una tessitura che non è fatta di mero ricordo, ma radice viva che nutre il senso d’appartenenza e la continuità di una storia condivisa.
Senza la cura di queste tracce, la minoranza rischia di smarrirsi e, divenire un insieme di individui senza voce comune, senza quella trama sottile che dà significato ai gesti e orienta le scelte.

Custodire la memoria non significa chiudersi nel rimpianto del tempo andato, ma riconoscere in ogni frammento del passato la linfa che permette al presente di fiorire e al futuro di avere un fondamento.

È un atto di responsabilità collettiva, un gesto d’amore verso ciò che si è stati e verso ciò che ancora si può diventare.
Ogni documento, ogni parola tramandata, ogni rito o consuetudine condivisa è un frammento di questa memoria: un’eco che racconta chi siamo e da dove veniamo, ma anche una luce che illumina la strada di chi verrà dopo di noi.

Occorre che torni a vivere, nel cuore di ogni uomo e di ogni donna arbëreşë, l’orgoglio della propria storia, della propria famiglia di appartenenza.

È da questo sentimento profondo possano rivivere le radici del rispetto come erano quando varcarono il fiume adriatico e tutto quello che lo circondava da oriente, ovvero il paesaggio, le case, le chiese, i boschi, i campi e i fiumi che hanno accompagnato per secoli il ricordo r il cammino delle comunità arbëreşë.

Senza tale consapevolezza, tutto diventa fragile, sostituibile, indifferente. Si lasciano distruggere i boschi come se non fossero più custodi di respiro e silenzio; si accetta di stravolgere i paesaggi fluviali e campestri, di sbiadire gli affreschi che raccontavano la fede e il lavoro di chi ci ha preceduto; si demoliscono finestre e soglie di casa, simboli di passaggio e accoglienza, senza più avvertire il dolore di una perdita.
Quando viene meno l’orgoglio delle proprie radici, si seppellisce anche il linguaggio, si lascia spegnere il parlato che dava voce all’anima dei luoghi, si dimenticano i canti, i gesti, le tradizioni. E insieme a esse, lentamente, si lasciano andare in rovina le proprie chiese, non solo quelle di pietra, ma anche quelle invisibili dell’anima e della memoria.

Ritrovare l’orgoglio del proprio paesaggio e della propria cultura significa allora difendere il senso stesso dell’esistenza collettiva.

È un atto di resistenza alla dispersione, un modo per dire che l’identità non è un vincolo, ma una forza che illumina, che tiene insieme, che rende ogni comunità unica e viva nel grande coro del mondo.

Conservare ciò che è di tutti, ciò che appartiene al nostro passato, non è soltanto un atto di rispetto verso coloro che hanno costruito, amato e abitato queste cose: è, prima di tutto, un gesto di rispetto verso noi stessi.
Ogni muro antico, ogni ponte, ogni albero piantato da mani che non sono più, porta impressa una parte del nostro volto. Distruggere, trascurare o dimenticare ciò che è stato eretto prima di noi significa negare una porzione della nostra identità, spezzare il filo che ci tiene uniti al tempo e alla terra.

Custodire non è nostalgia ma consapevolezza, nel riconoscere che la bellezza e la memoria non appartengono al passato, ma continuano a vivere solo se qualcuno le osserva, le comprende per diffonderle difendendole.
In ogni pietra preservata, in ogni parola tramandata, in ogni rito che sopravvive al tempo, c’è la misura di una integrazione inimitabile.

E quando una comunità sceglie di salvare i segni del proprio cammino, non compie un atto di mera conservazione: rinnova il patto tra le generazioni, riafferma il senso di appartenenza e di dignità che dà sostanza al futuro.

Perché rispettare ciò che è stato significa, in ultima istanza, rispettare ciò che siamo e ciò che ancora potremmo diventare.

La china di ogni società inizia nel momento in cui si perde lo spirito comunitario, quando gli uomini smettono di riconoscersi in una storia comune e, condividere ideali che li uniscano oltre i propri confini.

È allora che i centri storici vissuti e sostenuti in arbëreşë, si svuotano di voce, che le piazze tacciono, e che ciascuno si rifugia nel proprio bozzolo, credendo di salvarsi isolandosi.

Ma una comunità senza legami e confronto, non è più una comunità, perché diventa un arcipelago di solitudini, un insieme di vite parallele che non si incontrano mai.

Quando si vive solo per sé stessi, quando il bene comune diventa un concetto remoto e, quasi fastidioso, tutto comincia a impoverirsi, le relazioni, la cultura, perfino la speranza viene smarrita e, l’uomo che non partecipa più al destino degli altri si rimpicciolisce, perde grandezza e visione; e con lui si inaridisce l’anima collettiva che dà forma al e solidità alla regione storica in esame.

Ritrovare lo spirito comunitario non significa tornare indietro, ma riconoscere che nessun progresso può esistere senza solidarietà, senza quella trama invisibile di fiducia e responsabilità reciproca che tiene insieme soprattutto le generazioni.

Solo dove esiste un “noi”, può germogliare un futuro vero, un futuro in cui l’uomo non è spettatore del proprio tempo, ma parte viva di un destino condiviso.

Per questi solidi principi di profonda speranza conservano il sorgere di comitati spontanei, o gruppi di persone che, partendo da zero, scelgono di incontrarsi, discutere e, progettare insieme.

In questa epoca dominato dall’individualismo, il semplice gesto di riunirsi per un fine comune è già un atto di coraggio, un segno che qualcosa di vivo ancora pulsa nel cuore delle nostre comunità.

In questi spazi di confronto, talvolta animati, talvolta difficili, ma sempre sinceri, si elabora un pensiero collettivo e, si raccolgono idee, energie, fondi, che sollevano frammenti di bellezza e memoria che, pur non appartenendo a nessuno in particolare, sono di tutti.

Ogni pietra restaurata, ogni documento ritrovato, ogni gesto di cura diventa allora testimonianza di una volontà ritrovata: quella di non lasciare morire ciò che ci unisce.

È da questi piccoli fuochi che può rinascere un senso nuovo di appartenenza, un modo diverso di abitare il tempo e la terra, fondato non sul possesso ma sulla condivisione, non sull’utile ma sulla gratitudine.
E forse proprio in questa semplice, ostinata volontà di prendersi cura delle cose comuni — con mani che riparano, parole che uniscono, e sguardi che comprendono e, celano la vera possibilità di futuro, un futuro che, finalmente, torni ad avere il volto dell’uomo e della comunità.

Arch. Atanasio Pizzi direttore A.R.S.A.N.  (Attento Ricercatore Storico Arbëreşë Napoletano)

Napoli 2025-11-04 – venerdì

 

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SEGNI DELLA TOPONOMASTICA CHE SEGNANO LA VIA SEGUITA PER FARE KATUNDË thë Kopëshëtj, ka Derë, thë Rruha, ku Hëshët

SEGNI DELLA TOPONOMASTICA CHE SEGNANO LA VIA SEGUITA PER FARE KATUNDË thë Kopëshëtj, ka Derë, thë Rruha, ku Hëshët

Posted on 07 novembre 2025 by admin

TerraNAPOLI (di Atanasio Pizzi Olivetano Architetto Basile) – Quando si leggono traducono o si trascrivono agli appellativi toponomastici nel circoscritto per fare Katundë, specie se formulati e affissi in seguito alla legge n. 1188 del 23 giugno 1927, essi diventano strumento prezioso e indispensabile, per risalire alle vicende di sviluppo e crescita di un centro antico.

Essi diventano tracia sempre vive presente, specie se conservate nel luogo di affissione e rendono evidente il riconoscimento della struttura urbana originaria, quella che definisce i rioni e gli ambiti del costruito primario e, tutto quello che qui divenne germoglio del bisogno vernacolare.

In questa breve trattazione seguiremo proprio le vicende in Terre di Sofia, cercando di coglierne, attraverso la toponomastica e, la stratificazione insediativa, le tracce di una memoria collettiva o storia radicata nel territorio che può divenire protocollo applicativo di altre realtà di simile radice identitaria.

La toponomastica, infatti intrecciata agli eventi della storia, tesse e restituisce il senso profondo del centro antico, affinando le valenze culturali, economiche e sociali che ne determinarono l’evoluzione nel corso dei secoli.

Ogni nome, ogni appellativo territoriale, conserva in sé la memoria di un passaggio di genere umano, una funzione perduta o trasformata, di una presenza comunitaria che ha lasciato tracce riconoscibili nella forma e nella struttura dell’abitato.

L’analisi dei toponimi non si limita dunque a un semplice esercizio linguistico o etimologico, ma si configura come uno strumento di indagine storico-sociale ad ampio raggio, capace di ricomporre la complessità dei processi insediativi e identitari che hanno interessato un territorio.

Tali studi, quando collocati all’interno di un contesto più vasto, o meglio definiti nella macro area in esame, assumono un valore ancora più significativo, e saputi leggere diventano un archivio a cielo aperto.

Nel caso specifico, l’attenzione si concentra sulle colline della valle del Crati e sulle pendici della Sila, un’area da sempre riconosciuta come crocevia di culture e, identificata nella tradizione storica come greca per la tessitura di credenza primaria.

In questo spazio, la stratificazione toponomastica riflette le sovrapposizioni di civiltà, lingue e religioni, testimoniando un continuo processo di adattamento e reinterpretazione del paesaggio.

I nomi dei luoghi, derivati da radici storiche greche, dei Balcani e, non solo descrivono il territorio, ma ne narrano la storia, dalle prime comunità rurali e monastiche ai centri aperti e di libera accoglienza post medievali, fino alle organizzazioni civiche dell’età moderna.

In essi si leggono le relazioni tra uomo e ambiente, le funzioni agricole o pastorali, le forme di difesa del lento scorrere all’interno, le devozioni religiose e gli assetti sociali che hanno scandito le fasi di vita del centro.

Pertanto, lo studio della toponomastica in questa area non rappresenta un mero esercizio descrittivo, ma diventa una vera e propria ricostruzione storica, capace di illuminare la continuità tra paesaggio, lingua e identità collettiva.

Valgano come esempio le fondamentali strade storiche, assunte a emblema nella toponomastica del Katundë e ufficialmente adottate a seguito della legge n. 1188, esse rappresentano non solo un riferimento urbano, ma soprattutto una testimonianza viva della stratificazione culturale e sociale che ha definito l’identità del centro antico.

La prima è la via Castriota, così denominata in memoria della stirpe eroica di Giorgio Castriota , simbolo di unità e resistenza per la comunità Arbëreşë .

Questa strada unisce le due chiese storiche del Katundë, quella bizantina e quella romana, che ancora oggi si ergono come segni identitari e spirituali, rappresentando le due anime religiose e culturali del luogo.

La via Castriota diviene così una sorta di “asse simbolico”, un percorso che non solo collega spazi sacri, ma racconta la coesistenza e il dialogo tra tradizioni differenti, fuse in una sola comunità.

La seconda è la via Albania, che conserva nella sua denominazione il ricordo delle origini e delle rotte migratorie degli Arbëreşë , giunti in queste terre portando lingua, riti e memoria dei luoghi d’origine.

Essa collega idealmente e fisicamente il luogo di arrivo delle prime famiglie con la parte indigena del Katundë, segnalando l’incontro tra chi proveniva da lontano e chi già abitava queste colline, dimenticando il frangente cistercense che viene menzionato solo al tempo dopo l’ultimo conflitto mondiale.

In questo senso, via Albania diventa la strada della fusione, il tracciato del riconoscimento reciproco, dove il radicamento si è progressivamente trasformato in appartenenza condivisa.

Poi venne il tempo della via Epiro, così chiamata in onore dell’antica regione balcanica da cui provenivano alcune delle famiglie più eminenti del luogo.

Queste famiglie, dopo una breve permanenza nella contrada detta “dote della prima casa”, probabilmente area di prima sistemazione e insediamento dei diasporici provenienti dai confini grecanici e, si stanziarono lungo questa strada, contribuendo alla formazione di un ambito urbano di particolare rilievo architettonico e sociale tipico delle antiche citta della Grecia.

Infine, un ulteriore tracciato, oggi in parte scomparso ma ancora riconoscibile nella memoria del luogo, era la strada del promontorio, che segnava la via per la montagna o per il bosco in alto.

Esse rappresentano tutte il legame antico con la natura e le risorse del territorio, via di transito per pastori, legnaioli e contadini, ma anche simbolo del confine tra il costruito e il selvatico, tra il paese e la libertà del paesaggio.

Queste vie, nella loro semplicità e nelle loro denominazioni, costituiscono un vero e proprio codice di memoria urbana e, raccontano la storia di un popolo, le sue radici e la sua capacità di conservare nel nome dei luoghi la traccia viva della propria identità.

Se oltre agli indicatori di massima che circoscrivono il centro antico si aggiungono gli elementi tipici della iunctura familiare e gli ambiti dei plateai e degli stenopoi, si completa un quadro toponomastico di grande valore interpretativo.

Questi elementi, veri e propri segni di connessione e di relazione tra le unità abitative, delineano la tessitura tra uomo e spazio naturale che ha modella nel tempo la forma tessuta del Katundë.

A seguito di ciò viene la iunctura familiare e, rappresentava l’unità di coesione tra gruppi parentali, articolata in case contigue, cortili comuni e spazi di lavoro condivisi, un microcosmo urbano dove la vita quotidiana e la solidarietà domestica costituivano l’ossatura del tessuto sociale.

I plateai, ovvero gli spazi più ampi di incontro e scambio, si opponevano agli stenopoi, i vicoli stretti e tortuosi, testimonianza del bisogno di difesa e della spontaneità costruttiva che caratterizza gli insediamenti di matrice mediterranea.

Combinando questi aspetti con la rete viaria principale, già descritta attraverso le vie Castriota, Albania, Epiro e del Promontorio, si ottiene una mappa toponomastica fondamentale, capace di restituire la complessità del centro antico, non solo nella sua forma materiale, ma anche nel suo significato sociale e simbolico/spirituale.

Grazie a questi riferimenti e, per essi, diventa possibile, seguire con chiarezza le vicende e le necessità storiche racchiuse in quella toponomastica che, a partire dal 1927, ogni Katundë dovette compilare per rendere intercettabile e riconoscibile ogni luogo del proprio centro antico.

La toponomastica si rivela dunque come una sfera narrativa o visione certa del territorio, in cui linguaggio, memoria e struttura urbana si fondono per tramandare, attraverso i nomi, l’identità viva di una comunità i trascorsi storici.

A ben vedere, il paese si sviluppa secondo un preciso disegno storico di crescita, o meglio, secondo una dinamica di insediamento equipollente ad altri siti di particolare rilevanza del Mezzogiorno antico.

Le sue fasi evolutive rivelano una logica interna che lega l’uomo al territorio, seguendo le necessità della sopravvivenza, della difesa e, definire convivenza.

La prima fase si riconduce alle origini più antiche, quando l’uomo si muoveva alla ricerca di terre migliori, spinto dal bisogno di sicurezza e di sostentamento, come coloro che “andavano per mare” e approdavano in luoghi fertili e protetti.

Successivamente, la funzione insediativa assunse un carattere difensivo, in risposta alle incursioni e alle minacce provenienti dalle soldataglie longobarde, un periodo in cui il costruito si addensava in posizioni strategiche, su alture e luoghi facilmente controllabili.

La fase seguente vide la nascita di un insediamento più stabile, volto a valorizzare il territorio e ad “operare in credenza”, ossia nella fiducia collettiva di un futuro costruito sul lavoro della terra e sulla condivisione delle risorse.

Fu in questo contesto che giunsero gli arbëreşë, portatori di una cultura distinta ma compatibile, che si integrarono progressivamente nel tessuto preesistente.

Essi, per affinità con le proprie terre d’origine, si insediarono inizialmente nella parte bassa del sito, dove il suolo era più fertile e vicino alle acque, condividendo spazi e vita con gli abitanti indigeni.

In seguito, alcuni gruppi si spostarono verso le zone più alte, “per meglio vedere il sole che sorgeva e seguirlo sino al tramonto”, un gesto simbolico, che racconta il desiderio di apertura, di visione e di armonia con la natura.

Altri, invece, scelsero di vivere lungo le vie dell’agro, continuando una tradizione di economia rurale e pastorale che rimase viva nel tempo.

Così, tra colline, rioni e sentieri, prese forma un paesaggio umano e urbano unitario, nato dall’incontro di popoli e culture diverse, ma legato da un unico filo, quello della memoria e dell’appartenenza.

In questa stratificazione di storie, nomi e percorsi, il Katundë di Terra in Sofia, viene letto come un piccolo ma significativo esempio di continuità identitaria, in cui la toponomastica non è semplice nomenclatura, ma racconto vivo del divenire storico e del rapporto profondo tra l’uomo e il suo luogo.

 

 

Arch. Atanasio Pizzi direttore A.R.S.A.N.  (Attento Ricercatore Storico Arbëreşë Napoletano)

Napoli 2025-11-04 – venerdì

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NAPOLI ATHANATOS Neapolis Immortale

NAPOLI ATHANATOS Neapolis Immortale

Posted on 05 novembre 2025 by admin

Napoli ImmortaleNAPOLI (di Atanasio Pizzi Olivetano Architetto Basile) – Napoli vive in sintonia con tutti gli atti della sua memoria ed è città che, più di ogni altra ha saputo fare del suo storico costruito, stratificazione articolata sopra, intorno e, attraverso ciò che già era stata, senza mai recidere il filo del tempo, che la unisce rendendola tessitura solidale, unitaria viva e, sostenibile.

Da Partenopee, Neapolis al sito greco e poi dei mitigatori Romani, disposti tra questi due poli, in tutte, si volgono azioni e ricorsi dei quali in questo breve si vogliono raccontare le gesta che come tante altre sono di radice immortale.

In questa trama di pietre chiare estratte dal centro del suo cuore, colmo di memoria, si inserisce, quasi come una costante carsica, con la presenza di un nome che attraversa i secoli, ritorna nei registri della memoria  con i suoi momenti più epici e, gli Atanasio, nome di origine greca, derivato da Athanasios (Αθανάσιος), che significa “immortale”, “eterno”, rafforzato, l’aggettivo che più le appartiene e l’accompagna lungo i plateai e gli stenopoi della storia.

Nel corso della storia, si incontra Attanasio Primario Architetto del Regno Angioino”, che succedette a Tino da Camaino nella direzione dei lavori di Castel Sant’Elmo.

Ma come non ricordare i vescovi duchi di radice bizantina, Attanasio I e Attanasio II del IX secolo, sicuramente la radice di questo casato, velato chissà in quale monumento della Napoli greco romana o del culto pagano in attesa di essere svelato.

Tuttavia ritornando al tempo in cui il “Palatium Castrum” di Sant’Erasmo prendeva forma sulla collina del Vomero, destinato a divenire nel corso dei secoli uno dei simboli più alti del controllo e della difesa della città.

Di quell’Attanasio si sa poco, ma il suo nome resta inciso tra i costruttori di un’idea di Napoli che guarda al cielo e domina il mare, da Castel Sant’Elmo, dove l’equilibrio tra potere e contemplazione, la contrappone alla ira incontrollata del Vesuvio.

Nel corso del tempo, altri Attanasio appaiono nelle cronache e nei documenti d’arte e, un Attanasio Francesco è menzionato come disegnatore e decoratore nel barocco napoletano, legato ai fasti del Palazzo dello Spagnolo ai Vergini, con le sue scale aperte e scenografiche, dove ancora oggi si incarna il teatro urbano del Settecento, associato a quel componimento architettonico, del regno dove “il sole non tramontava mai” e quella effige che lo rappresentava qui diventa emblema o disegno di architettura.

Lo stesso componimento che da Castel Sant’Elmo a Castel Capuano, abbraccia la Napoli Angioina con lo stesso stemma di un “regno tanto esteso e glorioso, che si narrava non vi tramontasse mai il sole.”

Un altro Attanasio, ingegnere del Sacro Regio Consiglio, compare nella ristrutturazione del Palazzo Terra Lavoro alla Sanità, confermando la presenza di una tradizione familiare che, pur non sempre lineare, si rinnova nel tempo attorno alla pratica del costruire e del restaurare.

Il Palazzo Terra Lavoro ha avuto anche funzioni “ospitali e diffusione di credenza Olivetana da cui prese tema l’università dell’Orientale”: e prima che fosse costruito il Ponte della Sanità, era punto di sosta per chi saliva verso Capodimonte, facendo un cambio di animali da tiro (da cavalli a buoi) per le carrozze per civili o da trasporto beni.

Questo filo ideale trova una nuova vitalità nel lavoro contemporaneo svolto da Atanasio Pizzi, architetto e studioso, che nel 1997 ha rilevato il senso architettonico dei prospetti dell’insula per il progetto di restauro e recupero funzionale dell’Archivio di Stato di Napoli.

Insula storica, collocato nel cuore antico della città, tra Via del Grande Archivio e Via Bartolomeo Capasso, noto come complesso dei Santi Severino e Sossio, già monastero benedettino, poi sede archivistica e, rappresenta una delle sintesi più alte tra architettura religiosa e funzione civile, dove il progettista Attanasio realizza quelle forme che danno forza al monumento e, Atanasio rilevatore in epoca digitale le ha unite in un file compilativo senza eguali.

Il rilievo eseguito e, redatto in scala reale è stato accompagnato da una campagna di studi metrici e documentari, ma non fu un semplice atto tecnico, ma un gesto di interpretazione in tutto, un modo per “leggere” la pietra, comprendere le deformazioni del tempo, e restituire all’edificio la dignità formale originaria.

Nelle sue linee, il rilievo del ’97 non è solo insieme di strumento per la misura, ma diventa anche un manifesto culturale, un esercizio di conoscenza che riconnette l’architetto al mestiere antico del costruire attraverso la memoria.

Il progetto, si inseriva in un più ampio programma dalle istituzioni preposte per valorizzare l’Archivio di Stato e, portava a compimento un’idea di “rigenerazione” intesa non come ricostruzione, ma come riscoperta della forma per renderla fruibile agli studiosi e i turisti, secondo due percorsi preorganizzati che avevano una propria autonomia di uso e notorietà.

E il rilievo, il restauro e, ogni tracciato conferma una dichiarazione di continuità per l’architettura che non si ripete, ma evolve, restando fedele alla propria origine dell’manufatto o insula come in questo caso.

Così, dall’Attanasio Primario che innalzava bastioni a difesa della città, all’Atanasio Olivetano ne misura. ne ricompone le facciate e, apre una narrazione coerente, simbolica di una Napoli che si rigenera attraverso i suoi costruttori, in cui il nome “Attanasio” non è più solo una firma, ma una linea genealogica della forma, un’eco che attraversa le pietre di Castel Sant’Elmo e i chiostri dei Santi Severino e Sossio, creano una trama colma di gesti antichi del costruire con la responsabilità moderna del preservare l’opera.

L’architettura, quando nasce, porta con sé un’idea di futuro, solo quando resiste, sopravvive alla sua funzione originaria, lasciandosi reinterpretare in ogni tempo perché memoria.

Napoli e la sua regione hanno fatto di questo principio una regola silenziosa e, le architetture per questo, non muoiono mai, cambiano pelle, attraversano le epoche come organismi vivi, capaci di respirare tempo e luogo.

Nel continuum che lega la tradizione costruttiva partenopea, l’asse ideale tracciato dal nome Attanasio trova nel XVIII e XIX secolo nuove manifestazioni di equilibrio tra monumentalità e misura umana.

Qui si inscrivono due luoghi-simbolo come: l’Emiciclo della Reggia di Caserta, il Quisisana di Castellammare di Stabia e l’insula del Duomo di Napoli e, queste sono opere che, pur appartenendo a contesti diversi, condividono la medesima tensione verso l’armonia tra forma e paesaggio, tra architettura e destino.

L’Emiciclo della Reggia o teatro della simmetria, che apre l’asse urbano e cerimoniale della Reggia di Caserta rappresenta uno dei più alti esempi di architettura come gesto politico e poetico di tessitura.

Concepite da Vanvitelli e dai suoi successori, componendo le cortine curve che avvolgono la piazza reale a modo di abbraccio geometrico, un’emanazione dell’idea di ordine assoluto che animava l’urbanistica borbonica anche in forma genitrice e materna.

Ma in quelle linee, che collegano il palazzo alla città, si ritrova anche l’eco della scuola napoletana dell’architettura e, la capacità di conciliare monumentalità e intimità, disegno e di trama quotidiana.

Ogni modulo dell’Emiciclo, al tempo stesso misura, memoria, esercizio di proporzione che si rinnova nel tempo grazie agli studi e ai rilievi contemporanei, tra i quali si collocano anche le ricerche condotte sul campo da Atanasio Pizzi, questo in specie interessato a preservare il valore di quelle curve del disegno vanvitelliano senza lenire la loro verità costruttiva e percettiva con elementi moderni.

In questo senso, l’Emiciclo non è rimasto soltanto un simbolo della grandezza borbonica incontaminato, ma un laboratorio di rigenerazione continua, un luogo dove la geometria incontra la storia e dove l’intervento moderno, fondato sulla conoscenza e sul rispetto, non rallenta il valore storico, ma amplifica la memoria del progetto originario senza emblemi in forma atti a deteriorarne la prospettiva.

Altro emblema che vede protagonista Atanasio è il Quisisana di Castellammare, la nota casa del respiro e, se la Reggia di Caserta rappresenta il trionfo dell’ordine e della forma, il Quisisana di Castellammare di Stabia ne è il contrappunto poetico ritrovato.

Arroccata tra monti e mare, la storica residenza reale, divenuta poi sanatorio, albergo e oggi centro di cultura, è una delle più delicate incarnazioni della bellezza mediterranea.

Il suo nome, “Qui si sana”, suggerisce già la sua vocazione, un luogo in cui la pietra e il paesaggio guariscono insieme, dove l’architettura si piega alla natura per trovarne equilibrio e misura.

Nel lavoro di rilievo e analisi condotto da Atanasio Pizzi su questo complesso, la ricerca delle antiche forme sgretolatesi diventano metafora della rinascita stessa dell’architettura storica.

Studiare, analizzare, disegnare e restituire le sue proporzioni non significa solo ricostruire il passato, ma ridare senso alla materia attraverso la conoscenza.

E qui ogni dettaglio sia arco, cornice, variazione di luce, diventa testimonianza di un sapere antico, che resiste al consumo e all’oblio.

Il ciclo compiuto, da Castel Sant’Elmo, la Reggia di Caserta, il Quisisana e l’Archivio di Stato di Napoli formano, insieme, un ciclo storico e simbolico, in tutto un itinerario della memoria che attraversa la Campania e che restituisce il senso profondo dell’architettura come linguaggio di continuità.

Dalla fortificazione medievale alla corte borbonica, dal sanatorio neoclassico al palazzo civile del sapere, ogni opera rappresenta un grado dell’evoluzione culturale del territorio, e il lavoro di rilievo, analisi e restauro contemporaneo, in particolare quello di Atanasio Pizzi, ne diventa la sintesi moderna.

In questo ciclo non si tratta di rifare, ma di riconoscere, l’epoca moderna, con la sua urgenza di consumo e velocità, rischia di cancellare la profondità delle forme; ma quando la conoscenza si fa progetto, e la misura si fa memoria, allora la modernità diventa custode, non predatrice.

Così si chiude, e insieme si rinnova, il cerchio della forma, dal bastione di Sant’Elmo che proteggeva la città, all’emiciclo che ne ordinava la grandezza, alla villa che respirava il mare, fino al prospetto dell’Archivio che ne custodisce la memoria.

Un’unica linea ideale, un’unica voce architettonica, che ci ricorda che la vera rigenerazione non è nel costruire nuovo, ma nel saper vedere il tempo dentro le pietre di ciò che già esiste.

Ogni città che possiede una storia lunga quanto la sua anima ha bisogno di punti di fede, di gesti simbolici che uniscano l’arte al credo, la pietra alla parola e, Napoli, in questo senso, è un organismo sacro e civile al tempo stesso, perché le sue architetture non solo proteggono e la rappresentano, ma credono.
Nel completarsi del percorso degli Attanasio, dalla pietra fortificata di Castel Sant’Elmo al rigore vanvitelliano della Reggia, fino alla misura poetica della Quisisana, al rilievo del Grande Archivio, si aggiunge ora un ultimo atto, quello della credenza, con il Duomo, un gesto di appartenenza spirituale che eleva la genealogia del costruire a dignità di culto.

Il Prospetto del Duomo, scolpita nella forma rimane custode della fede popolare più intensa d’Europa e, rappresenta l’essenza stessa del legame tra religione e arte scolpita nel marmo.

Nel suo prospetto, reinterpretato e restaurato nei secoli, sono depositate e si riconoscono, ancora una volta, gli echi della “scuola Atanasiana”, quella capacità di comporre l’ordine della fede attraverso la materia.

Le fonti più recenti citano l’Atto di Credenza legato al prospetto del Duomo, come documento di aderenza e riconoscimento di una committenza civile e religiosa nella quale gli Attanasio duchi e vescovi trovano il loro compimento di fede per la rinascita di questo luogo.

Non si tratta solo di un gesto di committenza o di restauro, ma di una dichiarazione d’identità e, il riconoscere che la forma architettonica può essere preghiera, e che ogni pietra del prospetto è testimonianza di una fede che si misura con la bellezza lasciando un segno indelebile per i credenti.

Il calendario marmoreo stipato nel vescovato, con le sue incisioni di date, santi, mesi e simboli, è una sintesi perfetta di questa vocazione e, il tempo che diventa materia, la cronologia che si fa architettura.

In esso, la lettura liturgica del mondo si trasforma in costruzione visiva, e il marmo, scolpito e ordinato, senza timore di tempo, diventa la pagina eterna di un racconto che unisce cielo e terra.

È in questo segno, nel calendario inciso nella pietra, che il tempo umano si eleva a tempo sacro, e l’architettura diventa rito e, i Duchi Vescovi: Atanasio I e II, con questo atto di credenza suggellare il ciclo, della storia divenendo i, simboli di un potere che sapeva unire il governo civile e la guida spirituale, non solo di Napoli, ma di tutte le credenze del vecchio continente sino all’equatore.

Atanasio I, fratello del duca Sergio, rappresenta l’inizio di quella duplice autorità che caratterizzerà a lungo la città.

Un dominio non solo sulla terra, ma anche sulle anime e, Atanasio II ne raccolse l’eredità, custodendo la città nelle sue fasi di transizione e di tensione tra Bisanzio e Roma, tra Oriente e Occidente.
Nella loro azione si può leggere, in chiave simbolica, l’origine profonda di quella “appartenenza degli Attanasio” che attraverserà i secoli, dal potere episcopale al sapere architettonico, dall’atto liturgico alla pietra costruita.

Essi incarnano la radice spirituale di una famiglia e di un nome che, nei secoli, diventa simbolo di unione tra forma e fede, tra politica e bellezza, tra l’umano, il divino e, con l’Atto di Credenza del Duomo, il Calendario marmoreo e la memoria dei duchi-vescovi Atanasio I e II, si chiude idealmente il ciclo storico e simbolico.

Un percorso che non è solo genealogia di sangue o professione, ma un continuum di spirito e di linguaggio:

dal castello che difende, al palazzo che rappresenta, alla villa che guarisce, al prospetto che conserva, fino alla cattedrale che crede.

È una linea che attraversa un millennio di storia, dalla pietra militare all’architettura sacra, dalla geometria della corte alla poesia del paesaggio e, in essa si compendia la più alta lezione della scuola napoletana: che la forma è memoria, che la memoria è fede, e che la fede, quando si fa architettura, diventa eterna.

Così la storia degli Attanasio non è soltanto cronaca di architetti, di vescovi o di studiosi, ma è un atto di resistenza contro l’oblio, un omaggio alla città che, nei secoli, ha saputo costruire la propria anima con la pietra, con il disegno e con la parola.

E nel nome degli Atanasio, che ritorna come un sigillo d’appartenenza, Napoli trova il suo più alto specchio e diventa una città che non dimentica, e che nella continuità della sua forma riconosce la verità della sua eternità.

Arch. Atanasio Pizzi direttore A.R.S.A.N.  (Attento Ricercatore Storico Arbëreşë Napoletano)

Napoli 2025-11-04 -Martedì

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L’INFINITA DIASPORA VISSUTA DAGLI ARBËREŞË E SOSTENUTA DALL’ALBANIA Moj e bukura Vòrèe si u rità erëda thë pèe i u bëra jàtrua  Vento del nord appena sono cresciuto ti ho seguito per essere dottore

L’INFINITA DIASPORA VISSUTA DAGLI ARBËREŞË E SOSTENUTA DALL’ALBANIA Moj e bukura Vòrèe si u rità erëda thë pèe i u bëra jàtrua Vento del nord appena sono cresciuto ti ho seguito per essere dottore

Posted on 04 novembre 2025 by admin

CatturaNAPOLI (di Atanasio Pizzi architetto Basile) – La parola diaspora, deriva dal greco diasporá e, significa letteralmente “dispersione” o “spargimento”, in essa si intrecciano due movimenti fondamentali, ovvero: la separazione dalla terra nata e la continuità dei valori identitari.

Da un lato c’è il dolore della distanza, dall’altro la tenacia della memoria che non si spegne, perché nata a descrivere la condizione del popolo ebraico dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme nel 70 d.C. e, la parola divenne simbolo universale di tutte le comunità costrette a lasciare la propria terra e a cercare altrove la possibilità di sopravvivere senza smarrire la propria identità.

La diaspora ebraica nella storia, fu, una delle prime e più profonde esperienze di dispersione, in quanto milioni di uomini e donne si trovarono lontani da Gerusalemme, dispersi nel vasto mondo mediterraneo, in Europa, in Asia e in Africa.

Tuttavia, in questa lontananza, gli Ebrei conservarono la loro lingua, la loro fede, le loro tradizioni e la speranza di un ritorno.

La diaspora divenne così non solo un destino di esilio, ma una forma di resistenza spirituale e culturale, un modo di restare uniti nonostante le distanze dal luogo natio.

Un’altra grande diaspora, meno conosciuta ma altrettanto significativa, è quella Arbëreşe, cioè la dispersione del popolo che dai Balcani sino alle porte della Grecia, tra la fine del quattrocento e il cinquecento, lasciò la propria patria per recarsi in quella terra o costa, colma di abbracci del meridione ancora non Italia unita.

A innescare questo spargimento fu un evento preciso e drammatico, la caduta di quelle terre ancora suddivise i governariati e quindi, non unita a una sola bandiera, dal dominio dell’Impero Ottomano che aveva effigi certe.

Dopo la morte dell’eroe nazionale Giorgio Castriota, figlio di Giovanni, che secondo i patti dell’ordine del drago nel 1468, visto che quelle terre non riuscivano, più a resistere alle cadenzate invasioni della potenza Islamica.

Molte genti di quei governariati, per sfuggire alla conquista e alla conversione forzata all’Islam, scelsero l’esilio r, trovarono accoglienza nelle regioni dell’Italia meridionale. in particolare in Calabria, Sicilia, Basilicata, Puglia, Molise, Abruzzo e Molise, dove fondarono la regione storica degli Arbëreşë, che ancora oggi conservano una lingua, un rito religioso e una cultura straordinariamente viva.

La diaspora arbëreşë rappresenta uno degli esempi più luminosi di come l’identità possa attraversare i secoli pur lontana dalla terra d’origine.

Queste comunità hanno mantenuto il perlato antico, i riti di credenza confrontati, i canti e, innalzando nelle terre parallele ritrovate una sintesi unica tra i patrimoni germogliati nelle terre ritrovate.

In loro la parola “diaspora” assume un valore doppio: è insieme memoria del dolore dell’esilio e testimonianza della forza della continuità nelle terre parallele ritrovate.

Così, da Gerusalemme alle montagne d’Albania, da un popolo all’altro, la diaspora racconta la stessa storia: quella di uomini e donne che, costretti a partire, hanno saputo portare con sé non solo il ricordo della propria patria, ma la volontà di farla vivere altrove.

È la storia di chi, pur perdendo una terra, ha trovato un modo nuovo di appartenere al mondo, stranamente i primi dovettero passare nella terra dei secondi, e chissà che transitando non abbiano seminario e lasciato fiorire quel germoglio di liberta in quelle terre e, che oggi le nuove generazioni meno formate interpretano e lo vedono, come un albero di novembre, che fa cadere foglie senza essere ascoltato.

La storia degli Arbëreshë in Italia è quella di un popolo che, pur costretto a lasciare la propria patria, seppe rinascere nella terra che lo accolse, diventando parte viva del suo progresso civile, culturale e morale. Quando nel Quattrocento l’Albania cadde sotto il dominio ottomano, dopo la morte dell’eroe Giorgio Castriota, migliaia di uomini e donne attraversarono l’Adriatico in cerca di libertà.

Portarono con sé il codice del parlato, la fede, le usanze, i canti e il senso profondo dell’onore e, in queste nuove terre diffuse, rigenerarono villaggi, posero in essere attività laboriose e conservarono con fierezza la propria identità, unendo alla memoria delle origini il desiderio di costruire un futuro.

Nel corso dei secoli, gli Arbëreşë si distinsero non soltanto per la loro fedeltà alle tradizioni, ma anche per il contributo dato alla scienza, alla cultura e alla giustizia e, la loro storia non è fatta solo di poesia e nostalgia, ma di intelletto, studio e coraggio civile.

Tra le figure più luminose si ricorda Giuseppe Bugliari, Pasquale Baffi, grande grecista e raffinato studioso della lingua, che con la sua opera contribuì alla diffusione della cultura classica e alla rinascita linguistica dell’Italia meridionale.

La lealtà di credenza nota sin anche al re Carlo III appena insediatosi, lo volle al suo fianco per accompagnare i suoi fidi della Real Macedone e quindi aprire a Napoli, la via di formazione che qui di seguito accenneremo.

Il suo sapere fu un ponte tra l’eredità ellenica e la modernità italiana, segno di un’intelligenza capace di unire le radici orientali e l’apertura occidentale.

Dopo venne il tempo della scuola di ponti e strade con emblema la figura di Luigi Giura, ingegnere geniale, progettista del primo ponte sospeso d’Italia, il Ponte Garigliano che per la prima volta uni idealmente nel corso della storia il papato romano con il Regno di Napoli.

Con la sua visione e la sua competenza, Giura portò l’ingegneria moderna nel Regno delle Due Sicilie e diede all’Italia una delle sue più straordinarie opere di progresso tecnico.

In lui si riflette lo spirito arbëreşë, come il pensiero primo, di mente concreta e visionaria di chi trasforma l’esilio in costruzione, la memoria in futuro.

Un altro nome di grande rilievo è Vincenzo Torelli, giornalista e innovatore, considerato il padre dell’editoria moderna.

Con la sua attività diede forma a una nuova idea di stampa, capace di parlare al popolo e di diffondere cultura, informazione e senso civico.

La sua opera segna il passaggio dall’erudizione di pochi alla conoscenza per tutti, e rappresenta uno dei contributi più profondi che gli Arbëreshë abbiano offerto alla modernità italiana.

Non meno importanti furono Rosario Giura e Scura, giudici coraggiosi che ebbero la forza di opporsi alle ingiustizie e alle imposizioni del potere monarchico.

La loro scelta di restare fedeli ai principi di libertà e giustizia, anche di fronte al rischio personale, li pone tra le coscienze più alte del loro tempo.

Essi incarnarono il valore morale di un popolo che non si piega, che preferisce la verità al silenzio, la dignità alla paura e, in queste figure si manifesta il vero genio degli Arbëreshë: non quello che cerca la gloria effimera, ma quello che lavora, studia e lotta per costruire il futuro di tutti.

Essi non furono soltanto testimoni di un passato glorioso, ma artigiani del progresso, protagonisti silenziosi del cammino dell’Italia verso la modernità.

La loro forza non veniva dalle armi, ma dalla mente che pensa. agisce in arbëreşe e dal cuore; non dal potere, ma dalla cultura, dalla fede e dalla coerenza.

Oggi, quando si parla di diaspora arbëreşe, non si può ridurla a un semplice ricordo folklorico o a una nostalgia romantica.

Essa è la dimostrazione che un popolo, pur lontano dalla sua terra, può radicarsi altrove senza perdere la propria anima.

Gli Arbëreshë hanno donato all’Italia scienziati, ingegneri, letterati, giuristi e uomini liberi e, hanno saputo unire l’eredità di credenza e lo spirito rinascimentale, portando nel Sud d’Italia una luce di una cultura, equilibrata e dignitosa.

Per questo, la loro storia non è un capitolo minore, ma una pagina fondamentale della civiltà italiana, che dalle colline della Calabria e della Basilicata, ai monti della Sicilia, nei paesi dove ancora risuonano i loro canti, si pronunziano parole dei padri, vive a testimonianza di un popolo che non ha dimenticato chi è.

Gli Arbëreşë non hanno avuto bisogno di idoli per sentirsi grandi e, la loro grandezza viene riportata nelle opere sempre in ombra ma, nella mente e nel coraggio dei loro figli resta sempre lucida e viva.

Perché uomini come Bugliari, Baffi, Giura, Torelli, e Scura, che con la forza dell’ingegno e la dignità del carattere materno hanno reso onore non solo alle loro origini, ma a tutta l’Italia.

Per secoli gli Arbëreshë hanno vissuto in Italia custodendo la memoria della patria perduta, quel frammento di quelle terre parallele in pena e che gli arbereshe per non smarrirla se la erano portata nel cuore al momento della fuga.

Hanno conservato il codice antico del parlato, la fede, i riti e le tradizioni, tramandandoli di generazione in generazione come un’eredità sacra che non aveva bisogno di essere scritta.

Intanto, dall’altra parte dell’Adriatico, la storia seguiva un altro cammino e, quella che diventava sempre più Albania, sotto il dominio ottomano cambiava volto, si adattava, resisteva a modo suo, ma finiva col dimenticare i figli partiti secoli prima e, quando la memoria tornava li ricordava come traditori.

Quelli che avevano scelto l’esilio per non piegarsi, assieme a quanti avevano rinunciato alla terra per salvare l’anima, rimasero a lungo esclusi dal ricordo collettivo della madrepatria.

Mentre gli arbëreşe vivevano la loro fedeltà in silenzio, gli albanesi della madrepatria godevano delle terre per cui gli avi comuni avevano lottato.

E così passò il tempo e, a secoli di distanza, di incomprensione, di un legame che sopravviveva solo nei canti e nelle preghiere.

Quando nel Novecento l’Albania tornò libera e cominciò a guardare di nuovo al mondo, scoprì di avere lontano, nelle regioni del Sud d’Italia, dei fratelli che per cinquecento anni avevano tenuto accesa la stessa fiamma.

Solo negli ultimi decenni, molti albanesi hanno iniziato a rendersi conto della pena, della solitudine e della fedeltà con cui gli Arbëreşë, avevano conservato l’onore del nome albanese.

Ma questa consapevolezza è arrivata tardi, e spesso offuscata da un nuovo fraintendimento, come quello di chi, dimentico della storia, si presenta oggi in Italia rivestito di miti diversi, a volte perfino lontani dalla radice cristiana e umanistica che un tempo univa i due popoli.

Così, mentre gli Arbëreşë, continuano a vivere nella coerenza della loro memoria, assistono al ritorno di chi un tempo li ha dimenticati, ora in cerca di fratellanza, ma senza sempre riconoscere il dolore causato dall’antico abbandono.

Eppure, la dignità in questa storia non conosce rancore e, la loro forza sta proprio nell’aver saputo resistere senza odiare, ricordare senza accusare, vivere senza rinnegarsi.

Oggi, se esiste una vera fratellanza possibile, essa deve nascere non dalle parole, ma dal riconoscimento sincero della storia, dal rispetto per chi, nei secoli, ha custodito la lingua, la fede e il nome di un popolo intero mentre altri lo avevano dimenticato.

Questi miti che resistono oltre adriatico, non chiedono riparazioni né onori, ma chiedono solo memoria e verità.

Chiedono che si sappia che, mentre l’Albania cambiava volto, loro continuavano a pregare in quella lingua antica, a celebrare lo stesso rito, a insegnare ai figli l’amore per una patria lontana, dove avevano trovato luoghi di termine fratelli e sorelle mai più viste.

E oggi, quando le nuove generazioni si incontrano sulle due sponde dell’Adriatico, la speranza è che il tempo non divida più, ma unisca nel rispetto e nella consapevolezza che ogni figura è stata protagonista nel bene o nel male di questa vicenda diasporica.

Perché l’abbandono delle colline di Balcane non fu una fuga, ma fu un atto di fedeltà e, chi resta fedele, anche nel silenzio, merita di essere ricordato come il vero custode della storia.

Negli ultimi decenni, con l’apertura dei confini e la ritrovata libertà dell’Albania, molti dalla madrepatria hanno cominciato a riscoprire l’esistenza delle comunità in Italia e, sono giunti nei nostri Katundë, spesso mossi da curiosità o da un sentimento di fratellanza tardivo, ma non sempre accompagnato dalla conoscenza reale di ciò che noi siamo.

Alcuni si presentano come eredi o portavoce della nostra storia, richiamando con orgoglio nomi come De Rada, Serembe, Santori o Masci, o travestiti da eroi con il copricapo ovino e, senza comprendere che questi uomini, pur nati da sangue Balcano ai tempi delle famiglie allagate tipiche di Balcani, non furono frutto della civiltà arbëreşë d’Italia ma discendenti lljtirë e, non tutti nutriti di parlato, fede, scuole, lotte e dolore di memoria, come sono stati i veri protagonisti che la storia moderna e la politica de saccenti preferisce mantenere velati.

È difficile per chi è rimasto in patria capire cosa significhi vivere secoli lontani dalla propria terra, mantenendo viva una cultura che altrove si era spenta.

Gli Arbëreshë non hanno avuto accademie o stati a proteggerli, ma hanno conservato la loro identità nei Katundë, nelle chiese, nelle famiglie, nei canti e nella parola tramandata.

La loro forza non è stata quella dell’apparenza, ma della memoria e, oggi, quando qualcuno viene a rivendicare il genio e la cultura di quei nomi illustri, senza averne compreso la radice, dimentica che la vera radice dei Balcani sino alla Grecia non si trova nei monumenti o nei discorsi, ma nel cuore di chi ha custodito per secoli la fiamma della lingua e della dignità.

Gli Arbëreshë non hanno bisogno di farsi grandi con simboli e medaglie, perché la loro grandezza sta nella continuità silenziosa di una fedeltà ininterrotta.

Hanno vissuto per cinquecento anni da italiani di cuore e da arbëreşë in silenziosa memoria, unendo due civiltà in un equilibrio che nessun potere politico o religioso è mai riuscito a spezzare.

E se oggi qualcuno arriva con scarsa conoscenza, arrogandosi il merito di una cultura che non ha costruito, la risposta non deve essere l’astio, ma la verità, perché la cultura arbëreşe è un’eredità viva che non si improvvisa, e chi vuole comprenderla deve prima imparare a rispettarla e magari un poco anche viverla.

Perché la memoria non si eredita, si conquista e, gli Arbëreşë l’hanno conquistata con secoli di fedeltà, di preghiera, di sacrificio e di silenzio operoso, fatto di sudore dolce per alimentare le terre aride o in attesa della pioggia per poi fiorire.

Oggi gli arbëreşe continuano a vivere tra memoria e futuro, tra l’Italia che li ha accolti come figli e i Balcani che un tempo li hanno perduti.

Le loro comunità sono un ponte tra due mondi, una testimonianza di come la cultura possa sopravvivere oltre la geografia e oltre il tempo.

Ma ogni volta che qualcuno dall’altra sponda dell’Adriatico si presenta con leggerezza, senza conoscere la profondità della loro storia, quel gesto, anche se inconsapevole, riapre una ferita antica, che non ha mai smesso di lagrimare sangue.

Gli Arbëreşë, che avevano trovato pace negli abbracci materni dell’Italia unita, sentono tornare a galla il dolore dell’abbandono, la nostalgia di ciò che non poté essere germoglio materno anche per loro.

E così, forse senza volerlo, gli albanesi di oggi risvegliano quel dolore antico che la vita, la fede e la cultura avevano lentamente guarito.

Un dolore che non nasce dall’odio, ma dal ricordo, quel ricordo di un popolo che seppe scegliere la libertà, pagandola con l’esilio, e che trovò in Italia non una patria adottiva, ma una madre vera, capace di accogliere, curare e far rinascere.

Per questo, nel cuore degli Arbëreşe, l’Albania resta una radice, ma l’Italia è il respiro che si fa quando si respira, si fiorisce e si prepara a dare frutti buoni.

E chi oggi viene a parlare di fratellanza senza comprendere la storia, non sa che così facendo risveglia quel dolore antico che gli abbracci materni dell’Italia unita ci avevano fatto dimenticare.

A margine di ciò esiste una diaspora minore che coinvolge un numero ristretto racchiuso in un palmo di mano, che in altra diplomatica racconteremo lagrimoso avanzare e memoria custodita gelosamente nell’animo e la mente di chi sa parlare e ascoltare in arbëreşë.

 

Arch. Atanasio Pizzi direttore A.R.S.A.N.  (Attento Ricercatore Storico Arbëreşë Napoletano)

Napoli 2025-11-04 -Martedì

 

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IL MANIFESTO D’ARBERIA (Dedicato e Diretto per i Minuscoli Tiranni) Kushetë Arbëreşë jashëtë Katunëdjtë

Posted on 02 novembre 2025 by admin

L’Arberia non è di chi vuole controllarla, ma di chi la ama, la vive, la custodisce e la offre con generosità.

 

L’Arberia appartiene a chi la custodisce con rispetto non a chi la usa per sentirsi potente.

Non è terra di servi e di padroni.

 

È inaccettabile che ancora oggi ci siano persone che credono di poter controllare il mondo arbëreshë come fosse casa loro.

 

Si nascondono dietro maschere di cultura, ma il loro unico interesse è il proprio io, il controllo, l’esclusione.

 

Questi personaggi non amano l’Arberia, la usano!

 

Provano a decidere chi ha diritto di parlare, chi può creare e chi deve restare nell’ombra.

Soffocano energie, isolano chi pensa, attaccano chi non si piega.

 

Questi hanno paura del pensiero libero, del talento altrui, della bellezza che non controllano per questo dividono, isolano e d escludono.

 

Non tollerano chi pensa, chi osa parlare senza chiedere il permesso.

 

Provano a spegnere ogni luce che non provenga da loro, tolgono voce a chi ha idee, spazio a chi ha visione, dignità a chi si rifiuta di obbedire.

 

Vogliono un’Arberia silenziosa piegata e addomesticata.

 

L’Arberia è nata da un esodo di libertà, da un popolo fuggito per non chinarsi e oggi, come ieri non accetta padroni né piccoli tiranni travestiti da custodi delle tradizioni, rievocatori dei periodi bui del recente passato.

 

Mai lasciare che gli altri decidano che devi essere.

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NAPOLI (di Atanasio Pizzi architetto Basile) – Ho letto questo edito, che si presenta come un vero e proprio manifesto a sostegno della Regione Storica Diffusa Sostenuta e Custodita dagli Arbëreşë, comunemente identificata come Arberia, che nessuno conosce cosa sia e chi la abbia mai venerata.

A tal proposito ritengo penoso come questo testo, in modo profondo disponga regole, proprio verso gli arbëreşe a partire dai piccoli centri antichi, adombrando pensiero, lingua, consuetudini e, disperdendo con metodo un’eredità culturale unica.

Il manifesto su riportato mira celare o velare, tutte quelle eccellenze che, nel corso della storia, hanno reso questa terra del sud Italia, famosa, irripetibile e straordinariamente autentica.

A tal proposito si ritiene sia opportuno citare le gesta di Baffi, Bugliari, Giura, Milani, Scura e Torelli, che dalla capitale del regno, diedero agio al pensiero arbëreşë, che a partire dai propri Katundë riecheggiarono in arbëreşë pensieri e credenza che rinnovarono l’Europa intera.

Gli inviti del manifesto sono parole che lasciano senza fiato e, scuotono nel profondo l’animo di quanti da Arbëreşë partirono dal luogo natio della regione storica, per crescere, formarsi e maturare in quella saggezza necessaria a tutelare le proprie radici identificative.

Leggere oggi le motivazioni di questi anonimi “Attivisti dell’Arberia”, fanno lagrimare il cuore di chi è partito e vorrebbe parlare, per diffondere e solidarizzare la consuetudine portata qui oltre adriatico.

Risvegliando nel contempo i ricordi, i momenti e le pene vissute in solitario disagio, che lo scrivente non augura a nessuno, questo dolore affrontato per poi vedere la propria passione, il proprio rispetto, il proprio amore per le cose arbëreşë, calpestati da gesti, parole e inviti che trasudano cattiveria e ignoranza, elogiando i soliti non eletti, in restanza perenne.

Eppure, proprio in questa profonda ferita, che ha trovato agio, perché solco profondo, dove si nasconde la forza della memoria e, ogni lacrima versata per la regione storica diffusa meridionale, è un passo verso il germogliare, anche lontano dai luoghi d’origine, sostenuto e allevato dalle lacrime dolci di un Arbëreşë operoso e, finché ci sarà chi ricorda, chi canta, chi parla con verità e rispetto, l’anima del popolo arbëreşe non potrà mai essere cancellata.

Arch. Atanasio Pizzi direttore A.R.S.A.N.  (Attento Ricercatore Storico Arbëreşë Napoletano)

Napoli 2025-11-01 – Sabato

 

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NAPOLI E I SUOI PERCORSI DI CREDENZA Capitolo I° Introduzione

NAPOLI E I SUOI PERCORSI DI CREDENZA Capitolo I° Introduzione

Posted on 30 ottobre 2025 by admin

CalendarioNAPOLI (di Atanasio Pizzi architetto Basile) – Napoli è una città dalla storia millenaria, dove ogni pietra, vicolo, cupola e scalinata raccontano l’intreccio di culture, fedi e dominazioni che l’hanno resa una tra le finestre più luminose del mediterraneo.

Le sue numerose chiese, diffuse in ogni via vicolo, quartiere e borgata fuori la murazione, non sono soltanto luoghi di culto, ma anche custodi di arte, tradizioni e identità collettiva solida e duratura.

Fin dai primi attimi del cristianesimo, Napoli fu un centro spirituale di grande importanza, in cui si incontrarono l’eredità romana e l’influenza bizantina, in tutto l’est e l’ovest che si avvicinavano in preghiera, dando vita a un patrimonio religioso e culturale di straordinaria ricchezza.

Comprendere la nascita e l’evoluzione delle chiese napoletane significa, dunque, leggere la storia stessa della città, dalle sue origini antiche fino all’età moderna.

Per compiere un percorso storico attraverso i popoli e i tempi che hanno caratterizzato Napoli, fin dalla sua nascita, dobbiamo immaginare che la fede e la credenza abbiano accompagnato e guidato ogni fase del suo sviluppo.

Dapprima greca, poi romana e infine bizantina, la città ha assorbito e trasformato ogni influenza culturale e religiosa, creando un intreccio unico di tradizioni e spiritualità.

Da queste radici antiche sono derivati i molteplici percorsi di fede che ancora oggi animano Napoli, rendendola un luogo in cui il sacro e il quotidiano si fondono in un abbraccio materno di accoglienza e di devozione. In questo cammino cercheremo di ripercorrere le vie della credenza che hanno plasmato l’anima profonda della città, facendone un simbolo eterno di spiritualità e umanità.

Il viaggio nella storia spirituale di Napoli non può che iniziare da Caponapoli, il punto più alto e antico della città, dove affondano le radici della Neapolis greca.

Qui, tra i resti delle mura antiche e le fondamenta di templi ormai scomparsi, si percepisce ancora il respiro dei primi culti, delle divinità che proteggevano la città e dei riti che univano la comunità, prima che il cristianesimo vi giungesse, Napoli era già un luogo di fede e, ogni pietra, ogni colonna, era simbolo di una sacralità che abbracciava la vita quotidiana.

Da questo vertice sacro, il percorso scende lungo le strade strette del centro antico, dove il tempo sembra essersi fermato.

Qui, il passaggio dalla religione greca a quella romana, e poi all’influenza bizantina, non è stato un taglio netto, ma una trasformazione lenta, quasi naturale.

Gli antichi templi si sono trasformati in chiese, le statue degli dei hanno lasciato il posto alla croce a alle icone dei santi, e le feste pagane si sono fuse con quelle cristiane, dando vita a una tradizione viva e unica al mondo.

Scendendo verso il mare, si percepisce il senso di accoglienza che ha sempre caratterizzato Napoli e, il porto, infatti, non era soltanto luogo di scambi commerciali, ma anche punto di incontro di popoli, culture e fedi diverse.

Chi sbarcava trovava una città capace di accogliere, di comprendere e di far sentire ogni straniero “a casa” e, la fede napoletana, più che una dottrina, era ed è un sentimento collettivo: un abbraccio che unisce chi arriva e chi resta, come una madre che apre le braccia ai suoi figli.

Questo percorso ideale, che parte dal cuore antico e si apre verso il mare, rappresenta non solo una geografia urbana, ma un viaggio dell’anima.

È la testimonianza di come la credenza, qualunque forma abbia assunto nel corso dei secoli, sia stata il filo invisibile che ha guidato la crescita della città.

Eppure, nonostante la ricchezza di simboli e di storia, questo principio profondo è spesso sfuggito a chi ha studiato Napoli solo dal punto di vista materiale o artistico, senza coglierne la dimensione spirituale e umana.

Napoli non è una città da osservare, essa va ascoltata in tutto è una città da sentire, da vivere e da credere. È un luogo dove la fede non si impone, ma si respira, come così per tutte le altre cose che la compongono e, ancora oggi, il cammino da Caponapoli al mare continua a raccontare, a chi sa ascoltare, la storia di un popolo che nella credenza trova la propria identità e nella spiritualità la propria casa.

Dopo Caponapoli, cuore più antico della città, il cammino della fede prosegue verso il luogo dove sorgeva l’antico tempio di Ercole, simbolo della forza e della protezione divina per i naviganti e per chi giungeva dal mare. Di quel tempio, oggi scomparso, resta il ricordo nelle fondamenta e nella memoria popolare, trasformato nel tempo nella Stefanea, una chiesa dedicata al culto cristiano bizantino, che segnò il passaggio dall’antico al nuovo, dal paganesimo alla fede in Cristo.

Fu un cambiamento senza fratture: il sacro rimase, mutando solo linguaggio e forma.

Da qui si apre il tempo della Napoli ducale, quando la città, ormai consolidata nella sua identità cristiana, iniziò ad espandersi oltre le mura. Le strade si fecero più ampie, gli edifici più alti, e il fervore religioso trovò nuove vie d’espressione. In particolare, la zona che evocava per i marinai il lontano Egitto e, la strada che oggi conosciamo come via mezzo cannone sino alla statua del Nilo, divenne un luogo di straordinaria mescolanza culturale e spirituale.

Qui gli antichi templi furono trasformati in chiese, e accanto a esse sorsero cappelle votive, segni di devozione quotidiana e di ringraziamento per la protezione ricevuta nei viaggi per mare.

Tra i protagonisti di questo fervore religioso vi furono gli stradioti, soldati e mercenari di origine greco-albanese, che portarono con sé le proprie tradizioni, le icone e la loro fede profonda.

Costruirono piccole cappelle per accompagnare le loro missioni, lasciando alla città nuove tracce di spiritualità che ancora oggi sopravvivono nei vicoli più nascosti.

In questo contesto, non si può non ricordare la piccola chiesa di Sant’Atanasio Patriarca, che sorgeva proprio dove oggi si estendono le scalinate e le strade del vecchio convento, divenuto in seguito parte dell’Università Federico II.

Le cui spoglie o emblemi alessandrini sono gelosamente custodite nei luoghi vietati al pubblico nei plessi della credenza odierna, e chissà che non siano proprio quelle resta sacre a fermare il Vesuvio che li attende di velare il pagano di turno che ancor oggi imera

Quel luogo, oggi dedicato al sapere, fu un tempo spazio di preghiera, di raccoglimento e di fede, testimonianza di come a Napoli sacro e profano, cultura e religione, siano sempre stati intrecciati in un unico destino.

Questi sono solo alcuni accenni di un cammino più vasto, che ancora attende di essere riscoperto e compreso.

Molti studiosi e ricercatori, forse distratti dal fascino dei monumenti o delle grandi opere d’arte, non hanno colto la profondità di questa trama spirituale che lega i luoghi della città, guardando i tetti delle case, ma non sempre alle fondamenta, dove invece si custodisce l’anima di Napoli e, quella fede antica e viva che continua, in silenzio, a respirare sotto ogni pietra.

A questo punto del cammino, non si può non citare la Napoli che si espandeva verso ovest, proiettandosi oltre le mura antiche, in una nuova dimensione urbana e spirituale.

In quel percorso di crescita sorgeva uno dei luoghi di culto più antichi e maestosi della città e, il tempio che divenne la chiesa di San Giovanni Maggiore.

Le sue origini affondano in tempi remoti, quando il mare lambiva ancora quelle terre e i marinai si raccoglievano lì per chiedere protezione e ringraziare per i viaggi compiuti.

Si racconta che il primo edificio sacro fosse dedicato al dio Nettuno o a Ercole, e che su quelle stesse fondamenta, nei primi secoli del cristianesimo, sorse la chiesa di San Giovanni, divenuta poi “Maggiore” per distinguerla da altre minori.

La sua imponenza, la solidità delle sue mura e la profondità del suo significato ne fecero uno dei luoghi più stabili e sacri di tutto il continente europeo, un punto d’incontro tra fede e storia che ancora oggi non trova pari.

Fu proprio per la sua importanza che, dopo il Concilio di Trento (1545–1563), la chiesa di San Giovanni Maggiore divenne teatro di una vicenda emblematica: due lastre di marmo inciso, testimonianze di una fede condivisa e di un dialogo tra le religioni d’Oriente e d’Occidente, furono asportate e murate, quasi imprigionate nel silenzio della pietra.

Quelle lastre rappresentavano un messaggio di unità e uguaglianza spirituale, un linguaggio universale che riconosceva la stessa luce in ogni culto, senza prevaricazioni né confini.

Napoli, città di popoli e di mari, aveva così trovato in San Giovanni Maggiore il suo centro simbolico di armonia religiosa, un luogo dove l’anima greca, latina e bizantina convivevano in equilibrio.

Qui il popolo multietnico della città, marinai, mercanti, studiosi, artigiani, stranieri e locali, si ritrovava per celebrare insieme le ricorrenze del calendario solare e lunare, in una fusione perfetta tra tempo umano e tempo divino.

Era una fede vissuta come memoria e come speranza, un continuo “fare credenza” che univa le stagioni, i popoli e i destini.

San Giovanni Maggiore, dunque, non è solo una chiesa: è una sintesi vivente dell’identità napoletana, il luogo in cui l’Oriente e l’Occidente si sono riconosciuti come fratelli, dove la differenza non separa ma arricchisce, e dove il sacro si fa spazio di incontro, non di confine.

E ancora oggi, chi vi entra può sentire il respiro profondo di quella fede antica che, nonostante i secoli e le trasformazioni, continua a custodire l’essenza universale della città: la capacità di accogliere, comprendere e credere senza paura delle diversità.

Due secoli dopo, quando quelle lastre di marmo che univano Oriente e Occidente furono finalmente ritrovate, il tempo era ormai cambiato. La Roma trionfante della Controriforma aveva imposto un nuovo ordine, più rigido e centralizzato, dove la libertà del pensiero e la mescolanza dei culti non trovavano più spazio.
Così, ciò che un tempo era stato simbolo di armonia e fratellanza tra i popoli, fu accolto con garbo e diffidenza, velato e diviso, reinterpretato secondo criteri “progettuali” che ne cancellarono il significato originario.
Il segno dell’unione divenne così un segreto custodito, relegato nella “prigione vescovile”, lontano dagli occhi e dalle coscienze.

In quel gesto, apparentemente prudente, ma in realtà profondamente temeroso, si nasconde il dramma della fede istituzionalizzata: l’incapacità di riconoscere ciò che non si può controllare.

E così, mentre la città continuava a vivere la sua devozione spontanea, popolare, colorata e umana, il potere ecclesiastico cominciava a dimenticare le sue stesse origini.

Oggi, secoli dopo, i papati che salgono sul trono, figure spesso animate dal desiderio sincero di pace e unità, implorano e invocano un segno, un manufatto che possa unire le genti e placare le inquietudini della credenza.
Eppure, senza saperlo, chiedono ciò che già possiedono: la testimonianza silenziosa di quella Napoli che aveva trovato, molto prima di loro, la via della conciliazione tra Est e Ovest, tra sacro e profano, tra uomo e Dio.

Ignari della storia religiosa di questa città, dove ogni pietra cela una fede e ogni fede un ricordo, molti cercano nei simboli moderni ciò che è già scritto nelle fondamenta della città stessa.

Napoli, con le sue cose velate, i suoi segreti religiosi nascosti e le sue reliquie dimenticate, continua a custodire un messaggio universale: che l’unione non si costruisce con i decreti, ma si vive nei gesti, nella memoria e nella pietà quotidiana di un popolo che, anche nel silenzio, non ha mai smesso di credere.

 

Arch. Atanasio Pizzi direttore A.R.S.A.N.  (Attento Ricercatore Storico Arbëreşë Napoletano)

Napoli 2025-10-30 – Giovedì

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Olivetano

SETTE PASSI CON L’ARCHITETTO PARLANDO E ASCOLTANDO STORIA IN ARBËREŞË

Posted on 27 ottobre 2025 by admin

OlivetanoNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Arrivo dell’architetto davanti al presidio di credenza del centro antico, dove due giovani, li ad osservare la chiesa, lo riconoscono e, lo salutano chiedendogli di raccontare le memorie dei suoi tempi di giovinetto, e lui avviandosi lungo le vie di quel centro tramanda il significato di quei luoghi che fanno e danno forma a un Katundë grazie ai suoi trascorsi di crescita e studio locale rafforzati da quelli comparati all’Università di Reggio Calabria e Napoli per giungere ai suoi titoli, con i quali ha divulgato un nuovo modo di ascoltare e parlare in arbëreşë.

Infatti la sua notorietà nasce perché figura tra le generazioni più vive e presenti in quel centro antico prima e, poi in convegni e difese di ufficio vittoriose, riferibili allo sviluppo nel corso della storia dei Katundë.

Inizia così un viaggio attraverso le vie, i vicoli, le chiese, le icone votive, le case, i palazzi storici, gli orti botanici e le piazze “Vallj” che non è un vagare di turisti o dei viandanti della breve e distratto camminare.

In tutto, un commino con a fianco la storia che parla, e si riverbera nei muri, le soglie di casa e i porticati che fanno la storia di ogni Katundë, citando appellativi e, figure che fanno di questo luogo di confronto e movimento solidale, che non è piramide sociale né di Borgo né di Hora.

Quindi di eco medioevale, o greca, non vi è nulla, perché qui la trama di tessitura urbana, come in altri cento e più luoghi equipollenti del meridione Italiano, conserva ancora un patto fatto tra urbanistica e architettura, entrambe rispettose della iunctura familiare, un intreccio storico fatto di continui confronti e dialogo paritetico, coinvolgendo sin anche l’agro e i suoi cunei di produzione e trasformazione.

Un momento di storia che non è tessuto con plateai e stenopoi regolari, perché qui l’arte del tessere è fatta e diretto dal vernacolare materno.

Le stesse che ancora oggi attendono di essere ascoltate, in tutto un racconto fatto di carezze, abbracci e, dei tanti “làlà e Bibillja” accolti, per essere allevati con lo stesso latte materno.

E solo quanti stanno al fianco dell’architetto e, non con altri, potranno cogliere, divulgare con garbo e senso dei parlati e degli ascolti, di una storia antica che ha unito popoli alla ricerca di un luogo migliore, grazie a quella madre sempre pronta ad accogliere nuovi figli.

Un Architetto disegna arche su colonnati solidi e, non fa punti come granelli di sabbia, che nel deserto sono in balia del vento che tira.

Non a caso gli arbëreşë sono noti come: “il modello di integrazione più solido e duraturo di tutto il mediterraneo”.

 

Architetto Atanasio Pizzi, direttore A.R.S.A.N.  (Attento Ricercatore Storico Arbëreşë Napoletano)

Napoli 2025-27-10

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LA STORIA ARBËREŞË SI RIVERBERA NELLE STESSE VIE PIAZZE E CHIESE DI A NAPOLI Parë Paskali e pranà Shanasi

LA STORIA ARBËREŞË SI RIVERBERA NELLE STESSE VIE PIAZZE E CHIESE DI A NAPOLI Parë Paskali e pranà Shanasi

Posted on 26 ottobre 2025 by admin

CatturaNAPOLI (di Atanasio arch. Pizzi) – Dopo un intervallo durato duecento ventisei anni, assistere, con rimandi e risonanze parallele, alle vicende che videro soffrire perché tradito dalle cose arbëreşë l’eccellenza Sofiota Pasquale Baffi non è un’esperienza da poco, specie se vissuta con le stesse tempistiche di luogo.

Comprendo fino in fondo il disagio e, la dignità silenziosa di fronte a una condanna che si affronta senza ricorrere a vie di fuga o sotterfugi di viltà.

Ma l’essere stato testimone, sia pure solo idealmente, del tormento di quel personaggio in pena, in quella stessa piazza, nello stesso pomeriggio e alla stessa ora in cui egli fu lasciato dissanguare, per la lucida perfidia dei soliti villici di turno, non è stato certo un bel vedere, per il buon nome odierno della cultura napoletana.
Se poi si aggiungono le appartenenze culturali e ideali che egli rappresentava e divulgava, lo scenario di quel tragico pomeriggio, protrattosi sino a tarda notte e, culminato in quel lontano 11 novembre del 1799, alle ore sedici e trenta, appare a dir poco impressionante, vista la tempistica dei soliti vili senza dignità e cultura propria.

E chi afferma che la storia si ripete, sicuramente avrà vissuto, come lo scrivente e il Baffi, questa sensazione paradossale, ovvero, assistere, in un’epoca che si proclama di libertà e di uguaglianza e di lealtà, rievocando invece, gli stessi errori, le stesse ingiustizie, le stesse crudeltà, identiche ruberie storico culturali con emblema gli arbëreşë, è moralmente, materialmente provato che la storia si ripete e, qui possiamo aggiungere non con tempi regolati dai battiti dello storico campanile che fiero si eleva in quella piazza, ma con la pena che poco distante visse Partenopee.

Invio questo breve scritto, per rilevare, evidenziare e rendere nota questa pagina copiato e riversata come violenza culturale, nella speranza che altre eccellenze non cadano in questo vortice di perfidia, tradimenti e viltà.

L’auspico mira a non far vivere ad altri, questo vortice storico, generato e riproposto in questo deserto di non-cultura o, meglio, di slealtà culturale, fatto di continuo vagare senza rispetto senza mai dissetarsi e, che uno possa almeno riconoscere quanto prima un mea culpa e valorizzare le orme di sangue altrui sparse in questo luogo di pena.

Un atto che, pur non potendo lenire il dispiacere morale profuso, rappresenterebbe un segno di consapevolezza; perché il dolore fisico di allora resta, e riecheggia ancora oggi, come un’eco lontana nella chiesa dove giace, silenziosa, la cultura senza vita.

Atanasio Pizzi direttore A.R.S.A.N.  (Attento Ricercatore Storico Arbëreşë Napoletano)

Napoli 2025-10-25 – ore 16.30 Giovedì

 

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IN MEZZO ALLA VIA Miazzh à via Nhdë gnë mesë ùdèsë

IN MEZZO ALLA VIA Miazzh à via Nhdë gnë mesë ùdèsë

Posted on 24 ottobre 2025 by admin

dove-mangiare-a-napoli_2474098417NAPOLI (di Atanasio arch. Pizzi) – Azioni come stare nelle botteghe, davanti al camino in casa, gli echi discreti delle strette vie, i colori madicamentali degli orti, sono la vita che scorreva lenta e, come un rivolo andava nel mare e trasporta storia di generi operosi e concordati dal patto stretto da uomo e natura.

Tuttavia quando questi atti o attività cambiano luogo tutto diventa confusione e confonde le ragioni che fanno la vita colma di senso e di doveri, si perde il senso delle cose.

Oggi, purtroppo, accade che nel dialogo quotidiano tra il cittadino e l’istituzione, il risultato sia già scritto e, tutto si risolve al contrario di quell’antico ammonimento delle sagge madri di, non stare in mezzo alla via.
Eppure eccoci lì, nel cuore dell’asfalto, dove le panchine mancano per timore che diventino casa di chi non ha qui una casa.

Così il cittadino, povero di spazio e ricco d’ingegno, apparecchia la via come fosse un salotto, allestisce tavolate dove un tempo passavano i tram, e fa economia egocentrica, nudo di ogni pudore, pur di sentirsi, almeno per un momento, parte di qualcosa che somigli e rappresenta una comunità, ma allo sbando.

E mentre il vecchio Antonio fa germogliare arte nel legno quadrangolare che custodisce tesori floreali, la sua bottega resta deserta, senza un discepolo che raccolga l’eredità del suo genio tramandato dal padre.

Fuori, in mezzo alla via, scorre come un fiume in piena la vita, dove ad essere protagonisti sono i viandanti della breve sosta, che si accontentano di rumoreggiare, di ruttare, ingurgitando il pane steso al forno, un pane dal condimento retribuito e senza lievito madre, come tutto ormai si fa in mezzo la via.

E il mondo con tutte le istituzioni, così, continua a voltarsi dall’altra parte, mentre il tempo, come la farina, si posa piano sulle cose dimenticate, coprendole di una bianca, silenziosa giustizia senza arte e doveri come fa il vento quando soffia e trascina ogni cosa.

Solo se nello scanno amministrativo sarà consentito l’accesso alle giuste figure di genere, potremo forse rivedere la vera vitalità che un tempo scorreva tra le vie, lento e senza affanno.

Quelle stesse vie che non erano soltanto passaggi di pietra o polvere, ma arterie di comunità, in tutto, ponti tra arti e case, tra lavoro e abitare.

Un tempo la via serviva a unire, non a fermare, perché luogo dove la storia camminava, non dove veniva ostacolata continuamente, ripetutamente, con isterica costanza ignorata o essere solo osservata mentre si compie il rituale dell’assaggio.

Oggi, invece, troppe decisioni si prendono sopra le teste o in mezzo alla via, dove il respiro della gente affanna il pensiero e il senso del vivere collettivo.

Restituire spazio e voce alle giuste presenze, alle sagge madri, agli esclusi, a quanti hanno perso il senso di guidare i figli, non è solo un atto di equità, ma il gesto necessario per rimettere in moto la storia vera, quella che non teme di avere calli nelle mani per fare arte senza farsi male.

Solo allora, la via tornerà a essere luogo o paesaggio di incontro e confronto, non di solitari pensieri colmi e, distratti dalla folla che cerca un tavolo e una sedia per osservare chiese e palazzi, ricoperti di grafiti e immaginario senza pudore.

Solo allora, l’amministrare tornerà a significare e servire la comunità intera e, non rimandare tutto a domani perché oggi l’infarinare le mani di continuo non fa i calli delle arti, come fanno uomini come Antonio che non temono di scalfirle con gli attrezzi. per dare vita all’arte napoletana; quella di un tempo non molto lontano che teneva i giovani lontano da in mezzo la via.

Un tempo la via non era luogo di sosta, ma di passaggio e di scambio, una trama viva che univa le arti alle case, il lavoro al respiro della città.

Le nostre madri ci redarguivano quando stavamo troppo in mezzo alla via e, dicevano: state in casa a studiare, o in bottega ad apprendere il mestiere assieme a vostro padre, perché la via apparteneva al movimento, all’ozio e agli estranei.

Per le vecchie generazioni la via era il luogo o meglio lo spazio dove la storia doveva camminare, non dove fermava o stare in mezzo per impedire il passaggio di chi dopo aver lavorato doveva rientrare in casa.

Oggi, invece, accade l’opposto, i pochi mestieri rimasti, spinti dal profitto, si riversano in mezzo alla via, e le antiche botteghe, dove l’arte aveva dimora storica, sono diventate depositi di auto e di cose per il turista della breve sosta, lì dove si forgiavano mani e pensieri, ora si parcheggiano oggetti che inquinano la vita.

Solo restituendo alla via il suo senso originario, quello di collegare, non di vendere il quotidiano, potremo rivedere la vera vitalità collettiva, in tutto, storia che riprende senso e vita, arte che respira, comunità che si riconosce e sa come tornare a casa.

Oggi tutto si è capovolto e, si chiama arte l’impastare e lo stendere pasta per pizze, riempire bicchieri mescolati con alcol, servire consumo, non dentro il locale, ma in mezzo alla via, propri lì dove un tempo le nostre madri ci dicevano di non stare mai, perché esposti al pericolo.

Tutto questo ha trasformato le botteghe dell’arte, un tempo officina del vivere, è ridotta a vetrina e passaggio per il turista della breve sosta.

Non esiste più manualità che costruisce, ma soltanto la spettacolarità del gesto che intrattiene e, chi ancora vorrebbe lavorare con senso e dedizione, viene spesso escluso, relegato a casa, come se il costruire fosse un atto di disturbo per chi vive “in mezzo alla via” senza fare nulla.

Così, la via ha smesso di collegare e, non unisce più le mani al pensiero, né le case all’arte, perché tutto è diventato luogo dove la storia si arresta, e dove la vita collettiva non scorre più, ma si osserva da fuori, come una vetrina che non si può toccare.

È una vergogna vedere i marciapiedi, le strade e le piazze colmi di tavoli e sedie, dove un tempo si passava, si lavorava, si viveva.

Chi oggi vuole raggiungere la bottega, spesso non può farlo; e chi ha finito di faticare, non sa più come tornare a casa.

Non è una questione di tempo, ma di vita, di spazio rubato al cammino, alla dignità, al silenzio del lavoro vero.

La via non appartiene più al passaggio comune, ma all’occupazione del consumo e, là dove prima correvano mani e voci, ora si allineano banchetti in mezzo alla strada, come altari del disinteresse.

Il vivere collettivo si è ridotto a sedersi e attendere, mentre la città, una volta officina del quotidiano, è diventata una sala d’attesa del nulla che non arriva mai.

E tutto questo non finirà, non finirà fino a che chi siede allo scanno non si accorgerà delle cose perdute, del tempo smarrito, del valore dimenticato del fare.

Perché finché il potere non guarderà la strada come luogo di vita e passaggio, e non solo di profitto,
la città resterà immobile, come un corpo senza respiro, e la storia continuerà a camminare altrove.

E tutto si concretizza nel lasciare ai nostri figli meno storia di quanto ne hanno steso al sole, per noi, i nostri saggi e semplici genitori.

Arch. Atanasio Pizzi direttore A.R.S.A.N.  (Attento Ricercatore Storico Arbëreşë Napulitanu)

Napoli 2025-10-19

 

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IL RISORGIMENTO ITALIANO: MAZZINI, GARIBALDI E CRISPI

IL RISORGIMENTO ITALIANO: MAZZINI, GARIBALDI E CRISPI

Posted on 19 ottobre 2025 by admin

Italia Papale

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Per secoli, l’Italia non fu un paese unito, ma un mosaico di stati e principati, ognuno con proprie leggi, economie e tradizioni. In questo quadro complesso, Roma e lo Stato Pontificio ebbero un ruolo centrale, non solo come centro religioso, ma come potere politico capace di influenzare l’equilibrio della penisola.

Il Papato controllava gran parte del centro Italia, dai territori del Lazio fino alle Marche e all’Umbria, formando una vera e propria “fascia di separazione” tra Nord e Sud.

Da un lato, il Nord, con Piemonte, Lombardia, Toscana e Veneto che, sviluppava industrie, ferrovie e collegamenti con l’Europa; dall’altro, il Sud rimaneva prevalentemente agricolo, sotto l’influenza dei Borbone e con un’economia più chiusa e diretta dalla spagna.

In questo senso, Roma può essere vista come l’ago della bilancia della penisola: la sua presenza centrale mantenne le due aree divise, impedendo fino all’Ottocento una reale unificazione politica e culturale.

Non fu però “inventrice” del Nord moderno o del Sud arretrato, perché, quelle differenze nacquero da processi economici, politici e sociali più ampi.

Quando, nel 1870, l’esercito italiano entrò a Roma con la Breccia di Porta Pia, questa barriera scomparve, e Roma assunse il ruolo di capitale del Regno d’Italia.

Con la sua centralità simbolica e geografica, il Papato cessava di essere un ostacolo e, l’Italia poteva finalmente aspirare a una unità territoriale e nazionale, pur lasciando aperta la sfida delle differenze tra Nord e Sud.

Il Risorgimento fu il lungo e complesso processo storico, politico e culturale che portò alla nascita dello Stato unitario italiano nel 1861.

Iniziato alla fine del Settecento e sviluppatosi lungo tutto l’Ottocento, ebbe come protagonisti patrioti, intellettuali, politici e militari che, con mezzi diversi, condivisero l’obiettivo di liberare la penisola dal dominio straniero e unire i vari stati italiani in una sola nazione.

Ancora all’inizio dell’Ottocento, l’Italia era divisa in numerosi stati, quali il Regno di Sardegna a nord-ovest, il Lombardo-Veneto controllato dagli austriaci, il Granducato di Toscana, lo Stato Pontificio e il Regno delle Due Sicilie al sud radicato nella spagna angioina.

Le idee di libertà e di indipendenza si diffusero grazie all’esperienza cispadana e a seguire di quella napoletana cui seguirono la Napoleonica e i moti liberali del 1820-21 e del 1830-31.

Questi moti, sebbene repressi, contribuirono a far nascere un sentimento nazionale sempre più forte e, Giuseppe Mazzini assunse il ruolo dell’ideologo della nazione

Uno dei protagonisti della prima fase del Risorgimento come ben noto fu proprio il Mazzini (1805–1872). Nato a Genova, fondò nel 1831 la Giovine Italia, un’organizzazione segreta che mirava a creare una repubblica democratica unita e indipendente.

Mazzini credeva nella missione provvidenziale dei popoli e nel ruolo centrale del popolo nella costruzione dello Stato.

Per diffondere le sue idee, agì attraverso la stampa, la propaganda e il sostegno ai moti insurrezionali e, nonostante molte sue rivolte fallirono, il suo pensiero influenzò profondamente le generazioni successive e alimentò il mito dell’Italia libera.

Accanto a Mazzini, emerse anche la figura di Giuseppe Garibaldi (1807–1882), in tutto l’anima rivoluzionaria e militare del Risorgimento.

Il quale dopo aver combattuto per la libertà anche in America Latina, divenne uno dei simboli della lotta nazionale e, il suo gesto più emblematico fu la Spedizione dei Mille (1860).

Seguito da un esercito di volontari, sbarcò in Sicilia, avendo ragione dell’esercito borbonico per avanzare su tutto il Regno delle Due Sicilie e, con grande spirito di sacrificio, consegnò i territori conquistati a Vittorio Emanuele II, favorendo così la proclamazione del Regno d’Italia (17 marzo 1861).

Va in oltre precisato che mentre Mazzini e Garibaldi incarnavano la spinta rivoluzionaria e popolare, Camillo Benso conte di Cavour, primo ministro del Regno di Sardegna, perseguì l’unità con mezzi diplomatici e militari tradizionali.

Alleandosi con la Francia di Napoleone III, riuscì a sconfiggere l’Austria nella Seconda guerra d’indipendenza (1859), ponendo le basi per l’unificazione.

L’incontro di Teano tra Garibaldi e Vittorio Emanuele II simboleggiò l’unione tra le due anime del Risorgimento e, dopo la proclamazione del Regno d’Italia, la costruzione di un vero Stato unitario fu lunga e complessa.

L’annessione di Roma (1870) e Venezia (1866) completò formalmente l’unificazione, ma rimanevano grandi sfide, come le differenze economiche tra Nord e Sud, analfabetismo diffuso e una limitata partecipazione politica, poiché solo una piccola parte della popolazione aveva diritto di voto.

In questa fase emerse la figura di Francesco Crispi (1818–1901), un tempo mazziniano e garibaldino, poi diventato uomo di governo.

Da presidente del Consiglio tra il 1887 e il 1891 e poi tra il 1893 e il 1896, Crispi cercò di rafforzare lo Stato italiano e di farlo riconoscere come potenza europea.

Fu promotore di riforme amministrative e di una politica nazionalista e coloniale, espandendo l’influenza italiana in Africa orientale.

Tuttavia, la sconfitta di Adua (1896) in Etiopia segnò un duro colpo al suo prestigio e lo portò alle dimissioni.

Il Risorgimento fu dunque un processo complesso e plurale, accanto agli ideali repubblicani di Mazzini, alla passione rivoluzionaria di Garibaldi e alla diplomazia di Cavour, la politica di Crispi rappresenta la fase successiva, in cui lo Stato unitario cercò di consolidarsi e affermarsi sulla scena internazionale. L’unificazione d’Italia non fu solo il risultato di battaglie e alleanze, ma anche di idee, speranze e sacrifici condivisi da molti italiani.

Infatti se Mazzini e Garibaldi furono i grandi interpreti di un sogno politico e ideale, la vera sorpresa del Risorgimento fu il popolo italiano che per molto tempo, si era pensato che la popolazione, in gran parte contadina e analfabeta, fosse lontana dalle idee di libertà e unità nazionale.

Invece, in molti momenti decisivi, furono proprio uomini e donne comuni a sostenere e rendere possibile quel sogno.

La Spedizione dei Mille ne è l’esempio più celebre e se Garibaldi partì con poco più di mille volontari, in ogni tappa del suo viaggio nel Sud si aggiunsero centinaia di persone, contadini, artigiani, giovani idealisti che vedevano in quella impresa una speranza di riscatto.

Non si trattò solo di grandi battaglie, ma anche di piccoli gesti e, il pane offerto ai volontari, i rifugi messi a disposizione, il sostegno morale e materiale ne sono la prova tangibile.

Lo stesso vale per i moti popolari che accompagnarono l’unificazione, in molte città, da Milano a Palermo, insurrezioni locali prepararono il terreno per l’arrivo delle forze liberatrici.

Anche laddove mancava una piena consapevolezza politica, il desiderio di liberarsi da domini stranieri e da governi oppressivi si trasformò in energia collettiva.

Mazzini aveva sognato un popolo protagonista, Garibaldi aveva creduto nella sua forza e, la storia diede loro ragione.

Pur in mezzo a contraddizioni e difficoltà, l’Italia non fu unita soltanto da trattati e guerre, ma anche da una volontà diffusa di cambiamento, da un sentimento comune di identità e speranza.

L’unificazione non significò che il popolo divenne subito protagonista della vita politica, infatti i diritti civili e politici restarono a lungo limitati, ma la sua presenza silenziosa e concreta fu decisiva, tuttavia senza quel consenso, senza quell’energia collettiva, i sogni dei patrioti sarebbero rimasti utopie.

Atanasi Arch. Pizzi                                                                                                              Napoli 2025-10-19

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