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IN MEZZO ALLA VIA Miazzh à via Nhdë gnë mesë ùdèsë

IN MEZZO ALLA VIA Miazzh à via Nhdë gnë mesë ùdèsë

Posted on 24 ottobre 2025 by admin

dove-mangiare-a-napoli_2474098417NAPOLI (di Atanasio arch. Pizzi) – Azioni come stare nelle botteghe, davanti al camino in casa, gli echi discreti delle strette vie, i colori madicamentali degli orti, sono la vita che scorreva lenta e, come un rivolo andava nel mare e trasporta storia di generi operosi e concordati dal patto stretto da uomo e natura.

Tuttavia quando questi atti o attività cambiano luogo tutto diventa confusione e confonde le ragioni che fanno la vita colma di senso e di doveri, si perde il senso delle cose.

Oggi, purtroppo, accade che nel dialogo quotidiano tra il cittadino e l’istituzione, il risultato sia già scritto e, tutto si risolve al contrario di quell’antico ammonimento delle sagge madri di, non stare in mezzo alla via.
Eppure eccoci lì, nel cuore dell’asfalto, dove le panchine mancano per timore che diventino casa di chi non ha qui una casa.

Così il cittadino, povero di spazio e ricco d’ingegno, apparecchia la via come fosse un salotto, allestisce tavolate dove un tempo passavano i tram, e fa economia egocentrica, nudo di ogni pudore, pur di sentirsi, almeno per un momento, parte di qualcosa che somigli e rappresenta una comunità, ma allo sbando.

E mentre il vecchio Antonio fa germogliare arte nel legno quadrangolare che custodisce tesori floreali, la sua bottega resta deserta, senza un discepolo che raccolga l’eredità del suo genio tramandato dal padre.

Fuori, in mezzo alla via, scorre come un fiume in piena la vita, dove ad essere protagonisti sono i viandanti della breve sosta, che si accontentano di rumoreggiare, di ruttare, ingurgitando il pane steso al forno, un pane dal condimento retribuito e senza lievito madre, come tutto ormai si fa in mezzo la via.

E il mondo con tutte le istituzioni, così, continua a voltarsi dall’altra parte, mentre il tempo, come la farina, si posa piano sulle cose dimenticate, coprendole di una bianca, silenziosa giustizia senza arte e doveri come fa il vento quando soffia e trascina ogni cosa.

Solo se nello scanno amministrativo sarà consentito l’accesso alle giuste figure di genere, potremo forse rivedere la vera vitalità che un tempo scorreva tra le vie, lento e senza affanno.

Quelle stesse vie che non erano soltanto passaggi di pietra o polvere, ma arterie di comunità, in tutto, ponti tra arti e case, tra lavoro e abitare.

Un tempo la via serviva a unire, non a fermare, perché luogo dove la storia camminava, non dove veniva ostacolata continuamente, ripetutamente, con isterica costanza ignorata o essere solo osservata mentre si compie il rituale dell’assaggio.

Oggi, invece, troppe decisioni si prendono sopra le teste o in mezzo alla via, dove il respiro della gente affanna il pensiero e il senso del vivere collettivo.

Restituire spazio e voce alle giuste presenze, alle sagge madri, agli esclusi, a quanti hanno perso il senso di guidare i figli, non è solo un atto di equità, ma il gesto necessario per rimettere in moto la storia vera, quella che non teme di avere calli nelle mani per fare arte senza farsi male.

Solo allora, la via tornerà a essere luogo o paesaggio di incontro e confronto, non di solitari pensieri colmi e, distratti dalla folla che cerca un tavolo e una sedia per osservare chiese e palazzi, ricoperti di grafiti e immaginario senza pudore.

Solo allora, l’amministrare tornerà a significare e servire la comunità intera e, non rimandare tutto a domani perché oggi l’infarinare le mani di continuo non fa i calli delle arti, come fanno uomini come Antonio che non temono di scalfirle con gli attrezzi. per dare vita all’arte napoletana; quella di un tempo non molto lontano che teneva i giovani lontano da in mezzo la via.

Un tempo la via non era luogo di sosta, ma di passaggio e di scambio, una trama viva che univa le arti alle case, il lavoro al respiro della città.

Le nostre madri ci redarguivano quando stavamo troppo in mezzo alla via e, dicevano: state in casa a studiare, o in bottega ad apprendere il mestiere assieme a vostro padre, perché la via apparteneva al movimento, all’ozio e agli estranei.

Per le vecchie generazioni la via era il luogo o meglio lo spazio dove la storia doveva camminare, non dove fermava o stare in mezzo per impedire il passaggio di chi dopo aver lavorato doveva rientrare in casa.

Oggi, invece, accade l’opposto, i pochi mestieri rimasti, spinti dal profitto, si riversano in mezzo alla via, e le antiche botteghe, dove l’arte aveva dimora storica, sono diventate depositi di auto e di cose per il turista della breve sosta, lì dove si forgiavano mani e pensieri, ora si parcheggiano oggetti che inquinano la vita.

Solo restituendo alla via il suo senso originario, quello di collegare, non di vendere il quotidiano, potremo rivedere la vera vitalità collettiva, in tutto, storia che riprende senso e vita, arte che respira, comunità che si riconosce e sa come tornare a casa.

Oggi tutto si è capovolto e, si chiama arte l’impastare e lo stendere pasta per pizze, riempire bicchieri mescolati con alcol, servire consumo, non dentro il locale, ma in mezzo alla via, propri lì dove un tempo le nostre madri ci dicevano di non stare mai, perché esposti al pericolo.

Tutto questo ha trasformato le botteghe dell’arte, un tempo officina del vivere, è ridotta a vetrina e passaggio per il turista della breve sosta.

Non esiste più manualità che costruisce, ma soltanto la spettacolarità del gesto che intrattiene e, chi ancora vorrebbe lavorare con senso e dedizione, viene spesso escluso, relegato a casa, come se il costruire fosse un atto di disturbo per chi vive “in mezzo alla via” senza fare nulla.

Così, la via ha smesso di collegare e, non unisce più le mani al pensiero, né le case all’arte, perché tutto è diventato luogo dove la storia si arresta, e dove la vita collettiva non scorre più, ma si osserva da fuori, come una vetrina che non si può toccare.

È una vergogna vedere i marciapiedi, le strade e le piazze colmi di tavoli e sedie, dove un tempo si passava, si lavorava, si viveva.

Chi oggi vuole raggiungere la bottega, spesso non può farlo; e chi ha finito di faticare, non sa più come tornare a casa.

Non è una questione di tempo, ma di vita, di spazio rubato al cammino, alla dignità, al silenzio del lavoro vero.

La via non appartiene più al passaggio comune, ma all’occupazione del consumo e, là dove prima correvano mani e voci, ora si allineano banchetti in mezzo alla strada, come altari del disinteresse.

Il vivere collettivo si è ridotto a sedersi e attendere, mentre la città, una volta officina del quotidiano, è diventata una sala d’attesa del nulla che non arriva mai.

E tutto questo non finirà, non finirà fino a che chi siede allo scanno non si accorgerà delle cose perdute, del tempo smarrito, del valore dimenticato del fare.

Perché finché il potere non guarderà la strada come luogo di vita e passaggio, e non solo di profitto,
la città resterà immobile, come un corpo senza respiro, e la storia continuerà a camminare altrove.

E tutto si concretizza nel lasciare ai nostri figli meno storia di quanto ne hanno steso al sole, per noi, i nostri saggi e semplici genitori.

Arch. Atanasio Pizzi direttore A.R.S.A.N.  (Attento Ricercatore Storico Arbëreşë Napulitanu)

Napoli 2025-10-19

 

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IL RISORGIMENTO ITALIANO: MAZZINI, GARIBALDI E CRISPI

IL RISORGIMENTO ITALIANO: MAZZINI, GARIBALDI E CRISPI

Posted on 19 ottobre 2025 by admin

Italia Papale

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Per secoli, l’Italia non fu un paese unito, ma un mosaico di stati e principati, ognuno con proprie leggi, economie e tradizioni. In questo quadro complesso, Roma e lo Stato Pontificio ebbero un ruolo centrale, non solo come centro religioso, ma come potere politico capace di influenzare l’equilibrio della penisola.

Il Papato controllava gran parte del centro Italia, dai territori del Lazio fino alle Marche e all’Umbria, formando una vera e propria “fascia di separazione” tra Nord e Sud.

Da un lato, il Nord, con Piemonte, Lombardia, Toscana e Veneto che, sviluppava industrie, ferrovie e collegamenti con l’Europa; dall’altro, il Sud rimaneva prevalentemente agricolo, sotto l’influenza dei Borbone e con un’economia più chiusa e diretta dalla spagna.

In questo senso, Roma può essere vista come l’ago della bilancia della penisola: la sua presenza centrale mantenne le due aree divise, impedendo fino all’Ottocento una reale unificazione politica e culturale.

Non fu però “inventrice” del Nord moderno o del Sud arretrato, perché, quelle differenze nacquero da processi economici, politici e sociali più ampi.

Quando, nel 1870, l’esercito italiano entrò a Roma con la Breccia di Porta Pia, questa barriera scomparve, e Roma assunse il ruolo di capitale del Regno d’Italia.

Con la sua centralità simbolica e geografica, il Papato cessava di essere un ostacolo e, l’Italia poteva finalmente aspirare a una unità territoriale e nazionale, pur lasciando aperta la sfida delle differenze tra Nord e Sud.

Il Risorgimento fu il lungo e complesso processo storico, politico e culturale che portò alla nascita dello Stato unitario italiano nel 1861.

Iniziato alla fine del Settecento e sviluppatosi lungo tutto l’Ottocento, ebbe come protagonisti patrioti, intellettuali, politici e militari che, con mezzi diversi, condivisero l’obiettivo di liberare la penisola dal dominio straniero e unire i vari stati italiani in una sola nazione.

Ancora all’inizio dell’Ottocento, l’Italia era divisa in numerosi stati, quali il Regno di Sardegna a nord-ovest, il Lombardo-Veneto controllato dagli austriaci, il Granducato di Toscana, lo Stato Pontificio e il Regno delle Due Sicilie al sud radicato nella spagna angioina.

Le idee di libertà e di indipendenza si diffusero grazie all’esperienza cispadana e a seguire di quella napoletana cui seguirono la Napoleonica e i moti liberali del 1820-21 e del 1830-31.

Questi moti, sebbene repressi, contribuirono a far nascere un sentimento nazionale sempre più forte e, Giuseppe Mazzini assunse il ruolo dell’ideologo della nazione

Uno dei protagonisti della prima fase del Risorgimento come ben noto fu proprio il Mazzini (1805–1872). Nato a Genova, fondò nel 1831 la Giovine Italia, un’organizzazione segreta che mirava a creare una repubblica democratica unita e indipendente.

Mazzini credeva nella missione provvidenziale dei popoli e nel ruolo centrale del popolo nella costruzione dello Stato.

Per diffondere le sue idee, agì attraverso la stampa, la propaganda e il sostegno ai moti insurrezionali e, nonostante molte sue rivolte fallirono, il suo pensiero influenzò profondamente le generazioni successive e alimentò il mito dell’Italia libera.

Accanto a Mazzini, emerse anche la figura di Giuseppe Garibaldi (1807–1882), in tutto l’anima rivoluzionaria e militare del Risorgimento.

Il quale dopo aver combattuto per la libertà anche in America Latina, divenne uno dei simboli della lotta nazionale e, il suo gesto più emblematico fu la Spedizione dei Mille (1860).

Seguito da un esercito di volontari, sbarcò in Sicilia, avendo ragione dell’esercito borbonico per avanzare su tutto il Regno delle Due Sicilie e, con grande spirito di sacrificio, consegnò i territori conquistati a Vittorio Emanuele II, favorendo così la proclamazione del Regno d’Italia (17 marzo 1861).

Va in oltre precisato che mentre Mazzini e Garibaldi incarnavano la spinta rivoluzionaria e popolare, Camillo Benso conte di Cavour, primo ministro del Regno di Sardegna, perseguì l’unità con mezzi diplomatici e militari tradizionali.

Alleandosi con la Francia di Napoleone III, riuscì a sconfiggere l’Austria nella Seconda guerra d’indipendenza (1859), ponendo le basi per l’unificazione.

L’incontro di Teano tra Garibaldi e Vittorio Emanuele II simboleggiò l’unione tra le due anime del Risorgimento e, dopo la proclamazione del Regno d’Italia, la costruzione di un vero Stato unitario fu lunga e complessa.

L’annessione di Roma (1870) e Venezia (1866) completò formalmente l’unificazione, ma rimanevano grandi sfide, come le differenze economiche tra Nord e Sud, analfabetismo diffuso e una limitata partecipazione politica, poiché solo una piccola parte della popolazione aveva diritto di voto.

In questa fase emerse la figura di Francesco Crispi (1818–1901), un tempo mazziniano e garibaldino, poi diventato uomo di governo.

Da presidente del Consiglio tra il 1887 e il 1891 e poi tra il 1893 e il 1896, Crispi cercò di rafforzare lo Stato italiano e di farlo riconoscere come potenza europea.

Fu promotore di riforme amministrative e di una politica nazionalista e coloniale, espandendo l’influenza italiana in Africa orientale.

Tuttavia, la sconfitta di Adua (1896) in Etiopia segnò un duro colpo al suo prestigio e lo portò alle dimissioni.

Il Risorgimento fu dunque un processo complesso e plurale, accanto agli ideali repubblicani di Mazzini, alla passione rivoluzionaria di Garibaldi e alla diplomazia di Cavour, la politica di Crispi rappresenta la fase successiva, in cui lo Stato unitario cercò di consolidarsi e affermarsi sulla scena internazionale. L’unificazione d’Italia non fu solo il risultato di battaglie e alleanze, ma anche di idee, speranze e sacrifici condivisi da molti italiani.

Infatti se Mazzini e Garibaldi furono i grandi interpreti di un sogno politico e ideale, la vera sorpresa del Risorgimento fu il popolo italiano che per molto tempo, si era pensato che la popolazione, in gran parte contadina e analfabeta, fosse lontana dalle idee di libertà e unità nazionale.

Invece, in molti momenti decisivi, furono proprio uomini e donne comuni a sostenere e rendere possibile quel sogno.

La Spedizione dei Mille ne è l’esempio più celebre e se Garibaldi partì con poco più di mille volontari, in ogni tappa del suo viaggio nel Sud si aggiunsero centinaia di persone, contadini, artigiani, giovani idealisti che vedevano in quella impresa una speranza di riscatto.

Non si trattò solo di grandi battaglie, ma anche di piccoli gesti e, il pane offerto ai volontari, i rifugi messi a disposizione, il sostegno morale e materiale ne sono la prova tangibile.

Lo stesso vale per i moti popolari che accompagnarono l’unificazione, in molte città, da Milano a Palermo, insurrezioni locali prepararono il terreno per l’arrivo delle forze liberatrici.

Anche laddove mancava una piena consapevolezza politica, il desiderio di liberarsi da domini stranieri e da governi oppressivi si trasformò in energia collettiva.

Mazzini aveva sognato un popolo protagonista, Garibaldi aveva creduto nella sua forza e, la storia diede loro ragione.

Pur in mezzo a contraddizioni e difficoltà, l’Italia non fu unita soltanto da trattati e guerre, ma anche da una volontà diffusa di cambiamento, da un sentimento comune di identità e speranza.

L’unificazione non significò che il popolo divenne subito protagonista della vita politica, infatti i diritti civili e politici restarono a lungo limitati, ma la sua presenza silenziosa e concreta fu decisiva, tuttavia senza quel consenso, senza quell’energia collettiva, i sogni dei patrioti sarebbero rimasti utopie.

Atanasi Arch. Pizzi                                                                                                              Napoli 2025-10-19

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DOPO LA NAPOLI GRECO ROMANA VENNERO LE VIE DI SAPIENZA, ARTI E MESTIERI Napoli: la madre che mi allevò quando rimasi solo (mëma  cë më da kiumëstë curë kindrova i vetimë)

DOPO LA NAPOLI GRECO ROMANA VENNERO LE VIE DI SAPIENZA, ARTI E MESTIERI Napoli: la madre che mi allevò quando rimasi solo (mëma cë më da kiumëstë curë kindrova i vetimë)

Posted on 19 ottobre 2025 by admin

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NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Dopo la grande stagione della Napoli greco-romana, con i suoi decumani, le botteghe e la sapienza pratica tramandata da generazioni, la città conobbe un periodo di profonda trasformazione culturale e sociale.

Le antiche arti, un tempo trasmesse da maestro ad allievo in spazi ristretti e familiari, iniziarono a evolversi in un sistema più articolato e organizzato.

La sapienza artigiana, che aveva reso celebre Neapolis per la qualità delle sue manifatture, non scomparve: cambiò forma. Lungo i secoli, l’esperienza pratica cominciò a intrecciarsi con l’istruzione regolata, l’insegnamento sistematico e la nascita di vere e proprie istituzioni formative.

Questo passaggio segnò l’ingresso di Napoli in una fase moderna, in cui l’arte e il mestiere non erano più solo patrimonio familiare o corporativo, ma diventavano parte integrante della vita pubblica e dello sviluppo economico.

Con l’età borbonica e, soprattutto, con l’avvento delle riforme ottocentesche, la città divenne un laboratorio di innovazione: l’artigianato si incontrò con la scuola, la bottega con l’aula.

La fondazione di scuole di arti e mestieri rispondeva alla necessità di formare cittadini capaci, specializzati, pronti a inserirsi in un mondo del lavoro sempre più strutturato.

Nacquero così officine-laboratorio dove i giovani imparavano non solo a ripetere gesti antichi, ma anche a conoscere nuove tecniche, strumenti moderni e principi teorici.

La manualità, lungi dall’essere relegata a una dimensione minore, veniva esaltata come elemento essenziale per la crescita collettiva della città.

Queste scuole, tra cui spicca l’Università di Federico II di Svevia del 1224 e quella istituita nel 1810 per volontà di Gioacchino Murat, che rappresentarono un punto di svolta.

Infatti  l’artigiano non era più soltanto un erede di un mestiere, ma diventava un allievo, un professionista in formazione, un costruttore del futuro urbano ed economico.

L’arte, intesa come capacità creativa e progettuale, e il mestiere, inteso come abilità pratica e produttiva, si fusero in un unico percorso di crescita e di emancipazione sociale.

Napoli, che già aveva conosciuto la grandezza delle civiltà antiche, seppe così reinventarsi, facendo della sapienza artigiana un pilastro della sua identità moderna.

Questa nuova stagione aprì la strada a un tessuto produttivo dinamico, a una cultura condivisa del saper fare e a un dialogo continuo tra tradizione e innovazione, elementi che ancora oggi costituiscono uno dei tratti distintivi della città partenopea.

Valga di esempio, per comprendere la profondità di questa trasformazione, la geografia stessa di Napoli, dove le strade e le piazze raccontano la storia viva delle arti e dei mestieri.

Piazza della Borsa, oggi centro nevralgico della vita economica moderna, fu un tempo il cuore pulsante degli scambi commerciali del porto antico.

In quell’area, tra voci, profumi, merci e dialetti, si incontravano mercanti, armatori, artigiani e marinai, in un crocevia di culture e competenze che costituiva la base concreta della ricchezza cittadina.

Allo stesso modo, la vicina Piazza del Nilo e via Mezzocannone testimoniano la presenza vivace delle comunità alessandrine, portatrici di saperi e tecniche provenienti dal Mediterraneo orientale, che contribuirono a innervare la città di conoscenze e pratiche raffinate.

Il quartiere degli orefici, con le sue botteghe fitte e rumorose, rappresenta un altro tassello fondamentale di questo mosaico urbano: qui la maestria artigiana non era solo mestiere, ma arte preziosa tramandata con rigore e orgoglio.

Ogni bottega era un piccolo laboratorio in cui l’oro si trasformava in simbolo di identità, ricchezza e potere. Non meno importanti erano le vie dedicate all’arte della lana e della seta, dove l’abilità manifatturiera rese Napoli un punto di riferimento per la produzione tessile di alta qualità.

Queste strade non erano semplici luoghi di lavoro, erano centri di sapere pratico, scuole a cielo aperto dove l’esperienza e la tecnica si tramandavano di mano in mano.

E come tralasciare la notissima Salita della Sapienza, dove nacquero non solo scuole e luoghi di apprendimento, ma veri e propri centri del sapere moderno.

Intorno a questa salita presero forma musei, biblioteche e laboratori che segnarono il passaggio da una conoscenza puramente empirica a una conoscenza scientifica e metodica.

In questo contesto si colloca la celebre Farmacia degli Incurabili, luogo emblematico in cui la medicina si distaccò dalle pratiche popolari e divenne disciplina, ricerca, sperimentazione.

Le erbe, i preparati, gli strumenti e i trattati conservati in quegli ambienti testimoniano ancora oggi un sapere che fu tanto artigianale quanto scientifico.

Tutti questi luoghi, ancora riconoscibili nella trama urbana contemporanea, sono la prova vivente di come Napoli seppe trasformare la sua vocazione mercantile e artigiana in una vera e propria cultura della conoscenza.

Le arti e i mestieri non erano semplici attività produttive, ma erano identità, memoria, sapere condiviso e, da piazza della Borsa alla Salita della Sapienza, ogni angolo della città racconta una storia di mani sapienti e menti curiose, di tradizione e innovazione intrecciate.

È qui che nacque la Napoli moderna, capace di coniugare commercio, arte, scienza e formazione in un’unica, potente identità culturale.

Attorno a questi poli fondamentali si sviluppò una fitta rete di vie e vicoli che presero nome e identità dalla specifica arte o mestiere che in essi si praticava.

La città crebbe seguendo una logica organica, quasi spontanea, dove ogni strada diventava un laboratorio a cielo aperto e ogni quartiere un centro produttivo specializzato.

Così nacquero le strade degli orefici, dei lanaiuoli, dei setaioli, dei conciatori, dei fabbri e di molte altre maestranze che con la loro operosità diedero forma a un tessuto urbano vivo, dinamico e riconoscibile.

La manualità, in questi spazi, non era semplice attività lavorativa, ma linguaggio e identità collettiva e, i suoni dei martelli, il frusciare dei telai, l’odore delle botteghe e dei forni, le voci dei maestri e degli apprendisti costituivano una sinfonia quotidiana che raccontava la vitalità di una città abituata a produrre, commerciare e innovare.

Napoli, grazie a questa struttura articolata e funzionale, si impose come un centro di eccellenza nel Mediterraneo,

I suoi manufatti, le stoffe pregiate, i gioielli raffinati, le lavorazioni in cuoio e metallo, i prodotti farmaceutici e le conoscenze tecniche circolavano nei porti e nei mercati, contribuendo a costruire la sua fama internazionale.

Queste vie, con i loro nomi evocativi e la loro memoria ancora impressa nella toponomastica, rappresentavano vere e proprie “corporazioni a cielo aperto”, dove il sapere non si custodiva gelosamente ma si trasmetteva, di generazione in generazione, attraverso l’esperienza diretta e la partecipazione quotidiana alla vita di bottega.

La città diventava così un grande organismo produttivo, in cui l’arte si intrecciava con la vita sociale ed economica.

Napoli, per la sua naturale inclinazione al lavoro manuale, per la sapienza dei suoi maestri e per la capacità di coniugare tradizione e apertura ai commerci, divenne un nome illustre, celebrato e rispettato in tutto il Mediterraneo.

Ogni vicolo, ogni crocicchio, ogni bottega raccontava e, racconta ancora oggi, la storia di una città che ha fatto del lavoro e della creatività la propria forza, trasformando l’abilità manuale in cultura condivisa e in prestigio internazionale.

A noi, che siamo cresciuti tra le strade di questa città e, nelle botteghe dell’architettura, dove abbiamo respirato la sua storia e studiato la sua eredità, non resta che affidare la nostra speranza alla saggezza di chi la governa.

Napoli non è soltanto ciò che si mostra, ma anche ciò che sussurra nei suoi vicoli, ciò che pulsa dietro le porte socchiuse delle botteghe, ciò che vibra nei gesti antichi degli artigiani che ogni giorno tengono viva una tradizione millenaria.

Ci auguriamo che gli amministratori, soprattutto quelli che scelgono di conoscerla a piedi, possano ascoltare questi battiti sommessi: l’eco delle martellate, il rumore dei telai, il mormorio delle mani che lavorano e che parlano una lingua che non si insegna nei libri ma si apprende vivendo la città.

Perché solo camminando tra le sue strade si può comprendere davvero che esiste una Napoli laboriosa, silenziosa e dignitosa, che non ama apparire ma che rappresenta la spina dorsale autentica del tessuto urbano e sociale.

È questa la Napoli che resiste e che costruisce, che trasmette saperi e custodisce memoria, che innova partendo dalla tradizione.

È a questa città nascosta, fatta di botteghe, laboratori e mani esperte, che va riconosciuto un valore strategico e culturale, non solo affettivo.

Chi amministra Napoli deve saperla ascoltare, deve saper riconoscere nei suoi suoni e nei suoi silenzi la voce profonda di un patrimonio che non può essere lasciato indietro.

Solo così la città potrà continuare a essere viva, non come un museo del passato, ma come un organismo pulsante che ancora oggi produce, crea e innova.

La Napoli laboriosa è lì, dietro ogni porta di legno lucido e ogni insegna consumata dal tempo: chiede solo di essere vista, protetta e valorizzata.

Io conosco Antonio, uomo di un’altra epoca eppure ancora pienamente presente, erede di una famiglia antica di incisori del legno.

Nella sua bottega, tra profumo di essenze pregiate e attrezzi consumati dalle mani del padre, scolpisce ancora oggi con la stessa cura di un tempo, a più di novant’anni.

Le sue dita, lente ma sicure, scorrono sul legno come su una pagina viva e, ogni colpo di scalpello racconta una storia, ogni curva intagliata porta con sé la memoria di generazioni.

Attorno a lui, Napoli è cambiata e, il silenzio di un tempo si è trasformato in un rumore costante di aerei, auto, sirene e passi frettolosi.

Eppure, dentro quella piccola bottega, il tempo sembra rallentare, piegarsi alla pazienza del lavoro ben fatto.

Antonio incide non soltanto il legno, ma la resistenza stessa della città e, la sua opera è un atto d’amore e di tenacia, un gesto che sfida l’oblio e la velocità del mondo contemporaneo.

Quella bottega è un faro discreto, un’isola di memoria nel mare agitato della modernità.

Chi varca quella soglia sente che non sta solo osservando un mestiere antico, ma partecipando a una storia viva, che continua a pulsare in chi ha scelto di non dimenticare.

Le sirene della città, i motori e i rumori di fondo non lo distraggono, per Antonio, ogni suono è parte della sua quotidianità, una colonna sonora involontaria che accompagna il ritmo lento e preciso del suo lavoro.

In lui si riflette una Napoli silenziosa ma fortissima, quella dei maestri che, senza proclami né clamori, hanno costruito la sua identità più profonda.

E mentre il mondo corre, Antonio continua a scolpire, con la serenità di chi sa che la vera modernità non è abbandonare le radici, ma tenerle salde per far crescere nuovi rami.

Atanasio Architetto Pizzi                                                                                                    Napoli 2025-10-19

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KATUNDË: LE FIAMMELLE DI SAGGEZZA NELLA BUIA GALASSIA COMUNE

KATUNDË: LE FIAMMELLE DI SAGGEZZA NELLA BUIA GALASSIA COMUNE

Posted on 16 ottobre 2025 by admin

Katund

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – In un tempo in cui la memoria collettiva sembra dissolversi nella velocità di un presente globale e anonimo, i Katundë arbëreşe si ergono come fiammelle di saggezza nella vasta e spesso oscura galassia comune delle culture contemporanee.

Non si tratta solo di luoghi fisici, ma di spazi della mente e della storia, dove l’identità non è un concetto astratto, bensì un respiro quotidiano, un gesto antico, un canto che attraversa i secoli.

In questi impianti urbani, la sapienza non si insegna sui banchi, ma si trasmette nel calore delle cucine, nelle soglie levigate delle case, nelle rughe dei volti che hanno ascoltato e raccontato.

Sono fiammelle tenaci che si riflettono dai camini delle case, illuminano con misura e resistono i percorsi dimenticati dell’omologazione globale, conservando una lingua, un ritmo, una visione del mondo che sfugge al comune viandante.

Parlare di Katundë oggi significa interrogare il senso più profondo della convivenza e della memoria condivisa.

Significa comprendere che la storia non è solo scritta nei manuali o conservata negli archivi, ma vive nelle persone, nelle loro scelte, nei loro silenzi e nelle loro narrazioni.

Queste fiammelle, se ascoltate con rispetto e lentezza, diventano fari capaci di guidare un’umanità smarrita verso un futuro in cui la diversità culturale non è ostacolo, ma forza viva e generativa.

Ascoltare la pletora di chi, con leggerezza o ignoranza, si ostina ad appellare impropriamente i Katundë o ad associare queste realtà a episodi frammentari della storia, recente o passata, senza alcuna regola né consapevolezza, significa contribuire a sminuirne il valore autentico.

Ciò che oggi molti uomini cercano, senza trovarlo, non è assente, ma troppo luminoso per essere visto con le menti abituate al buio.

È la luce sottile e antica dei Katundë a disorientare chi non sa ascoltare, chi riduce la complessità a slogan, chi trasforma la memoria in folklore.

I Katundë, invece, non appartengono a narrazioni superficiali, ma a un tempo profondo, intessuto di cultura, identità e memoria collettiva.

Capirli richiede rispetto, silenzio, ascolto lento e occhi capaci di abituarsi alla luce della loro verità.

Specie chi non ha trovato agio nelle proprie regioni natie, quando giunge qui per osservare, spesso non possiede la misura, la cognizione né il rispetto necessari per ascoltare il lento camminare della storia che, in questi luoghi, si è sedimentata con pazienza e profondità.

Ignora che ogni pietra, ogni vicolo, ogni nome antico è una parola pronunciata da secoli di vita condivisa, una traccia viva di memoria collettiva.

Senza questa consapevolezza, il visitatore rischia di guardare ma non vedere, di ascoltare ma non capire, confondendo la superficie con l’essenza.

Non si rende conto che qui non esistono strade larghe, ma stretti vicoli lenti, custodi silenziosi di una vita antica fatta di sacrifici, di passi misurati e conquiste quotidiane.

Questi vicoli non sono semplici percorsi, sono sentieri di memoria che raccontano di comunità abituate ad avanzare a piedi, senza agi né scorciatoie, affidandosi al ritmo naturale del vivere.

È proprio quel lento camminare che concede il tempo di riflettere, ascoltare e diventare uomini migliori, radicati nella propria storia e più consapevoli della direzione verso cui andare.

Nessun vicolo, qui, è interrotto da murazioni: ogni passaggio è guidato dalle case della Gjitonia

, che accompagnano chi cammina come maestre silenziose di saggezza antica. Non si tratta di scritture o graffiti improvvisati, ma di segni concreti lasciati dal tempo e dal lavoro, impronte di mani e di spalle che hanno sorretto pietre, travi e vite intere.

È su quei segni che chi fatica trova riparo e forza, un appoggio invisibile ma reale che permette di riprendere il cammino del lavoro e della vita comune. In queste vie strette non ci sono barriere: ci sono comunità che si tengono insieme, sostenute da gesti tramandati e silenziosa solidarietà.

Quando visitate un Katundë, chiamatelo per ciò che è stato, non cercate di appiccicargli nomi estranei, perché così facendo la vostra mente smarrisce l’orientamento e finisce per credere di trovarsi altrove, in un luogo senza radici né memoria.

Un Katundë non si interpreta, ma si ascolta, si attraversa, si riconosce e, chi lo nomina in modo improprio dimostra di vagare ancora nella galassia del buio, quella dove la luce della conoscenza non ha ancora trovato spazio per illuminare la storia, i segni e l’anima dei luoghi.

Per concludere va sottolineato che ogni vicolo ogni porta, ogni arco, orto botanico o vallië, qui disposti con saggezza lenta per fare Katundë è come una sorgente che disseta, non porta soltanto passi, ma custodisce memorie, voci e respiro.

Chi attraversa questi spazi sente l’acqua scorrere silenziosa sotto le pietre deve sapere che quella acqua non appartiene a nessuno, perché nutre tutti.

Eppure c’è chi, accecato dall’avidità o dall’ignoranza, crede che questa ricchezza sia opera del male, confondendo ciò che è dono con ciò che è minaccia.

Ma questo segno è lì, limpido e ostinato, nessuno ha ancora imparato ad ascoltare davvero cosa è acqua, vita, memoria, condivisione, e cosa è fuoco, distruzione, avidità, potere.

E così, qui è passato l’eroe Giorgio, non per riposare né per tornare alla sua nazione in pericolo, ma per suggellare un patto antico, capace di generare un modello europeo silenzioso, conosciuto da pochi, perché illuminati solo dal calore dei camini delle nostre sagge madri.

Per concludere, va sottolineato che le nostre madri riponevano grandi speranze nella scuola, ma tuttavia, chi avrebbe dovuto sostenerla vive ancora nel buio del sapere e crede che quelle madri, in quei vicoli, possano continuare a parlare come un tempo, si è vero, ancora lo fanno, ma purtroppo oggi nessuno sa più ascoltarle.

 

Atanasio Pizzi Architetto Olivetano                                                                                 Napoli 2025-10-16

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COME DISQUISIRE, PRESENTARE E ILLUSTRARE UN KATUNDË ARBËREŞE

COME DISQUISIRE, PRESENTARE E ILLUSTRARE UN KATUNDË ARBËREŞE

Posted on 14 ottobre 2025 by admin

arcNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Portare alla ribalta il modello abitativo e sociale con cui sono stati disposti i paesi arbëreshë significa confrontarsi con una storia lunga, articolata e stratificata.

Ogni Katundë è il risultato di scelte collettive, di adattamenti ambientali e culturali, di equilibri sociali costruiti con paziente intelligenza nel tempo.

Chi si addentra nei vicoli di questi luoghi senza lume, conoscenza e, orientamento, rischia di vedere solo frammenti di costruito senza comprenderne il senso profondo in essi custodito.

Si finisce per osservare ciò che appare, non ciò che significa e, spesso, in questa superficialità, si arriva persino a dimandare lumi al turista di passaggio, perdendo così l’occasione di ascoltare la voce vera del luogo.

Katundë non si interpreta dall’esterno né con strumenti generici o senza conoscenza, perché esso va letto con rispetto, consapevolezza della sua funzione originaria e della sua logica del costruito.

Ogni vicolo ha una ragione, ogni orientamento una memoria, ogni soglia un racconto di una esigenza vernacolare, che la storia ha compilato con lento progredire.

Solo chi si avvicina con questo spirito e, da ascoltatore attento, può sperare di cogliere la profondità nascosta in quelle architetture familiari, nate per accogliere, difendere e vivere insieme.

Parlare di un Katundë non significa visitare un museo, ammirare qualche vestizione tradizionale o assaggiare manicaretti locali, per sentirsi dentro la storia, che non è di chi ha contratto matrimonio senza cognizione di ascolto.    

Non serve calcare questi luoghi da spettatori distratti per comprenderne l’anima che ha ogni piega di vicolo, ogni scalino per salire più in alto o soglia di casa e finestra gemellata, non è sufficiente neppure parlare una lingua che in questi vicoli non ha mai riverberato.

Perché qui, va detto con chiarezza gli albanesi non hanno mai abitato, qui hanno vissuto e costruito la loro storia gli arbëreshë, in conseguenza di una diaspora antica, che li ha accompagnato in secoli di adattamento e radicamento, immaginando un parallelismo che pochi sanno cogliere.

Ridurre Katundë a un’esposizione folcloristica significa tradirne la sostanza di questi luoghi, che non sono mera scenografie filmica, ma archivi viventi di memoria, di saperi, di forme di convivenza e di credenza.

Ogni pietra, ogni soglia, ogni vicolo porta un messaggio che non si legge passeggiando per arrivare in un luogo di mira, o ricevere un banale invito ad ascoltare un modo egocentrico che non è mai stato storia di questo luogo, infatti bisogna saper ascoltare camminando, rispettando, ogni pietra ogni piega della strada che sa come riverberare la storia.

Chi vuole davvero capire non deve cercare l’Albania nei Katundë, ma deve ascoltare la voce arbëreshë che qui è nata, cresciuta e trasformata, mantenendo viva una propria identità autonoma e profonda.

A tal proposito, è necessario redarguire chi affronta la storia di un Katundë senza aver mai avuto la fortuna di crescere nei luoghi in cui quella storia è nata ed è stata tessuta con tanti fili dissimili.

Parlare non significa improvvisare, ma serve conoscere e saper ascoltare inquadrare con rigore e rispetto, le sue fasi storiche e i suoi significati profondi che sono stesi al sole, lungo i muri delle case che avvolte sono deturpati per profitto.

Per tutto ciò è opportuno sapere che la prima cosa da fare è collocare il Katundë nel tempo storico, individuando le tappe che ne hanno segnato la nascita, la crescita e la trasformazione.

Poi, occorre chiarire quale diaspora lo ha reso protagonista e, sapere da quale corrente migratoria è stato generato, da quali dinamiche geopolitiche, e quale macroarea ha accolto i suoi abitanti.

Fondamentale è anche riconoscere il ruolo che i regnanti dell’epoca hanno assegnato agli arbëreşe, di quella specifica macroarea, poiché le comunità non nacquero mai per caso, ma rispondevano a strategie territoriali, militari, economiche e demografiche precise.

Da qui si deve passare a descrivere la storia del costruito, a partire dalle prime forme vernacolari, nate da bisogni concreti di sopravvivenza, senza tralasciare le costruzioni costruite per non essere tassate, sino ad arrivare alla conquista economica e sociale, con la nascita di spazi condivisi, mestieri, commerci e nuove forme di convivenza di agio agricolo.

Infine, non va dimenticato il ruolo della stagione culturale arbëreshë, che con la sua ricchezza spirituale, politica e scientifica ha contribuito in modo determinante alla costruzione dell’Unità d’Italia, offrendo figure illuminate e reti culturali capaci di andare oltre i confini locali.

Parlare di un Katundë, dunque, significa fare storia con coscienza, non folklore improvvisato, infatti solo restituendo voce a una memoria complessa e stratificata, tipica di un popolo capace di custodire e trasformare la propria identità nei secoli, si può illustrare e rendere merito a questi luoghi strategici della storia del meridione Italiano.

Questo è un tema o diplomatica alla portata dei diversificati addetti letterati o di genere idiomatico, infatti il concetto che qui si vuole esporre con coerenza e, affrontare seriamente la storia di un Katundë arbëreşë, non abbisogna solo di buona volontà, in quanto serve conoscenza profonda della storia, dell’architettura, dell’urbanistica e dell’antropologia.

Discipline che, dal punto di vista strategico e sociale, spiegano come nascono, crescono e si mantengono sostenibili i luoghi abitati dagli arbëreşë.

Comprendere un Katundë significa ascoltare un sistema complesso, nato da equilibri delicati tra ambiente naturale, struttura insediativa, relazioni umane e, non si tratta di un agglomerato qualsiasi, ma di una forma viva di organizzazione comunitaria.

Quando, poi, questo luogo è stato abitato e modellato dagli arbëreshë, la complessità cresce ulteriormente e, la stratificazione non è solo architettonica ma anche parlato, culturale, politica, in quanto ogni vicolo, ogni soglia, ogni spazio pubblico ha un significato che non può essere interpretato con strumenti banali o superficiali, come semplici sottotitoli.

Per questo, l’unico modo per far emergere in modo chiaro e senza ombre il valore reale di questi luoghi è attraverso un progetto multidisciplinare di indagine, con il quale e per il quale delineare un percorso che coinvolga storici, architetti, urbanisti, antropologi, saggi parlanti di luogo locale.

Solo così si potrà restituire a un centro antico arbëreshë, la sua dimensione autentica, ovvero quella di un organismo sociale e culturale complesso, che ha saputo crescere e sostenersi nei secoli grazie a un equilibrio sottile e sapiente.

Individuare e ascoltare in arbëreşë, quali siano stati i rioni originari, la toponomastica storica nata dalle necessità dell’epoca, significa leggere con precisione la mappa della memoria collettiva.

Ogni nome, ogni rione, ogni strada, racconta il modo in cui la comunità in arbëreshë ha saputo organizzarsi, crescere e proiettarsi nel tempo.

La toponomastica non è un dettaglio linguistico, ma è una traccia viva di funzione e di identità e, attraverso di essa è possibile ricostruire lo sviluppo dei centri storici.

Infatti con essa si possono intercettare la nascita e l’evoluzione della credenza, l’orientamento delle case, la disposizione delle strade e dei percorsi che hanno reso il sistema urbano un organismo pulsante e coerente.

Non vanno dimenticati gli edifici storici, veri indicatori delle epoche economiche, artistiche e culturali attraversate dal Katundë.

Infatti esse sono pietre miliari che raccontano la crescita di una comunità capace di trasformare il bisogno in architettura, e l’architettura in memoria condivisa.

Fu proprio questa ricchezza di forme e saperi che permise agli arbëreşe di guardare oltre i confini del loro centro antico e, frequentare le capitali della cultura, i luoghi di sapere e di confronto, allevando generazioni di menti che si sono distinte nella storia, le stesse in grado di rimarcare e pensare il nuovo mondo in arbëreşë.

La lingua, i nomi, i percorsi, le pietre, tutto fa parte di un unico discorso e, chi sa ascoltare davvero, trova in essi la chiave per leggere una civiltà viva e mai dimenticata.

Sono gli elementi come la lingua, la toponomastica storica, i rioni originari, le architetture vive, la memoria comunitaria e l’ascolto, gli ingredienti fondamentali per comprendere davvero come si è sviluppato un centro antico arbëreşë.

Senza di essi, ogni tentativo di interpretazione, si conclude inevitabilmente per apparire incompleto, sgradevole e poco credibile agli occhi di una società moderna che spesso non ascolta, ma corre distratta.

Viviamo in un tempo in cui le comunità sono affamate di conoscenza autentica e assetate di modelli di convivenza solidali e duraturi.

Ed è paradossale che, mentre si cercano altrove soluzioni complesse, si dimentichi uno dei modelli di integrazione più solidi e longevi del Mediterraneo, ovvero, quello costruito dagli arbëreşe.

Per secoli, questi centri antichi hanno dimostrato come la coesione sociale possa nascere da un equilibrio sapiente tra lingua, spazio, fede, lavoro e cultura.

Nessun elemento è isolato, ma tutti concorrono a formare un tessuto armonico e sostenibile, ecco perché chi parla di Katundë senza conoscerli a fondo rischia di non rendere giustizia a un’eredità storica straordinaria.

Capire un centro arbëreshë significa ascoltarlo con tutti i sensi e con il rispetto, per restituire alla storia ciò che la storia ha saputo costruire con pazienza e intelligenza collettiva.

 

Un elemento spesso trascurato, ma di straordinaria importanza, è la dimensione canora della vita comunitaria arbëreshë.

Storicamente, come sottolineano Torelli prima e Scura dopo, gli arbëreshë svilupparono una forma di convivenza espressiva fondata sul canto collettivo, in particolare nelle attività lavorative di genere.

Il canto non era semplice intrattenimento, era strumento sociale, un mezzo per unire uomini e donne in un’unica sonorità condivisa, senza alcun uso di strumenti musicali.

Le voci si intrecciavano naturalmente, come gesto di appartenenza e dialogo, trasformando il lavoro quotidiano in un momento di armonia comunitaria.

Questa modalità espressiva trova ulteriore conferma nelle rievocazioni descritte da Serafino Basta, che racconta della festa di primavera, un’occasione nella quale il canto tra generi non solo celebrava la stagione nuova, ma diventava anche strumento di ironia e sottile satira.

Attraverso versi improvvisati, uomini e donne si lanciavano battute all’indirizzo dei principi indigeni ospiti, rovesciando con intelligenza simbolica i ruoli sociali e affermando la forza della propria identità.

Questa tradizione canora, viva e corale, rappresenta una forma alta di integrazione sociale, in tutto, un linguaggio condiviso che non ha bisogno di spartiti, ma nasce dalla memoria, dall’ascolto reciproco e dalla capacità di costruire comunità attraverso la voce.

Il canto arbëreshë non è dunque folclore ornamentale, ma architettura sonora della convivenza, memoria viva che ha attraversato secoli e ancora oggi testimonia un modo unico di stare insieme.

Atanasio Architetto Pizzi                                                                                     Napoli 2025-10-14

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LA FORZA DI UN GRANELLO DI SABBIA E DI UNA GOCCIA D’ACQUA ARBËREŞE (gnë pik uj e gnë drish arbëreşe janë thë made si ghënësà)

LA FORZA DI UN GRANELLO DI SABBIA E DI UNA GOCCIA D’ACQUA ARBËREŞE (gnë pik uj e gnë drish arbëreşe janë thë made si ghënësà)

Posted on 12 ottobre 2025 by admin

greciNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Una goccia d’acqua e un granello di sabbia, da soli, sembrano fragili e insignificanti, passano inosservati, ignorati da chi guarda il mondo solo in grande.

Ma quando si chiamano fratelli e sorelle, quando si uniscono, la loro forza si moltiplica, diventano fiume, diventano massa e, trasformano il paesaggio.

Alluvioni e frane non nascono dalla potenza di un singolo elemento, ma dall’unione silenziosa di molti, è per questo che il terreno cambia forma, la terra si piega, il segno rimane inciso nella memoria collettiva dell’uomo.

Eppure, quando il danno o la trasformazione è grande, nessuno guarda a quella goccia o a quel granello e, tutti puntano il dito altrove, nessuno riconosce o avverte la potenza che nasce dalle piccole cose quando si uniscono.

Così è anche per gli arbëreşë, ognuno nella propria individualità, è una goccia, un granello, portatore di storia, cultura e memoria antica.

Ma quando ci si isola, si brilla per un attimo come una stella solitaria e poi si svanisce nel buio, nulla muta, ma quando si sceglie di unirsi, di parlare con una sola voce o, confrontarsi per unire allora si diventa forza viva, fiume che avanza, radice che resiste, cresce e fiorisce.

Il futuro non appartiene a chi si disperde, ma a chi costruisce insieme e, solo uniti, gli arbëreşe potranno lasciare un segno profondo nella storia, non come un ricordo sbiadito, ma come una costellazione che illumina il cielo.

Eppure, quando il danno è fatto e la trasformazione è troppo grande per essere ignorata, nessuno ricorda la goccia o il granello, perché troppo piccoli per essere riconosciuti, troppo simili a tutto il resto per essere individuati, si confondono, si camuffano, scompaiono nell’insieme.

E così, la loro forza rimane invisibile, anche se il segno che hanno lasciato è indelebile, come la memoria collettiva non si costruisce con l’eco isolata di una sola voce, ma con il coro compatto di un popolo che sa chi è e dove vuole andare e, solo così, nessuno potrà più ignorare la loro presenza.

Era il 2016 quando intrapresi un viaggio che non era soltanto geografico, ma interiore, ero alla ricerca di nuovi, frammenti di identità, segni che potessero illuminare il cammino della mia ricerca sullo sviluppo e sui processi identitari, così arrivai in un piccolo Katundë, dove il tempo sembrava aver lasciato intatte le sue orme.

Un ricercatore locale mi accompagnava tra le stradine strette e le pietre consumate di quel centro antico, dove i muri parlavano, in silenzio raccontavano di esodi lontani, di lingue conservate con tenacia, di un’identità che aveva resistito al vento dei secoli.

Mentre camminavamo, lui si fermò di colpo, mi guardò con uno sguardo attento, quasi stupito, e mi chiese a quale famiglia del paese appartenessi.

Rimasi perplesso, perché non avevo radici locali, eppure il suono delle mie parole, il ritmo della mia voce, le mie richieste toponomastiche e la direzione che prendevo prima che lui riferiva, avevano risvegliato in lui qualcosa di familiare.

Gli spiegai che parlavo quel luogo e dei suoi toponimi, per via delle mie ricerche, che ricordavo e portavo con rispetto nel mio modo di fare, come si porta un’eredità preziosa scritta nel sangue che riconoscevo in qui vichi e quelle soglie di casa.

Lui sorrise, ma non era un sorriso comune, era il sorriso di chi riconosce un legame invisibile antico di un suo pari che veniva da lontano e trascinava con sé un’alluvione di sapere antico.

Mosso da quell’incontro, volle che parlassi con altri ricercatori locali, con coloro che avrebbero potuto comprendere la portata di ciò che stava accadendo, non un semplice incontro, ma una possibilità di rinascita culturale.

Ma quando si rivolse a loro, trovò diffidenza, indifferenza e l’ospite veniva percepito non come dono, ma come disturbo, almeno per chi concepiva quei luoghi solitari e non una goccia, un granello simile ad altri sparsi in tutta la regione storica diffusa e sostenuta in arbëreşë.

Alla fine, dovetti partire e, lui restò lì, fermo davanti alle case antiche e, nei suoi occhi vidi una delusione che non era rivolta a me, ma ai suoi stessi compaesani che non avevano colto la scintilla che poteva riaccendere un fuoco antico.

Quel giorno compresi una verità profonda, l’identità non si conserva solo nei libri o nei riti, ma negli incontri che sanno riconoscerla.

E quando manca l’ascolto, anche le lingue più antiche rischiano di restare sospese nell’aria, come echi che attendono orecchie pronte a raccoglierli.

C’è un momento nella storia in cui le decisioni tecniche e i protocolli diventano più che semplici atti amministrativi, diventano scelte che incidono nella carne viva di un popolo.

Dal 2014 le autorità di esercito civile ha smesso di adottare il protocollo “New Town”, quello stesso strumento che aveva spesso significato sradicamento, spostamento forzato, cancellazione di memorie collettive.

In quegli anni mi trovai a Roma a discutere la sorte di un Katundë, un luogo coinvolto in un piccolo cedimento non naturale, ma comunque residenza viva e colma di memoria, intreccio di storie e identità, minacciato da un trasferimento verso un “nuovo paese moderno”, pensato per efficienza e sicurezza, ma privo di anima.

La popolazione rifiutò di spostarsi e, sentiva, con un istinto che viene da secoli, che non si può trapiantare una radice viva senza farle perdere linfa.

Fu allora che cercarono nella mia ricerca e nella mia voce i motivi profondi di quel rifiuto, non avevo portato cifre né piani tecnici, ma avevo semplicemente raccontato il patire storico degli arbëreşë, popolo abituato a resistere, a portare avanti la propria identità anche quando tutto intorno spingeva all’assimilazione o alla fuga.

Alla fine, quel protocollo di sradicamento non venne adottato, non fu un trionfo personale, ma la conferma che la memoria, quando è viva, può ancora piegare la rigidità delle strutture.

Perché chi non lo sa dovrebbe impararlo, una sola goccia, ripetuta con costanza, può scavare la pietra più dura e, un granello di verità, piccolo ma tenace, può essere più forte di una corazzata in cemento armato. La memoria non ha tempo, attende, scava, resiste, quando trova ascolto, trasforma anche i protocolli istituzionali che da allora non sono più stati applicati.

Passarono anni, anni silenziosi, nei quali la mia ricerca sul Katundë non era stata dimenticata, ma conservata come un seme sotto la terra.

Poi, un giorno, fui rintracciato da chi, in quel tempo, governava agli inizi del secondo decennio di questo secolo e, cercava risposte, voleva sapere dove avessi studiato quel “protocollo” che non si legge nei manuali, ma che insegna a vivere e fare un Katundë, non un progetto urbanistico, ma una visione del mondo.

Mi ascoltò con rispetto, ma nelle sue domande avvertii la distanza tra chi studia per potere e chi impara per appartenenza e, allora risposi con semplicità, ma anche con fermezza: Solo chi nasce ascoltando l’arbëreşe   può comprendere davvero ciò che dico.

Perché questa conoscenza non è scritta nei libri, ma custodita nella voce delle madri, nei canti, nelle veglie, nei silenzi delle pietre antiche.

Non era superbia, era consapevolezza e, non si può insegnare un’anima a chi non è disposto ad ascoltarla. Così lasciai quel personaggio illustre alle sue carte e ai suoi progetti, tornai a casa, tra i miei, là dove la lingua non si traduce ma si respira, si parla.

Perché Katundë non fonda, si vive e, chi non lo sente, non potrà mai costruirlo ed è inutile cercarlo nelle vetrine di un museo, nelle narrazioni imbalsamate nelle cerimonie di vestizione, nei gesti delle mani di estranei che impastano prodotti per compiacere chi guarda da fuori.

Non è la somma di spettacoli turistici né il racconto di chi parla senza rispetto, senza garbo, senza ascolto, perché un Katundë è un corpo vivo è una frana gigantesca, costruita nel tempo da innumerevoli gocce di lacrime.

Gocce che hanno salato la terra, scolpito la memoria e dato forma a un’identità che nessuno ha mai davvero contato, raccolto o conservato.

Quelle lacrime non sono solo dolore, ma la materia stessa della resistenza e, ogni caduta, ogni rinuncia, ogni sradicamento mancato o imposto ha lasciato un segno, ha aggiunto un granello a quella frana silenziosa che regge l’anima arbëreşe.

E finché nessuno avrà il coraggio di chinarsi per raccogliere quelle lacrime, per custodirle e non per esporle, il Katundë resterà frainteso, scambiato per folclore, quando invece è storia viva, perché non è un racconto da osservare, è un luogo da vivere e ascoltare in arbëreşë.

Atanasio Pizzi Architetto                                                                                                    Napoli 2025-10-10

 

 

 

 

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LA GIOCONDA ARBËREŞË MANI TESSE CON LE TESTE DI MARITO E MOGLIE

LA GIOCONDA ARBËREŞË MANI TESSE CON LE TESTE DI MARITO E MOGLIE

Posted on 08 ottobre 2025 by admin

asaNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Una donna arbëreşë si dispone come la Gioconda, con un sorriso appena accennato che trattiene memorie lontane.

I suoi occhi, azzurri e profondi, riflettono il mare Adriatico come uno specchio silenzioso e, in quello sguardo scorrono barche leggere, spinte da braccia operose che cercano una riva accogliente, una terra buona dove il vento non porti più solo nostalgia ma nuove promesse di vita.

Il volto fiero e, segnato da rughe storiche, come la terra che conosce i semi e sa come allevarli, con le mani o gesto iconico, tenendo i palmi, batte l’eco della lingua antica, dell’esilio e della speranza.

Dietro di lei, non colline toscane, ma i suoi occhi azzurri allargano la prospettiva delle onde l’Adriatico, che non è mai stato dimenticato.

Le sue mani non segnano confini ma sono pronte per fare abbracci, o meglio un infinito abbraccio del lato occidentale, quello che accolse, che ascoltò, che custodì, come fa il mare buono che sa cullare le partenze e onorare i ritorni immaginati.

All’orizzonte, la costa si dissolve nella luce e, a est, non c’è chiarezza ma lascia intendere una situazione naturale frastagliato, frammentata, in tutto un est che ad oggi rimane confuso, come un sogno in bilico tra ciò che fu e ciò che non è più.

Ma l’ovest, della prospettiva della nostra madre Gioconda, tutto appare tenerezza, con le colline che si chinano, ulivi che offrono ombra, mani che accolgono altre mani, ed è lì che il popolo arbëreşë trova riparo.

È lì che con le sue vesti di regina della casa rivive, ogni volta che viene nominata, cantata, dipinta e, nel suo sguardo non c’è solo nostalgia, ma resistenza silenziosa.

L’identità non si grida, si porta, come una veste ricamata a mano, come una lingua parlata sottovoce ai figli, come un nome che torna nei canti.

Non ha bisogno di essere riconosciuta per esistere, perché la sua verità è nel gesto semplice del cuore, le dita non formano simboli, ma ascoltano il battito, un battito che non appartiene solo a lei, ma a chiunque sappia ancora sentire il mare anche quando non si vede.

C’è un’immagine che nessun libro di storia riporta, eppure vive incisa nella memoria di chi, senza bandiere né riconoscimenti, ha custodito la verità più profonda degli Arbëreşë.

Non è un dipinto né una fotografia, ma una visione scolpita dal lavoro, dalla resistenza quotidiana, dal silenzio che non cerca gloria ma fa e unisce Gjitonia.

Le vicende degli Arbëreshë non sono state sostenute da alcuna aquila, né quella della patria perduta, né quella delle istituzioni moderne.

Nessuna protezione simbolica, nessun volo alto a garantire giustizia o memoria, perché la loro storia non è stata sorretta da emblemi, ma da fatica, dedizione e coscienza, in tutto da due teste vive, pensanti, operanti che hanno generato presenza senza pretendere di diventare icona.

Non emblema, ma origine, non immagine da esibire, ma sostanza da coltivare, ovvero quella realtà o, quella degli Arbëreşë autentica, mai vissuta come si racconta oggi nei circuiti ufficiali, e mai la natura, così com’è, imprevedibile e libera, potrà renderla possibile se continua a essere forzata dentro rappresentazioni false come una aquila a due teste, che non gi guadano per intendersi.

Tutto ciò che è stato costruito attorno all’identità arbëreshe negli ultimi tempi non nasce dal popolo, non da un potere occulto che non conosce la fatica.

Un potere che, invece di sostenere chi crea, chi lavora, chi custodisce, immagina e, impone visione conforme ai suoi interessi.

Un potere che ha fabbricato immagini vuote, cerimonie senza anima, simboli che parlano di una realtà che non è mai esistita, e mai potrà esistere.

E allora, nell’aria, non si innalza una rabbia sterile, ma una coscienza lucida, non come dottrina chiusa, ma come memoria viva,

Come rifiuto dell’occultamento, affermazione di chi ha tenuto acceso il fuoco mentre gli altri si limitavano a guardare le ceneri sollevate dal vento.

Infatti l’immagine che conta, l’unica che conta davvero, non è fatta per essere stampata nei manuali o celebrata nei congressi, ma vive fuori dalla storia scritta, fuori dai discorsi ufficiali, vive nel canto sussurrato in una casa isolata, nella lingua trasmessa senza scena, nel gesto ripetuto da chi non ha mai smesso di essere.

Vive nelle due teste che, da sempre, portano il peso e la forza della continuità, senza aquila, senza protezione, senza privilegio, ma con la potenza di ciò che non può essere cancellato, ovvero il senso della famiglia.

La Gioconda, con il suo volto sereno ma determinato, potrebbe rappresentare l’emblema delle madri arbëreshe, donne laboriose, silenziose ma centrali nella costruzione della famiglia e della comunità e, crea ambiguità come lo stemma dell’aquila bicipite, simbolo storico ereditato dall’Impero Bizantino e poi adottato dagli Albanesi e dalle comunità arbëreshe.

Quest’aquila, con due teste che guardano in direzioni opposte, è spesso letta come segno di forza e vigilanza, un corpo unico che sorveglia due mondi.

Ma questa immagine può anche essere riletta in chiave più intima e familiare, con le due teste che rappresentare i due genitori, la madre e il padre, che pur condividendo un unico corpo (la famiglia), si guardano sempre e direttamente negli occhi.

creando un equilibrio delicato e, ognuno guarda verso il futuro, il lavoro, il dovere riflesso negli occhi dell’altro/a.

Ma la vera forza di una famiglia, specie in una cultura come quella arbëreshe, dove la trasmissione orale è fondamentale, non sta solo nello stare fianco a fianco, ma nel sapersi guardare negli occhi anche senza parole, nel comprendersi profondamente per costruire insieme.

E quando entrambi “aprono la prospettiva”, voltano inevitabilmente le spalle alla prospettiva che coglie il compagno, la compagna un simbolo, un invito a ritrovare l’intesa per progredire come famiglia e comunità.

L’aquila bicipite è da secoli emblema delle genti arbëreshe, nata dal grembo della storia bizantina, adottata dal popolo diasporico e portata oltre il mare, essa è rimasta impressa sugli stendardi, nei canti e negli occhi di chi ha lasciato la propria terra per salvarne la memoria e, le sue due teste, rivolte in direzioni opposte, sorvegliano mondi lontani che comunque l’altro non sa, ascolta o immagina.

In quella postura fiera, tuttavia, si nasconde una ambiguità sottile e, le due teste non si guardano mai. Ognuna custodisce il proprio orizzonte, il proprio compito, la propria fatica.

Così, come non è uso nelle famiglie arbereshe, madre e padre che non camminano insieme non si incrociano nello sguardo e non costruiscono futuro.

Vivono nello stesso corpo simbolico ma orientati a sopravvivere, più che a costruire e forse potrebbe essere la storia si oggi che non ci appartiene in nulla.

Questa aquila che non si guarda porta addosso la lettera scarlatta: un marchio invisibile, un segno di incompletezza culturale.

Non è vergogna, ma memoria di una parola non ancora detta, di un’identità sospesa, in tutto è la lettera che brucia ma non parla, che pesa ma non costruisce, una lingua lasciata a metà, la tradizione che si tramanda ma non si rinnova, la famiglia che resiste ma non dialoga.

Eppure, nell’immaginario che appartiene ai sognatori e agli eredi di una storia viva, esiste anche un’altra aquila.
Una doppia testa che si guarda negli occhi, non per sorvegliarsi, ma per riconoscersi, diventando l’emblema di chi, pur restando custode della propria eredità, sceglie di confrontarsi con l’altro, con il compagno, la compagna, la comunità.

In quello sguardo reciproco si accende un nuovo alfabeto, un linguaggio condiviso e, questa seconda aquila porta non una cicatrice, ma una Z, l’ultima lettera dell’alfabeto.

Non perché rappresenti una fine, ma perché completa ciò che mancava, rappresenta la chiusura di un cerchio, il tassello che rende intera l’identità arbëreshe, ancora oggi in cerca della sua piena forma scritta, della sua voce autonoma.

Tra la lettera scarlatta e la Z si muove la storia di un popolo, non solo di bandiere e di lingue, ma di famiglie, di donne e uomini che hanno imparato a guardare lontano.

Forse il futuro della cultura arbëreshe non è né solo nel passato né solo nel domani, ma in quello sguardo reciproco, tra due teste che finalmente si guardano e scelgono di parlare la stessa lingua e camminare insieme come fecero Janarj e Adùlina.

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                                            Napoli 2025-10-08

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FLOTTILLA ARBËREŞË AVVENTUROSA Bënë flottillja me ùshùlë thë kukje

FLOTTILLA ARBËREŞË AVVENTUROSA Bënë flottillja me ùshùlë thë kukje

Posted on 03 ottobre 2025 by admin

Storie apparecchiate

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – La storia della minoranza Arbëreshë è intrisa di rappresentazioni in forma di resistenza culturale.

E qui, prima che altrove, molti sono intervenuti a costituire una “flottiglia di aiuto e soccorso”, in ogni epoca, le stive delle barche erano colme di lettere scarlatte, dalla A fino alla V, sempre con la Z mancante. Così organizzati, valicavano mari in tempesta, ostinandosi a fornire un’identità che ciclicamente riappariva nelle cronache, spacciata come essenziale per evitarne l’estinzione.

Tante flottiglie, guidate da corsari irremovibili, allora come oggi, issano ancora le antiche vele ormai tutte rattoppate. La bussola? Un pennino issato in un calamaio, immaginando che il mare sia un foglio su cui scrivere il parlato, quando fa tempesta.

A bordo si portano aiuti alfabetari, polverosi, nel tentativo di salvare i bambini in crescita con grammatiche prive di parlato e di ascolto.

Gli ufficiali di bordo erano tutti autoeletti, in nome di una scrittografie a dir poco fumosa, antica di millenni ma sempre tardiva, e per questo inevitabilmente affumicata.

Intanto, le menti più lucide e raffinate venivano lasciate a terra, perché il loro mondo non era fatto di scrittura, ma di pensiero e arte.

Nel frattempo, gli eletti della flottiglia si convincevano sempre più che la salvezza risiedesse nel ritorno dalle terre oltre l’Adriatico, armati di penna, calamaio e qualche verbo coniugato, per consolidare la storia e la cultura di questo popolo diasporico.

Credevano bastasse issare la bandiera della lingua moderna, dell’etimologia, del costume riproposto nelle feste comandate a modo di svilimento, per vincere una guerra culturale.

Ignoravano, però, che si combatteva su mari ben più vasti, non alla portata del loro pensiero monotematico.

Nel frattempo, fuori da quella flottiglia così convinta di sé, sulle colline o nei pressi del mare, lontano da quelle coste, nomi, memorie e accenti degli Arbëreshë, senza penna né calamaio, noti sui palchi dell’eccellenza mondiale, venivano dimenticati o ritenuti non rappresentativi della memoria.

La cultura non ha mai accolto il loro parlato, in senso metaforico o letterale, perché le loro storie e i loro silenzi carichi di significato non rientravano nei dizionari, né nei piani editoriali, televisivi o dello scarlatto immaginario fotografico.

Vivevano invece nella quotidianità, là dove si cercava un ponte solido verso il futuro, senza conoscere le regole della scienza esatta, del vernacolare sociale o dell’editoria.

E così, mentre pochi navigavano verso porti che nessuno conosceva, interi Katundë erano invasi, non da eserciti nemici, ma da un’apatia culturale silenziosa, che trasformava ogni casa in una zattera alla deriva. Non c’erano più timonieri, e la rotta si perdeva ogni giorno un poco di più e, chi aveva fame di identità, si trovava a elemosinare briciole dai tavoli degli Albanisti, dove la lingua arbëreşe, non è considerata più strumento vivo da indagare con cautela e rispetto.

Dove tutto si riduce nell’innalzare dialetti in forma di “come da noi”, tutto intorno si spegnevano gli entusiasmi, le pratiche sociali, le relazioni di credenza, il senso profondo di essere una comunità indivisibile.

Il paradosso era evidente, anzi palese, visto lo stato delle cose e dei fatti e, mentre tanti parlavano di salvezza, solo l’olivetano erano in soccorso dei bambini arbëreşe che naufragavano in tanti.

E forse è proprio qui che la flottiglia ha sbagliato mira, rotta e luogo per esaltarsi o meglio, nel voler guidare dall’alto il solo parlato, dimenticando che una cultura si tiene a galla solo se tutti remano insieme, anche quelli senza voce e salvagente, perché tramandare storie che galleggiano attraverso gli occhi, le mani, il cuore e il genio di luogo è un componimento che sfida il tempo.

Immaginare che una flottiglia di barchette, traballanti e senza rotta specifica, potesse incidere davvero su una regione storica, solida come una corazzata è, forse uno degli atti di presunzione più penosi che la mente umana potesse invaginare una sposa in costume partorire il figlio scrittore sulla cattedra.

La cultura arbëreşë quella autentica, sedimentata nei secoli, scolpita nella carne delle montagne, nel ritmo dei canti e nel silenzio delle madri, è una corazzata sopravvissuta a tempeste, invasioni, esodi, e oblii.

Né il tempo né la dimenticanza sono riusciti a scalfirla mai, tuttavia, in modo assurdo, è stata apparecchiata questa stessa flottiglia fragile, bisognosa di salvataggi improvvisati, come se la sua storia potesse essere raddrizzata da chi arriva tardi e senza orientamento di ascolto.

Queste barchette, spesso costruite con legno riciclato, gonfiato di ego e, titoli fragili, terminando così con il remare non contro la corrente dell’oblio, ma a favore dell’invasore culturale.

Forse non per scelta, forse per ignoranza, forse per l’irrefrenabile desiderio di apparire, comunque si sono travestiti da salvatori, mentre gettavano ancora più sale sulle ferite profonde dei naufraghi arbëreşë.

Hanno preferito così i riflettori della diffusione di massa, le interviste dei viandanti, gli esodi dai Katundë, le pubblicazioni prive di presenza, o di quanti partiti elogiano il proprio titolo e, quelli dove ancora si prega, senza distinguere con quale devozione e orientamento, si crede sia farina più solida della crusca.

Invece di rafforzare la corazzata del grano, hanno puntato i cannoni verso l’interno, convinti che la soluzione fosse il restante, mentre chi era partito per tornare e dare agio al costruito del bisogno, da decenni gli viene negato ogni tipo di natante per tornare.

Hanno finito per aiutare l’invasore, senza neanche rendersene conto, che accoglievano i linguaggi imposti, le estetiche vuote, le retoriche di salvaguardia che non salvano niente e nessuno.

Hanno copiato le effigi della madonna della Romana Pompei, portandola in processione tra le vie storiche Alessandrine.

Allestito immagini storiche con vestizioni moderne, le stesse che non lasciano parole a quanti conoscono il senso della vestizione di ragazza, Donna Sposa, Madre, Regina della casa e del fuoco, Vedova Incerta e Vedova Oculare.

E chi oggi di tutte queste regole tramandate oralmente chine ha fatto le spese? È sempre gli arbëreşë, in tutto, la memoria dei nostri padri e le nostre madri che oggi sono senza voce e, tutti coloro che parlano ancora una lingua senza riconoscimento, ma piena di senso.

Quelli che vivono la cultura, non la spettacolarizzano, quelli che sanno cosa si perde, ma non hanno microfoni per gridarlo, perché studiano discipline dove il parlato serve ad ascoltarla e progettare cosa fare.

Così, la flottiglia ha sbagliato mira, sparando e colpito chi dovevano difendere, aprendo falle e, mentre la corazzata ancora resiste, più sola e affaticata, le barchette si vantano delle loro imprese, senza capire di essere diventate parte del problema, e non della soluzione.

La flottilla, se davvero avesse voluto portare aiuto e, speranza agli Arbëreşë, non avrebbe mai dovuto puntare ad est dell’Adriatico per cercare gloria.

Non era là che si trovava il cuore pulsante della nostra cultura, non là, tra i sogni di ritorni impossibili o nelle nostalgie folkloristiche di un passato ormai ricordo.

L’aiuto doveva puntare a Napoli, verso quella capitale culturale che, nei secoli, seppe accogliere e valorizzare gli uomini penitenti che venivano dai Balcani, non come reliquie etniche, ma come protagonisti della storia europea.

Fu lì, sotto i cieli del Regno di Napoli, nei luoghi dove le famiglie e altri grandi nomi della storia meridionale, seppero riconoscere il valore degli esuli e, dove la minoranza arbëreşe, divenne corazzata culturale, non per concessione, ma per merito, non per compassione, ma per contributo.

Uomini veri, condottieri culturali, filosofi, religiosi, maestri di scienza esatta, architettura e storia, hanno costruito ponti tra mondi, e inventato giornali, non per oziare o tornare indietro, ma per portare avanti una visione globale del luogo che li aveva accolti.

È in quelle corti, in quei monasteri, in quelle terre contese, tra regni e rivoluzioni che l’identità arbëreşë ha preso forma come esempio vivente di coesistenza e resistenza, capace di dialogare senza dissolversi.

Chi oggi vuole aiutare gli arbëreşe, non deve cercare flottilla in forma di manuali linguistici dimenticati o spettacoli da piazza con costumi imprestati romanzando o rendendo idolo il vivere comune.

Deve invece ripercorrere quella rotta verso Napoli, verso la storia che ha saputo dare dignità, non solo folklore, una storia che ha trasformato una diaspora in cultura, una migrazione in testimonianza, una minoranza in modello.

Perché è da quella esperienza, autonoma ma integrata, antica ma proiettata nel futuro, che l’Europa lacerata di oggi potrebbe imparare e, potrebbe trovare risposte nuove alle sue crisi d’identità, ai suoi conflitti nati dalle attività migratorie.

La corazzata culturale arbëreşe, se ricordata nella sua verità e nella sua interezza, può ancora navigare con orgoglio grazie alle sue vele che seguono il vento.

Non per salvarsi, ma per continuare ad esistere e, solo chi prende il timone consapevole che la rotta non è mai facile, e ogni deriva ideologica raggirata, darà forza per trovare la spiaggia dove innalzare ponti, e non caricare zavorra.

 

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                                           Napoli 2025-10-03

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NATO ALLEVATO SECONDO LA REGOLA DELL’ ASCOLTO E DEL CANTO ARBËREŞË u lljeva u rita me fialljë i vieshë

NATO ALLEVATO SECONDO LA REGOLA DELL’ ASCOLTO E DEL CANTO ARBËREŞË u lljeva u rita me fialljë i vieshë

Posted on 01 ottobre 2025 by admin

Patto

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Nato all’interno del circoscritto del centro antico, quello stretto tra vicoli come vene vive di un organismo di pietra e, non ha conosciuto l’infanzia altrove oltre i muri a secco a cui il tempo e il sole arbëreşe aveva già tolto il legante.

E il tutto compilava un mondo racchiuso e, nel contempo ricco come un ventre gravido di suoni, odori, racconti, e regole non scritte più antiche delle stesse pietre.

Qui non esistevano ancora televisori in ogni casa, né telefoni, né quell’assordante silenzio moderno fatto di distanze vicine.

Lo stesso ambito dove la voce l’ho forgiata ascoltando solo il parlato e il canto materno, il primo suono, la prima grammatica, la prima preghiera.

Le parole, allora, si imparavano con l’orecchio, non con l’occhio ed erano tramandate, non insegnate come le voci delle madri, delle nonne, delle vicine, tutte diverse, ma solidamente unite da un unico canto.

Cresciuto poi nella parte più moderna, quella degli anni Cinquanta, dove le strade si allargavano e i palazzi si alzavano come sfide al cielo, portando dentro una forza che non veniva dal cemento, ma dal tufo, dai camini di casa, da quella fiamma viva che ardeva giorno e notte senza bisogno di essere guardata, una fiamma alimentata della memoria del radicamento.

Al centro di tutto questo scenario emergeva il valore sociale, Gjitonia, non solo come spazio, ma un’idea, una geometria umana o quadrato senza muri, fatto di usci sempre socchiusi, sedie appoggiate al muro, occhi che ti seguivano senza mai spiarti e, qui si cresceva sotto la sorveglianza collettiva, nella libertà vigilata dell’appartenenza.

Ogni porta era una soglia, ogni cortile una piazza, ogni anziano un archivio vivente, si imparava a stare al mondo osservando, ascoltando, assorbendo.

La regola era semplice, ma inflessibile e, qui non servivano punizioni scritte, bastava uno sguardo o il racconto di una vecchia storia per riportare al centro del dibattito il tuo posto nel mondo.

Non era un Eden, no, era un solido luogo dove si affinavano i cinque sensi e dove erano banditi i più irrilevanti fattori di imperfezione sociale.

Questa è l’energia che ha nutrito ogni bambino, dove l’eco dei canti, il profumo del pane, la cenere calda del camino, sono ciò che ancora oggi avvolge.

Non importa dove vai o, quante città attraversi, quante lingue ascolto, perché dentro di ognuno di noi, cammina sempre quel bambino scalzo sul lastricato caldo e avvolgente di Gjitonia.

C’era, in quel luogo antico e circoscritto, una regola non detta ma sempre rispettata, ovvero il parlare piano.
Non era solo per discrezione o pudore, ma per amore e rispetto dei vicoli, per il suono dell’acqua nei catini, per i sussurri delle donne affacciate, per il vento che portava il profumo della terra umida e dei fichi lasciati ad asciugare al sole.

E io bambino, sempre colmo di entusiasmo, incontenibile come la primavera tra le pietre, venivo educato non con rimbrotti o urla, ma con consigli sussurrati, a bassa voce, come si fa con chi si ama.
“Figlio mio, parla piano…” dicevano, “ché se gridi, penseranno che non sei di qui; ti scambieranno per un bambino d’altrove.”

E io, che a quel luogo sentiva di appartenere con tutto me stesso, con la voce, con i piedi nudi, con il cuore, imparai a parlare piano.

Non era paura, ma esclusivo desiderio di appartenenza e, così crescevo, educato dal vicinato intero, da quella comunità materna che mi osservava crescere con occhi buoni, pronta a correggerlo con tenerezza, mai con durezza.

Ogni donna era una madre o una nonna, ogni uomo uno zio, ogni vecchio un saggio con una storia sulle labbra e, ogni consiglio era carezza.

Quando arrivò il momento di andare a scuola, entrai in un mondo nuovo, qui nessuno parlava piano e la voce era squadrata, sicura.

Il maestro chiedeva e, gli altri bambini rispondevano, ridevano, gridavano, ma io no, preferendo rimanere in silenzio, non per timidezza, non per paura, ma per fedeltà di appartenenza solida misurata con il silenzio estremo.

Nel dubbio che il modo di parlare mi tradisse e, svelasse come “uno di fuori” – paradosso meraviglioso per chi non era mai uscito da quella manciata di strade – preferendo tacere.

E il silenzio era cosi radicato e rispettoso per quel luogo di formazione prima, così tanto, che il maestro si convinse che fossi muto e, nel dubbio anche di più.

Un bambino muto, dicevano, un’anomalia, uno da seguire con attenzione, da interrogare con gesti e occhi larghi, ma io non ero muto perché solidamente radicato.

Avevo dentro di me la voce dei luoghi natii, che non era mai silenziosa ma parlava con misura.
E ogni volta che doveva rispondere, pensava: “Se parlo troppo forte, se parlo come loro… forse non mi riconosceranno più, forse perderò il suono della mia terra.”

E così non imparai neanche a scrivere e quando iniziai a farlo mi dicevano che scrivevo come parlavo e qualche anziano, avvolte, mi invitava a cantare per avere conferma dei miei studi.

Una parola dopo l’altra, con la stessa lentezza con cui da piccolo aveva imparato a parlare piano.
Un nuovo modo per dire chi era, da dove venivo, senza gridarlo e senza perderlo.

Quando ero giovinetto e uscii dalle pieghe della Gjitonia, il mondo mi appariva più semplice, ma non per questo meno duro.

Non capivo ancora tutto, ma sentivo profondamente ciò che era giusto e ciò che non lo era e, ricordo ancora quegli sguardi duri, quei giochi dove vinceva sempre il più forte, e quelle voci, spesso adulte, che senza motivo spingevano a schiacciare, a sopraffare, a dominare l’altro.

Non c’era una vera logica in quel comportamento, ma era solo una spinta velata, che veniva accettata come normale.

Ma io non riuscivo a stare zitto e dentro di me qualcosa si agitava, come un fuoco che non voleva spegnersi e, mentre altri chinavano la testa o ridevano con i prepotenti per sentirsi parte del branco, io restavo in piedi, con lo sguardo fisso.

Non per coraggio, forse, ma per necessità, tuttavia la mia coscienza non mi lasciava tregua, anche se in cuor mio tremavo dentro, sapevo che non potevo ignorare l’ingiustizia.

Fu in quegli anni che iniziai a smuovere le prime barriere, non quelle di pietra o di ferro, ma quelle invisibili, dell’indifferenza, della paura e, della rassegnazione.

Lo facevo con piccoli gesti, una parola, un gesto di azione, uno sguardo solidale e condiviso con chi era lasciato indietro.

A volte bastava poco, e il mondo sembrava cambiare per un attimo, ma non avevo ancora le parole per spiegare tutto questo, ma qualcosa l’avevo già appreso.

L’avevo sentito nei racconti dei miei nonni, nelle storie dette a mezza voce nelle sere d’inverno, quando parlavano di tempi difficili, di divisioni profonde, ma anche di uomini e donne che avevano scelto di unire, invece che dividere.

Dicevano che chi tende la mano costruisce ponti, mentre chi alza muri si chiude da solo in una prigione e, fu così che diffuse in me una convinzione semplice ma potente, ovvero: unire è meglio che separare.

Non era solo un pensiero, ma una guida e, ogni volta che il dubbio mi sfiorava, che la rabbia o la stanchezza minacciavano di farmi cedere, prendevo una strada diversa, quella che mi portava verso i saggi.

Non sempre erano i più istruiti o i più ascoltati, ma sapevano stare in silenzio, e quel silenzio che insegnava più di mille discorsi.

Mi accoglievano con uno sguardo sereno, e con poche parole mi davano visioni di un mondo diverso, un mondo dove la fratellanza non era un’utopia, ma un orizzonte possibile.

Non c’era pena nei loro occhi, ma compassione, e nessun rancore ed erano lì, pronti, come se mi aspettassero da sempre.

Così, tra l’inquietudine e la ricerca, nacquero i miei primi passi sulla strada del giusto e, non avevo ancora un nome per quello che cercavo, ma sapevo che dovevo cercarlo.

E in quella che oggi si dice che sia la parte alta del Katundë, capii che il vero coraggio non era farsi temere, ma farsi comprendere.

Non era vincere sugli altri, ma vincere su sé stessi, ogni volta che il mondo ci spingeva a scegliere l’indifferenza e, io, giovinetto, scelsi di non voltarmi mai dall’altra parte.

Poi venne un tempo nuovo, dove le regole erano più rigide e la lingua che avevo sempre parlato e, che mi scaldava la bocca e il cuore divenne improvvisamente sbagliata.

Me lo fecero capire presto, anche senza dirmelo direttamente e, bastava uno sguardo, una smorfia, una risatina dietro le spalle quando aprivo bocca.

Parlavo solo in arbëreşë, quello denso di suoni antichi, carico di storie e fatica, di terra e di gente, in fondo era la lingua di mio padre, dei miei nonni, delle canzoni che si cantavano per strada o nei campi, l’eco del mio Katundë, come lo chiamavano i vecchi.

Ma a scuola, no, sin anche quando prendevo la via per raggiungerla si doveva parlava l’italiano che non mi apparteneva.

Era pulito, ordinato, quasi freddo e, non aveva il sapore del pane caldo al mattino, né l’eco delle risate nelle stalle, perché mi rievocava una maschera, che non mi apparteneva.

E così, piano piano, mi allontanai, non dalla scuola, perché ci andavo lo stesso, con rispetto, ma da quelli che cercava di cancellare ciò che ero.

Rimasi fedele al mio parlato, al mio modo di esprimermi, anche se qualcuno se ne vergognava, anche se i miei compagni, quando uscivamo in giro per Cosenza, abbassavano la voce quando mi sentivano parlare e, cercavano di correggermi, o peggio, mi ignorava.

Ma io no, non cambiavo, perché preferivo camminare da solo, piuttosto e, avvolte cantavo canzoni che avevo imparato da bambino, quelle che raccontavano di amori impossibili, di campi arati sotto il sole cocente, di partenze senza ritorno e di speranze appese alle stelle.

Canzoni che avevano parole dure come pietre e dolci come miele, camminavo per le strade della città con la testa alta e la voce bassa, come per non disturbare nessuno, ma anche per non tradire me stesso.

La mia non era ostinazione, ma era solo fedeltà e, il mio parlato non era solo un modo di dire le cose, era il modo in cui vedevo il mondo.

In quelle parole c’erano le mie radici, i miei dolori, i miei affetti, e in quel canto, c’era la mia libertà e, così imparai, senza saperlo, la solitudine dignitosa di chi rifiuta di cancellarsi per piacere agli altri.

Non c’era rabbia in me, solo una dolce resistenza e quando mi chiedevano perché parlavo ancora in quel modo, rispondevo: “io parlo e canto con la lingua che mi ha fatto uomo.”

Conclusa la parentesi cosentina, e dopo una breve esperienza a Reggio Calabria, partii per Napoli, deciso a portare a termine il mio percorso accademico.

Era un momento di passaggio, non solo geografico ma anche intellettuale, attraverso il quale lasciavo temporaneamente la mia terra per una città che, da secoli, rappresenta un centro nevralgico della cultura e della formazione nel Mezzogiorno.

Tuttavia, ciò che mi portavo dentro, più forte ancora della sete di conoscenza, era un’eredità mai del tutto compresa, né da me né, tantomeno, da chi l’aveva studiata sino ad allora, genitrici compresi.

E poco prima della mia partenza, un rappresentativo esponente della comunità arbëreşë, figura di grande esperienza e memoria storica, mi rivolse parole che mi sarebbero rimaste impresse a lungo:
“L’architettura, e in particolare le abitazioni del nostro Katundë, non sono mai state oggetto di studio da parte di alcuno e, se un giorno tornerai come professionista, forse potrai dare inizio a una nuova stagione di studi, mai affrontati fino ad oggi.”

In quel momento quelle parole suonavano come un incoraggiamento, quasi una benedizione, ma col tempo, però, le ho comprese come un vero e proprio passaggio di testimone, in sostanza un patto.

Perché lì, in quell’annotazione apparentemente casuale, si celava un vuoto storiografico, culturale e identitario che nessuno, fino ad allora, aveva considerato o dato peso all’ambiente costruito, le case, le strade, le piazze, i materiali e le tecniche tradizionali, meritassero uno sguardo analitico, scientifico, critico. La cultura arbëreşë sembrava custodire solo i codici rituali, linguistici e religiosi, ma ignorava il corpo fisico dei luoghi in cui questa cultura era vissuta e si era manifestata per secoli.

Durante gli anni napoletani, mentre i miei studi si aprivano verso visioni più ampie dell’architettura e dell’urbanistica, sentivo crescere in me la consapevolezza di un compito affidatomi per ricostruire, capire e salvare e sostenere la regione storica diffusa e sostenuta in arbëreşë.

E così ho fatto, negli anni, raccogliendo materiali, facendo analisi, rilevando edifici, collaborando con eccellenze del misurare per fare restauro, in sostanza le figure più alte che dirigevano la facoltà di Napoli e come loro mi insegnarono.

Mi confrontavo con anziani le vere fonti locali, scattavo fotografie, ricostruivo trame insediative, sovrapponendo cartografie storiche.

Ho cercato, con metodo e con passione, di ridare voce a un patrimonio silente, che attendeva solo di essere ascoltato in arbëreşe.

Ma oggi, paradossalmente, il mio ritorno non è stato accolto e, le mie ricerche, frutto di anni di impegno solitario e di studio rigoroso, non trovano spazio.

In fondo lo capisco pure perché c’è timore, forse anche diffidenza, verso ciò che metto in discussione, come interpretazioni consolidate, narrazioni ufficiali, componimenti storici mai realmente interrogati.

In un certo senso, la mia opera rischia il “disturbare” un equilibrio fondato su omissioni, consuetudini e semplificazioni accademiche.

Eppure, non posso fare altro che continuare e, se la storia arbëreshe vuole sopravvivere come viva, deve accettare di rileggersi, anche nelle sue forme materiali, nei suoi silenzi e nelle sue dimenticanze.

L’architettura non è solo un fatto tecnico o estetico, ma testimonianza, identità, linguaggio e, nessun popolo può dirsi davvero consapevole di sé se ignora i luoghi in cui ha abitato il suo proprio passato.

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                                            Napoli2025-10-01

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SUSSURRI ARBËREŞË ALLA RICERCA DI ASCOLTO gjitonia shëpitë udatë katochjetë e stalljeta druve cu u rjta

SUSSURRI ARBËREŞË ALLA RICERCA DI ASCOLTO gjitonia shëpitë udatë katochjetë e stalljeta druve cu u rjta

Posted on 30 settembre 2025 by admin

Chiesa CodraNAPOLI di (Atanasio Pizzi Architetto Basile) – È una pena infinita osservare inesperti ed estranei allo spirito dei luoghi, avanzare con passi pesanti, quasi longobardi, lungo i vicoli di un centro antico arbëreshë.

Calpestano le pietre senza saperle ascoltare, senza avvertire il suono dei secoli che ancora vibra sotto i loro piedi, non conoscono le mani che le hanno posate, non sentono le voci che le hanno attraversate.

Eppure quelle pietre parla ogni curva, ogni intonaco, ogni finestra chiusa da anni e, chi non sa vedere passa oltre.

Sono questi i centri storicamente noti per essere stati piegati dal tempo e, vederli sottoposti ai cadenzati abbagli, che senza rispetto, immaginano sia una piramidale borgata medioevale, non è certo il modo per darli in pasto ai media.

E quanti si inoltrano in un Katundë, senza chiedere o informarsi prima di cosa e come fare, finiscono nel perdersi, calpestare, disorientandosi e terminare fuori dal costruito, perché si crede sia circoscritto da mura, non avendo misura di quanti ideali si elevano nel perimetro più estremo di un Katundë.

Qui pur se all’aria aperta, le case respirare con difficoltà e, le pareti scrostate, restituiscono echi e, le ombre riconoscono i viandanti, ancora prima che decidano di addentrarsi.

Perché i sassi riconoscono ogni suono che fa domanda anomala, ogni angolo diventa frammento di memoria, e l’aria vibra sottile, in lacrimoso patire per il termine che nel breve a venire diverrà realtà.

Si ode un lamento sommesso, in fondo al vico dove vibra una luce fioca, disturbata dai suoni smisurati e, che non appartengono a questo tempo, chi qui si trova a passare violento non ha misura di ascolto per questo animo arbëreshë.

Si passa sotto un arco, vicino a una crepa e una soglia di casa, da tempo remoto immutata e, a breve niente sarà più come prima anche, se la memoria delle voci riecheggiano il volto di quanti qui hanno vissuto per far crescere sani generi senza preferenze; chi sa ascoltare e vedere intravede anche i segni delle lacrime e il sudore quando tutti videro partire i figli capaci.

Tornare, come promesso, per raccontare cosa è stato, diventa un atto di rispetto verso questi luoghi che da troppo tempo, nessuno ascolta perché lasciati nella disponibilità degli “ischi imbibiti di gocce in minzione”.

Qui nessuno riconosce più le fondazioni, nessuno sa come valutare lo spessore e la qualità dei muri, come neanche gli spessori sovrapposti di calce per il tempo lungo e la fumigine di quello corto sulle pareti depositatesi non per capriccio ma per segnare il tempo impaziente della modernità.

È come se qui il tempo avesse smesso di contare, come se il progresso si fosse arreso davanti alla nuda e dura pietra, della polvere, delle assi inchiodate dei solai in silenzio e, tutti non chiede nulla se non di essere riconosciuto e rispettati per il lavoro fatto.

Camminare tra i vicoli del centro antico è come infilarsi in una cicatrice ancora calda e, ogni angolo conserva memoria di sangue vivo, in ogni muro dove l’eco di un nome, di una voce, di un passo che non tornerà qui ancora tutto è in grado di ricordare.

Tra questi vicoli, la presenza di un figlio buono è sempre viva, non è nostalgia, non è malinconia, ma qualcosa di più sottile e radicato, secondo un legame tra ciò che è stato e ciò che potrebbe ancora essere e, solo chi torna se accolto con giudizio e rispetto, avrà modo di ascoltare e tradurre questo riverbero antico che cerca aiuto per sfidare il tempo.

Il mio Katundë non ha bisogno di essere salvato, ma riconosciuto, confermato e chi torna, chi si prende la responsabilità di raccontarlo, non lo fa per romanticismo o per apparire, ma lo fa perché sente che il tempo non ha senso se le cose qui ancora in vita, non le si aiuta a fiorire alimentandole con la memoria vera.

Addentrarsi negli ambiti di un centro antico senza sapere chi ha tracciato i perimetri di case e chiese, illustrando esclusivamente graffiti e marmi moderni, non è certo un documento storico, ma una farsa mediatica, come lo fu il vendere Toto e Peppino vendere la Fontana di Trevi a un turista americano di passaggio.

Così chi entra nel Katundë, da olivetano non lo fa armato di telecamere o mape di palcoscenico, perché quelle mura le scambiano per cavalieri armati come facevano piratati e ottomani invasori che senza rispetto, esaltavano la loro presenza, perché questi luoghi non chiedono futuro incerto, chiedono ascolto di un figlio.

Trovare qui un vecchio baule con dentro le vesti delle madri o delle nonne, non li si deve indossare e poi scendere a illustrarle lungo il lavinaio, perché quello era il luogo dei suini locali, non certo opportunità per essere sposa.

E ogni parola detta qui senza ragione pesa quanto una pietra, e ogni silenzio che viene disturbato dai comuni viandanti ignari, vale più di un terremoto, tornare e procedere con saggezza, non fa altro che togliere la cenere che copre le cose dimenticate da quanti li avrebbero dovuti amministrare.

Il vestito da sposa non è solo pieghe e colori copiati dalla natura, ma un protocollo che per essere raccontato richiede anni di sapere e non il tempo di infilate il filo nella cruna dell’ago.

Non serve tornare rumorosi, né rievocativi di una realtà che qui non ha mai avuto luogo, infatti alcuni suoni, certi slanci celebrativi, certi racconti gonfiati da chi qui non ha avuto un solo istante di crescita, forse serve altrove, dove riempire il vuoto con l’immaginazione e senza decoro di memoria, crede sia professione.

Ma il nostro centro antico qui in esame, non chiede interpretazioni, non accetta sovrascritture, perché qui le grafiti erano solo opera del gatto irrequieto e, chi torna, se lo faranno tornare davvero, lo fa in silenzio, perché sa che il silenzio non è assenza ma momento di ascolto amplificato, della cassa armonica fatta di anima e tempo.

In questi ambiti ameni chi ha l’orecchio calibrato, non solo può udire, ma comprendere e cogliere ciò che quei muri, quelle soglie, quelle strade, sussurrano ancora, in tutto storie che esistono sempre e tentano di sopravvivere per non essere cancellate.

In un centro antico arbëreşë il passato non si manifesta con clamore, non reclama palco né nostalgia, il passato si deposita, si sedimenta nei luoghi e si plasmano, come fa l’olio quando si versa e diventando trama sottile che solo chi si ferma può percepire o riconoscerne l’essenza.

E allora non serve voce, non servono dichiarazioni, ma serve solo presenza, rispetto e la capacità di ascoltare e lasciarsi dire qualcosa da quel poco che ancora resta e risuona in questi vicoli circondati da soglie di storia.

Entrare in un circoscritto familiare arbëreşë, con preparazione specifica di ascolto e parlato, nella comprensione profonda del valore vernacolare e nella lettura del gesto quotidiano, significa accedere a un archivio del presente che non sta altrove ma depositato in questi scaffali fatti di crepe nei muri.

Qui ogni cosa e scaffale che conserva memoria e, gli oggetti, le tecniche manuali tramandate, non sono reperti muti, ma testimoni attivi di una storia non scritta.

Attraverso il riecheggiare delle mani operose che conoscono i gesti degli avi, si può rilevare con precisione ciò che nessun archivio conosce, ovvero i ritmi, le intenzioni, le modifiche minime tramandate per secoli in quello stesso luogo dove sono diventate operose.

È una storia che vive nel fare, nel dire, nel silenzio condiviso, una storia che resiste al tempo proprio perché non si è mai allontanata dal luogo dove è nata consolidando questi luoghi di consuetudini che segnano i battiti del tempo.

Ogni atto domestico, ogni parola detta secondo la consuetudine locale, ogni utensile posato nello stesso modo da generazioni, custodisce la verità di una memoria collettiva profonda, difficile da decifrare senza l’orecchio e lo sguardo giusto.

Attraverso un’analisi visiva e tattile degli elevati murari, appartenenti all’edilizia vernacolare, in particolare dell’edificato del centro antico e gli ambiti destinati a deposito, stalla e legnaia, è possibile ricostruire le principali fasi costruttive, individuando tanto le epoche di primo impianto quanto eventuali interventi successivi di riedificazione, ampliamento o riparazione.

Tale indagine si basa sul riconoscimento e sulla lettura stratigrafica degli apparati murari, che consente di identificare le tecniche costruttive, i materiali impiegati e le modalità di posa, fornendo così preziosi indizi per una datazione relativa delle diverse fasi edilizie.

In particolare, l’osservazione delle qualità dei materiali costituenti la muratura, come pietre locali di natura calcarea o arenaria, oppure l’impiego di frammenti laterizi e ceramici reimpiegati, spesso legati con malte a base di argilla o calce, permette il distinguere, tecniche più arcaiche e soluzioni più recenti, spesso legate a differenti disponibilità di risorse, a cambiamenti nei modelli costruttivi o all’introduzione di nuove tecnologie.

In alcuni casi, la presenza di materiali eterogenei o di riuso (come cocci, tegole, mattoni frantumati) inseriti in impasti terrosi può suggerire interventi di recupero o fasi di ricostruzione successive a eventi traumatici, quali crolli, incendi o modifiche funzionali dell’edificio.

Un ulteriore elemento fondamentale per l’analisi dell’edilizia vernacolare, soprattutto in contesti post-catastrofici o di ricostruzione, è rappresentato dalla presenza (o assenza) delle pietre angolari, spesso accuratamente squadrate o selezionate, collocate agli spigoli degli edifici.

Queste, oltre a svolgere una funzione strutturale e di consolidamento, costituiscono anche un indicatore del livello economico e sociale del nucleo familiare costruttore.

Nelle abitazioni appartenenti a famiglie più agiate, tali pietre si presentano generalmente ben lavorate, di dimensioni regolari e disposte con tecnica accurata, spesso provenienti da cave locali o da edifici precedenti smantellati in modo selettivo.

Al contrario, nelle abitazioni delle fasce meno abbienti, si riscontra frequentemente l’assenza di angolari ben definiti e, gli spigoli sono realizzati con pietre di recupero disposte irregolarmente, o addirittura senza soluzione tecnica evidente, segno di una costruzione realizzata con materiali di fortuna e con mezzi limitati.

Questo dato costruttivo permette di distinguere le ricostruzioni più strutturate, promosse da famiglie con maggiore disponibilità economica, da quelle più improvvisate o di emergenza, effettuate da chi aveva perso tutto in seguito a eventi calamitosi (sismi, frane, incendi, guerre, carestie).

In molti casi, infatti, i meno abbienti si trovavano a ricostruire sugli stessi ruderi delle case crollate, utilizzando materiali di spogliatura recuperati sul posto o da edifici abbandonati, spesso senza la possibilità di acquistare nuova materia prima.

Questa stratificazione di tecniche e materiali consente di leggere le disuguaglianze sociali direttamente nella muratura, rendendo il manufatto architettonico una fonte storica di prima mano.

La presenza discontinua di pietre angolari, insieme alla qualità delle malte, al tipo di leganti e alla composizione degli impasti murari, diventa quindi una chiave interpretativa per comprendere la geografia della ricostruzione, distinguendo chi ha potuto ricostruire con risorse proprie e chi invece ha dovuto arrangiarsi con ciò che restava.

Questa metodologia, che affianca l’archeologia dell’architettura all’analisi dei materiali, si rivela particolarmente utile in contesti collinari dove la documentazione scritta è spesso assente o lacunosa. L’indagine diretta sulle murature, quindi, rappresenta uno strumento fondamentale per la comprensione delle trasformazioni storiche del paesaggio costruito e delle pratiche costruttive locali tramandate oralmente o per tradizione.

Inoltre, l’incrocio dei dati materiali ricavati dall’analisi diretta delle murature con le fonti storiche relative ad eventi naturali e sociali, quali terremoti, pandemie, carestie o periodi di siccità, consente di contestualizzare con maggiore precisione le fasi di trasformazione degli insediamenti rurali.

Questi eventi traumatici, documentati attraverso cronache locali, registri parrocchiali, o documentazione storica più ampia, spesso trovano riscontro anche nella materialità del costruito di crolli, ricostruzioni parziali, sostituzioni di materiali, o addirittura mutamenti nella funzione d’uso degli edifici.

Nel caso specifico dei Katundë e, i cunei di pertinenza, tali eventi possono aver segnato veri e propri momenti della storia comunitaria, con conseguenze tangibili nell’assetto insediativo, nella qualità dell’edilizia e nelle tecniche costruttive impiegate.

Pertanto, il confronto tra dati rilevati dalle fonti storiche locali permette non solo di datare con maggiore attendibilità alle fasi costruttive, ma anche di restituire una lettura solida alla storia locale, intrecciando le vicende architettoniche con i processi, ambientali e socio-economici che hanno interessato questi contesti collinari fuori dalle pertinenze dell’anofele.

Se di un Katundë arbëreşë non si ha consapevolezza delle sue origini, delle tappe evolutive che lo hanno formato e del paziente lavoro di ripristino portato avanti dagli arbëreşe, allora non si può parlare di nulla. Ogni tentativo di comprensione risulterà vano e, così, chi si avventura con incoscienza o presunzione ad attraversarlo, finisce inevitabilmente per sbattere la propria conoscenza contro un muro.

E purtroppo questo un muro provoca confusione, disorientamento, scambiato per la ‘murazione’ della borgata, o, per dirla in altro modo, della bovara.

I centri storici arbëreşe, perché sostenuti in conseguenza della diaspora Balcana, portano in sé un’identità solida, profonda, che non può essere oggetto di indagine da parte di letterati improvvisati o di chi si accontenta di lettere superficiali.

La loro comprensione richiede invece la sapienza degli Olivetani, cresciuti nei luoghi dell’eccellenza formativa di Palazzo Gravina, dove l’architettura non è solo un mestiere, ma scuola di pensiero, disciplina e abnegazione totale.

Solo chi si è formato in questo edificio di conoscenza, tra i più solidi del meridione, per rigore e ampiezza di sapere, può aspirare a cogliere l’essenza di questi luoghi e tradurla con rispetto e maestria.”

Oggi tutti coloro che affermano di essere transitati sulla via degli Olivetani, magari dopo averne anche solo fissato l’ingresso, custodito come immagine, hanno il dovere di fermarsi, ascoltare, e lasciarsi attraversare dalle parole sagge che solo l’Olivetano autentico può tradurre.

Perché quelle mura antiche non parlano né il latino né il greco, ma una lingua indoeuropea originaria, arcaica solo parlato, che non si studia sui libri ma si apprende attraverso l’ascolto profondo.

È la lingua della pietra, del vento e delle stagioni, una lingua seminata tra gli orti, che non ha fretta di germogliare.

Vuole il suo tempo, pretende silenzio e attenzione, e si dona solo a chi sa davvero ascoltare, perché solo attraverso l’ascolto profondo si può comprenderla, non con gli occhi affrettati del turista o con le parole svuotate del letterato di passaggio, ma con la pazienza di chi è disposto ad attendere il suo frutto.

Atanasio Architetto Pizzi                                                                                                    Napoli 2025-09-30

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