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SCRIVERE IN ARBËREŞË È UN DILEMMA EPISTEMOLOGICO PRIMA CHE LINGUISTICO “non serve la “z” perduta per scrivere in arbëreşë perché ci vuole anima”

SCRIVERE IN ARBËREŞË È UN DILEMMA EPISTEMOLOGICO PRIMA CHE LINGUISTICO “non serve la “z” perduta per scrivere in arbëreşë perché ci vuole anima”

Posted on 17 dicembre 2025 by admin

Nonna mamma e figliNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – La persistente assenza, nel mondo arbëreşe contemporaneo, di una forma scritta comunemente riconosciuta, condivisa e socialmente accolta non può essere interpretata come una semplice lacuna tecnica o come il risultato di una presunta arretratezza filologica.

Al contrario, essa rappresenta l’esito di un processo storico e culturale complesso, radicato in un fraintendimento epistemologico di fondo e persegue l’idea che la lingua possa essere fissata attraverso la mera corrispondenza tra suoni e segni grafici, tralasciando l’indagare il significato profondo che ogni pronuncia incarna all’interno della comunità che la genera.

Dal punto di vista antropologico, l’arbëreşë, si configura storicamente come una lingua eminentemente orale, inscritta nei corpi, nei rituali, nei contesti relazionali e nelle pratiche quotidiane della comunità indivisibile.

La pronuncia per questo, non è mai stata un semplice fatto fonetico, ma un atto carico di valori e simboli, identitari e sociali e, ogni variazione, inflessione, accento rimanda a una specifica storia comunitaria, a una memoria condivisa, a un modo particolare di abitare e vivere il mondo.

In questo senso, la lingua arbëreşe non si è mai offerta come un oggetto neutro da trascrivere, bensì come un sapere incarnato, trasmesso attraverso l’ascolto, la ripetizione e la partecipazione.

Qualsiasi tentativo di ridurla a un sistema grafico univoco avrebbe richiesto, preliminarmente, un’indagine conoscitiva sul significato culturale delle sue forme sonore che riportano la memoria alla notte dei tempi.

È possibile formulare, in termini teorici, un principio interpretativo, che qui chiameremo teorema dell’assenza metodologica, secondo cui, fino ad oggi, nessuno si è applicato in modo sistematico e condiviso, studiando e interpretando il significato che ogni pronuncia assume all’interno del proprio contesto antropologico e a quelle simili che indicano e fanno immaginare cosa reale.

I tentativi di codificazione scritta che si sono succeduti nel corso di vari tentativi scrittografici hanno, infatti, privilegiato l’allineamento meccanico di suoni alfabetici a segni grafici, assumendo implicitamente che la lingua fosse un’entità autonoma, separabile dalla vita sociale che la sostiene.

Questa fare in ardire ha prodotto una molteplicità di proposte ortografiche, spesso tra loro incompatibili, ciascuna delle quali pretendeva di “rappresentare” la lingua senza interrogarsi sulla legittimità culturale di tale rappresentazione.

L’ostinazione, protrattasi per diversi secoli, nel voler “fissare l’anima del parlato arbëreşë attraverso un’immagine grafica dei suoni, ha condotto a risultati paradossali e, invece di consolidare una norma condivisa, ha accentuato le fratture interne, alimentato diffidenza delle macroaree dei parlanti.

Ogni proposta scritta è apparsa come un’imposizione esterna o come l’espressione di una singola autorità culturale, assoggettata al comune dire: “da noi si dice così”, il frutto di un processo collettivo di riconoscimento alloctono.

Il risultato evidente allo stato di fatto attuale, è una produzione scritta che non trova adesione diffusa, né sul piano sociale né su quello identitario che mira ad est del fiume adriatico in pena.

La scrittura, anziché essere percepita come uno strumento di continuità culturale, viene spesso avvertita come un elemento estraneo o artificiale.

Sin anche dal punto di vista antropologico, ogni sistema di scrittura si presenta come un dispositivo di potere che seleziona, normalizza e gerarchizza.

Nel caso dell’arbëreşe, l’assenza di una riflessione condivisa sul significato delle pronunce ha impedito la costruzione di un consenso simbolico attorno a una forma scritta legittimata dal basso.

Senza questo consenso, nessuna ortografia può aspirare a essere “ben accolta”, poiché manca il fondamento culturale che la renda riconoscibile, propria e condivisa.

La questione della scrittura arbëreşë, dunque, non può essere risolta attraverso ulteriori tentativi di trascrizione fonetica o di standardizzazione grafica isolata e ristretta come l’acqua di un torrente.

Essa richiede, piuttosto, un cambio di paradigma: un metodo di indagine conoscitiva che parta dal significato, dall’uso sociale della lingua, dalla percezione che i parlanti hanno delle proprie pronunce.

Solo riconoscendo la lingua come fenomeno antropologico totale e non come semplice sistema di suoni, sarà possibile immaginare, eventualmente, una forma scritta che non sia imposta, ma riconosciuta; non allineata ai suoni, ma radicata nel senso condiviso del parlare arbëreşe.

Trovare una metodica di scrittura che sia capace di creare, attorno al parlante arbëreşe, uno spazio simbolico abitabile non è un problema meramente linguistico, ma eminentemente antropologico e, lingua, in questo caso, non è solo un sistema di segni, ma è luogo, tempo, relazione.

Scrivere l’arbëreşë significa tentare di ricostruire, attraverso il testo, quell’ambiente domestico che tradizionalmente si formava attorno al focolare, dove la parola non aveva bisogno di essere spiegata perché era condivisa.

Il fuoco di casa, in questa prospettiva, non è una semplice immagine nostalgica, ma centro rituale del comunicare per trasmettere memoria.

È qui che la lingua non veniva insegnata, ma vissuta; non veniva codificata, ma riconosciuta e, ogni tentativo moderno di fissarla in una norma scritta si scontra con questo dato fondamentale, secondo cui l’arbëreşe nasce come lingua di comunità ristretta, fondata sull’ascolto, sulla prossimità fisica e affettiva, non sulla distanza del testo.

In questo senso, la scelta di Pasquale Baffi nel 1775, appare oggi meno come una rinuncia e più come un atto di estrema lucidità.

Baffi, latinista e grecista di altissimo livello, possedeva tutti gli strumenti per definire, classificare, normare di ogni genere e grado, ma nonostante ciò non lo fece.

Si limitò alla comparazione, evitando accuratamente di stabilire cosa fosse “semplice” o “complesso” nella lingua arbëreşë.

Dal punto di vista antropologico, questo gesto può essere letto come il riconoscimento di un limite, secondo cui la lingua arbëreşe non si lascia catturare fuori dal suo ambiente vitale.

Comparare significa osservare senza sottrarre; definire, invece, significa estrarre la parola dal suo contesto e renderla autonoma, quindi potenzialmente estranea alla comunità che l’ha generata.

La domanda che qui si pone, perché nessuno abbia mai colto quell’invito, è centrale, la cui risposta, probabilmente, risiede nella pressione esercitata dai modelli culturali dominanti.

La modernità chiede grammatiche, dizionari, standard e, che una lingua si comporti come le altre lingue nazionali.

Ma l’arbëreşë non nasce per essere “lingua di Stato”: nasce come lingua di resistenza domestica, come custodia della memoria in condizioni di minoranza diasporica, lacrimosa e colma di memoria.

Tentare di fissarla senza ricreare lo spazio antropologico che la sostiene, equivale a conservare le ceneri senza il fuoco.

Da qui il senso di estraneità che molti parlanti provano davanti a testi scritti che, pur corretti, non “scaldano”, non restituiscono l’esperienza dell’essere a casa.

Da ciò una vera metodica di scrittura arbëreşe, non dovrebbe partire dalla parola isolata, ma dalla situazione: chi parla, a chi, in quale contesto, con quale carico affettivo.

Più che definire, dovrebbe evocare; più che normare, dovrebbe riconnettere e, in questo senso, la lezione di Baffi resta ancora aperta: non un rifiuto della scrittura, ma un monito a non separarla dalla vita che deve rappresentare.

Ostinarsi a scrivere commedie o vocabolari è un errore che nasce da un fraintendimento profondo della parola come fatto umano, perché le parole dette non sono semplici unità di significato ma gesti, eventi situati, pratiche sociali che aprono scenari condivisi e producono senso nel tempo della relazione.

Essa deve essere voce, corpo, contesto e memoria collettiva e tutte insieme devono concorrere a farle vivere, mentre chi tenta di tradurle nello scritto, corre il rischio di isolarle, di ridurle a oggetti inerti, come tane buie e senza luce.

E dimenticano che ogni parola nasce da un uso, da un incontro e da una storia, e che solo mantenendo traccia di questa dimensione relazionale e antropologica la scrittura può evitare di tradire ciò che pretende di conservare.

Nel nostro tempo, chi continua ostinatamente a scrivere parole sulle lavagne o a tradurle sugli schermi un parlato a dir poco multilingue, si interroga davvero sul senso di ciò che vuole far percepire come identità.

Soprattutto se a parlare sono generazioni che non hanno cognizione di un’origine concreta della parola e, non sono cresciute davanti al focolare domestico o ascoltando la madre sulla soglia di una casa, questi, i luoghi ideali in cui il linguaggio nasceva dalla necessità, dal silenzio condiviso e dall’esperienza comune.

La parola, un tempo, era inseparabile dalla vita che la generava, mescolandosi con la fatica quotidiana, con il ritmo delle stagioni, con il lavoro dei campi, seminando il grano, zappando le vigne e gli uliveti, da cui scaturivano il pane, l’olio e il vino.

Parlare significava testimoniare, nominare ciò che si conosceva con del corpo, della natura ancor prima che con il pensiero moderno.

Oggi, invece, molte parole circolano prive di radici e, vengono pronunciate senza memoria o visione per essere scritte e tradotte da figure che non hanno conosciuto il bruciore delle mani né il peso del tempo lento della terra che germogliava in arbëreşë.

Il linguaggio si è fatto leggero, astratto, spesso autoreferenziale e, non nasce più dalla necessità, ma dalla ripetizione, che non è fatica, ma superficie d’immagine.

Si produce così una frattura profonda tra il dire e l’essere, con le parole che non custodiscono più memoria, non portano il segno della terra né la responsabilità di chi le pronuncia.

E quando il linguaggio perde il legame con la fatica che lo ha generato, rischia di diventare vuoto: un rumore continuo che non nutre, come un pane fatto senza grano.

Forse la vera povertà del nostro tempo non è la mancanza di parole, ma la perdita del loro peso e, recuperarne il senso significherebbe tornare a riconoscere che ogni parola autentica nasce da una relazione con il mondo, con il lavoro, con la sofferenza e con il tempo e, senza questa radice, parlare non è più un atto di verità, ma solo un esercizio di voce ignota, che non riceva ascolto alcuno.

Arch. Atanasio P.  Basile (Attento Ricercatore Napoletano Arbëreşë Tenace) A.R.N.A.T.

 

 

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LA PORTA PER IL BISOGNO DELL’ABITARE ARBËREŞË

LA PORTA PER IL BISOGNO DELL’ABITARE ARBËREŞË

Posted on 15 dicembre 2025 by admin

ProspettoNAPOLI (di Atanasio P. Architetto Basile – Le soglie delle dimore Arbëreşë non erano di pietra o di solido materiale, ma passaggi o meglio varchi, carichi di significato, tracciate con mani attente per segnare il limite entro cui la vita familiare si consolidava.

Ognuna di esse racchiudeva la storia e la forza di chi abitava la casa, proteggendo la solidità dei legami, nutrendo la convivenza e custodendo la volontà di affrontare ogni avversità.

Varcare quella soglia significava entrare in uno spazio in cui la famiglia cresceva solida e robusta, in cui le radici affondavano profonde nel ricordo e la memoria degli antenati di cui erano intrise quelle mura, sempre pronte a riecheggiare senza clamori nell’animo delle generazioni future.

Nello sviluppo di questo discorso si vuole sottolineare l’essenzialità delle abitazioni dei nuclei insediatisi lungo la frontiera che divideva la diocesi di Rossano con quella di Bisignano, non discostandosi dalle altre li confinati, con l’utilizzo di case in adobe, costruite con terra e paglia, tetti modesti, muri spessi e silenziosi, nati non per ornamento ma per necessità.

Non per il lusso o gloria, ma per sfuggire al peso delle tasse, alle imposizioni di chi pretendeva di contare ogni vita, ogni pietra, ogni faticoso gesto.

In queste dimore semplici si legge la storia di un popolo che sa piegarsi al mondo senza spezzarsi, che sa difendersi senza alzare mura impossibili, che sa trasformare la precarietà in casa, e la casa in comunità, come tanti fili d’erba uniti da un filamento sottile che li rende solidi e indistruttibili.

E allora il ricordo va alla flottilla che solcò il mare adriatico dalla sponda dei Balcani, uomini e donne con occhi pieni di speranza, bambini stretti ai fianchi dei genitori, arrivi su coste sconosciute, e poi li pronta e subito, la salita verso le colline, il primo contatto con una terra selvaggia, ma generosa e pronta a germogliare abbracci.

Non hanno bisogno di alfabeti lontani, di zeta o segni indecifrabili, in quanto la loro sapienza si legge nella disposizione delle case, nei terrazzamenti coltivati, nei villaggi che lentamente si aggregano sulle alture. Ogni casa è un segno di resistenza, ogni sentiero tra le case è testimonianza di coraggio, ogni campo coltivato è un patto silenzioso con la terra che li accoglie.

E così, nel Meridione italiano, si intrecciano mondi lontani, genti che dal mare e dalle montagne balcaniche e greche, portano con sé non solo il proprio corpo, ma il proprio ingegno, la propria visione del mondo.

Qui, tra colline che mirano le vallate e il mare, nascono comunità che apprendono la misura del vento, della pioggia e della luce, costruendo case lungo le contrade che parlano di adattamento e di forza.

La storia non è solo negli archivi, non è solo nei documenti, ma risiede intatta nelle pietre di questi centri antichi, nelle vie di famiglie solidamente unite, nei gesti quotidiani delle madri in casa e dei padri nell’agro   e attraversano secoli senza mai spegnersi o cambiare atto.

Osservando queste dimore essenziali, possiamo comprendere la grandezza di un popolo che, pur costretto alla semplicità, ha saputo imprimere la propria memoria nella terra ritrovata, imprimendo segni duraturi senza bisogno di parole scritte.

È questa storia, fatta di coraggio, ingegno e resistenza, che ancora oggi ci parla, che ancora oggi ci invita ad ascoltare e mirare con rispetto le colline del nostro Meridione e della valle del crati qui trattate in questo breve in trattato.

In origine, le contrade di confine erano concepite principalmente come torri di controllo, destinate a esercitare funzioni di sorveglianza e difesa lungo i confini territoriali, ma con l’insediamento degli Arbëreshë, distribuiti secondo criteri strategici, che tali luoghi iniziarono a configurarsi secondo sistemi abitativi articolati e coerenti.

In questo processo, la memoria del passato non venne né cancellata né trascurata; al contrario, fu continuamente valorizzata, costituendo un fondamento culturale e spaziale in grado di conferire unità e continuità al territorio.

L’abitato, così strutturato, si presenta come un organismo capace di integrare il retaggio storico con le esigenze del presente, configurando uno sviluppo insediativo che si proietta in una progressiva risalita lungo il tempo e lo spazio.

Il territorio meridionale, a partire dal periodo della dominazione di Sibari, attraversò una fase caratterizzata da una sostanziale inattività politico-amministrativa e da un relativo abbandono delle pratiche produttive. Questo momento di decadenza, pur segnato da inefficienze e stagnazione, costituì paradossalmente la premessa per i successivi processi di trasformazione territoriale, poiché lasciava ampi spazi per interventi di bonifica e riorganizzazione degli insediamenti.

Con l’arrivo dei soldati bizantini, le contrade di confine, originariamente concepite come torri di controllo e punti strategici di sorveglianza, assunsero una nuova centralità funzionale.

La loro distribuzione mirata e la presenza di strutture militari favorirono un primo grado di organizzazione spaziale, che preparò il terreno per l’insediamento stabile di nuove comunità.

L’avvento successivo delle grange cistercensi, con le loro pratiche agrarie avanzate e la capacità di gestione del territorio, costituirono un modello di valorizzazione economica che gli Arbëreshë avrebbero poi fatto proprio.

La conoscenza di queste strutture, la loro organizzazione e la capacità di sfruttare le risorse naturali locali furono per agli Arbëreshë strumenti idonei per intraprendere una vera e propria opera di bonifica e riqualificazione del territorio, trasformando aree marginali e paludose in zone produttive e fertili.

A seguito delle capitolazioni civili e religiose, il paesaggio insediativo entrò in una nuova fase: quella dell’edificato vernacolare.

E gli Arbëreshë, integrarono le esperienze pregresse e le tradizioni locali con le proprie radici culturali, svilupparono abitati capaci di coniugare funzionalità e memoria storica e, in questo contesto, l’architettura vernacolare non si limitava a rispondere a esigenze pratiche, ma rappresentava anche un veicolo di identità collettiva, consentendo al territorio di consolidare un senso di continuità tra passato e presente.

Le abitazioni, i nuclei insediativi e le infrastrutture minori, organizzati secondo criteri di prossimità e connettività, favorirono l’aggregazione sociale e culturale, rendendo queste terre non solo produttive, ma anche capaci di accogliere e unire popolazioni di diversa origine.

Il processo insediativo degli Arbëreşë può essere quindi interpretato come un modello di valorizzazione integrata del territorio, in cui le valenze fisiche e agrarie si intrecciano con la costruzione di una memoria collettiva condivisa.

Le terre così riorganizzate e coltivate, in grado di “germogliare” economicamente e socialmente, divennero un crocevia di scambi culturali e identitari, segnando l’inizio di una nuova epoca nella storia del Mezzogiorno, ovvero della coesione territoriale e della resilienza insediativa, capace di connettere popolazioni e tradizioni differenti in un tessuto sociale solido e duraturo.

 

Dopo le capitolazioni che segnarono l’accoglienza certificata nelle terre parallele ritrovate, gli Arbëreşë si insediarono adottando un modello di “centro abitato aperto”, frutto di una visione strategica e comunitaria che coniugava sicurezza e armonia tra gli abitanti e l’ambiente circostante.

Questi insediamenti non erano chiusi da mura o parti difensive rigide, ma al contrario, la loro struttura favoriva un controllo discreto, ma efficace sugli estranei in transito, garantendo al tempo stesso la libertà di movimento verso gli spazi agricoli e naturali limitrofi.

Tale organizzazione rifletteva una profonda coscienza territoriale, in quanto l’uomo non dominava il paesaggio, ma ne rispettava e valorizzava le caratteristiche, costruendo un rapporto di cooperazione reciproca con il teatro naturale circostante.

Questo equilibrio tra apertura e protezione, tra comunità e ambiente, non solo assicurò la sopravvivenza fisica, ma gettò le basi per una solidità economica duratura, attraverso la valorizzazione dell’agricoltura e delle risorse locali, e favorì un arricchimento culturale che si tradusse in continuità delle tradizioni, della lingua e dell’identità collettiva.

In definitiva, i Katundë Arbëreşë rappresentano un esempio significativo di insediamento umano integrato, in cui la pianificazione sociale e urbanistica veniva intimamente connessa a una filosofia di vita fondata sulla resilienza, sulla cooperazione e sul dialogo costante tra generi e ambiente.

Successivamente furono introdotte rigide imposizioni regie, in base alle quali le comunità arbëreşë erano tenute a rientrare nelle proprie abitazioni prima del tramonto e a non oltrepassare i confini dell’edificato del centro antico fino al sorgere del sole.

Tali disposizioni imponevano la permanenza entro le mura, la cui edificazione doveva essere completata nel più breve tempo possibile.

Le autorità concedevano esclusivamente una limitata libertà di pascolo in aree preventivamente delimitate, nonché la possibilità di praticare la caccia in fasce orarie stabilite, e questo per chi non svolgeva lavori nell’agro.

Nonostante ciò, le comunità riuscirono in parte ad eludere tali restrizioni, procedendo alla costruzione di nuove abitazioni e di recinzioni destinate agli orti botanici, determinando così un progressivo ampliamento dell’assetto insediativo.

Questo processo venne improvvisamente interrotto da un evento sismico di vasta portata, nel 1663 a seguito del quale, una grave e prolungata carestia, rare legò lo sviluppo economica e sociale del territorio.

Gli agglomerati diffusi arbëreshë nascono secondo regie disposizioni e grazie al modello di famiglia allargata, secondo quanto disposto nel Kanun.

I quartieri Katundë, kishja Moticèlleth, Sheshi, Brègù e Castagneto, allocati sempre nei pressi di torrenti, rappresentano il percorso evolutivo che il centro abitato ha seguito per restituirci l’attuale assetto planimetrico inviando informazioni storiche con gli appellativi appena citati.

Il processo di trasformazione dell’ambiente naturale in quello costruito è avvenuto secondo i parametri morfologici, floristici, orografici e climatici; fondamentali per gli esuli, giacché simili a quelli della terra d’origine.

In queste macro aree l’antico e il moderno si intrecciano e si sovrappongono per creare quello spessore di tradizioni e innovazioni che rappresentano la vera ricchezza dei Katundë arbëreşë.

L’energia indispensabile per dare in ogni epoca le risposte più idonee al bisogno della società in continua evoluzione.

Il tutto diviene un sistema dove oggi trovano spazio, tra le fila di ciò che esiste e rimane solidamente abbarbicato alla storia, anche episodi discutibili senza ragione di essere, perché condotti dai soliti ricercatori che vagano alla ostinata apposizione della zeta perduta, in tutto i soliti letterati che per giustificare la pena inflitta si autoeleggono portatori sani del continuo lagrimoso storico, ereditato dagli antichi.

È in queste sistemi urbani diffusi che le costanti dei sistemi urbani: il recinto, la casa e l’orto botanico, trovano l’ambiente ideale per restituire gli ambiti odierni, dove: il recinto delimita il territorio, ove la famiglia allargata, o iunctura familiare ha il controllo assoluto evidenziato dalla casa (Shëpja), circoscritta dal recinto (Ghàrëd).

La casa allestita da un unico ambiente in cui conservare le poche suppellettili e alimenti; l’orto botanico è luogo della farmacia, dimora anche dell’orto stagionale.

È in questo sistema dove gli elementi di unione di famiglie che prendono forma: Vicoli Articolati, Archi a Misura, Vicoli Cieche e spazi comuni a misura di luogo: Vallj.

 Inizia il processo evolutivo del modello familiare allargato, che assume una conformazione urbana come degli indigeni e poi, in tempi più recenti vive quello della multimedialità.

Quando la famiglia allargata inizia ad assumere la conformazione ti tipo urbana a inizio il realizzarsi dei primi isolati (manxane), che da impianti articolati diventano lineari.

Inoltre lo sviluppo degli agglomerati accoglie le direttive dell’urbanistica greca e alloca gli accessi degli abituri del bisogno sulle strette vie secondarie, rruhat.

La Gjitonia, (dove vedo e dove sento o luogo ideale dei cinque sensi), resiste alla modernità diventando il luogo della ricerca dell’antico legame indispensabile per la consuetudine arbëreshë.

Gjitonia principio fondamentale su cui si basa il modello di iunctura familiare, ha origine dal tepore del focolare, si espande con cerchi concentrici, nella piazzetta sheshi e si estende lungo le rruhat, sino a giungere negli angoli più reconditi dei cunei agrari, boschivi e dalla trasformazione di pertinenza.

Gjitonia si avverte, si respira, si assapora, si vede, si tocca, senza mai poter essere tracciata e, gli agglomerati con il cuore antico che pulsa e la mente che ricorda, rappresentano il cardine che lega lingue, religioni e storie dissimili, tutte quelle in grado di produrre il modello d’integrazione più riuscito del mediterraneo.

Il piccolo abituro del bisogno, shëpia, in origine realizzato con rami intrecciati poi con blocchi di terra mista a fango e paglia, nello scorrere delle ere, è ottimizzato attraverso l’utilizzo di materiali autoctoni più idonei come: pietre, calce e arena.

E dopo il terremoto del 1783 e la conseguente realizzazione della Giunta di Cassa Sacra, gli stessi ambiti urbani minoritari ebbero un nuovo sviluppo architettonico e gli agglomerati iniziarono a svilupparsi con regole regie.

Ed è così che anche gli ambiti urbani arbëreshë assunsero una nuova veste distributiva che allocava i magazzini e le stalle al piano terra mentre le abitazioni erano al primo livello, avendo come parametro fondamentate le proporzioni l’altezza dei palazzi per definire l’ampiezza delle strade primarie quella dei vicoli.

I frazionamenti, nel corso dei secoli precedenti avevano fatto largo uso delle scale esterne, in tutto profferlo, in quanto, non tutti avevano la possibilità di costruire nuove abitazioni, modificando radicalmente in questo modo le prospettive all’interno di strade vicoli e piazze.

Il ciclo di crescita si arricchisce ulteriormente dopo il decennio francese, con la costruzione dei nuovi palazzotti nobiliari, espressione di una classe sociale emergente.

Ciò avviene solo per le classi più elevate perché quelle meno abbienti continuano a occupare i vecchi modelli del bisogno e la classe media, esterna la nuova posizione sociale, imitando frammenti dei palazzi post napoleonici.

I contemporanei Katundë e il territorio circostanti sono il risultato della lenta giustapposizione sovrapposizione e sovrapposizione di innumerevoli frammenti nuovi e riciclati per necessità selezionati dai grandi cambiamenti e dai piccoli cambiamenti urbani, delle ferite, dei conflitti e delle fioriture di nuove ere che in seguito avranno una lettura più oculata e senza bisogno di ostinarsi a cercare la improbabile zeta perduta.

Architetto Atanasio P. Basile (Attento Ricercatore Napoletano Arbëreşë Tenace) A.R.N.A.T.

 

 

 

 

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SANTA LUCIA E I GIORNI CHE GUARDANO SINO A NATALE I biri magaresë pa truu ruenë me sitë e Shën Lucièsë

SANTA LUCIA E I GIORNI CHE GUARDANO SINO A NATALE I biri magaresë pa truu ruenë me sitë e Shën Lucièsë

Posted on 14 dicembre 2025 by admin

Santa LuciaNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – C’è un tempo dell’anno in cui il cielo sembra abbassarsi sulla terra e parlare a chi ha ancora la pazienza di ascoltare.

È il tempo che va dal giorno di Santa Lucia alla vigilia di Natale, dodici giorni sospesi, brevi nella luce e lunghi nel significato, che la tradizione antica ha sempre considerato come uno specchio fedele dell’anno che sta per venire.

Nei giorni, quando l’inverno ha già stretto attorno al focolare delle case la famiglia e la natura si è ritirata in silenzio, le figure che un tempo dialogavano con il cielo con attenzione quasi sacra.

Ogni giorno non era soltanto un giorno, ma un mese annunciato e Santa Lucia, con il suo chiarore fragile, parlava di gennaio; il giorno seguente custodiva il destino di febbraio, e così via, fino a quando la vigilia di Natale, carica di attesa e raccoglimento, svelava il carattere dell’ultimo mese dell’anno nuovo.

Non si trattava di una previsione frettolosa, ma un esercizio di lentezza e, il sole che compariva timido dietro le nuvole non prometteva solo bel tempo, ma equilibrio.

Un cielo chiuso, pesante di pioggia, non annunciava sventura, bensì mesi di lavoro duro e di prove da affrontare con costanza.

La neve, quando arrivava, parlava di protezione, di riposo necessario prima della rinascita e, ogni fenomeno era letto non come giudizio, ma come messaggio fraterno inviato dalla natura all’uomo.

Questa sapienza non nasceva dalla paura del futuro, ma dal desiderio di prepararsi.

I contadini segnavano nella mente, o talvolta su piccoli quaderni, ciò che vedevano: l’alternarsi di sole e ombra, il vento che cambiava direzione, il gelo che mordeva al mattino e cedeva nel pomeriggio. Sapevano che il cielo non mente, ma parla con un linguaggio che richiede umiltà.

Tra Santa Lucia e la Vigilia il mondo sembra fermarsi, e proprio per questo rivela di più. Gli animali si muovono poco, i campi riposano, le notti sono lunghe. In questo silenzio, ogni segno acquista peso. Non c’è distrazione, non c’è fretta. Il tempo non corre: si lascia leggere.

Questa tradizione insegnava anche un’altra verità, più profonda: l’anno nuovo non è una rottura, ma una continuità. Ciò che verrà è già scritto in ciò che è. Osservare questi dodici giorni significava riconoscere che la vita segue cicli antichi, e che l’uomo, per vivere in armonia, deve imparare a muoversi dentro questi cicli, non contro di essi.

Così, mentre il Natale si avvicinava e le case si riempivano di attesa, chi conservava questa credenza non smetteva di guardare il cielo. Non per controllarlo, ma per ringraziarlo. Perché in quei giorni il tempo non serviva soltanto a prevedere il futuro, ma a ricordare che ogni anno è un dono fragile, da coltivare con rispetto, attenzione e memoria.

E ancora oggi, chi ripete questo gesto antico sa che non sta cercando certezze, ma connessione. Con la terra, con le stagioni, con coloro che, prima di noi, hanno imparato a vivere osservando il cielo e affidando al tempo il compito di insegnare.

Da Santa Lucia sino a Natale il tempo non corre, ma insegna all’uomo a osservare, a prevedere, a riconoscere il ritmo delle stagioni non solo nei campi, ma dentro di sé.

Sono giorni brevi, di luce misurata, e proprio per questo diventano maestri severi e giusti, mostrano quanto sia preziosa ogni ora, quanto sia necessario prepararsi quando il buio allunga le sue ombre.

In questo tratto dell’anno, l’uomo impara l’arte dell’organizzarsi.

La stagione lunga non si affronta con l’improvvisazione, come si ode dai progetti dei ricercatori dalla zeta smarrita, ma con la visione, dei saggi olivetani, specie adesso che bisogna seminare decisioni, in base agli strumenti da riparare, per rendere più solido il rafforzarsi delle fondamenta del lavoro per il germogli e la fioritura futura di un prodotto di terra locale senza importare parole e costumi altrui.

Chi comprende Santa Lucia sa che nulla nasce per caso o solo per parlare, una lingua altra, perché ogni raccolto è frutto di un pensiero antico, di una disciplina paziente che conosce cosa dire dove, ma soprattutto quando farlo.

La stagione corta, invece, insegna l’essenziale, ovvero quando il tempo stringe, non c’è spazio per lo spreco né per l’indecisione, per questo si fa e si dice ciò che conta, si conserva ciò che serve, si rinuncia al superfluo che racchiude quella zeta perduta.

Questa è una lezione dura ma necessaria, perché il futuro appartiene a chi sa distinguere tra il necessario e il vano raccontato dal campanile trasformato in minareto.

Così, nell’arco che va da Santa Lucia a Natale, si disegna l’intero anno che verrà, ma solo per quanti li sanno leggere questi giorni, solo loro saranno in grado di fare previsione e progetto per allestire nei mesi futuri.

Il freddo avverte di custodire le risorse, il silenzio invita all’ascolto, l’attesa prepara alla rinascita, tutto questo non è solo inverno: ma è un progetto.

E quando arriva il Natale, non giunge come fine, ma come promessa, infatti esso rappresenta la nascita della luce che lentamente ricomincia a crescere, e con essa cresce la speranza di un anno costruito con saggezza.

Chi ha osservato, chi ha previsto, chi ha lavorato nel tempo giusto, entrerà nel nuovo anno non con paura, ma con consapevolezza e cura, perché il futuro non si indovina: si prepara e, Santa Lucia, ancora una volta, lo insegna.

A tal proposito, si vuole sottolineare come il prossimo anno, già a partire da Santa Lucia, si presenti non come una semplice successione di giorni, ma come una visione chiara delle cose da fare.

È in questo tempo di passaggio che si raccolgono i segni e si tracciano i gesti necessari per riportare saggezza nei luoghi e nei tempi della stagione che verrà.

La saggezza non si impone: si semina, con cura, nei luoghi giusti e nei momenti opportuni, affinché possa germogliare vigorosa.

Solo così essa potrà fiorire numerosa e dare frutti buoni, capaci di sostenere la vita quotidiana e di rendere resiliente la consuetudine che cresce e si rafforza quando inizia il buio della stagione corta.

Ogni atto compiuto ora diventa nutrimento per il futuro e, le decisioni prese nel silenzio dell’inverno si trasformano in stabilità quando la luce si ritira.

Ciò che viene preparato con pazienza durante il tempo lungo proteggerà l’uomo quando il tempo si farà breve e severo.

Santa Lucia, dunque, non è soltanto memoria, ma fondamento, da lei prende forma un anno che chiede attenzione, misura e responsabilità, un anno in cui la previsione diventa cura, la cura diventa forza, e la forza diventa continuità.

Così, quando il buio tornerà a farsi più fitto, non troverà vuoto né fragilità, ma una consuetudine già cresciuta, radicata e pronta a resistere, perché nutrita da semi di saggezza piantati nel tempo giusto.

Arch. Atanasio Pizzi (Attento Ricercatore Napoletano Arbëreşë Tenace) A.R.N.A.T.

 

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SETTEMBRE 2014 SIGILLARONO IL PROTOCOLLO DELOCATIVO CATTIVAMENTE ERRANTE Ispirati dal geniale architetto che non vago mai ramengo per trovare la zeta perduta

SETTEMBRE 2014 SIGILLARONO IL PROTOCOLLO DELOCATIVO CATTIVAMENTE ERRANTE Ispirati dal geniale architetto che non vago mai ramengo per trovare la zeta perduta

Posted on 14 dicembre 2025 by admin

cavalloNAPOLI (di Atanasio P. Architetto Basile) – La storia del Mezzogiorno d’Italia, a partire dal Regno di Napoli sino all’età moderna è caratterizzata da ricorrenti processi de locativi, on penoso processo autolesivo adottando dalle istituzioni secondo una prassi a dir poco demenziale, in ogni dove, con certezza episodiche innaturali e lesive della dignità degli esposti.

Tali fenomeni, sempre giustificati da ragioni di sicurezza, amministrative, hanno inciso profonde sulla morale storica e sull’assetto demografico di numerosi centri antichi, innescando abbandono preventivo e lasciando come esito materiali i residui leggibili sotto forma di ruderi, senza tenere in conto delle esigenze morali costruite in quei luoghi ameni.

In tutto poi si risolvono in diaspore episodiche, che non lasciano tempo per trasferire in luoghi paralleli il vissuto storico palesemente negato, offrendo paesaggi incompiuti in equilibrio innaturale.

Nel corso del Novecento, queste dinamiche si sono riprodotte attraverso politiche di ricostruzione post-sismica o di fenomeni indotti dall’incoscienza amministrativa, talvolta culminate nella creazione di nuovi insediamenti a seguito della imposta dismissione dei centri originari e, valgano da esempio i casi di della Seteria Reale, il Martirano, Laino, Filadelfia e la partoriente Katundë con le note cinque figlie catastate e, questi per citarne i più penosi episodi che la storia ricordi.

Tali interventi, sebbene normativamente fondati su strumenti straordinari, generando effetti di frammentazione sociale e perdita della memoria storica, materiale ed immateriale.

Un significativo allerta culturale si palesa, a partire dal 2014, in concomitanza della “Strategia”, formalizzata nell’ambito dell’Accordo fasullo di una casa per il deserto fatta in una palude dove urgevano palafitte.

In questo contesto, l’apporto di competenze interdisciplinari, riconducibili, in particolare, all’interazione tra saperi geologici e storico architettonici arbëreşë, ha contribuito a rimettere in discussione le pratiche consolidate di abbandono e sostituzione insediativa riversa.

E fu così che dal 2014, che il quadro politico normativo nazionale ha iniziato a privilegiare la tutela e la rigenerazione dei centri storici esistenti, in coerenza con i principi dei beni culturali del paesaggio evitando di reprimere il valore storico dei suoli e valorizzare il patrimonio territoriale.

In tale prospettiva, le istituzioni hanno progressivamente abbandonato protocolli che miravano alla dismissione sistematica, ormai riconosciuti come produttori di sofferenza collettiva e impoverimento culturale di quelle tradizioni che si completavano solo in quel luogo.

Si è così avviato il superamento di un paradigma ereditato, incapace di interpretare la complessità storica e sociale dei territori, che in precedenza aveva relegato la memoria dei luoghi e delle comunità a una dimensione meramente simbolica e rituale, spesso confinata alle manifestazioni processionali e commemorative.

E quando fui incaricato come tecnico di parte, in qualità di architetto e ricercatore dei valori storico-consuetudinari legati ai bisogni insediativi delle comunità arbëreshë, nessuno tra gli operatori istituzionali coinvolti si attendeva un esito di cosi elevato rilievo.

Tuttavia, nel contesto circoscritto delle conferenze di servizio, in quel sotterraneo romano, si ebbe modo di chiarire un principio fondamentale: la Gjitonia non si progetta, né si costruisce con cemento, mattoni, lastre di ardesia per fare lavagne.

La Gjitonia perché cresce e si sviluppa nel tempo, attraverso la continuità, attraverso le relazioni sociali, dei saperi condivisi e le pratiche abitative sedimentate.

In quella aula sotterranea venne diffuso il principio secondo cui il processo de locativo, richieda la cooperazione coordinata di tutte le istituzioni coinvolte, orientate non alla mera sostituzione edilizia, ma alla comprensione del significato profondo dell’abitare condiviso da uomo, natura e tempo.

Da questa impostazione derivò un cambiamento sostanziale nell’approccio operativo: si superò la logica della semplice realizzazione di nuove unità abitative in favore del riconoscimento del valore dell’edificato esistente, concepito come espressione di un bisogno primario, plasmato nel tempo dalla relazione tra l’uomo, la natura e quella che potremmo definire l’opera silenziosa del “maestro tempo”.

Quella cavallerizza che cavalcava in quella piana bianca, non aveva mai smesso di sognare e tornare a cavalcare, fare distinzione tra giusti e colpevoli; resisteva alle intemperie, che flagellano senza memoria quella piana ormai baratro; ma soprattutto resisteva alla caparbietà senza onore di quanti non seppero amministrare il torrente che portava la memoria verso il mare di quel luogo che avrebbero dovuto custodire.

Essi parlavano di progresso, ma lasciavano macerie; invocavano la legge, ma ne usavano soltanto l’ombra; si presentavano come custodi, mentre erano mercanti.

E mentre la Cavallerizza osservava tutto questo in silenzio, con la pazienza feroce di chi sa che la vera resistenza è la saggezza del cavallo, che attende sempre la sua padrona per tornare a casa.

Quando la stanchezza sembrava ormai destinata a prevalere, quando persino la memoria rischiava di essere riscritta da chi aveva interesse a cancellarla, intervenne il cavaliere impavido che disegno le antiche arche con saggia precisione.

Non giunse con clamore, né con insegne sfarzose ma, portava con sé soltanto il peso della responsabilità e la chiarezza di chi riconosce ciò che va difeso e circoscritto.

Ogni cosa egli protesse: non per possesso, ma per dovere; non per ambizione, ma per rispetto e, davanti a lui le astuzie si fecero fragili, le narrazioni costruite iniziarono a incrinarsi e i quatrro figli e la figlia si ammutolirono in un angolo di quel fossato.

La battaglia del cavaliere nuovo, non fu una battaglia rapida né indolore, ma lotta fatta di resistenza quotidiana, di parole misurate, di gesti fermi e svelatura di bugie istituzionali.

Come accade nelle guerre che non trovano spazio nei racconti ufficiali, il nemico non indossava armature, ma maschere; non brandiva spade, ma firme e silenzi e l’impavido arbëreşe non abbandono mai quella Cavallerizza e non farla mai arrestare.

Ora il cavaliere attende, non reclama onori né riconoscimenti pubblici, ma attende soltanto che la quella storca vicenda portata a buon fine, lo accolga non come eroe, ma come testimone di una battaglia condotta con onore e vinta come faceva l’impavido Giorgio con lo storico cavallo.

E la sua ricompensa non è materiale, ma è soltanto conferma morale a dimostrazione che esistono ancora luoghi e coscienze capaci di distinguere la difesa dalla svendita, il sacrificio dal tornaconto.

Così combatteva Giorgio Castriota in terra d’Albania, quando l’avanzata dei turchi non era soltanto militare, ma culturale e morale.

Combatteva per restare fedele, non per prevalere e, in quella fedeltà trovava la sua forza, come nel 2014 fu per la Cavallerizza e il cavaliere olivetano, dove tutto si concretizzo in quel restare impavidi continuando a sfidare il tempo, l’oblio e la miseria morale di chi ha scelto il prezzo al posto del valore della storia.

Arch. Atanasio P. (Attento Ricercatore Napoletano Arbëreşë Tenace) A.R.N.A.T.

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LA RAZIONALE PROTO INDUSTRIA ALIMENTARE DEGLI ARBËREŞE: IL FORNO

LA RAZIONALE PROTO INDUSTRIA ALIMENTARE DEGLI ARBËREŞE: IL FORNO

Posted on 12 dicembre 2025 by admin

FornoNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Nelle piccole Kalljva, le abitazioni tradizionali arbëreşë, il camino e il forno non rappresentava soltanto uno strumento domestico, ma costituiva un vero e proprio centro di vita sociale ed economica.

Questi spazi, spesso modesti per dimensione ma ricchissimi di funzioni, erano concepiti come luoghi di trasformazione e, qui il fuoco diventava motore di proto-industria, strumento di sussistenza e memoria di un sapere artigianale tramandato di generazione in generazione.

Il forno, insieme al camino, era l’elemento più importante della Kalljva e, non serviva soltanto a riscaldare o cuocere, ma era un laboratorio comunitario, la sede di una tecnologia antica in cui si concentravano competenze precise e ritualità quotidiane. L’accensione del forno segnava un ritmo, quasi una liturgia domestica, dalla preparazione della legna alla disposizione delle braci, ogni gesto portava con sé regole, proverbi e un patrimonio di conoscenze pratiche che definivano l’identità arbëreshë.

Una volta portato “a regime”, il forno diventava la macchina principale per la trasformazione delle materie prime.

Qui avvenivano processi fondamentali per l’autosostentamento essiccazioni, cotture lente, tostature e soprattutto la panificazione.

Il pane, con le sue varianti storiche, era molto più di un alimento, perché rappresentava un simbolo di continuità culturale e religiosa, un bene essenziale la cui produzione coinvolgeva tutta la famiglia.

Le donne impastavano seguendo ritmi e ricette codificate, gli uomini preparavano il combustibile e regolavano il calore; i bambini osservavano, imparando attraverso il gesto ripetuto per poi avere in dono un pane a loro misura.

Accanto al pane ordinario, che garantiva il nutrimento quotidiano, esistevano pani rituali e stagionali, con forme, tecniche e significati differenti: pani intrecciati per le feste, focacce cerimoniali, varianti arricchite per i momenti solenni, impasti semplici riservati ai giorni di lavoro.

Ogni tipologia raccontava un rapporto profondo tra ambiente, comunità, fede e forno, quest’ultimo, era un piccolo centro produttivo, dove si trasformava la materia, ma trasformava anche la vita sociale.

Intorno ad esso si riunivano parole, consigli, scambi di lavoro e dello storico criscito; da esso uscivano profumi capaci di segnare un’epoca e di riportare alla memoria la forza di una cultura che ha saputo resistere nel tempo grazie ai suoi gesti più quotidiani.

Tutto ciò che prendeva vita nella Kalliva, come pane, focacce, e varianti rituali e quotidiane, aveva origine da un elemento minuscolo ma preziosissimo: il chicco di grano. Era da questa unità semplice, apparentemente fragile, che scaturiva la forza stessa della comunità arbëreshë.

Ogni raccolto, ogni trasformazione, ogni pane usciva dal forno come un atto di rispetto verso quella piccola semenza e verso la terra che l’aveva vista germogliare.

Il chicco di grano era considerato un dono duplice, in quanto dentro custodiva la parte bianca, pura e nobile, il cuore dell’alimento, in tutto l’endosperma, simbolo di abbondanza e di nutrimento “buono”.

Era questa porzione, tenera e luminosa, che veniva macinata finemente per ottenere la farina più pregiata, destinata spesso al pane delle occasioni o alle preparazioni più delicate.

L’atto di separare la parte interna da quella esterna non era soltanto un passaggio tecnico, ma un gesto simbolico, carico di memoria e consapevolezza del lavoro necessario per ottenere il nutrimento quotidiano.

La parte esterna del chicco, invece, conservava il colore della terra: un marrone intenso, ruvido, che ricordava visivamente le zolle da cui la pianta era nata.

Questa sezione, più densa e carica di fibra, parlava della fatica dei campi, della resistenza della natura e della continuità tra uomo e ambiente.

Non veniva mai considerata uno scarto, ma un elemento essenziale, prezioso a suo modo. Dalla crusca si ricavavano farine più grezze, impasti più rustici e un pane dal sapore robusto, che per secoli ha sostenuto i lavoratori nei periodi di maggiore sforzo.

Il ciclo di trasformazione iniziava con la trebbiatura, continuava con la vagliatura e si perfezionava nella molitura, dove la mano esperta del mugnaio sapeva distinguere consistenze, profumi e umidità.

Ogni fase restituiva al chicco la sua identità, dava corpo indiviso diventava materia differenziata, pronta per assumere forma e significato all’interno del forno della Kalljva.

Così, prima ancora dell’impasto e della cottura, il pane esisteva già nel concetto stesso di separazione e scelta, nell’equilibrio tra la purezza della parte interna e la forza della scorza esterna.

Era in questo dialogo tra bianco e terra, tra nobile e umile, che prendeva forma la cultura alimentare arbëreşë.

Una cultura capace di valorizzare ogni frammento del chicco, riconoscendo che la vita, come il pane, nasce sempre da ciò che è piccolo ma essenziale.

Quella giornata che iniziava con l’impasto di farina criscito acqua e sale la sera prime, non era soltanto un rito per le madri: era anche, a suo modo, la festa dei bambini.

Un giorno speciale, atteso quasi quanto le grandi ricorrenze, perché proprio allora i più piccoli godevano di una libertà che durante l’anno era rara.

Mentre le donne, chine sul grande impasto, seguivano il ritmo antico dei gesti tramandati, i bambini potevano finalmente giocare in autonomia, scorrazzando nei pressi della casa o del cortile senza che nessuno li richiamasse di continuo.

Sapevano però, anche nella loro ingenuità, che quella libertà aveva un prezzo: non avrebbero dovuto disturbare le madri.

Quel lavoro era sacro, faticoso, e richiedeva una dedizione assoluta e, le donne, con le braccia infarinate fino ai gomiti, impastavano come se stessero scolpendo la vita stessa, consapevoli che quel pane, caldo, fragrante, ricco di aromi naturali, avrebbe nutrito la famiglia per un mese intero.

Così i bambini giocavano “facendo i buoni”, un’espressione che quel giorno assumeva un valore quasi solenne.

Si rincorrevano, inventavano giochi con ciò che trovavano, costruivano regni immaginari con pietre e foglie, ma sempre con un orecchio attento a non fare troppo rumore.

Era come se anche loro partecipassero al rito, custodendone il silenzio e, poi c’era la ricompensa.

Tutti lo sapevano: chi non avesse fatto arrabbiare la mamma avrebbe ricevuto, alla fine, un piccolo pane tutto per sé.

Un pane ancora caldo, profumato, morbido, così buono che sembrava un dono prezioso. Quel momento era atteso come una piccola epifania e, le mani delle madri che porgevano la pagnottella, le dita dei bambini che bruciacchiavano appena toccando la crosta, il primo morso che sapeva di forno, di casa, di tradizione.

In quell’attimo, ogni bambino si sentiva parte di qualcosa di grande: non solo spettatore, ma custode silenzioso di un impegno antico che univa generazioni.

Era una festa semplice, fatta di niente eppure ricca di tutto, che rimaneva incisa nella memoria come il profumo di quel pane che nessuno avrebbe mai dimenticato.

 

Il processo che portava il forno a raggiungere la temperatura ideale per cuocere il pane seguiva una procedura molto razionale.

Per capire se il forno fosse “a regime”, cioè pronto per la cottura, si facevano cuocere le lagane: erano una sorta di termometro naturale che permetteva di valutare se il calore fosse quello giusto.

Una volta verificata la temperatura, si procedeva alla cottura del pane e, dopo averlo sfornato, il calore rimasto nel forno, quell’energia imprigionata nella volta ancora sana e calda, veniva utilizzato per preparare altre pietanze, pane e olio con il pomodoro nelle tipiche teglie di alluminio, crocette di fichi secchi infilzati, e tutto ciò che serviva per la cena della sera o per il pasto del giorno successivo.

Questi forni non erano sempre all’interno delle abitazioni e, quando le case erano troppo piccole o semplici, il forno veniva costruito accanto alla porta d’ingresso, e diventava utile anche per le altre famiglie modeste che non potevano permettersi un forno proprio. E quando portavano il pane appena sfornato, quella casa si riempiva degli odori e dell’atmosfera che solo un forno poteva regalare.

Arch. Atanasio Pizzi (Attento Ricercatore Napoletano Arbëreşë Tenace) A.R.N.A.T.

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IN MEMORIA DEL PARLATO DI UNA MADRI E IL CANTO DI UNO ZIO ARBËREŞË nanë Carmelina e lljallë Gelèu

IN MEMORIA DEL PARLATO DI UNA MADRI E IL CANTO DI UNO ZIO ARBËREŞË nanë Carmelina e lljallë Gelèu

Posted on 11 dicembre 2025 by admin

faro03NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Finché la lingua parlata arbëreşë rimase raccolta nel cerchio intimo del focolare, non oltrepassando il confine della casa dove si sosteneva semplice e naturale, dedita all’ascolto dei generi in crescita, sostenendo il legame tra una madre e i suoi figli, tutto riusciva a seminare germoglio fioritura e frutti, secondo l’antico protocollo identitario.

Ma da quando quella soglia di casa venne, superata e gli astanti hanno volto lo sguardo verso il mare e le montagne, intrecciando pieghe “senza cotone”, i figli e le figlie iniziarono a percorrere le vie con i capelli sciolti e senza fazzoletto terminando sotto lo sguardo degli angeli.

O nella memoria dei dogi che miravano a fare figli senza padre perché in battaglia a difenderei identità, nel contempo, la lingua smarriva il senso, il valore, la radice e la sostanziale e condusse quella madre che con l’angelo, lasciata sola ad attendere quella fioritura, davanti al fuoco di casa senza fuoco.

E fu così che ebbe modo di sbriciolarsi in appellativi compilati senza garbo, gesti irrispettosi senza garbo, rispetto o memoria, e ogni sua nuova parte diventa ironia della voce materna davanti a fuoco ormai spento; tutto diventa, suono senza eco, parola che non riceve ascolto, né compresa, tramandata, ma trascritta in con sottotitoli colmi di ironia e “offesa data”.

Così la lingua, privata della sua intimità viva davanti al camino, oggi è solo un guscio vuoto e non ricorda più la voce che l’ha creata e il canto che la cullava.

Questa è la sintesi silenziosa e profonda della storia che oggi vivono le nuove genitrici arbëreşë: donne che, senza più velo del capo e fuoco del camino, non sanno come custodire e tramandare quell’antico parlato, un tempo germoglio dal corpo, che percorreva la pelle per fare voce, posandosi sulla soglia delle case come un canto che tutti riconoscevano.

Il parlato arbëreşë nasce essenziale in solidale armonia con l’ambiente che lo circonda, diventa un filo caldo che lega generazioni e, non diventa appartenenza da respirare e condividere.

Bastava il gesto quotidiano della madre, il rumore lento del paiolo sostenuto dalla Camastra e riscaldato dal crepitio delle braci mentre la parola arbëreşe insaporisce le stanze come dono naturale, diventando confidenza e identità.

Un tempo c’erano luoghi dove il parlato poteva ancora riverberare, la soglia di casa, i muretti dove gli anziani sedevano prima del tramonto, le feste in cui il canto si intrecciava al passo della danza e sosteneva il senso di qui vicoli antichi.

Tutti questi luoghi ameni, ascolto o eco, dove ogni voce sapeva di avere un ritorno e, un cuore sapeva che sarebbe stato accolto pe fare famiglia e genere nuovo.

Così la lingua cresceva, si nutriva e, restava viva, diversamente dalle nuove ere odierne, che conducono le madri ad abitare in case senza focolare, cucine senza crepitii, giornate che corrono veloci e non lasciano riparo alle radici che ormai non ha bisogno di imbibirsi per crescere, in quanto è altra cosa.

Parlano ai figli con mille voci che vengono da lontano, voci luminose e confuse che le circondano ma non le riconoscono e, il tutto si conclude o che il figlio dice alla madre cosa fare, tanto ormai per i degeneri vale il motto che nessuno capisce nulla.

E la lingua antica, che una volta scorreva sicura come un’acqua familiare, oggi trema sulle labbra, incerta, quasi temesse di essere mal compresa o fuori luogo.

Non perché abbia perso valore, ma perché il mondo intorno non le offre più la sua cassa di risonanza, perché non ci sono più le campagne a custodire il suono, né le stanze piccole che lo trattengono, né le generazioni assise ad ascoltare.

Manca il silenzio che lasciava spazio alla parola; manca il ritmo lento in cui la memoria poteva affondare, crescere, e poi tornare alla luce, perché ormai tutti i figli battono i piedi e, fanno strimpellature musicali come “il napoletano irrequieto” che non sa se suonare la chitarra o echeggiare con l’armonica in bocca.

Così le nuove madri cercano di ricordare, nel proprio cuore la voce delle loro nonne, la trama di parole che le ha cresciute, il suono originario che le ha nutrite, quando ancora non sapevano parlare.

Eppure spesso questa ricerca diventa un cammino solitario, una nostalgia che non trova più la sua lingua completa, perché gli echi oltre adriatico salutano con un buongiorno compilato, senza chiede come stai.

La memoria del parlato sopravvive a lampi, nel modo in cui il figlio saluta la madre, in espressioni sfuggiti dal recinto delle pecore e senza pensarci, in una ninna nanna che ritorna solo a metà e diventa belato.

Sono frammenti preziosi, ma fragili, come schegge di un’antica ceramica che non si riesce più a ricomporre del tutto, anche perché se non si conosce la forma che faceva il contenitore, questo non potrà mai essere riconfigurato.

E tuttavia, in questa fragilità, qualcosa continua a pulsare, perché la lingua arbëreşë non è fatta soltanto di suoni, ma è un gesto, un calore, un modo di guardare il mondo.

Essa rappresenta una radice che non si spezza, ma aspetta una madre che la pronunci con coraggio; una madre che attende un figlio che la ascolti anche solo una volta pur se lontano, ed essa caparbia, attende una casa, qualunque casa, che voglia diventare nuovamente focolare di ascolto dove una madre e un figlio dialogano per sempre.

È in questa attesa che si compie la poesia della memoria: una parola che non muore, ma si nasconde; un parlato che non si spegne, ma chiede di essere riconosciuto.

E forse basta un gesto semplice, un sussurro, una storia, un nome detto con dolcezza, per far sì che la lingua torni a riverberare come faceva in tempo per scolarizzare storicamente quanti partecipavano al costruito sociale dei centri antichi arbëreşë.

Un edificato sociale non più astratto ma elevato con il cuore di chi ascolta, dove ogni voce, anche la più antica, può ancora rinascere e fare ascolto.

Non molto tempo addietro cominciò la ricerca di una lingua che tornasse poesia, dopo che il canto era stato abbandonato e, per dare spazio alla musica artificiale, di chi non aveva mai conosciuto un focolare di casa, né il calore che un tempo nutriva le parole.

Così prese avvio la deriva più dolorosa e, la lingua antica veniva svuotata, trasformata in suoni senza focolare, senza ombra, senza sangue.

Nonna Carmela fu la prima ad accorgersi di questa frattura, quando il figlio Temisto la accolse nella nuova casa, lei guardò quegli spazi lucidi e silenziosi come una condanna.

Accusandolo, con la semplicità schietta tipica di una donna saggia e anziana, di volerle far finire lì la sua vita, in una casa dove troneggiava una modernità fredda, e il fuoco non era più fuoco, ma una macchina di fuoco, un pozzo circoscritto da cerchi di ferro per cucinare a misura.

Nessun crepitio, nessun odore di legna, nessun luogo in cui la parola potesse germogliare come un tempo.

Si rammaricava di quella stanza che era più dove fu regina, perché non era più casa e, non conservava memoria, non accoglieva voci, non restituiva eco o crepitio alcuno.

Così preferiva sedersi fuori la soglia, come aveva sempre fatto, ed era lì che sentiva di poter ancora educare i vicini, i bambini, conversando con chiunque passasse, rimanendo seduta su quella linea sottile tra dentro e fuori, immaginando che dietro quella porta nuova e tinta di verde era vivo ancora il camino, e in quei gesti furi “Ina casa” ritrovava almeno in parte il suo mondo antico.

Sulla soglia, tra luce e ombra, continuava a vedere il fuoco che aveva custodito per tutta la vita e, quel fuoco che non scaldava soltanto le mani, ma manteneva vivo il parlato arbëreşë, lo faceva risuonare, lo faceva nascere e rinascere ogni giorno.

E lì, davanti all’uscio, nonna Carmela proteggeva ciò che restava della lingua, continuando a farle spazio, come si fa con un ospite antico e prezioso che non deve essere lasciato morire.

Ma quella stagione non durò a lungo e, nonna Carmela, ormai stanca, salì in cielo, e con il suo passo lento che si faceva sempre più leggero, portò via l’ultimo soffio caldo del focolare.

Fu allora che il parlato arbëreşë passò nelle mani dei meno adatti, mani che non conoscevano il silenzio del camino, né la pazienza delle braci, né il ritmo antico del cuore che ascolta prima di parlare.

Così, come accadde per il canto di Gelè, anche la lingua venne presa e schiacciata sotto i piedi, di chi batte il ritmo con tacco e suola, senza più sentire la vibrazione profonda dell’ugola che aveva dato origine al canto.

Il parlato, un tempo sacro, si ritrovò confuso nella frenesia di una musica che non aveva memoria, mescolato a un clamore che spegneva ogni eco, come se la parola fosse diventata solo un rumore da seguire, non più una radice da custodire.

E in quel passaggio brusco, quasi violento, la lingua perse la sua dimora naturale e, nessun fuoco a illuminarla, nessuna soglia a sostenerla, nessuna nonna a difenderla con il corpo e con la vita.

Rimase sospesa, come un canto tradito, come una preghiera dimenticata, affidata al vento e alla buona volontà di chi avrebbe potuto, un giorno, raccoglierla di nuovo.

E oggi, il battito di piedi che copre ogni cantato, assieme alla scrittura fatta dal carbonaio, ingabbia le parole come fossero segni muti, cancellano quei cuori che sapevano intrecciare parlato e canto, voce e sangue, memoria e respiro.

Erano cuori capaci di unire le generi per farli innamorare, sedere attorno allo stesso fuoco reale o immaginato, per riconoscersi in quell’unico filo sonoro che le attraversava.

Ora, invece, quel filo viene tirato, annodato, a volte spezzato e, il parlato non sgorga più libero dal grembo delle madri, non danza più sulle labbra dei vecchi, non scivola più breve e luminoso tra i giochi dei bambini.

Si perde tra rumori che non gli appartengono, tra scritture che non respirano, tra ritmi che battono forte ma non sanno ascoltare e, così i figli, che un tempo erano fieri di essere nati arbëreşë, rischiano di non riconoscersi più nello specchio della loro stessa voce.

Perché non è la lingua che scompare ma, il modo di portarla nel cuore che si assottiglia, che vacilla, che chiede silenziosamente di essere salvato.

E fu proprio il nipote di nonna Carmela, poco fuori da quel cortile che odorava ancora di legna spenta e di ricordi, a fermarsi un istante come se qualcuno gli sfiorasse la spalla.

Forse era la sua voce—la voce della nonna che non c’era più—che scendeva leggera dall’alto, come fanno le cose vere che non si perdono mai, a parlargli con il tono familiare di un tempo.

Di fronte a lui c’era il bambino cresciuto discolo, quello che gridava senza attenzione per il mondo e inciampava nelle parole come fossero pietre irregolari.

Proprio quello con un occhio birichino e quello stanco, con le mani sporche di polvere e saggezza, con l’anima già grande e precisa perché allievo, anche di nonna Carmela.

E fu proprio il nipote, quasi parlando per conto di lei, che si avvicinò con una dolcezza che non sapeva di avere.

Dicendo a quel discolo ormai adulto, domani «Parti» gli sussurrò, «impara, cresci e leggere questo paese,
non per fuggire da questo, ma per potervi tornare e racconta cosa è stato.

Perché un giorno qualcuno dovrà accendere il fuoco che la nonna ha sognato per tutta la vita, perché come nonna Carmela fece diventare saggio quel bambino che smise di gridare, e nella sua quiete improvvisa ci fu come un piccolo miracolo.

Sembrò che ascoltasse davvero, lui che ascoltava poco, e che capisse più di quanto potesse dire.
Forse sentiva anche lui quella presenza buona, quel respiro antico che aleggiava vicino ai muri del cortile.

Il focolare, quello desiderato, immaginato, atteso da nonna Carmela, che soltanto dopo il suo ultimo respiro venne costruito, oggi dorme lì, nuovo e silenzioso.

Pare attendere qualcuno capace di dargli una fiamma che non sia solo calore, ma memoria.
E in quel momento il nipote comprese che non era un compito suo soltanto, ma di tutti coloro che sarebbero venuti, e avrebbero portato con sé il filo del sapere e il peso lieve dell’amore.

Così rimasero, il ragazzo e il bambino, immobili nel cortile che si riempiva di ombre e promesse.
Due generazioni che si sfioravano, unite da una voce che parlava dall’alto e dal profondo.
Una voce che chiedeva solo questo: di continuare il sogno, di non lasciare spegnere la luce, di custodire il focolare della famiglia come un cuore che batte anche oltre la vita.

E il vento, passando tra le tegole e le foglie, sembrò portare lontano quel messaggio, come un testamento d’amore pronunciato senza mai essere scritto.

 

 

Arch. Atanasio Pizzi (Attento Ricercatore Napoletano Arbëreşë Tenace) A.R.N.A.T.

 

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LA MONETA DI MEMORIA E DIMENTICANZA CHE UNISCE ALBANESI E ARBËREŞË ghë gherë ishë kiana e kjepàtë thë bardà

Posted on 06 dicembre 2025 by admin

photo_2025-12-06_09-25-15NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Sono numerose, tra Italia e Albania, le manifestazioni che si svolgono in dipartimenti, palazzi istituzionali e consolari, per rinnovare, spesso in modo quantomeno singolare, la memoria di una sola liberazione.

Quando ad accadere sono due: la prima al termine della stagione lunga a novembre e, la seconda rimane ancora viva la sensazione di quella disdetta che accolsero in solitario, l’inizio di quella stessa stagione in marzo.

Un’appartenenza isolata arbëreşe, senza che si vedesse ombra, di coloro che oggi si ergono a conservatori o promotori di un modello consuetudinario che, ormai, non appartiene più a loro e che vide in solitario operare Domenico, Antonio, e Massimo; coadiuvati dagli instancabili e operosi “cavalieri di legalità, geologia e architettura”, onde evitare di subire una nuova diaspora, che cancellasse irreparabilmente le cose immateriali e materiali appena scalfite da quella benedizione ostinata del lagrimoso Abate.

Furono questi sei impavidi discendenti a dover trovare la forza di organizzarsi e di affrontare una diaspora moderna, che oggi nessuno ricorda e nessuno osa menzionare, perché non conosce fatti luoghi e cose.

Allora, nel cuore più profondo, tutto si dissolse, privando quella piana di ogni appoggio fisico e morale per conservare memoria, luogo e una tradizione antica che senza soluzione di continuità ostinatamente vive.

E non attende una strada, non attende istituzione ma almeno una processione che unisca tutti in una devozionale processione dello storico Katundë.

Infatti tutto si concentra oggi nell’apparire di un vecchio quadrupede sul cui basto si posano due pesanti fasci di rami, uno rivolto a oriente, l’altro a occidente.

E mentre il falso condottiero, ignaro e frettoloso, si incamminava lungo il torrente adriatico per ansare verso la veneta capitale, la sua mano priva di cautela lasciò scivolare nel nulla l’intero carico d’occidente che non era stato opportunamente avvolto dalla corda.

Così tornò a casa fiero soltanto dei rami d’oriente, incapace di vedere l’asimmetria, la perdita, la menzogna che portava con sé dal 2005 al 2011.

E mentre in Albania si festeggi la fine del dolore di novembre, qui in Regine Storica si continua a patire l’inizio di quel mese di marzo discioltosi lungo la via del ritorno del distratto contadino

Ed è questo, ancora oggi, ciò che appare all’occhio solitaria di chi osserva da un lato chi si esalta, celebra, si autoproclama custode di tradizioni che non gli appartengono più; dall’altro, nella piana dove la diaspora non concede tregua, lasciando soli ed isolati coloro che portano sulle spalle il peso silenzioso di ciò che è stato davvero vissuto in lacrimosa imposizione istituzionale e culturale.

In quel tempo d’inizio della stagione lunga, quando ancora risuonavano gli echi delle manifestazioni esaltate di un inverno piovoso, la gente di quel piccolo Katundë attendeva San Giuseppe con la lanterna accesa, sperando che potesse portare un raggio di luce nelle pieghe ancora umide dell’oscurità.

Ma quel canalone, lasciato per anni a compiere il suo lento dovere, come se il suo respiro fosse soltanto un dettaglio del paesaggio, si destò all’improvviso.

E il suo risveglio, repentino e furioso, fece uscire tutti dalle proprie case, come se un’antica voce avesse chiamato ciascuno a ricordare che le cipolle non si potevano più ripiantare.

Le istituzioni, che avevano ignorato troppo a lungo la condotta e gli avvisi del religioso “Abate solitario che continuamente benediva quel canalone”, si trovarono dinnanzi alla sua ira, un’ira non urlata, ma scolpita nei gesti storicamente ignorati e, tanto potenti da far vacillare perfino chi non avrebbe mai immaginato che un semplice luogo benedetto dalle acque potesse generare tanta pena.

Così, in quel frangente sospeso fra acqua e terra, fra colpa e risveglio, prese forma la consapevolezza di un abbandono che non poteva più essere nascosto.

E quando giunse il giorno dell’abbandono, nessuna istituzione si mosse da alcun luogo sia della regione storica o della fratria Albanese e, tutti si dichiararono estranei a quella pena arbëreşë, come se appartenesse soltanto a un passato remoto, come se bastasse immaginare un paese nuovo, “costruito attorno alle cinque Gjitonie”, per cancellare il dolore, le pene delle partenze subite.

E poi venne novembre, e con esso il giorno in cui Sant’Andrea salì al cielo, portando con sé un filo di luce da offrire al Paradiso.

Ma per quella piana, ormai trasformata in un canalone colmo di lacrime, che segnavano la loro ascesa segnò solo l’inizio di un’altra stagione, ovvero quella del tempo della “Dimenticanza”.

Un tempo in cui le voci si affievolirono, le memorie si sbiadirono, e il silenzio prese il posto dei racconti tramandati, come se tutto ciò che era stato vissuto potesse essere sepolto sotto lo scorrere lento e indifferente dei giorni.

Oggi è spontaneo domandarsi a cosa servano questi momenti di giubilo, qui, in questa nostra terra, quando le stesse istituzioni che ora innalzano vessilli e parole solenni furono le prime a negarsi e non venire in questa piana del canalone ad apparire solidali.

Nessuno venne allora a celebrare la fine dell’incubo di quanti furono costretti ad essere diasporici, raggirati con le ire dell’abate che adesso era in cielo a riferire che la piana affondava nella sua ferita e andava verso il Crati.

E così, nel vederli oggi festeggiare soddisfatti la liberazione albanese, sembra quasi di assistere a una scena rovesciata, come se affondassero benedizioni nel vuoto, proprio come faceva “l’Abate” su quella ferita storica che, ancora oggi, non termina in favore di quel luogo di memori diasporica antica.

Ci sono dolori che non conoscono giubilo, e memorie che non si lasciano riconciliare da una festa improvvisa specie se fatta dalle stesse istituzioni che dal quel marzo del 2005 voltarono in accordo sistematico le spalle.

Perché quelle negate sono radici che restano, anche quando chi dovrebbe custodirle sceglie invece di dimenticare e, mentre tutto questo scorre, in quella depressione storica che doveva andare nel Crati, la radice solida e viva ha germogliato alberi fieri che restano orgogliosamente inalberati e attenti a confermare che li “l’Abate” non benedice più con quelle acque virulente e vili.

Arch. Atanasio Pizzi (Attento Ricercatore Napoletano Arbëreşë Tenace) A.R.N.A.T.

 

 

 

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IL CRINALE È UN ERRORE GEOGRAFICO PER IDENTIFICARE UN KATUNDË Vitiriolètë venë me lljièshë thë spikësurë atìre rrhùgàve

IL CRINALE È UN ERRORE GEOGRAFICO PER IDENTIFICARE UN KATUNDË Vitiriolètë venë me lljièshë thë spikësurë atìre rrhùgàve

Posted on 01 dicembre 2025 by admin

CRESTA

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – I Katundë arbëreşë dalla valle del Crati e sino al Pollino sono comunemente definiti “Borghi di crinale”, tuttavia la definizione non corrisponde né alla realtà geografica né alla logica storica degli insediamenti delle genti diasporiche.

In verità, i centri arbëreşe sono insediamenti “di versante”, collocati lungo i fianchi delle valli e, gemellati a depressioni di “canalone”, il che agevola sin anche i naturali percorsi di transito, utili alla comunicazione, lo scambio e osservare di eventuali estranei.

A tal fine è opportuni precisare che le vie di crinale sono tipiche dei borghi medievali, edificati in tali cime per ragioni difensive e di controllo del territorio in epoche più oscure.

Va in oltre sottolineato che nel momento dell’arrivo gli arbëreshë (nel XV secolo), le prospettive che apriva il barocco non seguiva più il modello del sistema difensivo come paradigma replicabile.

Infatti gli arbëreshë, fuggiti dalla insopportabile deriva ottomana, guidati dai patti stipulati dal condottiero Giorgio, ebbero accoglienza e rifugio in Italia meridionale, accolti, nelle terre poco abitate.

La diaspora non fu un evento isolato, ma una serie di migrazioni, spesso concentrate nelle aree marginali del meridione e, strategicamente consigliate per valutare le ire francofone dei principi locali.

Proprio in questo contesto nasce la scelta del Katundë, che non è un piramidale a impronta del modello “chiuso e fortificato”, ma sistema urbano e civile “aperto e operoso per il dialogo con l’agro circostante.

I Katundë arbëreşë non si arroccavano dietro mura, non disponevano sul crinale, ma si dispongono lungo il versante, a diretto contatto con, le vie di transito con al fianco canaloni naturali o vie di transito.

Essi diventano spazio poroso, aperto e dinamico, in tutto, un luogo pensato per il movimento, il confronto solidale con l’agro, seguendo le dinamiche di memoria di accoglienza e fraterna cooperazione con gli indigeni locali.

Il Borgo medievale” al contrario, rispondeva a esigenze che dovevano soddisfare, la necessità di protezione originata dalla frammentazione politica e la costruzione di nuclei chiusi, fortificati, e allocati su crinali senza possibilità di allargarsi.

Questo modello non apparteneva ai principi della comunità arbëreşe, in quanto, esse giunsero nel Mezzogiorno d’Italia, per dissolvere la logica del borgo chiuso ormai senza più futuro, anzi non era più memoria, perché era indispensabile fare agricoltura, cooperazione territoriale, secondo le regole dei cunei agrari di produzione e trasformazione.

Dunque, descrivere i paesi arbëreşë come “borghi di crinale” è un errore storico, orografico, in quanto, comunità di versante, nate lungo vie di canalone, per essere luogo di confronto, accoglienza e, allestire relazione di scambio, dove l’identità culturale qui depositata si mantenne proprio grazie alla apertura diffusa, rimasta solida, viva e indeformabile.

Oltre alla questione orografica e alla collocazione geografica dei Katundë, ciò che in epoca moderna, a partire dagli anni sessanta del secolo scorso è diventato un muro invalicabile e il produrre un parlato e un ascolto arbëreşë che racchiude la luce della memoria.

E progressivamente con passi da gigante viene dismesso l’uso dell’idioma, o lessico essenziale che dava forza e identità ai luoghi, agli oggetti e, alle relazioni conviviali.

In molti casi, i pochi “vagabondi restanti”, che ancora camminano e cantano suonando lungo i vicoli e dietro le chiese dei Katundë, usando con naturalezza le cose o apparati, senza più nominarle o descriverle secondo la storica etica.

È come se ciò che è nuovo, tecnologico e attuale ha più etichetta della lingua originaria, privandola della possibilità di aggiornarsi, resistere e risuonare senza essere sostenuta come si fa con i terminanti.

Eppure, la lingua non è un semplice strumento musicale, in quanto memoria e, ogni parola o luogo arbëreşe contiene un gesto, un modo di vivere, una capacità di nominare il mondo secondo una logica comunitaria.

E se un gruppo si organizzasse a raccoglierne tutti i tasselli appartenenti all’idioma di radice, oggi avremmo una certezza per parlare in arbëreşë senza la necessità della islamica Albanistica.

Se le parole vere scompaiono dalla mente dei “vagabondi restanti”, continuando a risanare al ritmo dell’avanzare della pantera rosa, si disturba un intero modo di pensare o articolare un discorso in arbëreşë.

Ed è proprio così che i luoghi finiscono per non “riecheggiare parole”; resta solo la memoria di chi è partito a difendere e custodire la diaspora arbëreşë, quella nata da sacrifici e resistenza ad oltranza.

Una memoria che vive diversamente da ciò che viene sporadicamente “liberata” dalle strutture istituzionali, spesso prive degli strumenti necessari per comprendere davvero quella realtà.

Così, incerte e goffe, provano a far passare la saggezza attraverso un imbuto, usato, da inesperti, al contrario; riversando dall’alto nozioni che non sanno gestire, incapaci di far confluire la conoscenza dalla parte stretta del cono.

Questo ormai è una metafora largamente diffusa e utilizzata in variegate strutture che dicono di sapere e conoscere l’autentico uso dell’imbuto.

Uno strumento che, nella sua funzione originaria, serve a raccogliere e concentrare il sapere, incanalandolo con precisione attraverso una stretta apertura, l’imbuto, dunque, non è un mezzo per “versare dal basso” una verità preconfezionata, ma un dispositivo che consente di ascoltare, raccogliere e dirigere la conoscenza verso una forma coerente, condivisa che accolta e accoglie.

Quando, invece, lo si usa al contrario, come purtroppo accade e, ormai è regola diffusa, nei processi di confronto, il sapere non si concentra, ma si disperde, si frammenta, si volatilizza e non si trova più il luogo per raccoglierla.

Lo studio condiviso così, anziché consolidarsi e dare forza a un progetto di convergenza, si sparge come il vento del ventaglio, perdendo la possibilità di diventare memoria viva e patrimonio che unisce una comunità.

La metafora dell’imbuto diventa il simbolo degli studi e la conoscenza gestita con superficialità dai comunemente e, non può essere sostenuto dall’inchiostro sparso dallo strumento della scrittura, perché il dispositivo che rovescia dall’alto è, incapace di raccogliere con la realtà dell’inchiostro che vorrebbero interpretare un modo nuovo di aiutare la memoria.

Ed è proprio questa distanza tra il sapere condiviso “versato dall’alto” e la memoria egocentrica “costruita e versata dal basso”, che impedisce l’emergere di un discorso autentico e solidale sulla diaspora fatta di esperienza, sacrificio e resistenza.

Finché l’imbuto sarà usato nel modo sbagliato, non si potrà davvero raccogliere la voce di chi ha attraversato la storia, specie per quanti ad oggi si dilettano a seminare echi, immaginando che l’imbuto sia megafono.

La lingua, dunque, non va “esposta” come un reperto in una bottega senza un mestiere specifico, ma riaffidata alla vita di chi la parla, di chi la abita, di chi la porta dentro e la vive con l’operoso parlato e ascolto generazionale quotidiano “un tempo appellate Gjitonia”.

Senza questa bottega della continuità, confusa per altra cosa, la regione storica diffusa e sostenuta in arbëreşë rischia di essere un paesaggio svuotato e, irriconoscibile, perché mutato da suo didentro.

Riattivare il linguaggio, soprattutto quello delle cose semplici, degli oggetti, dei mestieri, del tempo atmosferico, del corpo, della natura, delle relazioni, significherebbe restituire forza ai Katundë, la identica forza indispensabile per una geografia umana che ancora esiste, ma attende di essere chiamata per nome, cognome e soprannome.

Finché il parlato non ritorna, senza l’ostinazione dello scritto, non esisterà una pietra in grado di fare difesa sufficiente del patrimonio e, ogni opera servirà solo a conservare passivante, nel mentre la memoria si trasforma in museo dove nessuno riconosce una goccia, una piega, un colore depositato.

Non si può spettacolarizzare il valore dei luoghi attraversati, bonificati, per essere vissuti dagli arbëreşë, senza possedere competenza nell’accogliere altre materie oltre al variegato idioma, perché la regione storica, notoriamente è fatta di costumi, pratiche sociali, credenza, valore vernacolare e tutte queste non solo “una”, ha fatto in modo di plasmare, sostenere e tramandare identità.

Ogni parola, ogni gesto, ogni rito che la comunità diasporica ha sviluppato per secoli nel quotidiano, porta in sé una funzione vitale, non è solo memoria, ma vera e propria struttura del vivere, o meglio un codice privato che tiene insieme la società, le sue relazioni, il legame e con il territorio.

Privare questi elementi della loro centralità, ridurli a “atto per apparire e mostrare”, equivale a leggere una mappa senza indicazioni, che si plasma in forma visibile, ma perde il senso, e con esso la capacità di comprendere ciò che quei luoghi significano e valgono davvero.

Gli arbëreşë hanno sostenuto, con fatica e lacrime, la conservazione del loro idioma e dei loro costumi, affrontando la diaspora, l’esilio, e la pressione di culture dominanti, che spesso li hanno relegati ai margini. Hanno seminato, metaforicamente e concretamente, ogni parola, ogni canto, ogni pratica sociale, affinché la radice di questa consuetudine antica potesse germogliare nel tempo.

Il loro impegno non si è limitato alla sopravvivenza fisica, diventando trattato di una lotta paziente, quotidiana, fatta di trasmissione orale, di scambio generazionale, di inventiva necessaria per adattarsi ai nuovi contesti paralleli ritrovati, ma sempre e costantemente senza perdere sé stessi.

Oggi, vedere quei luoghi esposti in senso spettacolare, ridotti a scenografie turistiche o a “borghi pittoreschi”, è un dolore tanto più grande in quanto evidenzia palesemente la dissonanza tra la vita reale che qui si è svolta e ciò che viene proposto al pubblico con midia e altri apparati, che invece di sostenere, tagliano la lingua e con la polvere che fuoriesce dalla bocca e, butta granelli sugli occhi.

La lingua arbëreşë, il suo lessico dei mestieri, dei paesaggi, dei gesti, dei momenti domestici e agricoli, rappresentano un codice segreto che può essere ascoltato o visto per comprendere la geografia, la storia e le emozioni di un intero popolo.

Senza questa chiave, ogni percezione del luogo è incompleta e superficiale, privarla di spessore idoneo, destinandola a diventare una mera cartolina monocolore e senza respiro.

Non si tratta solo di conservazione culturale, ma di rispetto per quel vissuto collettivo dei nostri avi e, che hanno fatto la comunità arbëreşë, affrontando persecuzioni, fame, instabilità e il peso della migrazione; e, ogni sacrificio, ogni lacrima versata, ogni difficoltà superata ha contribuito a mantenere viva la memoria del Katundë, la struttura aperta e relazionale che li contraddistingue.

Il loro rapporto con il territorio non è mai stato astratto, ma segnato da vie di canalone, di prati, di boschi, di fonti e torrenti che diventano punti di riferimento sociali e simbolici, per quanti oggi si avvicinano per ascoltare quei gli echi antichi e tutte le cose fatte per vernacolo.

Ogni luogo è intriso di ricordi, di gesti, di nomi, di storie quotidiane che non si possono replicare o spettacolarizzare senza il rispetto del codice originale, specie da chi li ha da sempre ignorati inconsapevole che i capelli sciolti sono simbolo di vergogna o disperazione.

Il parlato, l’abitare del bisogno, i costumi sono strumenti insostituibili per dare voce a questa memoria e, non sono semplici dettagli o curiosità da esporre, ma il tessuto della storia custodita nel parlato in arbëreşë.

Ogni parola dimenticata è una radice recisa; ogni gesto non trasmesso è un ponte che crolla tra passato e presente e, la spettacolarizzazione dei luoghi, priva di questa misura, rischia di trasformare l’esperienza in un insieme di immagini vuote, dove si riconosce la forma senza garbo e sostanza a iniziare dalla chioma dei capelli sciolti esposti senza velo, l’esempio più semplice per tutelare l’intimità, il rispetto di cose sacre del fuoco di casa, sino a dove è l’altare della chiesa.

Eppure, chi conosce, chi ha vissuto e trasmesso le consuetudini in maniera esemplare, difende la memoria della diaspora arbëreşë, sa che la forza del luogo nasce da questo intreccio profondo tra parola, gesto e memoria.

A tal proposito qui si vogliono accennare anche i luoghi all’interno dei Katundë dove la strada forma una croce, da un lato scende e segue il lavinaio, dall’altro taglia e va verso il noce antico.

Lì, secondo i vecchi saggi, non bisognava mai fermarsi, né lasciare che l’acqua della credenza, della brocca, versata bagnasse i piedi del viandante.

Perché una volta imbibita, quella non era più acqua ma, diventava destino, e da quel momento nessuno avrebbe avuto modo di ricomporla secondo luce divina.

Allo stesso modo, la crescita dei figli sotto il noce era considerata pericolosa e, si diceva che quell’albero fosse un confine tra luce e ombra, luogo prediletto di magare, che nelle notti di marzo venivano a sedersi tra le radici nodose e, chiamare il vento.

Per questo si piantavano i noci ai margini dei campi e, non come dono, ma come altare infernale e, nessuno dei saggi credenti avrebbe tenuto una culla sotto quelle fronde sleale.

La magara non era nata dal male, ma erano una domanda e, quando il paese perde la memoria, il sapere si rovescia come acqua sull’incrocio di prima.

Chi resta a custodire la chiave del mese di marzo distingue il raccolto fa carestia e, le prime attrici del paese che fanno dimenticare ogni cosa per fare il loro progredire.

Esse vivevano nei gesti trattenuti, nei silenzi, nelle parole non dette e, il loro potere non era lancio esplicito di malocchi, ma capacità di interpretare, un raccolto insufficiente, il pianto di una madre senza sonno.

Per scacciarle non bastava gridare, ma attenzione di dove e come sarebbero svanite se la gente avesse ricominciato a chiamare ogni cosa con il suo nome e adottare gesti e cose fatto con garbo de senso di credenza del modo più antico.

Per questo, diffondere l’intimità arbëreşë, significa innanzitutto restituire centralità alla parola, alla voce del passato che ancora parla attraverso chi la custodisce e chi la osserva specie se madre future deve apparire come fanno le spose quando iniziano a fare casa e dirigere famiglia per essere regina del fuoco.

Per questo serve riconoscere che la cultura non è un’esposizione statica, ma una vita in movimento, un fiume di memoria e atti di apparizione ragionati, specie per chi si espone a camminare tra le case, i canaloni, anche se con gesti più semplici della quotidianità.

Solo così i luoghi possono riecheggiare davvero, ma non come set cinematografici, ma come spazi vivi, dove il passato non è un ornamento, ma il terreno fertile su cui continuare a crescere ed esporre i generi con senso e valore per fiorire meglio.

 

 

Arch. Atanasio Pizzi (Attento Ricercatore Napoletano Arbëreşë Tenace) A.R.N.A.T.

Napoli 2025-11-30 / domenica

 

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MODELLO STRUTTURALE: INFORMAZIONI STORICHE DI UN EDIFICIO B.I.S. (Bulding Informarion Structural)

MODELLO STRUTTURALE: INFORMAZIONI STORICHE DI UN EDIFICIO B.I.S. (Bulding Informarion Structural)

Posted on 29 novembre 2025 by admin

kalliveNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Nell’ambito dello studio del territorio, le indagini cartografiche basate sui sistemi GIS rappresentano gli strumenti fondamentali per la conoscenza dei processi orografici e idrografici che caratterizzano un’area geografica sottoposta a studio e indagine.

Tali analisi permettono di leggere e interpretare la struttura fisica del paesaggio, di comprenderne le dinamiche naturali e di individuare le relazioni tra ambiente, insediamenti umani e risorse disponibili. Tuttavia, quando l’attenzione si sposta verso l’analisi dell’edificato storico e delle forme insediative tradizionali, diventa necessario affiancare a queste metodologie territoriali un diverso approccio, più sensibile alle dimensioni culturali, sociali ed etno-antropologiche dello spazio abitato.

In questo capitolo si intende dunque illustrare le metodologie di indagine dedicate agli edifici vernacolari del Mediterraneo, che appelleremo: B.I.S. (Bulding Informarion Structural) con particolare attenzione volta all’analisi delle architetture sorte nei contesti di migrazione e adattamento, che hanno accompagnato, e spesso incarnato, le vicende umane delle genti coinvolte nella diaspora dei Balcani.

La casa vernacolare mediterranea non è soltanto una risposta funzionale al clima, ai materiali locali e alle difficoltà orografiche del territorio; essa rappresenta anche un documento vivente di identità, memoria e sopravvivenza.

Il progetto mira a compilare un archivio di saperi costruttivi tramandati oralmente, o habitat modellato dalla necessità, dall’ingegno, e al tempo stesso assumere il ruolo di simbolo silenzioso delle inquietudini e delle speranze di comunità spesso costrette a spostarsi, ridefinendo continuamente il proprio rapporto con il luogo.

Le indagini che hanno avuto come fine gli edifici vernacolari, verso i quali, è stata rivolta una approfondita attenzione multidisciplinare e, l’analisi morfologica delle strutture, lo studio dei materiali, le tecniche costruttive, la comprensione delle logiche distributive interne, fino alla lettura dei rapporti con il paesaggio circostante avendo sempre presenta la rete delle interazioni sociali, hanno restituito un percorso storico solido e inscindibile.

Non meno importanti sono gli aspetti immateriali, come le consuetudini sino alla soglia della porta di casa, le forme di Gjitonia la forma sociale degli spazi comuni, la percezione del limite tra pubblico e privato, hanno fornito una nuova metrica secondo cui interpretare questo fenomeno sociale.

E in tale prospettiva, l’edificato vernacolare diventa vero e proprio dispositivi narrativi, solidamente in grado di raccontare il rapporto tra le comunità e i territori, attraversati, bonificati e nel cntempo riconoscerne il parallelismo naturale simile alla terra di origine.

Analizzare queste architetture significa quindi non solo descrivere un patrimonio materiale, ma anche restituire un paesaggio culturale fatto di migrazioni arbëreşë, si scoprono anche gli atti e le attività di adattamenti e trasformazioni lenta, in coabitazione con quanto testato anche dalla natura.

In questa direzione, lo studio della diaspora balcanica rivela modalità peculiari di insediamento, strategie costruttive e continuità tipologiche, che possono contribuire alla costruzione di una lettura più profonda e complessa dei territori.

E il tutto poi diventa una lettura che, integrando i dati cartografici con le testimonianze dell’edificato vernacolare, permetta di cogliere l’intreccio tra geografia fisica, storia umana e identità collettiva.

La metrica di indagine adottata in questo studio trova origine all’interno delle ricerche che vedono come luogo di indagine i Katundë della regione storica diffusa e sostenuta degli arbëreshë, comunità, la cui presenza nel territorio mediterraneo è stata segnata da forme di insediamento frammentario, migrazioni episodiche e persistenti processi di adattamento ambientale che vanno dal XIII al XVIII secolo.

L’intervallo siccome risulta essere privo di fonti storiche certe o di elementi documentali univoci che possano determinarne la cronologia dall’origine, ha visto l’approccio metodologico spostarsi verso temi monocentrici che qui in questo progetto, cerca risposte attraverso il costruito e l’analisi diretta dei manufatti edilizi, considerati indicatori temporali e culturali del bisogno di epoca.

In assenza quindi di archivi ufficiali o di registri catastali storici, la lettura dell’edificato assume un ruolo centrale e diventa strumento indispensabile per ricostruire le tappe di formazione, crescita e trasformazione dei nuclei abitati dagli arbëreşë.

In questo quadro, lo studio dei manufatti del bisogno, ovvero quelle costruzioni nate per rispondere immediatamente a esigenze di sopravvivenza, difesa o sostentamento, rappresenta un elemento cardine della metodologia proposta.

Tali manufatti, spesso privi di ornamenti e concepiti secondo logiche progettuale del bisogno locale, sono stati eretti, nella totale assenza di architetti e, per questo, sapendoli analizzare, offrono preziose tracce temporali, dove la tipologia dei materiali impiegati, le tecniche murarie, la composizione degli impasti e l’evoluzione delle giunture, costituiscono indizi utili per determinare non solo l’epoca di compilazione, ma anche quelle fasi di espansione, consolidamento o ricostruzione che si sono succedute nei secoli.

Il rilievo e l’analisi stratigrafica degli elementi murari verticali, degli orizzontamenti, oltre i lastrici inclinati, sono dunque fondamentali per leggere la memoria sedimentata nelle costruzioni vernacolari. Attraverso l’individuazione delle fasi costruttive e delle sovrapposizioni materiche, attraverso cui si possono riconoscere le risposte architettoniche a eventi naturali che hanno interessato queste aree in diverse epoche: terremoti, smottamenti, alluvioni o carestie hanno determinato la necessità di nuove edificazioni, ampliamenti o adeguamenti strutturali.

In tali circostanze, i Katundë arbëreşe conservano ancora oggi, una notevole capacità di resilienza, reinterpretando le risorse locali e riformulando i modelli costruttivi ereditati, senza rinunciare alla propria identità culturale.

Le tracce di compilazione presenti nelle murature, e il variare del loro sviluppo altimetrico nei tipi di materiali utilizzata, i mutamenti nell’orientamento dei corsi, la diversa granulometria delle malte o presenza di sistemi di incastro arcaici, diventano quindi indicatori temporali e narrativi se saputi leggere e tradurre.

Esse testimoniano fasi di improvvisazione costruttiva, periodi di scarsità di materiali nei momenti di ricostruzione post-calamità, fasi di frazionamento dell’edificato a cui fecero seguito la stabilità e sviluppo economico secondo tipologie architettoniche espresse dalle arti illuministe.

Attraverso l’osservazione sistematica di tali elementi è possibile delineare una cronologia alternativa, fondata non su documenti scritti ma sul linguaggio silente della materia edilizia in continua crescita.

Questo approccio, nato nelle ricerche con tema gli insediamenti arbëreşë, ancora in evoluzione, se adeguatamente estese e applicate, aprono orizzonti nuovi per allestire una metodologia di lettura del territorio, basata su una profonda relazione tra spazio, comunità, tempo e ambiente.

L’edificio vernacolare diventa così, lo strumento di conoscenza dinamico e, non solo rappresenta un risultato costruttivo, ma si configura come un archivio vivente che conserva le tracce delle trasformazioni ambientali, sociali e culturali.

E ogni muro, ogni giunto, ogni travatura, ogni variazione materica diventa segno di una decisione, di una necessità o di un trauma collettivo, inscrivendo nelle forme dell’abitare una storia più ampia di resilienza e di adattamento.

In assenza di fonti certe, è dunque la materia locale stessa a divenire racconto compilato e, l’indagine architettonica, accompagnata dal rilievo ravvicinato grafico e fotografico dei manufatti, restituisce una narrazione storica capace di ricostruire la stratificazione delle epoche e delle comunità che hanno attraversato bonificato e ricostruito più volte questi territori.

Attraverso questa metrica di indagine si giunge a riconoscere il costruito vernacolare sino a quello illuminista, che non è mera risposta abitativa, ma una testimonianza concreta della continuità culturale e della tenacia umana, che compongono gli elementi fondamentali per comprendere il legame tra la diaspora arbëreşe e, i paesaggi storici che hanno visto le terre protagoniste della storia di un esodo storico portato a buon fine.

La varietà tipologica delle murature presenti nei territori arbëreşe, costituisce un patrimonio di dati materiali attraverso cui è possibile ricostruire, con metodo scientifico, le fasi evolutive dell’insediamento e le condizioni che ne hanno determinato sviluppo, crisi o riorganizzazione.

Ogni edificio vernacolare, se osservato con rigore, diventa una testimonianza della stratificazione storica e, i materiali impiegati, la qualità delle lavorazioni, le tecniche di giunzione e la distribuzione degli spazi interni rivelano precise corrispondenze con eventi naturali, cambiamenti sociali e trasformazioni politico-amministrative che hanno interessato questi luoghi nel corso dei secoli.

Tra le principali configurazioni costruttive analizzate si incontrano le murature in pietra, calce e arena, caratterizzate da un impasto semplice e funzionale, preparato in assenza di tecnologie complesse e con l’uso esclusivo delle risorse reperibili in loco.

Queste murature, spesso irregolari e prive di perfezione geometrica, identificano le prime fasi insediative e sono tipiche delle costruzioni del bisogno, erette allo scopo di garantire un riparo immediato o delimitare spazi di lavoro e sostentamento.

La qualità della calce, la granulometria dell’arena e l’irregolarità delle pietre impiegate consentono di riconoscere non solo l’epoca di realizzazione, ma anche le condizioni materiali delle comunità che le hanno costruite.

Un secondo tipo è rappresentato dalle murature miste, nelle quali compaiono mattoni di recupero, laterizi di spogliatura o frammenti riutilizzati all’interno dell’impasto murario.

Tali tecniche, adottate frequentemente in aree soggette a crisi demografiche o a eventi naturali distruttivi, testimoniano una fase di ricostruzione o di riorganizzazione insediativa.

La presenza di materiali di spoglio indica infatti la volontà di riutilizzare ciò che era disponibile, trasformando gli edifici preesistenti in risorse per nuove configurazioni abitative.

La calce, usata come legante universale, assume in questi casi una duplice funzione: tecnica, come elemento di coesione, e storica, come indizio della metabolizzazione culturale delle rovine.

Non meno significative sono le murature con pietre angolari, dove l’uso di blocchi più regolari e squadrati agli spigoli indica un avanzamento tecnico e una crescente consapevolezza strutturale.

L’inserimento di angolari serve infatti a stabilizzare la muratura, a proteggerla dall’erosione e a definire con maggiore chiarezza la geometria dell’edificio.

Questo dettaglio costruttivo corrisponde a fasi storiche di maggiore stabilità economica, nelle quali la comunità ha potuto dedicare risorse alla qualità costruttiva e alla durabilità delle strutture.

Particolarmente rivelatori sono anche gli ingressi contornati da laterizi o in pietra lavorata, elementi che segnalano un’evoluzione sociale dell’abitare.

Quando l’ingresso della casa è definito da cornici in laterizio o da architravi in pietra sagomata, si è spesso in presenza di una fase successiva di sviluppo, caratterizzata da una maggiore attenzione alla rappresentazione dell’identità familiare e alla dignità architettonica dell’abitazione.

L’ingresso, da semplice varco funzionale, diventa dispositivo simbolico: introduce alla sfera domestica, afferma un senso di appartenenza e segna il passaggio da necessità ad aspirazione.

Nello stesso modo, la distinzione tra piani di servizio e piani abitativi permette di cogliere l’organizzazione sociale della casa vernacolare.

Nelle macro aree arbëreşë, sono frequenti spazi destinati alla conservazione delle derrate alimentari, all’allevamento domestico o alla lavorazione dei prodotti agricoli nei livelli inferiori considerate vere e proprie proto industrie, mentre gli ambienti residenziali si ergono dal XVII secolo, nei piani superiori, in posizione protetta e ventilata.

Tale distribuzione indica la coesistenza di funzioni produttive e abitative all’interno dello stesso corpo edilizio, confermando l’idea della casa come micro-sistema economico e sociale autosufficiente.

Infine, le coperture ventilate, realizzate attraverso la presenza di intercapedini denominati kanikari e allestiti con opportuni sistemi di aerazione, che denotano con il loro utilizzo un approfondimento tecnico in rapporto alle condizioni climatiche locali.

Questo tipo di copertura, spesso costruito con tegole di diverso formato e con strutture lignee tradizionali, risponde alla necessità di controllare l’umidità e il calore, dove in oltre come barriera erano depositati alimenti naturali in maturazione invernale, che assicuravano oltre al comfort abitativo naturale senza il ricorso a tecnologie esterne per temperare e rifornire alimenti maturi in inverno.

L’insieme di queste componenti, quali: murature, ingressi, distribuzioni interne, coperture,

 costituisce una griglia interpretativa capace di restituire i tempi della storia in stretta aderenza con i processi naturali e politici che hanno progressivamente costruito il benessere e la stabilità dei vari nuclei insediativi. In ogni pietra, in ogni varco, in ogni segno di adattamento costruttivo convivono la memoria di un bisogno e la proiezione verso una possibile quiete o adattamento confortevole del gruppo sociale.

È attraverso la lettura paziente e sistematica di tali indizi, emerge la narrazione di ogni luogo o macro area specifica della regione storica arbëreşë,

In tutto una narrazione in cui il paesaggio, l’architettura e la storia si intrecciano, dando forma a quella continuità culturale che ancora oggi definisce il carattere identitario del Mediterraneo dalla Grecia sino al Portogallo.

Il qui progetto, avviato nel 2009, orientato alla lettura storica e materica del territorio arbëreşë, ha progressivamente acquisito solidità metodologica e riconoscibilità scientifica, trovando conferme in alcuni significativi dibattiti istituzionali.

In tali occasioni, le proposte emerse dalle ricerche sul campo sono state prese in considerazione dalle autorità competenti, contribuendo a fermare decisioni potenzialmente disastrose per la tutela del patrimonio insediativo vernacolare.

Questo elemento conferma, da un lato, la genuinità del percorso intrapreso e, dall’altro, la validità del prodotto finale, giunto a uno stato avanzato di definizione e, capace di proporre soluzioni concrete per la salvaguardia del paesaggio storico.

Eppure, oggi più che ieri, risulta evidente come le dinamiche politiche e amministrative che intercorrono tra le presidenze e i ministeri di Italia e Albania aprano nuove possibilità di confronto, scambio e cooperazione.

In tale prospettiva, ciò che è emerso dall’analisi degli insediamenti arbëreşe presenti sul territorio italiano potrebbe essere messo in dialogo diretto con i dipartimenti albanesi competenti in materia di pianificazione territoriale, architettura storica e tutela dei beni culturali.

Questo confronto transnazionale avrebbe il merito di estendere il campo d’indagine oltre i soli confini geografici dell’attuale presenza arbereshe, consentendo di risalire alla matrice originaria degli insediamenti e di confrontare i modelli costruttivi italiani con quelli ancora riconoscibili nei territori dell’odierna Albania moderna.

Un simile approccio non dovrebbe essere finalizzato alla ricostruzione edilizia o alla mera elevazione dei muri, ma piuttosto alla riscoperta di quella componente fondativa, materiale e immateriale, che in alcuni casi non esiste più o risulta frammentaria, alterata, sotterrata dal tempo.

L’ipotesi suggestiva è che parte di questa identità costruttiva e culturale possa essersi dispersa o rimanere sepolta, sia metaforicamente che fisicamente, nei suoli e nelle comunità che attualmente compongono il tessuto della Albania contemporanea.

Esplorare questi territori, attraverso una metodologia condivisa tra enti italiani e albanesi, significherebbe tentare un recupero delle radici dell’abitare arbëreşë, rintracciando i caratteri primari che precedono la diaspora e che, in parte, ne hanno determinato la forma.

La cooperazione istituzionale potrebbe quindi tradursi in un archivio comparato delle tecniche costruttive, delle morfologie dell’insediamento e delle dinamiche di adattamento ambientale.

Tale archivio, se costruito in modo condiviso e scientificamente rigoroso, costituirebbe uno strumento innovativo per la comprensione della storia mediterranea interna, mettendo in luce come la diaspora non sia solo movimento e dispersione, ma anche continuità, resistenza e sedimentazione culturale.

Un dialogo tra ministeri, università e centri di ricerca dei due Paesi aprirebbe inoltre la strada a nuove proposte di tutela e valorizzazione del patrimonio edilizio vernacolare.

Non si tratterebbe di restaurare edifici secondo logiche puramente conservative, ma di definire un modello di lettura e comprensione del paesaggio storico capace di restituire dignità alle tracce minori, le stesse che furono del bisogno e, quei frammenti murari marginali, quei segni del paesaggio rurale che spesso sfuggono alle classificazioni ufficiali, ma che rappresentano, in realtà, la parte essenziale e nascosta della memoria collettiva.

In conclusione, il progetto avviato nel 2009 non deve essere considerato soltanto come un’indagine specialistica sul territorio arbëreşe, bensì come una piattaforma di dialogo tra passato e presente, tra geografia fisica e identità comunitaria, tra Italia e Albania.

Recuperare ciò che nel corso della diaspora è stato dimenticato, trascurato o sepolto significa restituire valore a una storia che non appartiene a un solo luogo, ma attraversa diversi paesaggi e si manifesta nella materia dell’abitare, nei gesti costruttivi, nelle forme della sopravvivenza.

La vera sfida, oggi, è trasformare questa consapevolezza in un processo condiviso, capace di unire istituzioni, territori e comunità in una visione comune del patrimonio come risorsa viva e generativa.

 

Arch. Atanasio Pizzi (Attento Ricercatore Napoletano Arbëreşë Tenace) A.R.N.A.T.

Napoli 2025-11-29 / sabato

 

 

 

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UNA PROMESSA ARBËREŞË SENZA NOME  ezë bënu jatrua epriru nhdë katurndë

UNA PROMESSA ARBËREŞË SENZA NOME ezë bënu jatrua epriru nhdë katurndë

Posted on 25 novembre 2025 by admin


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NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – L’arbëreşë non si insegna, si impara davanti al focolare domestico, ogni volta che ricevi abbracci materni.

Per un arbëreşë, questo non è soltanto un limite fisico, ma il simbolo di un sapere caricato alle spalle di chi veniva stretto per generare memoria.

E tutto avveniva dentro quel cerchio materno, per ricevere, memoria come in una fiamma a cui si offre ossigeno per non spegnersi.

Eppure, quelle braccia come una porta non rappresentano un confino, come il comunemente immagina ma è attesa, desiderio, di una voce che si alzi per riaprire e illuminare ciò che è stato escluso e allontanato da quanti sanno ancora ascoltare.

Questa immagine, apparentemente semplice, è in realtà una metafora storica che coinvolge le “Terre di Sofia” e, il suo camminare ininterrotto si svolge tra i due mondi paralleli, dell’abbandono e del ritrovato.

Ogni giorno che passa, per chi è rimasto, il domani sembrano più bui e, il linguaggio si assottiglia, i rituali si disperdono, i nomi antichi si trasformano in echi senza un corpo che posa essere in grado di identificarli.

Tuttavia sino a quando uno tornerà, ci sarà chi si chiederà cosa giace oltre quel legno consumato del tempo, senza la luce del fuoco interrotto.

Perché una cultura non vive, o si trova nei libri ma, nella volontà dell’accoglienza per quanti diventano portatore sano di memoria.

Così, la storia degli arbëreşe non è soltanto un archivio di tradizioni, invito al presente, ma richiesta di guardare dentro quella stanza ancora piena di significati e domande incompiute.

Aprire una porta per accogliere, significa ridare voce a ciò che è stato messo ai margini, ed è solo attraverso questo gesto, semplice, che la memoria potrà tornare ad essere luce, e non ombra del passato.

Chi dovette partire quel 17 gennaio del 1977, non lo fece per vergogna ma perché gli venne caricato sulle spalle un compito più grande della sua età: ovvero studiare, formarsi, diventare voce e tornare per riconoscere cose, fatti e luoghi.

Gli dissero: “Vai, impara, e poi torna, spiega cosa significano quei palazzi, quella piazza, quel vicolo, quel supporto e quell’orto botanico”.

Non lasciare che restino nomi senza storia, pietre senza memoria e, nonostante quell’impegno venne sostenuto, ricordato, passo dopo passo, giorno dopo giorno, oggi attende di essere svelato.

Ho ascoltato le lezioni letto dei libri, ma anche quelle che non venivano scritte da nessuno, le lezioni del silenzio che fanno i muri senza intonaco, colmi di nostalgia e ricordo che esiste anche quando non viene pronunciato.

E per anni ha avuto negli occhi l’immagine di quei luoghi caricatigli sulle spalle e ogni volta che si voltava a ricordare ritrovava l’immagine sofferente di ogni facciata, ogni angolo, ogni gradino consumato dal tempo e, tutte insieme diventavano pagine che attendeva di essere letta e raccontate.

Sembrava che bastasse “tornare formato”, per trovare qualcuno disposto ad ascoltare ma purtroppo cosi ancora non è avvenuto, perché la conoscenza non è sempre una chiave che apre tutte le porte chiuse.

Ma oggi, a distanza di quasi cinque decenni, guardarsi attorno e scorgere quelle porte ancora serrate e, nessuna voce si leva per chiedere ragione dell’impegno dato, ma cosa più grave è che nessuno sembra voler accogliere il racconto che potrebbe portare senso e ragione a quella promessa data.

Oggi quella promessa data, assume il senso di un eco lontana, che invece di incuriosire e inteso come fastidio che insiste con l’atto del riecheggio.

Così la memoria rimbalza, non sostiene e quando ritorna in forma di eco, non genera nuovi ascolti così come anche la voce della memoria in esilio non trovano più dove posarsi in quel luogo ameno.

Forse la responsabilità non è solo dei restanti, i più esposti alle dinamiche della memoria smarrita, che capovolge tutto, cambiando passi, parole, priorità, oggi imposta dal potere imposto dal genio del mugnaio matto.

E così tutto termina con ignorare palazzi, piazze e supportici, tutti diventati passaggio di comodo per appendere e colorare quei giardini, ormai non più cattedre della storia, intesi soltanto terreno da attraversare e colorare senza ragione, senza chiedere cosa abbiano enunciato e custodito nel corso della storia.

E nonostante sia noti a tutti chi e quanto è partito, mentre chi rimane non è in grado di fermarsi ad ascoltarli e magari rendere quei luoghi momento di dialogo o almeno ricordare quella data dove inizia il ricordo e la memoria di quel luogo.

Oggi i Katundë arbëreşë hanno solo bisogno di ascolto, prima ancora di parlare, questa antica arte che possiedono solo quanti potrebbero tornare e fermarsi, il che non significa portare verità già pronte; ma significa tornare con l’umiltà di riconoscere o ascoltare, se la storia appartiene a chi effettivamente ha avuto modo di viverla.

Ed è da quel vissuto che nasce la vera narrazione, una narrazione che non impone, ma accoglie e non chiude, ma e sempre pronta a riaprire.

E allora mi chiedo: dove sono gli eredi di quella promessa, chi oggi raccoglierà il testimone o il dovere della memoria che non si esaurisce con chi parte, ma continuare ad avere ruolo con chi resta senza risposta alla domanda: cosa dicono.

E finché non ci sarà qualcuno disposto a porre questa domanda, la promessa resterà sospesa e la conoscenza sarà soltanto un bagaglio pesante portato da pochi, invece di un ponte che unisce i molti.

La speranza, oggi, si attesta sul principio che questa distanza, lunga quasi mezzo secolo non sia un confine definitivo, ma un tempo di attesa che difende la storia e il germoglio del passato.

E che la voce che non si leva ancora, si stia solo preparando compiutamente, a dare alle nuove generazioni che verranno, formazione secondo quella metrica antica sospesa e mai dimenticata, perché colma di coraggio arbëreşë, che non è stata mai rinunzia.

Perché ogni promessa data è un seme solitario, pronto a germogliare e, se qualcuno decide di coltivarlo, può diventare fioritura e futuro arbëreşe.

Finché ci sarà anche solo uno, che torna per spiegare, e uno che resta per ascoltare, il legame non sarà spezzato e forse, un giorno, quel seme antico troverà un solco per germogliare bene.

Sono trascorsi decenni, eppure nonostante il tempo e il sacrificio di chi partì, per tornare illuminato, nel mentre la flottilla dei non formati in presenza vacua, priva di ogni orientamento, non ascolta, ma occupa quel dolce mare di memoria che attende un capitano per essere ripulito.

La flottilla occupa spazi e deforma prospettive, come nebbia che entra nelle fessure e si adagia sulle strutture più fragili dell’anima di luogo.

Essa è una presenza che non costruisce, ma occupa l’acqua buona e genuina, non custodisce ma altera e, così rischia di sparire anche l’ultimo golfo di mare che univa il presente con gli antenati di fronte casa.

Quelle prospettive, che un tempo si aprivano come mappe della memoria, ora sono rese opache da chi crede di possederle senza averle mai sovrapposte per ricavarne risposte.

Oggi non esistono esperti locali capaci di ascoltare e decifrare ciò che ancora sopravvive tra pietre, vicoli, avvolti da intonaci in sofferenza, laddove sarebbe urgente creare una cattedra per interrogare la storia.

Li dove si innalzano i muri dell’indifferenza e, dove servirebbe voce identitaria, prospera l’apatia di quanti non hanno formazione, ma possiedono autorità per titolo politici paterni a misura perversa.

Le poche cose di casa che ancora resistono allo scorrere del tempo cosi come, i simboli, gli appellativi delle strade, i gesti delle feste, gli odori delle cucine, il parlato in arbëreşë, sopravvivono tra i denti dei pochi anziani, soffocati lentamente, come si fa con le luminarie ad olio quando viene a mancare l’aria.

E ciò che è peggio, non è solo la perdita il valore intrinseco a scomparire, ma con esso sin anche l’eco che tenta di parlare ancora.

Quelle pareti storiche che fanno da quinta al percorso del vicolo, se liberate dalle ere moderne e dalle sovrastrutture che le hanno rivestite, nascondendone l’anima, potrebbero ancora raccontare, liberare quei percorsi di vita che hanno lasciato scorrere, operosità, migrazioni, accoglienza, partenze e ritorni.

Ma per farlo, è necessaria l’ascolto e, non certo far prevalere o dominare il rumore che sovrasta, pretende il paradosso doloroso, in quanto si parla troppo, ma si capisce sempre troppo poco.

E chi resta nei luoghi fisicamente, abbandona la memoria e ciò che non si comprende, lentamente, la si lascia coprire o velare completamente.

Non basta dunque essere tornati formati, né aver studiato per aprire egoisticamente la propria mente e il valore familiare, perché occorre che almeno uno dei restati abbia piacere di riceverla.

La conoscenza non è un dono che si offre, perché rappresenta un ponte che si costruisce insieme, senza escludere l’altra parte, lasciando così il ponte sospeso nel vuoto.

Eppure, nonostante tutto, il limite non è definitivo, perché anche quando il silenzio sembra aver vinto, rimane ancora la possibilità che una sola voce, una soltanto, decida di guardare, di domandare, di aprire e dare la spalla per sostenere la parte del ponte sospeso.

Perché la storia non muore mai del tutto, ma smette soltanto di essere interrogata, così accade, anche in mezzo a quella flottiglia di non formati che navigano senza rotta e senza responsabilità, pur di velare il mancato sapere.

E se questo dovesse germogliare, gli echi non saranno solo tali, ma diventeranno voce viva, e la voce viva, si sa, può cambiare in ogni momento il destino di un luogo.

Non trovo giusto e neppure degno, che dopo aver mantenuto fede a una promessa data e tornare per dare voce a quelle porte gemellate, i vicoli le pietre e ogni elemento che fa e realizza un Katundë, quelle esperienze debbano riversarsi con la fratria originaria.

La fratria con cui venne stipulata quella promessa di studio e sacrificio non fatto solo di persone, ma di radici, di sguardi e di visioni comuni, in tutto un patto silenzioso, stretto nel nome della conoscenza e della memoria di uno specifico luogo.

Aver creduto e ancora credere oggi, che ciò che si apprende con dedizione non sia un bene comune, ma un dono da restituire a chi lo ha generato.

Perché la conoscenza, quando nasce da un legame profondo, porta in sé la forma del luogo in cui è stata concepita.

E ogni luogo, come ogni comunità, merita di rivedere il frutto di ciò che ha seminato e, non si tratta di chiudersi al mondo, ma di restituire dignità che lega il maestro all’allievo, il luogo alla sua storia, il passato al futuro.

Oggi, invece, il seme di rinascita viene spesso dirottato altrove, adattato ad ambienti paralleli, che appartengono ad altri.

Così, ciò che era destinato a rigenerare, finisce per evaporare tra mani estranee, trasformando ogni cosa in un racconto incompreso o testimonianza che non trova senso per formarsi.

Questa non è rabbia, ma un senso di giustizia culturale, secondo cui l’accoglienza non è una semplice appartenenza genealogica, ma un modo per emergere da stereotipi senza radice.

E la memoria non può essere tutelata senza il senso della radice, né trasformata in merce di scambio, abbandonando così che il frutto del sacrificio migri verso terreni non legati da quel patto con i luoghi originari dove rigerminare, il che significa anche privare il futuro della profondità necessaria al proprio passato.

Per questo oggi chiedo, non solo per me, ma per tutti coloro che hanno camminato su quel medesimo sentiero, che si riconosca il diritto del ritorno senza veti.

Il ritorno della conoscenza, della memoria, il parlato, l’esperienza condivisa, sostenuto non dalla mera nostalgia, ma per il principio di quel patto portato a buon fine.

Perché il sapere, quando nasce da un patto fatto di anima e passione, non è davvero compiuto finché non viene riconsegnato alla comunità che vaga alla ricerca di quel bisogno.

E forse, se questa restituzione avesse luogo, si potrebbe finalmente vedere ciò che da troppo tempo si attende per dare agio a quel sacrificio che non è stato vano e, lo studio non resti monologo e, la promessa diventi memoria certa.

Solo allora il patto, stretto tanti anni fa, troverebbe la sua forma compiuta e il cerchio, finalmente, si chiuderebbe per dare senso a quella promessa data.

La consapevolezza che il tempo, prima o poi, dà ragione ai giusti, a coloro che sono partiti con pena e sacrifici immani, non è una certezza, ma una speranza.

Una speranza fragile, ma tenace, che resiste anche quando tutto sembra ormai quieto e dimenticato, chi è partito non l’ha fatto per ambizione o per abbandono, ma per fedeltà a un compito assunto per rendere certo a ciò che era ormai buio, al fine di rigenerare le cose da custodire e che in quel momento l’oblio stava incamerando, per farne ricordo di pochi anziani.

È in questa attesa, fatta a volte di silenzio, altre di ostinazione, che vive l’ultima forma di giustizia: il tempo, infatti, non parla subito e, non risponde con la rapidità delle domande moderne.

Ma lavora in profondità, come un fiume sotterraneo che scava la roccia fino a trovare un varco, come accadrà anche per quei luoghi ameni, dove un tempo si respirava un’armonia antica, fatta di gesti condivisi, di sguardi familiari, di braccia materne che accoglievano senza mai chiudersi per non accogliere le cose buone della storia.

Braccia che non si sono mai concluse, ma solo interrotte, perché ciò che è materno, nei luoghi, delle comunità, delle culture, non finiscono, ma con pazienza attendono.

E attende nella forma dell’affetto che non ha più voce, racchiuse ancora un movimento, come se fosse invito sottile, percepibile solo da chi sa ascoltare perché conosce l’arbëreşë.

In tutto quei valori, nutriti da quella accoglienza silenziosa, che potrebbero tornare a vivere, non come ricordo folcloristico o come rito da museo, ma come linfa presente, come traccia che ricostruisce un’identità capace di dialogare col futuro senza perdere le sue radici.

Per questo essere ben accolti in quei luoghi, fisicamente o interiormente, significa immaginare una rinascita che non strappi il passato, ma lo metabolizzi e gli dia energia sufficiente per incamminarsi ad essere ricordato e diffuso.

Significa credere che la storia non sia un archivio morto, ma una presenza che attende di essere reinterpretata da nuove generazioni, senza cancellare ciò che le ha precedute.

È come entrare in un vico dove tutto appare in ombra, ma il sole esiste ancora e basta solo attendere lo svolgersi del suo arco, perché la luce e illumini ciò che sembrava sospeso.

Ed è così che ogni cosa porta apparire e dare risposta e i sacrifici, quelli veri, quelli che non chiedono applausi, sembreranno, finalmente, parte integrante di un cammino più grande.

Perché nessuna partenza è vana, se esiste almeno un punto di ritorno, anche solo ideale, secondo cui la conoscenza e la fraternità possano rialzarsi e dire: “Siamo ancora qui. E non abbiamo dimenticato nulla.”.

 

Arch. Atanasio Pizzi (Attento Ricercatore Napoletano Arbëreşë Tenace) A.R.N.A.T.

Napoli 2025-11-22 / sabato

 

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