Archive | ottobre, 2021

GJITONIA: IL LUOGO DEI CINQUE SENSI (Gjitonia: ku shogh e ku gjiegjgnë)

GJITONIA: IL LUOGO DEI CINQUE SENSI (Gjitonia: ku shogh e ku gjiegjgnë)

Posted on 30 ottobre 2021 by admin

SCACCIAMO LA VOLPE ARBËRESHË3NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – “Gjitonia” modello consuetudinario e sociale della minoranza Arbéreshè, rappresenta per essi, il luogo dei cinque sensi, una barriera immateriale, priva di porte, elevati o fossati; essa vive grazie al patto di mutuo soccorso in favore dell’idioma, le consuetudini e le credenze, tutte da tutelare.

Simulazione di parentado, stringe rapporti di collaborazione materiale e immateriale, nella continua ricerca di un remoto legame di sangue, risalente ai tempi della famiglia allargata Kanuniana (si dice Gijtoni è come un Parente).

Essa rappresenta il fuoco domestico condiviso, il cui calore vuole unire idealmente,  propagandosi attraverso l’uscio di casa, poi lungo gli incroci e i vicoli sino a giungere nei palcoscenici di confronto, scontro per terminare nel mutuo soccorso dell’operatività agro silvo pastorali.

Un percorso ideale che riverbera patto, lungo e confini indefiniti dei “Rioni”, dove ripete più volte, allargandosi e restringendosi come un cuore che pulsa, colmando e svuotando valori gesta e attività mai stipulate in forma scritta preventiva, in quanto promessa .

Gjitonia non è mero vicinato indigeno, è la radice di una cultura antica, come un fiume che trasporta senza consumare le cose nel tempo.

Riconoscerla  non è semplice, in quanto, bisogna viverla avendo padronanza di tutti gli ingredienti basilari, essa non non ha tempo, ma segna le attività attuate nel confronto con altri simili, il tutto, se opportunamente predisposte è  avvertito e vissuto anche nei tempi  brevi del turismo di massa, specie quando è fatto con criterio raffinatezza e garbo storico in accoglienza.

Gjitonia non sono le strade, le porte prospicienti la cosa pubblica, le piazze o le strade, giacché è l’insieme ambiente naturale, costruito e uomo a rendere possibile questo fenomeno così denominato in Arbéreshè.

Oggi, all’interno dei Katundë di minoranza storica, si potrebbe vivere identicamente, questa favola sociale, nonostante la globalità e la modernizzazione, che si dice che l’abbiano spenta o addirittura terminata.

Vero è che non è la dimensione del luogo, o le forme delle porte, le pieghe urbanistiche o le epoche a fare Gjitonia, in quanto, essa rappresenta la via maestra per la convivenza sostenibile, tra generi e culture dissimili.

Lo “Sheshi” del futuro ha cambiato le dimensioni, accorciato le distanze con i media sempre più presenti;  tuttavia il fenomeno sociale non è mutato, ha bisogno solo di essere applicato secondo le antiche metodiche, ovvero, l’uso del patto di mutuo soccorso, che  in tutte le latitudini si concretizza e diventa “ Integrazione”.

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FLUSSI DI MEMORIA COME PROLOGO (tratto da”Poesia e Memoria Popolare a Santa Sofia d’Epiro” di Elio Miracco)

FLUSSI DI MEMORIA COME PROLOGO (tratto da”Poesia e Memoria Popolare a Santa Sofia d’Epiro” di Elio Miracco)

Posted on 29 ottobre 2021 by admin

Poesie e memorie popolariSANTA SOFIA D’EPIRO (di Elio Miracco) – La cultura analfabeta si conserva, si trasmette e si tramanda con l’oralità e con la memoria, ma scomparsa la civiltà contadina tutto è affidato alla scrittura o consegnato ai computer, così il suono della campana è ovunque identico, anzi è regolato elettronicamente senza il contributo creativo del campanaro che componeva e ripresentava le proprie note a festa o a lutto.

Centro di formazione della famiglia non è più la vatra – il focolare -, e nello stesso tempo sono scomparse le piccole botteghe artigiane, dove si elaboravano e si fissavano nella mente versi e racconti da consegnare alle nuove generazioni.

Lo spazio lasciato vuoto è stato occupato da bar e ristoranti, luoghi d’incontro dei giovani che restano lontani da chi tramanda e vivono in una specie di autoesclusione generazionale, in un recinto di incomunicabilità con gli anziani, spesso con se stessi. Si è creata una bolla mnemonica, una “amnesia” che strozza lo scorrere del passato nel presente e la conseguente innovazione.

Questa non vuole essere nostalgia del tempo nel quale una bottiglia d’olio costava quanto l’equivalente di un giorno di lavoro nei campi, né commoven­te pietas per un mondo scomparso, ma testimonianza di stagioni estranee a chi è nato e cresciuto con la televisione, in una società preindustriale, se così si può chiamare in queste terre, economicamente povere, il repentino dis­solversi della cultura contadina.

Quindi l’assenza di una memoria anche sen­sitiva che non percepisce più il profumo del pane che si diffondeva nelle gji­tonie – vicinato -, che non vede le nonne, incanutite prima del tempo, o le mamme sedute, a primavera, sul sedile, sjeti, o sul gradino della porta di ca­sa davanti allo sheshi-spiazzo -, filare la bianca conocchia o sferruzzare ru­vide calze di lana e pesanti maglie interne per l’inverno; che non ode il sordo calpestio sul selciato degli zoccoli dell’asino rientrare, al tramonto, dalla campagna e fermarsi per dissetarsi te fìshkialari-all’abbeveratoio sopra – o posht-sotto -, o il tric trac del telaio che durante il giorno rompeva gli intri­ganti silenzi, e gli strilli festosi dei bambini confusi con lo starnazzare dellegalline che razzolavano alla ricerca di cibo, o il fabbro che batteva ritmica­mente il ferro incandescente da forgiare; una memoria per quanti non vivo­no più l’alternarsi delle stagioni con i suoi riti, i suoi frutti e le feste che ac­compagnavano semine, raccolte dei prodotti della natura e vendemmie, per quanti hanno perduto il sacrale gesto di baciare il pane quando un boccone cadeva a terra, per chi ha dimenticato che alla vigilia dell’Epifania si porgeva l’orecchio nel tentativo di ascoltare gli animali che parlavano.

Vuole essere soprattutto un rinnovare il ricordo, almeno nei nomi, dei tanti anonimi verseggiatori che con i loro vjershè- versi – per amori con­quistati o perduti, per la gioia che diffondevano con i canti negli sposalizi e per la quotidianità elevata a poesia, allietavano la comunità che viveva di queste piccole cose.

Ancora oggi si conserva qualche soprannome, Grofi i Terezines (Ceramella Gennaro), oppure il solo nome o cognome ad es. Xha- kineti (Baffa Gioachino), Miniti (Bugliari Armenio Angelo), Karuzi (Caruso Paolo), Kurti o Ciciandoni (Curti Francesco), Skorci (Scorza Vincenzo), que­st’ultimo felice traduttore di poesie apprese nella scuola elementare.

Le loro voci o musicalità, vuxhet, distinguevano un verseggiatore dall’altro, tra le più conosciute continuano ad essere rievocate vuxha e Xhakinetite vuxha e Minititche nelle serenate, caso unico, cantava insieme alla moglie.

Ma la più celebre e nota aria del pipiceli1 ha perduto la sua paternità.

Musicalmente proponeva toni alti e bassi, dridhet vuxha – la voce vibra -, termine che ri­manda al tessuto particolare della coha- gonna -, in seta e cotone. Si pensa che abbia preso nome da un vjersh dedicato a una ragazza che indossava quel tipo di coha, poi riferito, per espansione semantica, all’uomo kush èsht kipipigeìsaììtatur- chi è questo giovane saltatore – con il significato di “bel giovane intraprendente”.

Da quando si è affermata la società alfabetizzata, i nuovi modelli di vita o i nuovi bisogni, influenzati dalla “modernità” televisiva, respingono o rifiu­tano la circolazione, all’interno della comunità, di questi canti così come la scuola dell’obbligo, giustamente elevata a tredici anni, ha generato modelli culturali diversi e omologanti. II mondo contadino si è spento non in seguito a un’agonia ma improvvisamente, dissoltosi, dopo cinque secoli, nella civiltà industriale della emigrazione che ha spezzato la trama sociale del paese, la­cerandone il tessuto.

Una sdrucita tela antica i cui spazi vuoti non possono la stessa moderna urbanizzazione, dagli anni Ottanta, con la costruzione di ville isolate e “falansteri” condominiali, sproporzionati alle case di uno o due piani di un tempo, ha contribuito alle ferite spaziali e il paese arbèresh, katundi, è diventato una struttura a brandelli del nuovo assetto urbano e sociale, determinando la scomparsa della gjitonia.

L’identità, elaborazione di secoli di contatti con le comunità romanze, si era mantenuta anche per il processo di conservazione, per quello che Saussu­re chiamava spirito di campanile o etnocentrismo.

Ma spesso ‘”altro” è stato talmente interiorizzato in un inconscio crogiolo da diventare elemento ar­bèresh.

Un ibridismo identitario vivo ed elaborato per gli incontri con altre culture che hanno contribuito ad arricchirne le caratteristiche.

Nel frattempo gli Arbéreshè, perduta la vitalità linguistica, tentano il re­cupero culturale cercando di porre degli argini con una tutela che fol-clorizza e alimenta elementi ormai diventati artificiali.

Le stesse manife­stazioni folcloristiche, alle quali basta aggiungere arbèresh, “week-end ar­bèresh”, diventano una ricostruzione di balli e canti in costume tradizionale, con protagonisti i bambini che si esibiscono e i genitori che vivono tenera­mente questi momenti alla presenza di distratti spettatori locali.

Mentre qualche turista lèti- italiano – alla ricerca e riscoperta di un mondo esotico, percepisce una realtà vivente e non uno spettacolo dal palcoscenico che ri­propone scene simulate, quindi una realtà artefatta.

E purtroppo da artifi­ciosità in artificiosità si è giunti alle superficiali pubblicazioni finanziate da enti comunali nelle quali si legge di “rosa balcanico” per il colore, forse uno dei pochi in commercio a Santa Sofìa, di una casa dipinta con questa tinta nella anni Cinquanta, di “postura di guerriero balcanico” per un pastore ac­covacciato, o addirittura di piante urbane che richiamano la geometria dell’accampamento militare romano.

E ancora di elementi architettonici balca­nici, ignorando che solamente a più di un secolo dal loro arrivo in Italia gli Arbéreshè ebbero il permesso di costruire con “calce e arena”, dopo esser vissuti in capanne che a volte incendiavano per non pagare il “focatico”.

Ormai il villaggio è diventato un villaggio globale e a Santa Sofia si vive con internet, con le televisioni satellitari, si va in crociera, si fa turismo nei posti alla moda e si frequentano scuole e università. Sono il segno del pro­gresso che inesorabilmente incomincia ad espellere quanto non è più fun­zionale nella società estesasi oltre la frontiera invisibile, che un tempo cir­coscriveva la comunità.

 

 

https://www.google.it/books/edition/Poesia_e_memoria_popolare_a_Santa_Sofia/J35cAwAAQBAJ?hl=it&gbpv=1&dq=le+vallje+danza+tipica+albanese&pg=PA20&printsec=frontcover

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MANZANERA (Manxana e zézë)

MANZANERA (Manxana e zézë)

Posted on 19 ottobre 2021 by admin

20210106_155311NAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) – I fenomeni di persecuzione indirizzati verso ambiti, gruppi, minoranze religiose e culturali sono opportunamente arginati, con idonei strumenti, contenuti nel diritto internazionale; a garanzia di ogni forma con caratteristiche storiche minoritarie.

Quando si parla di tutela o valore dei centri minori di origine Arbëreshë, si entra a pieno titolo nel tema citato, rivolto al senso conservato nel perimetro del centro antico minore; sono proprio questi ad attende le necessarie misure, atte a contenere la marea di liberi operanti culturali, armati di mantici inenarrabili.

Notoriamente le minoranze storiche siano citate nell’articolo, sei, della Costituzione Italiana il cui enunciato precisa che: La Repubblica tutela con corrette norme le minoranze linguistiche. … Questo sintetico articolo s’ispira a un efficace principio di rispetto della lingua parlata da una comunità e precisa senza ombra di dubbi alcuno la presenza in Italia di minoranze linguistiche, ossia gruppi che non parlano l’italiano come prima lingua.

Il prodotto legislativo del 1999 n° 482, avrebbe dovuto consentire di adottare misure sostenibili rivolti ad ambiti, gruppi, minoranze religiose e culturali, attraverso il diritto internazionale, secondo cui ogni insieme riconosciuto quale forma storico minoritaria, poteva attingere risorse per sostenere la propria forza minore.

A ben vedere, visti i risultati cui si è approdati dopo oltre un ventennio di applicazione della legge 482/99 è opportuno rivedere l’insieme del dispositivo aggiungendo e rifinendo comma, al fine di aprire nuove prospettive di tutela attingendo nelle pieghe degli articoli 3 e 9 della Costituzione Italiana.

L’articolo tre della Costituzione esorta non solo di attivarsi per l’uguaglianza dei cittadini, ma come riferito nella seconda parte, della legge, sottolinea: il compito della Repubblica a Rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

Chiara espressione non è adottata all’interno di alcune minoranze storiche, che nonostante allarghino la propria deriva culturale, nulla viene fatto per rimuovere o correggere le attività poste in essere, a scapito di quanti si adoperano per arginare lo stato delle cose .

Se a questo suggerimento costituzionale, non contemplato nei comma della 482 del 99, aggiungiamo cosa propone l’articolo nove della costituzione italiana, nel suo enunciato introduttivo si allargano enormemente le misure dell’orizzonte,in contenuti ambientali e di cose, come qui di seguito enunciato: La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica, tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.

Le direttive nascono e sono state specificate, nella legge n. 352, del 1997; avente come oggetto la promozione e il sostegno di progetti finalizzati al restauro e alla valorizzazione dei beni culturali.

Il decreto lgs. n. 42/2004, in fine definisce senza ombra di dubbio alcuno, il codice per i Beni Culturali e Paesaggistici e per la prima volta si giunge a dare una definizione di bene culturale, infatti, l’articolo 2, sancisce che: Il patrimonio culturale è costituito dai “beni culturali e dai beni paesaggistici”.

  • Sono beni culturali “le cose” immobili e mobili che, ai sensi degli articoli 10 e 11, il cui interesse è rivolto ai valori artistici, storici, archeologici, etnoantropologico, archivistici e bibliografici e le altre cose individuate dalla legge o in base a questa, come testimonianze aventi valore di civiltà.
  • Sono beni paesaggistici gli immobili e le aree indicati all’articolo 134, espressione dei valori storici, culturali, naturali, morfologici ed estetici del territorio, e gli altri beni individuati dalla legge.
  • I beni del patrimonio culturale di appartenenza pubblica sono destinati alla fruizione, della collettività, compatibilmente con le esigenze di uso istituzionale e sempre che non vi ostino ragioni di tutela.

Va rilevato che le misure non identificano beni specifici, ne fanno una graduatoria del bene, giacché, oltre al paesaggio, la tutela mira ai beni individuati come “cose materiali ed immateriali”, lasciando agli esperti il valore decisionale; sulla base di questa breve introduzione nascono spontanei i seguenti interrogativi:

  • Perche nel 2004 in piena espunzione delle attività di tutela della minoranza non è stata posta la giusta attenzione e rendere la 482/99 più incline alle esigenze che erano poste in essere con le tante attività il cui risultato lasciavano il tempo che trovavano, senza migliorare nulla della regione storica?
  • Perché si e terminati, nel ritenere che solo l’aspetto idiomatico, andava preservato, immaginando la minoranza storica un fenomeno di voci altre sfuggito alla terra di origine e per questo andava riportato nell’ovile Albanese?
  • Quale attenzione è stata rivolta alle attività d’innalzamento dei centri antichi tipizzando il modello o meglio la cellula abitativa di base estrattiva e in evoluzione additiva?
  • Come si sono svolte le ricerche per la definizione della Gijtona che è finita per essere identificata come esempio copiato dal compagno di banco indigeno?
  • Quale attenzione è stata rivolta ai percorsi bizantini,nel meridione Italiano, poi diventati dal XV secolo la stella cometa, per mantenere la rotta nel percorso di insediamento?
  • Quale valore si è dato alle eccellenze in campo sociale, culturale, della scienza esatta o come liberi pensatori di un mondo nuovo che ancora attende il suo momento di attuazione?

Questi accenni e molti altri ancora sono le domande cui gli stati generali, non hanno saputo rispodere, ne hanno definito forme preliminari di progetti multidisciplinari.

Tutte le mancanze sono poi emerse, quando la pandemia, ha imposto conferenze non in presenza e tutta l’inesattezza delle cose è venuta a galla con tutti gli abbarbicamenti connessi.

Una e non certo è la meno importante è la definizione dell’insieme minoritario, ritenuto a torto, “eccellenza di nomadismo perenne”, nonostante sia estrapolato diffusamente nelle capitolazioni, con le case di pietra e arena, segno evidente di popolazioni stanziali.

La minoranza non è fatta di episodi d’incontro, tra due o più persone operose ad accendere un fuoco per iniziano a parlare in voce altra, poi magari se piove vanno via a e lasciano i carboni ad ardere e bruciano l’ambiente circostante.

La minoranza storica contiene un patrimonio identitari fatto di cose materiali e immateriali, essa si ferma per costruire e solo dopo accende il fuoco della casa, identificata come la prima cosa da proteggere e mai lasciata al suo destino, perché culla di un mondo antico.

La minoranza storica non inquina, lasciando imprudentemente fuochi accesi per discutere di cose futili, essa rispetta la natura con cui dialoga, al fine  di garantirsi le risorse e la continuità storica di un identificato luogo parallelo alla terra di provenienza; tutto questo non si può sintetizzare nel tempo che bruciano sarmenti o si fa un discorso inutile, fatto in voce altra; in altre parole la minoranza stoica non è un fuoco di paglia acceso da comuni viandanti.

Come si possa parlare di minoranza, senza avere consapevolezza del labirinto costruito, denominato sheshi, “il rione” sovrapposizione di tempo e ingegno; cose prodotte dalla minoranza, per segnare indelebilmente la presenza, nella più stretta collaborazione con la natura; l’ambiente parallelo individuato oltre il fiume Adriatico accanto ai segni bizantini.

Per terminare si vuole rilevare che l’appellativo “Regione storica diffusa Arbëreshë; il modello più longevo di integrazione mediterranea”, ha ricevuto i complimenti Presidenziali, a cui si è aggiunto l’intero gruppo della sua segreteria, nel novembre del 2018.

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UNA DIPLOMATICA PER DEFINIRE I FATTI, LE COSE E Il TRASCORSO DI UNA FIGURA

UNA DIPLOMATICA PER DEFINIRE I FATTI, LE COSE E Il TRASCORSO DI UNA FIGURA

Posted on 10 ottobre 2021 by admin

Muro

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – La diplomatica è la scienza che ha per oggetto lo studio critico del documento storico, al fine di determinare il valore come testimonianza esatta.

Essa è una disciplina nata nella seconda metà del secolo XVII, con oggetto di studio i concetti, le tecniche e le procedure per giudicare la genuinità di un documento, tramandato secondo i canali dell’ufficialità.

Inizialmente era intesa come scienza ausiliaria della storia, tuttavia, nel corso del XIX e XX secolo è diventata aiuto indispensabile per la ricerca storica.

La diplomatica, trova la sua origine con i primi studi filologici, compiuti dagli umanisti, il fondatore fu Francesco Petrarca, nel 1361 dimostrò la falsità dei pretesi privilegi concessi agli Asburgo d’Austria da Cesare e da Nerone, su richiesta dell’imperatore Carlo IV.

Un secolo più tardi, il romano Lorenzo Valla, nel 1440, pose l’accento sulla falsità della donazione che l’imperatore romano Costantino fece a papa Silvestro I, noto come “Discorso sulla donazione di Costantino”, falsamente creduta autentica e da allora in poi ebbe inizio una vera e propria verifica delle cose e gli uomini della storia.

La premessa pone l’accento su cosa è divulgato  in forma di un “Discorso”, specie se il teorema tratta di quanti vissero i territori paralleli prima ad est e poi anche ad ovest del “Fiume Adriatico”.

Queste popolazioni, note alla storia non per atti trasmessi e compilati da scriba, ma solo per la forma orale, quando iniziarono a definire forme  grammaticali, una volta compilate e poste a riposo, non smisero più di lievitare sotto i flussi dei venti nuovi.

E’ per questo che lo studio della storia, i fatti, le cose e gli uomini di questo popolo, non devono  essere affidati alle trascrizioni ereditate dalle lievitazioni di un criscito ignoto, in quanto urgono gruppi di lavoro pluri disciplinari, in grado di comprendere avvenimenti, date, luoghi, per  tessere le tele della storia,  secondo l’idioma dei lasciti ereditati.

Lo studioso attento conosce e si confronta sistematicamente con altri suoi della stessa radice linguistica, si adopera a tracciare linee di progetto preventive, intercettando cose e fatti reali, terminando poi in seguito, La ricerca, con la verifica generale con le memorie storiche pure.

Se un “Discorso” è fatto per le genti che non usano modelli di scrittura, oltretutto mai condivisa, non può esimersi dal nominare eccellenze, fatti, argomenti e atteggiamenti, secondo un filo logico che ha un inizio, uno svolgimento e una fine, che poi non è altro che la radice fatta di consuetudini antiche, che solo i designati conoscono.

Solo in questo modo non si dispongono ombre o  seminano dubbio sulla genuinità del prodotto editoriale divulgato.

Il processo del “Discorso” riceve il riconoscimento condiviso, solo se la farina contenuta viene dal sacco di quanti sanno conoscono e anno vissuto un determinato ambiente, glia ltri che si muovono nel fatuo del sentito dire, come ad esempio, il pensiero  del  libero pensatore del 1799, divulgato da voce altra con trascrizioni sottratte finisce di proiettare ombre magre.

In altre parole riferiamo degli editi allocati, in Via San Sebastiano, che non furono distrutti, diversamente da quanto posseduto in Via Sant’Agostino degli Scalzi, dove, nell’agosto del 1799 tutto fu dato alle fiamme, ad esclusione delle 33 monete, di ricompensa per il contadino in affitto.

La conferma del furto viene, esclusivamente, dalle competenze letterarie, infatti solo un eccellente della lingua Greca, capace di leggere e tradurre tutte le  forme dialettali elleniche, poteva fermarsi nella trattazione, davanti al baratro senza urgenza di tuffarsi nelle incertezze dello scrivere il parlato antico, limitandosi per questo alla mera comparazione di confronto e origine, senza illudersi si poter volare perché si trovava alto.

Uno studioso ed esperto di lingue antiche, se non azzarda a scrivere, una parlata antica dall’alto del suo sapere, un motivo lo doveva avere.

Egli non lo fa perché intuisce il “valore del codice familiare da non divulgare, ma proteggere”,  diversamente dai gesti inconsulti, dei comunemente, i quali, non avendo altri palcoscenici, agitano le braccia e le mani illudendosi di poter volare.

Quanti hanno avuto il privilegio di crescere secondo regole antiche dettate oralmente per tutelare la propria radice da contaminazioni altre, rende vulnerabile ogni cosa quando il codice termina nelle mani di figure senza testa,  specie per quanti, e sono tanti, non  conoscono il valore di quelle parole e il danno che vanno a compiere.

Giocare con la vita e la morale degli altri è facile, ancora peggio non avere scrupoli nel perpetrarli ad oltranza sino alla morte.

L’arroganza di predisporre trame per esse intoccabili nell’uso  della falce, termina quando rimani solo e ancora non si è consapevoli del maltolto, specie, quando gli altri voltano le spalle, perché parenti fidati e l’attrezzo che ancor prima di coagulare il sangue del primo tradimento,  si muove per attingere altro  sangue fresco, è il segno dell’onnipotenza ciana .

Non dimentichiamo il martello che dal 1811 è utilizzato per demolire fisicamente i presidi della cultura, gli stesi trasferiti per meglio formare nuove generazioni secondo l’antico consuetudinario, di lingua forme di confronto e religione.

L’onnipotente dopo essere stato protagonista negativo negli avvenimenti del 99, ombra occulta di grano insanguinato, coperto dal re, seminando terrore e morte nel natio; veste la toga della legalità, illudendo nel contempo i locali di profitti immobiliari; nessun progetto ha fatto l’uomo più blasfemo nell’uso degli attrezzi da lavoro più noti della storia, un uso che non trova eguali nel corso della storia.

Falce è martello sono gli emblemi dell’operosità e della fratellanza degli uomini, usarli per distruggere e tradire è fuori da ogni regola del genere umano, se si esclude l’inferno dantesco.

Certamente i sospetto non fanno una prova, nessuno troverà mai un atto nell’archivio di stato civile o militare, certificante tanta viltà e cattiveria, restano i fatti e le trascrizioni della storia che non lascia dubbi, anzi sono segnate dal sangue che non coagulerà mai.

L’arma del delitto e un rasoio ideale ad arco che nessuno troverà in alcun luogo, il fabbro modellatore è il Diavolo, il solo titolato a utilizzare le fiamme dell’inferno per forgiare trame di sofferenza diffusa.

Esso è un attrezzò immateriale ben affilato, si chiama la viltà, nessuno li troverà mai, il sangue versato in Piazza Mercato e quello sul grano che non germoglia più, nelle vicinanze de lavinaio, resta e come diceva un noto editore: il sangue sparso non va dimenticato (gjàku i shprishur su hàrrùa).

Non è concepibile attribuire studi millantati nei salotti culturali di Europa, “la questione meridionale”, a quanti non erano in grado di distinguere i palazzi del potere, dalle zone mercatali, dalle cristiane o le bizantine Chiese.

Se nel, 1785-86-87, in Svezia questi studi venivano largamente divulgati e apprezzati dai grandi di quel tempo, come fanno ad essere eccellenza altrui, nel corso del decennio francese?

Tanto meno si possono fare discorsi sulle dinamiche di valorizzazione del meridione, quando non si possiede ancora alcuna conoscenza del territorio e degli atti di Cassa Sacra riportati in Greco Antico, materia e piattaforma per un solo protagonista dal 1783 sino al 1799.

Poi se a questi dati di carattere formativo di tempo e di luogo, aggiungiamo il dato che ogni volta che si sono accesi i riflettori sulla stessa figura, un suo fattore o domestica ha avuto riconosciuto un compenso dalle istituzioni preposte, qualche abbaglio inizia a illuminare la via dei tre indizi, che fanno la prova.

Si può concludere che le eccellenze sono tante e potevano essere giustamente innalzate, sotto  il punto vista della legalità, della cultura, della scienza esatta; valga per citazione un solo esempio, a cui si potrebbero aggiungere altri novemila novecento novantanove: dove i Tecnici della Roma Imperiale in tutto il suo splendore si fermarono e lasciare il passo alla natura, un architetto osò superarli, ciò nonostante nell’inconsapevolezza generale si preferisce promuovere cose persone e arte prive di senso garbo e rispetto.

Tutto questo normalmente conduce nel campo del fatuo dovela confusione è garante, sin anche per le gesta del Beato Angelo di Acri, attribuite a di San Francesco di Paola; il segno evidente che la notte è ancora lunga buia e tempestosa.

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