Posted on 29 maggio 2014 by admin
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Posted on 27 maggio 2014 by admin
ROMA (di Paolo Borgia) – Cuore, il romanzo di De Amicis, lo lessi nel 1953, da diligente alunno appena immigrato a Torino. Era ambientato in una città che mi pareva di vedere nelle strade in cui giocavo e nella casa in cui abitavo a cinquanta metri dal primo parlamento italiano. Ancora la città non era divisa in quartieri catalogati per ceti sociali. I palazzi al pianterreno avevano botteghe ed nei cortili officine, il piano ammezzato era abitato dagli stessi negozianti e artigiani. Seguiva il primo piano “nobile”, dai grandi balconi ed alti soffitti. Nei piani sovrastanti, s’entrava in casa dal balcone interno comune, in fondo al quale c’era una latrina alla turca, anch’essa comune. Più su, sotto il tetto spiovente, le soffitte: piccole camere per i più poveri, fredde d’inverno, veri forni d’estate. Ogni scala era un mondo, in cui conviveva tutta la società: ricchi e poveri. Un vicinato urbano verticale come la “gjitonìa” (buon vicinato) orizzontale del paese nativo. Quando penso alla fraternità la ricordo così: una società in cui non s’era svilupppata «una visione economica di stampo puramente capitalistico che concepisce il lavoro come “merce” e il fine dell’impresa nel mero “profitto”». Oggi non si parla più di fraternità ma si avverte l’urgenza di «ripensare al lavoro e al mercato come luoghi di mutua assistenza e di fioritura umana». Qualche volta si parla di crescita resa impossibile dalla crisi strutturale dell’economia che ha mostrato un sistema bancario succube della speculazione (banche d’affari) e incapace di sostenere l’economia reale, quell’usare i soldi depositati per finanziare le famiglie e la produzione (banche commerciali). Si preferisce «investire in patrimoni e in capitali» perché «rende di più che investire nelle imprese. Con questa finanza dominante e speculativa, si riporta il capitalismo ad un livello feudale dove la rendita diviene il centro del sistema che schiaccia lavoro e imprenditori ». Occorrerebbe ripartire dall’amicizia dall’amore per ricreare i legami lacerati “dalla guerra armata e quella quotidiana” − causa dell’assenza delle leggi, che non si scrivono e, se scritte, non si rispettano. Come è lontana la fratellanza e il “credito etico”! In alternativa c’è una radice relazionale a cui attinge un profondo pensiero comune politico messo in luce, che attiene non solo alla sfera politica ma ad un umanesimo completo: ricostruire la città non è soltanto affare di politica ristretta ma libera decisione di appartenere alla società, in cui creare legami tra i gruppi meno abbienti e quelli più abbienti, rendendendo disponibili beni per soccorrere i più poveri, ottenendo una uguaglianza attraverso la fraternità. Questi 3 elementi insieme: libertà, uguaglianza, fraternità sono le precondizioni per la vita politica. La fraternità è stata accantonata se non dimenticata. A parlare oggi di fraternità c’è il rischio di essere fraintesi se non derisi. La continua ostilità tra i gruppi ci mostra la profonda crisi che sta vivendo la politica. Essa insegue le inclinazioni degli elettori anziché proporre programmi seri e lungimiranti, trasforma i problemi politici in questioni di polizia e ordine pubblico, preferisce affidersi alle armi piuttosto che affrontare le vere cause dell’ingiustizia interna ed internazionale, si rende disponibile ad interessi economici giganteschi che sfuggono ad ogni controllo. E tutto ciò è deviazione dalla politica, a cui ciascuno non è più disposto a posporre il proprio interesse privato “particulare”, per conseguire quei beni che si possono raggiungere soltanto con una azione solidale con gli altri. Si tratta di stabilire una relazione di amicizia basata sull’utile, quando questo è il bene di tutti, realizzabile razionalmente e che rende buona la città. Città, in cui vivere nella fiducia con un lavoro onesto, nella sicurezza personale, nel riconoscimento dei propri meriti, in cui l’essere umano è cittadino sovrano non suddito. Si tratta di conciliare, in un contesto di avversione dominante, l’interesse privato e il bene di tutti, proprio quando a prevalere è l’insensibilità alla sofferenza e ad ogni istante sorge nuova rassegnazione ed odio, le due forme di guerra: contro se stessi o contro gli altri. Come ci raccontano le cronache dei giorni nostri. Abbiamo bisogno del rispetto del singolo uomo, di creare un progetto comune, di una legge uguale per tutti e che ristabilisca la giustizia, di una equa distribuzione delle risorse. Abbiamo bisogno che si crei lo spazio per permettere alle nuove generazioni che vogliono formarsi una famiglia di poter disporre di una casa e un lavoro, permettere a chi vuole studiare di poter disporre di libri e scuole e a tutti strade e ferrovie e regole certe, in modo che ognuno possa liberamente realizzare la propria vocazione, con la collaborazione corale della società, recuperando la fiducia gli uni negli altri.
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Posted on 24 maggio 2014 by admin
NAPOLI (di Atanasio Pizzi) – Gli agglomerati urbani diffusi dei paesi albanofoni nascono secondo le disposizioni regie di Filippo II, amalgamate alle regole consuetudinarie nel modello sociale di famiglia allargato riportata nei dodici capitoli del Kanun.
Città policentriche, nate secondo le esigenze secolari della famiglia albanese, ognuna delle quali diversamente da quelle che oggi conosciamo, era composta di due o più famiglie, mutuamente coese, in genere due fratelli con mogli, le relative proli e i genitori; un numero di elementi che non superava la quindicina, infatti, oltre questa soglia si dipartiva e davano origine a un nuovo insediamento.
Tutte insieme, avendo la stessa origine, un medesimo sangue, lo stesso idioma, simili usi, costumi e per questo formavano quella grande famiglia che rimane tutt’oggi identificabile nella regione storica d’arberia.
Quando gli arbëreshë, così organizzati, giunsero nelle colline della sibaritide, si disposero nei pressi di chiese pievi o icone, perché legati da tre elementi caratterizzanti: la lingua, la consuetudine e la religione di rito greco bizantino.
Questi aspetti generali della vita degli albanofoni li ritroviamo in tutti i centri, nati, sopra i resti di antichi borghi, tra la fine del XV e la metà del XVI secolo.
Un esempio di quanto affermato sono i quartieri, identificati con toponomi, tramandati oralmente, che racchiudono quanto esposto e sono in grado di fornire traccia evolutiva di tutti i centri nati nello stesso intervallo temporale.
Va in oltre affermato che una caratteristica che accomuna tutti i paesi albanofoni sono le feste di primavera che rappresenta il fulcro di coesione con le genti indigene; giornata della promessa (Besa), per ricordare i propri cari e quelli altrui, tumulati negli ambiti ora abitati dagli arbëreshë. Il processo di trasformazione dell’ambiente naturale in costruito per opera albanofona è avvenuto in funzione di elementi oggettivi e ambientali, quali: la morfologia, la flora, l’orografia e il clima; aspetti fondamentali per gli esuli, perché simili a quelli della terra d’origine, per questo capaci di mettere in atto le proprie attività di sussistenza con i pochi mezzi senza accusare dissintonie ambientali.
Le costanti che hanno dato avvio ai sistemi urbani arbëreshë sono: il recinto, la casa e il giardino, caratteristica urbanistica ed architettonica di tutti gli ambiti d’etnia; il recinto segna il territorio, in cui la famiglia ha controllo assoluto, limite invalicabile per gli estranei, difeso e onorato anche a costo della propria vita; la casa, in origine un unico ambiente realizzata a ridosso di anfratti e completata con tronchi, rami intrecciati, foglie e argilla, il rifugio dove conservare e proteggere se stessi e le cose più indispensabili; il giardino è utilizzato come luogo della spogliatura, dimora di alberi da frutta e del gelso oltre che dell’orto stagionale.
L’arbëreshë si muove nel territorio in mutua convivenza e rispettoso dell’ambiente, si coordina secondo le locali norme naturali per la valorizzazione del territorio.
Nel periodo che va dal XV al XX secolo, l’affinamento socio culturale degli esuli si adegua al modello urbano, abbandonando quello della famiglia allargata per affinarsi in seguito verosimilmente quello metropolitano.
Gli antichi legami parentali, disgregati in cinque secoli di convivenza, hanno continuato a essere vivi nella mutua collaborazione della produzione, raccolta, spogliatura dei prodotti che il territorio forniva, e oggi nel ricordo parentale di chi vive ancora gli ambiti o attraverso i multimedia per chi si è recato in altre regioni o continenti.
In età moderna, la famiglia arbëreshë che ha assunto le sembianze tipiche metropolitane sente ancora il bisogno di ricercare l’antico legame di sangue.
La gjitonia, “dove vedo e dove sento”, sin dal XVI secolo diviene il luogo della ricerca dell’antico legame familiare smarrito per colpa delle nuove dinamiche sociali, si evolve in uno spazio ideale di sensi e sentimenti, luogo non toponomato, giacché rappresenta l’ambito in cui si accomunano indissolubilmente i sensi.
La gjitonia non è riconducibile ad ambiti materici, ma esclusivamente a rapporti personali e interpersonali di leale e solida convivenza non asogettabili ad uno spazio fisico.
La gjitonia ha origine dal tepore del focolare e si amplifica con cerchi concentrici, come una goccia nell’acqua, sino al lembo estremo dell’ambito urbano; entità effimera che pulsa si avverte si respira si assapora si vede si tocca, senza mai essere tracciata con limiti fisici.
Studiare i borghi albanofoni è utile per comprendere quali siano state le dinamiche che hanno consentito all’idioma e alla tradizione consuetudinaria più enigmatica della storia del mediterraneo, di proporsi incontaminata senza soluzione di continuità sino a oggi.
I piccoli agglomerati urbani sono la traccia indelebile del percorso che ha unito popoli diversi, che pur avendo lingua, religione e storie dissimili, sono state capaci di trovare le convergenze ideale per attuare, uno dei primi modelli d’integrazione, rimanendo tutti solidamente legato ai propri valori.
Le disposizioni regie impartite da Filippo II, le dinamiche consuetudinarie del concetto di famiglia allargata, la conformazione orografica e l’economia produssero i primi isolati (manxane), o gruppi di case, secondo schemi che sono riconducibili di tipo articolato o lineare. Il piccolo abituro, shpia (casa), in origine realizzato con rami intrecciati paglia e fango, o blocchi di terra mista a fango e paglia (kalivja), dopo la sottoscrizione delle capitolazioni, fu realizzato in pietra e arena negli elevati, mentre le coperte furono sostituite da una lamia di coppi a falda unica sostenuta da un doppio ordine di elementi lignei, la di cui pendenza riversava il displuvio innanzi all’ingresso dell’abituro.
La disposizione di tali moduli elementari, è fondamentale per la ricerca evolutiva degli agglomerati diffusi arbëreshë, in quanto, il modo in cui furono aggregati forniscono la regola secondo la quale nascono gli isolati urbani, (manxane) che rimarranno identici per oltre due secoli. In seguito al modulo abitativo elementare che misura circa 20 mq., fu associato un altro di uguale dimensione, non a diretto contatto con il fronte strada, usufruendo della porzione di territorio ancora non edificata.
I confini particellari identificabili con le tipiche rotondità, che sino ad oggi erano lette come espedienti logistici o statici per gli edifici, sono il modo indelebile per segnare un antico confine territoriale.
Da ciò si deduce che l’isolato, occupata tutta la porzione di terreno disponibile per cui ai piccoli agglomerati non rimane che svilupparsi in verticale, collocando al piano terra i depositi e al primo livello, di nuova costruzione la residenza, i due livelli sovrapposti rimasero ancora collegati da una scala interna a pioli, mentre la copertura del modulo a due livelli continua ad avere la stessa forma, salvo realizzare uno spazio tecnico e termico, sottotetto (kanicàri).
I frazionamenti successivi, di questi nuovi volumi edilizi, richiesero l’utilizzo dei profferli, caratteristica adottata, a partire dal XVIII secolo, questi ultimi modificarono sostanzialmente la prospettiva delle strette strade (ruhat) che non sempre consentivano, in maniera uniforme, l’aggiunta del nuovo manufatto esterno, per questo motivo l’alternarsi dei nuovi accessi ci fornisce un tessuto urbano oltremodo articolato.
Il ciclo dei manufatti abitativi delle comunità albanofone si arricchisce ulteriormente dopo il decennio francese con la costruzione diffusa dei palazzotti nobiliari, un disegno che si ripete sia nei centri abitati sia nelle pertinenze rurali, assumendo connotazioni formali ben definite, rappresentativi di una classe sociale emergente, balconi, aggetti, portali e finestre sono coronate da materiali lapidee che danno ai prospetti, delle nuove fabbriche, una regola metrica definita.
È chiaro che questo avviene solo per le classi sociali più elevate mentre quelle più abbienti continuano a occupare i vecchi katoi e nella migliore delle ipotesi, inglobare i profferli con nuovi e modesti volumi, che cercano di imitare almeno nel prospetto principale e l’ambito interno dell’ingresso dei palazzi post napoleonici.
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