Archive | dicembre, 2020

GJITONIA: MEMORIA DEI CINQUE SENSI, ZËMERA I SHESHIT ARBËRESHË

GJITONIA: MEMORIA DEI CINQUE SENSI, ZËMERA I SHESHIT ARBËRESHË

Posted on 22 dicembre 2020 by admin

CatturaNAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Se l’idioma e la consuetudine seguono senza soluzione di continuità la metrica del canto, questo diviene il mezzo attraverso il quale la storia arbëreshë imita il cuore quando ripetere i battiti per far vivere l’uomo.

Questa è il principio su cui si basa l’esistenza di un popolo tra i più enigmatici del mediterraneo, prima nella loro terra di origine a est delle rive dell’Adriatico, identificati nel corso della storia come:  Kalbanon, Arbëri e Arbanon e dal XIII secolo anche nelle terre a ovest dello Jonio e dell’Adriatico, con il nome di Arbëreshë.

I due modelli Arbëri  con  radici equipollenti, nati e innestati poi in territori paralleli; i primi  a misurarsi con i popoli che di li a poco iniziarono a piegarli; i secondi, per non seguire questa sorte emigrarono, garantiti dall’essere lasciati vivere con il proprio patrimonio identitario.

Di queste  popolazione, “comunemente inquadrata esclusivamente linguistica”, si fa un gran discutere della più caparbia, ovvero gli Arbëreshë, la risorsa da valorizzare, in forma di parlata, associata  addirittura a una forma scritta, necessità di cui ancora oggi non si comprende l’esigenza, nonostante resti apparecchiata una vivace e coloratissima trattazione, a dir poco paradossale e della quale nessuno si assume l’onere di essere madrina o padrino; nel contempo prende il largo, il comunemente, libero pensatore,  fantasmagorico e colorato, divulgatore di fatti, luoghi e  cose senza senso.

In poche parole un teatrino ineguagliabile, del quale la cultura in senso generale cerca di coprire con veli pietosi, lasciando apparire così, gli arbëreshë al pari di una generica minoranza che evidenzia la propria radice ballando e volteggiando con fazzoletti, legati ai polsi, mentre gli uomini divertiti stanno a guardare che arrivi il tempo del pasto.

Nessun ripensamento ha avuto ragione nel convincere  che gli arbëreshë  sono solo una lingua diversa, sin anche quando furono emanate leggi, che dovevano tutelare esclusivamente questo aspetto “maritato” a un ambito urbano, denominando impropriamente (Gjitonia come il Vicinato) per  accennare anche agli ambiti urbani come un patto di prestito deformato, coperto con veli pietosi senza rilevanza.

E fu così che i numerosi elementi caratteristici e caratterizzanti, raccolto più per necessità e  non perché parte fondamentale della tradizione, innestando sin anche, elementi, provenienti da anfratti mai attraversati o vissuti dagli arbëreshë.

Purtroppo, tutti gli istituti il cui protocollo seguiva imperterrito questa rotta, hanno terminato la loro corsa in malo modo e i risultati stanno stesi alla luce del sole, con la speranza che vaporizzino, non offrendo così  appiglio alcuno dove asciugare i fazzoletti di lacrime  amare legate al polso.

Se oggi, una fiammella è stata accesa per la minoranza storica arbëreshë e illumina le consuetudini, la metrica secondo la forza del magico modello che la sostiene, lo si deve a pochi esperti, mentre dalla parte dei comunemente,  nessuno ha avuto il buon senso  di chiedere scusa a quanti hanno individuato le essenze nella loro originaria forza.

Dati di fatto concreti contenuti chiaramente nella prima migrazione, da cui emerge palesemente che si disposero secondo arche prestabilite e prevalentemente marchiate della religione greca bizantina, (confusa per ortodossa),  rotta non casuale, e fortemente controllata anzi, si direbbe proprio un accanimento terapeutico, inferto per far apparire tutto come “arco di ponte” in favore della romana religione.

L’esigenza di produrre questo breve nasce, con la certezza “matematica” che gli ambiti e le caratteristiche delle genti arbëreshë, non sono esclusiva espressione idiomatica, ma soprattutto espressione di luogo, ambiente naturale e vissuto secondo un disciplinare antico, battito del tempo regolato delle stagioni e le procedure ad esse legate per rendere possibile la convivenza tra arbëreshë e natura già nota.

Gli ambiti così organizzati sono riconducibili alla Regione storica Arbëreshë, insieme indissolubile non per l’espressione idiomatica che pur se mantiene la sua radice, si frammenta quando si riverberata tra i numerosi anfratti simili; per questo complementare a elementi identificativi forti, sia in forma materiale e sia in concetti immateriali, quali avvenimenti, gestualità, suoni, comportamenti, ritualità e scelta di ambiti naturali paralleli, tutti in egual misura bonificati edificati per poter essere mantenuti secondo adempimenti in spazi liberi e in spazi edificati.

Sono proprio questi ultimi a essere considerati le culle, le purpignere entro cui i valori, in forma di labirinto del gruppo familiare allargato,  sono depositati e certamente non  alla portata culturale di quanti si sono mossi senza un progetto preliminare da seguire.

Secondo le ricerche storicamente riconosciute come brillanti, solo con una base come quella appena accennata si sarebbe potuto dare seguito a livelli superiori, a cui dare seguito alla lettura degli elementi e comprendere il significato linguistico di radice e non il comunemente indifferenziato della terra di origine.

Tutto questo non per dividere il significato di due specie, ma trovare la radice, rispetto ad altre anomale che non sono simili neanche nella forma di sviluppo, in tutto, creare presupposti idonei di spagliatura capaci a restituire la bianca farina per fare il pane, non è certo preferire la crusca come hanno fatto nelle regioni dove per volontà dei conquistatori si buttava il bianco prodotto secondo volere dei conquistatori.

A tal fine è bene precisare che sino a quando si perderà tempo a classificare favole, parabole o parlate locali, non si produrrà nulla di solido, in quanto l’unico componimento scritto che nessuno ha mai composto avrebbero dovuto fare riferimento esclusivamente:

“agli appellativi del corpo umano e lo spazio costruito e agreste che li circondava e garantiva la vita in origine”.

L’elenco alfabetico dei vocaboli  espressi in italiano, era l’unica isola da trovare, poi da qui ripartire seguendo le favole, così come fecero gli ispiratori fratelli Grimm per la lingua tedesca nel 1871, tassativamente e senza confusione alcuna, prima il corpo umano e gli ambiti di crescita e poi le favole.

Che l’Arbëreshë non sia solo una mera espressione linguistica, lo dimostra la non esistenza di un paese appartenente al ceppo identitario a cui non siano legati i quattro elementi fondamentali per l’insediamento, ovvero: un presidio religioso “kishia”;  luogo di avvistamento,” Brègù”; una trama urbana denominata “sheshi”, il labirinto; identificato come “Katundë” .

Oltre cento paesi, che ancora oggi, conservano questa trama urbana, nella quale depositarono, o meglio costruirono il micro clima ideale per allevare, consuetudini, metrica e attività uniche, non in forma di gioielli o altro a cui si potesse dare un valore commerciale, ma semplicemente, creare presupposti paralleli senza i quali il valore dell’identità arbëreshë, non si sarebbe riverbera per secoli identicamente.

Un’identità, non è mera espressione linguistica come disinformate sedi, prive di alcuna formazione, se non titoli equipollenti, si sono cimentati a definire mono tema, immaginando che annaffiare con forme di scrittura liquida, avrebbero sostento la crescita, sotto il sole, che si sa, fa sempre evaporare ogni cosa.

Un incauto adempimento che se opportunamente, progettato, come poi tutte per tutte i popoli anti chi si è proceduto, iniziando per protocollo dagli elementi materiali, ovvero i contenitori fisici dell’espressione linguistica regolata esclusivamente dallo scorre re del tempo e le stagioni.

Per concludere, possiamo affermare che quanti hanno immaginato di fissare per tutelare la cultura o il senso generale della minoranza storica più solida del mediterraneo, affidandosi solo allo studio o espressione linguistica di questo popolo hanno fatto un catastrofico errore, giacché, se la lingua in vari modi esprime un modo di destare curiosità e interesse, le risorse solide sono conservate nelle architettura, nell’urbanistica e nelle regole non scritte, a tutti note, per convivere e progredire nella più solida e leale rapporto tra ambiente naturale, ambiente costruito e generi arbëreshë.

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TI INVITANO A PRANZO NELLA GJITONIA E NON TI DICONO IL GIORNO

TI INVITANO A PRANZO NELLA GJITONIA E NON TI DICONO IL GIORNO

Posted on 16 dicembre 2020 by admin

CatturaNAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Comunemente si sentono storie struggenti di valori privati, monetizzati però dal pubblico, di ciò, la realtà che appare è nella sostanza ben diversa da come si vuol fare apparire; peccato, veramente peccato che queste “Attenzioni”, in specifiche aree geografiche, sono esclusive per soli animali, non preservando alcuna forma di rispetto o scrupolo in tal senso, nei confronti di quanti vivono un disagio “endemico” nonostante di genere indispensabile per recuperare valori dell’identità locale, in forma di convivenza e buon senso.

Ciò nonostante, invece di tacere, si apre la scena con protagonisti animali a quattro zampe, per millantare forme di emergenze, non si sa se indotte, tra le mura domestiche o reali accadimenti di trama sociale.

Tuttavia, accade che a essere esclusi dalle dinamiche locali, siano gli uomini, gli stessi denigrati e valutati senza rispetto alcuno, pur se culturalmente preparati oltre ogni misura e garbo.

Questi brevi accenni, tanto per non perdere la rotta o il filo del discorso, chiedono almeno un ragionevole approfondimento verso la parità dei diritti animali e del genere umano, in tutto, “uguaglianza”; specie se le misure poste in essere hanno radice privata, poi saldate dalla cassa pubblica.

Scrivere è facile, poi si dovrebbe anche comprendere il peso delle parole, sparse nell’etere, alla fine sono proprio queste che vanno a impattare nel cuore e nell’animo di chi porta la croce, dove ancora oggi, nonostante l’esilio degli ebrei sia terminato, si continua a emulare imperterriti quelle orme discriminanti, vissute lì sotto loro sguardo a nord.

Certamente queste si potrebbero ritenere storie di luoghi lontani, o mai accadute, per quanti credono che solo i loro atteggiamenti siano utili per il bene dei generi, rispettosi della formula, “armiamoci e partite” oppure, “ti invito io e paghi tu”.

Metrica antica, o formula opportunistica, tanto per aprire la scena, senza arte o ampia visione del luogo; questo anche sulla scorta dei limitati strumenti culturali a disposizione dei commediografi, che per scelta di vita e non imposta volontà, termina la sua figura lì dove finisce l’ombra.

L’auspicio, di questo breve, mira al confronto culturale senza discriminazione di generi viventi, come solito dire a quattro occhi, avendo ben chiaro che alcuni attori, sin da piccoli usano: per orientarsi l’occhio della mente, per poi focalizzano ogni cosa con quello che appare.

Queste ultime in specie sono le doti che in modo inconfutabile consentono di cogliere il senso completo di questa amara stupida e ridicola vicenda; guarda caso, si coglie sin anche la misura di quanto siano distanti i fondamenti della cultura che conta e valorizza una ben identificata comunità e le gesta inutili che sortiscono preferiscono occuparsi di realizzare “lettiere per  randagi che non le usano nemmeno”.

Il titolo di coda, rileva la deriva che vive chi vorrebbero apparire, lievitando in non si sa in quale icona di un ipotetico trittico terreno, senza avere consapevolezza  di essere, corvo che vuole cavalcare l’aquila.

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RESILIENZA: VITAMINA STORICA DEI CENTRI ANTICHI

RESILIENZA: VITAMINA STORICA DEI CENTRI ANTICHI

Posted on 06 dicembre 2020 by admin

ResilienzaNAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Il mestiere dell’architetto storicamente nasce per ottimizzare la convivenza tra gli uomini e la natura:

(Archi), secondo il vocabolario etimologico rappresenta il principio antico, si configura nel tecnico che con esperienza di luogo inizia a tracciare linee ed archi;

(Tek-Ton), artefice, rifinitore, compositore, esprime anche la figura capace di fabbricare, produrre ogni cosa lavorandola.

Non vi è ombra di dubbio, che “la bottega dell’artigiano artista”, dall’appellativo così completo e complesso, non si può terminare, nell’inquadrarlo in uno stravagante o allegorico modellatore dello stato di luogo.

L’architetto è la figura più rappresentativa della storia dell’uomo, la sua funzione di artigiano, non termina nell’uscio della sua bottega, in quando si espande come cerchi concentrici nel territorio senza mai terminare di illuminare i luoghi per dargli valore, vivo, utile e fruibile.

Dal primo punto, dove parte la linea o il cerchio, quando appoggia la matita sul foglio di progetto, inizia il processo di esperienza, attraverso il quale, si produrranno i presupposti di comune convivenza tra ambiente naturale e uomo, grazie alla sua idea e la relativa manualità; fuori dall’uscio della sua bottega le sue arche diventano, realtà, convivenza con la natura,  senza smarrire la via che collega  metrica e idea. 

Il buon prodotto o provocazione, messo in atto, avrà come verificatore di tempo, il principio della resilienza, solo allora le architetture e le trame urbane, avranno modo di dimostrare la loro adeguatezza.

Oggi, comunemente si elevano nuove generazioni di “riparatori del passato” i quali privi di maturata esperienza in senso di tempo, ma carichi di entusiasmo, dimenticano che ogni cosa che ormai appartiene al passato, (riconosciuta o meno dalle istituzioni), esige rispetto e indagine multidisciplinare, almeno storica, giacché quelle emergenze ancora in vita hanno accolto e salvato il genere umano da calamità telluriche, mediche ed economiche ancor più violente di quanto avviene si possa immaginare nella nostra epoca.

Allo stato delle cose, non serve riformare l’architettura, ma solo ed esclusivamente l’itinerario di formazione, visto che hai tempi nostri si ambisce al titolo e non per capacità manuali ma per le mere idee non ancora poste in essere nel confronto con i luoghi e la natura.

La formazione delle nuove generazioni, a cui le università fornisce il metodo intangibile, lasciando al libero arbitrio l’espressione tangibile senza una’adeguato metrica all’interno delle botteghe di architettura; allo stato dei fatti serve incutere alle nuove generazioni, l’uso delle mani e della mente in stretta e costruttiva composizione architettonica, tra uomo fruito e natura sostenitrice.

Purtroppo questo è il grande progetto o disegno dirsi voglia, assente; il luogo della deriva storica da cui non si ha la prospettiva libera, come usufruito dai nostri padri artigiani, nel processo di convivenza tra uomo, natura, ambiente costruito, la comune lettura non consente il distinguere cosa sia una fonte genuina, da uno torrente idoneo per annaffiare giardini o per lavare vesti.

Questo dato porta comunemente gli addetti, ad avventurarsi in processi irreversibili per i quali non hanno consapevolezza del danno che andranno,a  produrre, abbandonando poi i temi allestiti senza la idonea radice, e per questo nelle disponibilità della natura ,che con tempo e cautela riporta l’ambiente come prima.

Immaginare che una fibra ottica o un’intelligenza matematica possa risolvere i mali delle città metropolitane e/o i problemi sociali economici e culturali, è una favola cui non crede nessuno.

Gli architetti che storicamente sono artigiani fuori e dentro le mura della loro bottega, hanno fornito risposte più a misura d’uomo e meno di macchina o di vacini matematici come unico risultato.

Un detto dice: per bagnare non basta solo l’acqua ma ci vuole l’uomo che sappia comprendere quanto continuare il flusso; se troppa si finisce per distruggere, se ristagna, si ottiene la palude, se poca, il deserto.

A tal fine è bene precisare che i mezzi sono una cosa, ben diverso è il fine cui si ambisce; ritenere che viaggiare bene per raggiungere una meta è la certezza di giungervi, non è scontata.

Per questo quando si vanno a manomettere le originarie trame, che compongono, oggi, le nostre città, paesi e casali, è utile formarsi prima o se troppo complicato l’argomento, creare un gruppo di lavoro multidisciplinare che prima studia gli eventi analizzando la luce, che ha prodotto le ombre lasciate dal passato, se previste, o causate da nuovi eventi.

Oggi si studino i processi di resilienza immaginando di dare risposte sulla base, di progetti a dir poco irrealizzabili, i quali per un benessere ipotetico non hanno consapevolezza del luogo e la misura dei cinque sensi necessaria a sviluppare la comune convivenza.

Ipotizzando misure di città, ambiente con carature dissimili, prevedendo che ogni cosa possa essere inserita in ogni dove, si termina di produrre la radice e i relativi germogli utili solo per la serra.

Le nuove generazioni di architetti istintivamente, ritenendosi rinnovatori, sfuggono al cospetto della storia, e mi limito a parlare della nostra Italia e dei suoi centri antichi, le fucine ideali del fenomeno della resilienza, di cui si fa un gran parlare.

Accade di sovente e in molte manifestazioni di formazioni, ascoltare un insieme informe di provvedimenti da adottare, e tutti, nessuno escluso, hanno una caratteristica fondamentale che li accomuna: l’assolata mancanza di formazione e analisi storica degli ambiti trattati, specie riferibili a concetti spaziali dove i cinque sensi in misura differenziale dovrebbero fare da protagonisti .

Nel progetto della nuova generazione, di sovente sfugge il dato che gli ambiti che contengono le architetture del passato hanno già vissuto gli effetti di resilienza, e grazie al giusto rapporto tra uomo, ambiente naturale e costruito, è stato possibile affrontare ogni avversità sia naturale che indotta dai generi umani distratti.

Aristotele nei trattati dell’architettura divideva il modello urbano in tre categorie differenti e ogn’una di esse caratterizzava la vita e la prosecuzione della specie, se il sito era innestato in ambito montano, collinare o di piano in riva al mare.

Architetture e trame urbane che dovevano rispondere a esigenze dell’uomo che per la loro posizione geografica si confrontavano e innestavano la loro specie indelebilmente.

Va in oltre precisato che le architetture del passato non erano immaginate e crescevano nel tempo di una stagione, esse rappresentavano l’abaco della vita dell’uomo, era lui che le modellava dietro le direttive del maestro architetto, secondo un rapporto rispettoso di parametri che non sovrastavano ne le esigenze della natura e ne quelle dell’uomo.

Centri antiche che si sviluppano prima in senso orizzontale senza mai perdere le misure dei rapporti umani e quando questi iniziano a non avvertire il riverberarsi della misura dei cinque sensi, si sviluppano sovrapponendosi, dando avvio così all’urbanistica verticale.

Sistemi sviluppatisi prima in senso orizzontale e poi in senso verticale sono i centri antichi che ancora oggi resistono alla modernità, conservando l’originaria trama urbana, la stessa che ha visto rispondere alle avversità sia che avesse radice naturale o indotta dagli uomini.

Oggi chi immagina boschi verticali, commette un grave errore, le piante nascono perpendicolari al suoli e chi le costringe ad adattarsi, ben distanti dal luogo dei cinque sensi, commette un grave errore naturale; se avete dubbi chiedete alle Alpi o agli Appennini sino al di qua del faro e vi risponderanno come accade.

Ovvero, le piantare sul fianco della montagna per inverdire la dimensione verticale, non fioriscono ma feriscono solo la dignità dei giovani arbusti obbligati dall’uomo, restituiti dalla natura   sofferenti e in nuda e deforme piega.

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