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CANTI POPOLARI ALBANESI

Protetto: CANTI POPOLARI ALBANESI

Posted on 16 novembre 2015 by admin

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IL COSTUME ARBËRESHË SPEZZANESE  - “Llambadhor”

IL COSTUME ARBËRESHË SPEZZANESE – “Llambadhor”

Posted on 08 novembre 2015 by admin

Il costume arberesheSPEZZANO ALBANESE (di Francesco Marchianò) – Gli Arbëreshë (Albanesi d’Italia) sono ormai da anni oggetto di studio da parte di antropologi, linguisti, storici ecc., fenomeno che, negli ultimi tempi, si è accentuato grazie alla recente legge di tutela che dovrebbe garantire agli appartenenti di questa antica comunità altri anni di sopravvivenza.

Questi specialisti, arbëreshë e non, si sono interessati di tradizioni religiose, di riti, della lingua, della cucina e, recentemente, anche del costume di gala che, grazie alla ricchezza, allo sfarzo e alla difficoltà di realizzazione dei suoi componenti, diventa  un capo  di abbigliamento etnico molto prezioso sotto tutti gli aspetti e, perciò, oggetto di studio.

L’interesse verso il costume di gala Llambadhòr scaturisce dal fatto che esso dovrebbe rappresentare uno dei simboli dell’identità etnica e culturale degli Albanesi d’Italia mentre ogni sua componente racchiude vari significati nei diversi insediamenti albanesi.

Condurre ricerche nel campo della costumistica etnica significa entrare in un vasto ambito che si estende dalla storia all’arte sartoriale, dalla tintoria alla semiologia, ecc… domini, questi, che ingenerano polemiche o sollecitano, per fortuna, nuovi studi o approfondimenti.

Ma uno degli interrogativi che viene posto più sovente è se questo costume sia stato portato in Italia dagli Albanesi o se sia  stato prodotto in loco come naturale frutto di un’evoluzione dovuto al contatto con le popolazioni italofone vicine e delle innovazioni apportate dalla moda.

Partendo dal costume llambadhòr di Spezzano Albanese, questa ricerca intende dare un contributo ad una definizione, sicuramente non risolutiva, dell’abbigliamento di gala degli Arbëreshë, che si presenta molto vario nelle diverse aree dell’Arbëria, attraverso dati storici, spiegazioni linguistiche e componimenti poetici e narrazioni .

A questo punto sarà bene fornire una breve introduzione storica sulla presenza della comunità degli Arbëreshë in Italia le cui vicende, per un certo periodo, sono strettamente legate a quelle della loro antica madrepatria: l’Albania.

Nel Medioevo, l’Albania e l’Italia hanno sempre intrattenuto rapporti, grazie a quel corridoio-canale che è il Mar Adriatico allora dominato dalla Repubblica di Venezia. In questa bella città, come anche in altri centri della costa adriatica dalla Dalmazia ad Otranto, erano presenti delle comunità di albanesi che esercitavano il commercio oppure si arruolavano nelle milizie stradiote delle varie signorie o compagnie di ventura.

Dopo la battaglia di Kosova, nel 1389, tutta la parte meridionale della Penisola Balcanica cadde sotto il dominio dell’Impero ottomano che impose ai vari principi lo status di vassallaggio. Molte furono le rivolte che gli albanesi condussero contro i Turchi fino a quando non apparve la figura di Giorgio Castriota Skanderbeg (1403-1468). Questi, dopo aver unito i vari principi albanesi sotto la propria guida e aver stipulato un trattato di mutuo aiuto con il Vicereame di Napoli, condusse una strenua lotta contro gli invasori turchi.

Proprio in base al trattato di Gaeta (1451), Scanderbeg inviò, circa un decennio dopo, un corpo di spedizione di soldati albanesi per aiutare il Re Alfonso I a combattere contro i francesi. Questi furono l’avanguardia di una massiccia presenza albanese che, dopo la morte di Scanderbeg, a più ondate coinvolse anche la popolazione civile fino al XVIII sec.

Molti profughi albanesi furono accolti nelle nuove terre dove svolsero mansioni di braccianti in casali abbandonati di feudi laici o ecclesiastici del Meridione mentre altri, i più agiati e colti, si rifugiarono in centri popolosi dove continuarono ad esercitare il proprio mestiere di commercianti, artigiani, ecc… .

Quindi, condizioni di estrema miseria caratterizzano gli Arbëreshë di allora che, nella nuova patria, portarono solo le braccia per lavorare e, eventualmente, difendersi.

A questo punto sarebbe vera follia far risalire a quel periodo il Llambadhor arbëreshe che, invece, presenta, almeno nel caso delle aree del Pollino e della Sila Greca, caratteristiche ottocentesche.

A confortare questa ipotesi ci vengono in aiuto anche le carte dotali stipulate dai notai dal XVI sec. in cui sono nominati degli Albanesi dei quali, però, non appare alcun elemento riferibile al costume in oggetto.

Le donne della prima metà del XVII sec, in Spezzano Albanese, molto probabilmente indossavano qualche indumento tipico dell’epoca, cioè la “guarnacca” o “guarnaccia” ed il “vardacore”, che corrispondono rispettivamente alla zimarra (lunga sopravveste a maniche larghe)  ed al farsetto (specie di gilet senza maniche), ma che non si accostano affatto al llambadhòr, né lessicalmente e né come funzione. I capi di vestiario sopra citati compaiono negli atti di morte di alcune donne spezzanesi.

Sarà solo dalla seconda metà del XVII sec. in poi che le condizioni generali di vita degli Arbëreshë miglioreranno riflettendosi anche sul loro modo di vestire, per cui nelle carte dotali o in componimenti poetici cominciano ad apparire descrizioni più dettagliate del costume di gala e termini arbëreshë ad esso connessi.

Da un’attenta lettura delle carte dotali del XVIII sec. appare un elemento nuovo nella descrizione dei costumi llambadhor, il gallone, un accessorio che subirà trasformazioni, grazie alla tecnica, nel secolo successivo.

Questo elemento di foggia militare che serviva a rendere più sgargianti le uniformi di quel periodo fa, dunque, la sua incursione nel campo della moda influenzando l’abbigliamento femminile.

Questo nuovo particolare dato ci induce, quindi, a considerare anche il xhipùn, il cortissimo corpetto, ricco di larghe strisce di gallone dorato sul dorso, sul petto e sul giro polso che, se si esclude il vezzo femminile dei ricami dorati sulle maniche, richiama la stessa tipologia delle uniformi dei reparti di cavalleria europei prima, durante e dopo il periodo di Napoleone.

Oltre che col gallone, le donne, inoltre, lo abbellivano di finissimi ricami dorati sulle maniche che richiamavano motivi floreali o astrali. L’effetto era ottenuto con “speqète e kanotìlje” la cui applicazione richiedeva pazienza ed abilità in quanto la loro fattura era quasi microscopica.

L’origine non arbëresh del termine fa intuire che l’uso di questi materiali applicati al nostro costume risalga al XIX sec. quando l’incremento degli scambi fra le comunità arbëreshe ed i grossi centri italiani, soprattutto con Napoli, sono diventati più intensi.

L’allora capitale del Regno delle Due Sicilie era punto di riferimento economico, culturale e morale dei sudditi meridionali che lì si recavano per studiare, per commerciare, cospirare e conoscere le nuove tendenze della moda. Questi contatti, diretti o indiretti con Napoli, hanno fatto sì che molti termini del suo pittoresco dialetto fossero assimilati dagli albanesi.

Ritornando al costume di gala, quindi, si nota che esso era molto elaborato oltre che ricco nelle stoffe intessute di fili d’oro con seta o lana pettinata (kastòr), elementi, questi, che lo rendevano  molto diverso dal costume ordinario e quotidiano paqàn.

Tra gli accessori che rendono ancora più maestoso e completo il llambadhòr bisogna citare il velo di tulle, chiamato  fllosh, con ricami in oro o argento, recante spesso il monogramma della proprietaria.

Ma come si presentava il costume di gala spezzanese durante tutto il XIX secolo?

Se nei secoli precedenti si hanno come punti di riferimento solo atti notarili, nel XIX sec., per fortuna, letterati arbëreshë e viaggiatori del «Grand Tour» ci hanno lasciato rappresentazioni grafiche e descrizioni, più o meno attendibili, che ora utilizziamo, seguendo un ordine cronologico, per cercare di definire il llambadhor spezzanese.

Il 24 maggio 1840 giunge in Spezzano Albanese il nobile viaggiatore, scrittore e pittore inglese Sir Arthur John Strutt che trova il paese in festa per la festa di S. Maria di Costantinopoli. Dopo aver descritto la rozzezza degli uomini spezzanesi in una taverna, invitato ad una valla (ridda) da due sollecite fanciulle,  egli non può non notare l’evidente contrasto in quel giorno di festa: “Il costume delle donne sbalordisce. I capelli sono raccolti in trecce e formano un nodo sulla nuca all’antica. La camicia ha maniche larghe ed è molto aperta sul petto. Il vestito, rosso, di un sol pezzo, è sorretto da due elaborate spalline, ed un corpetto verde chiuso da lacci dorati, indossato o no a volontà completa l’abbigliamento”.

Come si può vedere si è ben lungi dal costume llambadhòr che conosciamo! Può darsi che Strutt abbia ritratto il costume di gala spezzanese come lo ha fatto un anonimo pittore, forse nel decennio 1840-’50,  per una donna del luogo di condizione sociale molto agiata.

Un ritratto ad olio, ben conservato presso un’agiata famiglia del luogo, riproduce le fattezze di Caterina Cucci moglie dell’allora sindaco e patriota Francesco Fera, che indossa un cortissimo corpetto nero, con una stretta bordatura argentata, su una candida camicetta chiusa con collo alto ricamato con trina, e la coha llambadhòr verde.

Un giovane ufficiale medico, il ginevrino Horace de Rilliet giunto nel nostro paese il 10 ottobre 1852, al seguito di Re Ferdinando II di Borbone, ha lasciato una breve testimonianza dell’abbigliamento indossato dalle donne: “Finchè una ragazza non è sposata porta i capelli intrecciati sulla testa e circondati da un nastro bianco; una volta sposata si aggiusta i capelli con la Chesa che è il diadema della donna sposata. Le ragazze nubili mettono una tunica sopra la gonnella che esse chiamano Zoga, ciò ricorda la pretesta dei romani”.

Andando avanti con le ricerche si evince che il llambadhòr che noi oggi conosciamo è venuto a formarsi attorno alla metà del XIX sec., dato che viene anche sostenuto da due preziose testimonianze dello studioso e folclorista spezzanese Giuseppe Angelo Nociti.

In un suo lungo poema in lingua italiana della storia di Spezzano Albanese, egli narra la processione della Madonna delle Grazie, il martedì di Pasqua, avvenimento in cui si assisteva alla partecipazione corale di tutto il paese.

Infatti, tutto il popolo spezzanese, acconciato a festa, segue la processione in cui sfilano sia le donne albanesi, che sono presenti in gran numero (“Della folla gentil la più gran parte/ Segue le usanze d’Albania venuste”), sia quelle che fan bella mostra col costume calabrese o con l’abbigliamento elegante di moda in quel periodo.

Il Nociti, comunque, si sofferma a descrivere, con dovizia di particolari, il costume di gala albanese ed i suoi elementi rimasti quasi identici a quelle di oggi.

A proposito delle due lunghe gonne (“cohat”), una verde sopra e l’altra rossa sotto, fittamente pieghettate, scrive:

“Son increspate dalla cinta al piede/In mille pieghe ugual e strette e fine,/ Ed ampia striscia intesta d’or si vede/ Al basso che le adorna in sul confine”.

E’ stupenda la freschezza dei versi che seguono dove la bellezza muliebre sconfina nell’erotismo grazie allo splendore ed alla delicatezza del llambadhòr: il candido merletto si fonde armoniosamente con le spalle e col bianco seno mentre i drappeggi leggeri delle vesti evidenziano il movimento delle anche e fan sì “Che il pensier vola a quel che vi s’asconde”.

Essendo giorno di festa, come consuetudine, le donne spezzanesi cercano di mostrare il proprio lusso perché: “Ornate d’oro e d’iridèi colori”.

Il Nociti, che è affascinato dalle belle ragazze, depreca le vecchie e brutte donne che si sforzano di apparire leggiadre: “E le splendide vesti e l’indorate/Gole, e le orecchie carche d’or e perle/Fan brutti ed esecrabili contrasti/ Con quei visi informi e guasti”.

Allora, come d’altronde oggi, si faceva sfoggio dell’oro, però più avanti, descrivendo la maestosità dei preziosi merletti, il poeta sottolinea che: “Nuda è la gola”.

Particolare attenzione egli pone, invece, alla descrizione dell’acconciatura che risulta molto elaborata e ricca di significati, soprattutto quella delle donne maritate: “Soglion tenere le postreme chiome/ Con bianco nastro e intrecciate e avvolte/ Quelle che il toro coniugale ha dome”.

Interessante è, invece, l’uso della kèza che raccoglieva nella nuca le chiome femminili in ricorrenze particolari: “Oggi ch’è festa poi le han pure involte/ In serto ornato a cui dàn chesa nome/ Che tra l’ovale e il quadro è simil molto/ Ad un gran mezzo limon giù capovolto”.

La parte temporale ed occipitale della testa sono libere da nastri ma: “Tutte in testa o velo o faccioletto/ Han quasi sempre sotto al mento stretto”.

Il Nociuti prosegue descrivendo i merletti, il velo di tulle, il dorso che “Piccolo copre ed agile giubbone”, infine i calzari che non sono rivestiti del tessuto verde della coha llambadhòr verde, ma: “Due scarpette lucide e corvine/ E talor le calzette appaion fuora”.

Circa il corpetto (“xhipuni”) sopra citato, la descrizione continua mettendo in evidenza le strisce di gallone sul dorso ed ai polsi mentre vengono omessi i ricami sulla lunghezza delle maniche.

Altro interessante ma breve dato, che ci viene ancora fornito dal poliedrico Nociti, è contenuto nella “Vall’e Serafinës” (“La ballata di Serafina”) raccolta e tradotta in italiano dallo stesso il 18 febbraio 1867.

Il componimento narra il mal d’amore patito dal giovane Gjergji che viene guarito, non dalle cure materne o mediche, ma dalle grazie della giovane e leggiadra Serafina che opera la magia d’amore grazie ad un particolare  llambadhòr:

 

“Tiladàmie lhignyn vû

vû suttanyn scarlatine;

zòhhyn vû stametti-fin”.

 

Dalla traduzione operata dall’autore si evince che le due sottane sono quasi dello stesso colore, cioè non compare il colore verde. Ciò potrebbe significare che per la realizzazione del costume di gala non esisteva uno stereotipo a cui riferirsi ma si affidava la scelta dei colori e delle fogge al gusto ed al libero arbitrio di chi lo confezionava o lo commissionava agli artigiani.

A conforto di questa tesi ci viene in aiuto un breve ma apprezzabile contributo della studiosa e viaggiatrice anticonformista Caterina Pigorini, in visita nel nostro paese nella torrida estate del 1882. Circa il costume ordinario scrive: “Nuvoli di donne senza busto né pettine secondo il loro costume, con un giubbetto senza maniche, il riccio (merletto) aperto a cuore sul seno ricadente e velato da semplice camicia; …”.

Ma l’etnologa toscana, nei giorni precedenti, aveva già osservato a Cosenza una tipologia di abbigliamento giornaliero da lavoro, con accessori, di una donna arbëreshe, descrizione che riportiamo fedelmente:

“ Costei conservando il costume del suo villaggio nativo aveva lo pizzietto (la frappa) della camicia a spesse crepe rovesciata sul collo e sul seno nella scollatura finita a cuore a metà del petto. Il corpetto senza maniche di panno scuro, orlato di rosso coi bottoncini lucenti si chiudeva sul pettino rosso; e la gonnella di vecchio castoro pure rosso col bordo verde a spesse pieghe all’ingiro nel di dietro che scendevano giù fino al fondo, rovesciata all’insù sul davanti e pittorescamente legata di dietro, lasciava vedere la pannella (seconda gonna) più cupa di colore, colla fascia nera in fondo, ugualmente pieghettata, che toccava il collo del suo piede nudo.

I capelli, spartiti in due trecce dietro alle orecchie in cui passava un nastro turchino (il nastro rosso nelle trecce è delle maritate) e giranti intorno al capo erano coperti da un fazzoletto legato stretto alla foggia montanina che lasciava scorgere il volume sul davanti”.

La scrittrice si addentra per le strade polverose del paese suscitando la curiosità di tutti. Alcune donne la invitano ad entrare nella loro abitazione e le raccontano che sono sole perché hanno i mariti emigrati in America. Due povere donne aprono un baule e le mettono in mostra due gonne llambadhòr di cui una di raso verde con un xhipùn dello stesso colore.

Il corpetto di gala spezzanese non è verde bensì di colore nero o blu cielo!

Un’ultima testimonianza del costume di gala, di cui è vestita una matura locandiera del paese che lo accoglie “in sfarzoso costume”, ci viene offerto dallo scrittore e viaggiatore inglese Norman Douglas, giunto in Spezzano Albanese nel luglio del 1911.

Giunti quasi alla conclusione di questa ricerca, che vorrei si arricchisse di ulteriori contributi, è mia opinione che il Llambadhòr dei paesi arbëreshë non sia stato portato dai poveri profughi albanesi nella terra che li ospitava, ma che sia la lontana reminiscenza di un costume non elaborato andato perso e di cui è rimasto il ricordo solo in qualche relitto linguistico (linja, coha, skamandìlj,…). Costume che forse essi hanno tentato di riprodurre, che si è evoluto secondo le influenze dei paesi italofoni vicini ed i dettami della moda che allora provenivano da Napoli. Prova di ciò sono i calabresismi, napoletanismi, gli spagnolismi ed i francesismi che designano alcune componenti del costume e che quasi abbondano rispetto alla terminologia arbëreshe.

In quali importanti occasioni del passato le donne di Spezzano Albanese hanno indossato il costume di gala?

Dalla “Platea” (1860) del Nociti, il 1 settembre 1860, Garibaldi viene accolto nella nostra cittadina dalle donne spezzanesi e degli paesi arbëreshë in costume di gala.

Nel 1881 il Re Umberto I, di passaggio per lo Scalo, potè ammirare una lunga fila di donne in llambadhòr organizzate dal Maggiore Vincenzo Luci.

Lo stesso accade nel 1939 quando Mussolini, in viaggio nel Meridione, passò velocemente per lo scalo spezzanese.

Nel 1937, in occasione del matrimonio dell’autoproclamato Re Zogu d’Albania, una delegazione di donne arbëreshe, organizzate da un certo Francesco Chinigò, si recò a Tirana, fra queste una coppia di spezzanesi.

Nel 1946 il principe ereditario Umberto II, in viaggio elettorale nel Meridione, fu accolto da alcune signore della borghesia locale nel tradizionale costume di gala.

Mentre prima il costume di gala era indossato solo nelle ricorrenze solenni, oggi il llambadhòr, almeno in Spezzano Albanese, fa qualche rarissima apparizione a Carnevale, come se fosse l’abbigliamento di una maschera e non il simbolo di un popolo che ha un passato ricco di storia, di cultura e di dignità nazionale.

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