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COME DISQUISIRE, PRESENTARE E ILLUSTRARE UN KATUNDË ARBËREŞE

Posted on 14 ottobre 2025 by admin

arcNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Portare alla ribalta il modello abitativo e sociale con cui sono stati disposti i paesi arbëreshë significa confrontarsi con una storia lunga, articolata e stratificata.

Ogni Katundë è il risultato di scelte collettive, di adattamenti ambientali e culturali, di equilibri sociali costruiti con paziente intelligenza nel tempo.

Chi si addentra nei vicoli di questi luoghi senza lume, conoscenza e, orientamento, rischia di vedere solo frammenti di costruito senza comprenderne il senso profondo.

Si finisce per osservare ciò che appare, non ciò che significa e, spesso, in questa superficialità, si arriva persino a domandare spiegazioni al turista di passaggio, perdendo così l’occasione di ascoltare la voce vera del luogo.

Katundë non si interpreta dall’esterno né con strumenti generici o senza conoscenza, perché esso va letto con rispetto, consapevolezza della sua funzione originaria e della sua logica del costruito.

Ogni vicolo ha una ragione, ogni orientamento una memoria, ogni soglia un racconto di una esigenza vernacolare, che la storia ha compilato con lento progredire.

Solo chi si avvicina con questo spirito e, da ascoltatore attento, può sperare di cogliere la profondità nascosta in quelle architetture familiari, nate per accogliere, difendere e vivere insieme.

Parlare di un Katundë non significa visitare un museo, ammirare qualche vestizione tradizionale o assaggiare manicaretti locali, per sentirsi dentro la storia, che non è di chi ha contratto matrimonio senza cognizione di ascolto.    

Non serve calcare questi luoghi da spettatori distratti per comprenderne l’anima che ha ogni piega di vicolo, ogni scalino per salire più in alto o soglia di casa e finestra gemellata, non è sufficiente neppure parlare una lingua che in questi vicoli non ha mai riverberato.

Perché qui, va detto con chiarezza gli albanesi non hanno mai abitato, qui hanno vissuto e costruito la loro storia gli arbëreshë, in conseguenza di una diaspora antica, che li ha accompagnato in secoli di adattamento e radicamento, immaginando un parallelismo che pochi sanno cogliere.

Ridurre Katundë a un’esposizione folcloristica significa tradirne la sostanza di questi luoghi, che non sono mera scenografie filmica, ma archivi viventi di memoria, di saperi, di forme di convivenza e di credenza.

Ogni pietra, ogni soglia, ogni vicolo porta un messaggio che non si legge passeggiando per arrivare in un luogo di mira, o ricevere un banale invito ad ascoltare un modo egocentrico che non è mai stato storia di questo luogo, infatti bisogna saper ascoltare camminando, rispettando, ogni pietra ogni piega della strada che sa come riverberare la storia.

Chi vuole davvero capire non deve cercare l’Albania nei Katundë, ma deve ascoltare la voce arbëreshë che qui è nata, cresciuta e trasformata, mantenendo viva una propria identità autonoma e profonda.

A tal proposito, è necessario redarguire chi affronta la storia di un Katundë senza aver mai avuto la fortuna di crescere nei luoghi in cui quella storia è nata ed è stata tessuta con tanti fili dissimili.

Parlare non significa improvvisare, ma serve conoscere e saper ascoltare inquadrare con rigore e rispetto, le sue fasi storiche e i suoi significati profondi che sono stesi al sole, lungo i muri delle case che avvolte sono deturpati per profitto.

Per tutto ciò è opportuno sapere che la prima cosa da fare è collocare il Katundë nel tempo storico, individuando le tappe che ne hanno segnato la nascita, la crescita e la trasformazione.

Poi, occorre chiarire quale diaspora lo ha reso protagonista e, sapere da quale corrente migratoria è stato generato, da quali dinamiche geopolitiche, e quale macroarea ha accolto i suoi abitanti.

Fondamentale è anche riconoscere il ruolo che i regnanti dell’epoca hanno assegnato agli arbëreşe, di quella specifica macroarea, poiché le comunità non nacquero mai per caso, ma rispondevano a strategie territoriali, militari, economiche e demografiche precise.

Da qui si deve passare a descrivere la storia del costruito, a partire dalle prime forme vernacolari, nate da bisogni concreti di sopravvivenza, senza tralasciare le costruzioni costruite per non essere tassate, sino ad arrivare alla conquista economica e sociale, con la nascita di spazi condivisi, mestieri, commerci e nuove forme di convivenza di agio agricolo.

Infine, non va dimenticato il ruolo della stagione culturale arbëreshë, che con la sua ricchezza spirituale, politica e scientifica ha contribuito in modo determinante alla costruzione dell’Unità d’Italia, offrendo figure illuminate e reti culturali capaci di andare oltre i confini locali.

Parlare di un Katundë, dunque, significa fare storia con coscienza, non folklore improvvisato, infatti solo restituendo voce a una memoria complessa e stratificata, tipica di un popolo capace di custodire e trasformare la propria identità nei secoli, si può illustrare e rendere merito a questi luoghi strategici della storia del meridione Italiano.

Questo è un tema o diplomatica alla portata dei diversificati addetti letterati o di genere idiomatico, infatti il concetto che qui si vuole esporre con coerenza e, affrontare seriamente la storia di un Katundë arbëreşë, non abbisogna solo di buona volontà, in quanto serve conoscenza profonda della storia, dell’architettura, dell’urbanistica e dell’antropologia.

Discipline che, dal punto di vista strategico e sociale, spiegano come nascono, crescono e si mantengono sostenibili i luoghi abitati dagli arbëreşë.

Comprendere un Katundë significa ascoltare un sistema complesso, nato da equilibri delicati tra ambiente naturale, struttura insediativa, relazioni umane e, non si tratta di un agglomerato qualsiasi, ma di una forma viva di organizzazione comunitaria.

Quando, poi, questo luogo è stato abitato e modellato dagli arbëreshë, la complessità cresce ulteriormente e, la stratificazione non è solo architettonica ma anche parlato, culturale, politica, in quanto ogni vicolo, ogni soglia, ogni spazio pubblico ha un significato che non può essere interpretato con strumenti banali o superficiali, come semplici sottotitoli.

Per questo, l’unico modo per far emergere in modo chiaro e senza ombre il valore reale di questi luoghi è attraverso un progetto multidisciplinare di indagine, con il quale e per il quale delineare un percorso che coinvolga storici, architetti, urbanisti, antropologi, saggi parlanti di luogo locale.

Solo così si potrà restituire a un centro antico arbëreshë, la sua dimensione autentica, ovvero quella di un organismo sociale e culturale complesso, che ha saputo crescere e sostenersi nei secoli grazie a un equilibrio sottile e sapiente.

Individuare e ascoltare in arbëreşë, quali siano stati i rioni originari, la toponomastica storica nata dalle necessità dell’epoca, significa leggere con precisione la mappa della memoria collettiva.

Ogni nome, ogni rione, ogni strada, racconta il modo in cui la comunità in arbëreshë ha saputo organizzarsi, crescere e proiettarsi nel tempo.

La toponomastica non è un dettaglio linguistico, ma è una traccia viva di funzione e di identità e, attraverso di essa è possibile ricostruire lo sviluppo dei centri storici.

Infatti con essa si possono intercettare la nascita e l’evoluzione della credenza, l’orientamento delle case, la disposizione delle strade e dei percorsi che hanno reso il sistema urbano un organismo pulsante e coerente.

Non vanno dimenticati gli edifici storici, veri indicatori delle epoche economiche, artistiche e culturali attraversate dal Katundë.

Infatti esse sono pietre miliari che raccontano la crescita di una comunità capace di trasformare il bisogno in architettura, e l’architettura in memoria condivisa.

Fu proprio questa ricchezza di forme e saperi che permise agli arbëreşe di guardare oltre i confini del loro centro antico e, frequentare le capitali della cultura, i luoghi di sapere e di confronto, allevando generazioni di menti che si sono distinte nella storia, le stesse in grado di rimarcare e pensare il nuovo mondo in arbëreşë.

La lingua, i nomi, i percorsi, le pietre, tutto fa parte di un unico discorso e, chi sa ascoltare davvero, trova in essi la chiave per leggere una civiltà viva e mai dimenticata.

Sono gli elementi come la lingua, la toponomastica storica, i rioni originari, le architetture vive, la memoria comunitaria e l’ascolto, gli ingredienti fondamentali per comprendere davvero come si è sviluppato un centro antico arbëreşë.

Senza di essi, ogni tentativo di interpretazione, si conclude inevitabilmente per apparire incompleto, sgradevole e poco credibile agli occhi di una società moderna che spesso non ascolta, ma corre distratta.

Viviamo in un tempo in cui le comunità sono affamate di conoscenza autentica e assetate di modelli di convivenza solidali e duraturi.

Ed è paradossale che, mentre si cercano altrove soluzioni complesse, si dimentichi uno dei modelli di integrazione più solidi e longevi del Mediterraneo, ovvero, quello costruito dagli arbëreşe.

Per secoli, questi centri antichi hanno dimostrato come la coesione sociale possa nascere da un equilibrio sapiente tra lingua, spazio, fede, lavoro e cultura.

Nessun elemento è isolato, ma tutti concorrono a formare un tessuto armonico e sostenibile, ecco perché chi parla di Katundë senza conoscerli a fondo rischia di non rendere giustizia a un’eredità storica straordinaria.

Capire un centro arbëreshë significa ascoltarlo con tutti i sensi e con il rispetto, per restituire alla storia ciò che la storia ha saputo costruire con pazienza e intelligenza collettiva.

 

Un elemento spesso trascurato, ma di straordinaria importanza, è la dimensione canora della vita comunitaria arbëreshë.

Storicamente, come sottolineano Torelli prima e Scura dopo, gli arbëreshë svilupparono una forma di convivenza espressiva fondata sul canto collettivo, in particolare nelle attività lavorative di genere.

Il canto non era semplice intrattenimento, era strumento sociale, un mezzo per unire uomini e donne in un’unica sonorità condivisa, senza alcun uso di strumenti musicali.

Le voci si intrecciavano naturalmente, come gesto di appartenenza e dialogo, trasformando il lavoro quotidiano in un momento di armonia comunitaria.

Questa modalità espressiva trova ulteriore conferma nelle rievocazioni descritte da Serafino Basta, che racconta della festa di primavera, un’occasione nella quale il canto tra generi non solo celebrava la stagione nuova, ma diventava anche strumento di ironia e sottile satira.

Attraverso versi improvvisati, uomini e donne si lanciavano battute all’indirizzo dei principi indigeni ospiti, rovesciando con intelligenza simbolica i ruoli sociali e affermando la forza della propria identità.

Questa tradizione canora, viva e corale, rappresenta una forma alta di integrazione sociale, in tutto, un linguaggio condiviso che non ha bisogno di spartiti, ma nasce dalla memoria, dall’ascolto reciproco e dalla capacità di costruire comunità attraverso la voce.

Il canto arbëreshë non è dunque folclore ornamentale, ma architettura sonora della convivenza, memoria viva che ha attraversato secoli e ancora oggi testimonia un modo unico di stare insieme.

Atanasio Architetto Pizzi                                                                                     Napoli 2025-10-14

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