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ALLA RICERCA DEGLI ARBËR E ARBËN NON CONVERTITI ALBANISTI phërësjona jonë cë nhëdigamj arbëreşë

Posted on 07 novembre 2025 by admin

comunicazione-3NAPOLI (di Atanasio Pizzi Olivetano Architetto Basile) – C’è un momento, per ogni uomo, in cui credere o non credere smette di essere una questione esterna, un dogma da accettare o rifiutare e, diventa un cammino silenzioso dentro di sé.

È lì, tra dubbi che graffiano e rivelazioni che sfiorano appena, che si disegna la mappa segreta della conoscenza.

Eppure, guardando intorno, si avverte qualcosa di diverso, quasi uno smarrimento sottile, come se fosse venuta meno quell’energia invisibile che un tempo univa gli esseri umani in un unico respiro.

Un tempo, forse, esisteva davvero un orizzonte condiviso: fatto di idee, di valori, di speranze intrecciate. Ora sembra più lontano, come un’eco che arriva da un mondo che abbiamo dimenticato di ascoltare.
Oggi, tale forza, che era il collante degli arbëreşë, la sorgente di fiducia reciproca e di intenti convergenti, sembra essersi dispersa nelle pieghe di un mondo frammentato dagli indigeni, dove l’individualismo prevale sulla coralità e la connessione autentica, che ormai è solo un lamento o addirittura riverbero lontano.

Eppure, senza questa linfa che nutre il senso del “noi arbëreşë”, nessun futuro potrà dirsi davvero condiviso se non addirittura terminale e, ritrovare quella corrente di vita che unisce e sostiene, che orienta i passi verso regole di convivenza e scopi comuni, è forse la più urgente tra le sfide del nostro tempo.

È chiaro che ciascuna comunità deve essere la prima a custodire le proprie memorie, poiché in esse si celano i valori che ne costituiscono l’anima.

La memoria è il filo invisibile che unisce passato, presente e futuro, secondo una tessitura che non è fatta di mero ricordo, ma radice viva che nutre il senso d’appartenenza e la continuità di una storia condivisa.
Senza la cura di queste tracce, la minoranza rischia di smarrirsi e, divenire un insieme di individui senza voce comune, senza quella trama sottile che dà significato ai gesti e orienta le scelte.

Custodire la memoria non significa chiudersi nel rimpianto del tempo andato, ma riconoscere in ogni frammento del passato la linfa che permette al presente di fiorire e al futuro di avere un fondamento.

È un atto di responsabilità collettiva, un gesto d’amore verso ciò che si è stati e verso ciò che ancora si può diventare.
Ogni documento, ogni parola tramandata, ogni rito o consuetudine condivisa è un frammento di questa memoria: un’eco che racconta chi siamo e da dove veniamo, ma anche una luce che illumina la strada di chi verrà dopo di noi.

Occorre che torni a vivere, nel cuore di ogni uomo e di ogni donna arbëreşë, l’orgoglio della propria storia, della propria famiglia di appartenenza.

È da questo sentimento profondo possano rivivere le radici del rispetto come erano quando varcarono il fiume adriatico e tutto quello che lo circondava da oriente, ovvero il paesaggio, le case, le chiese, i boschi, i campi e i fiumi che hanno accompagnato per secoli il ricordo r il cammino delle comunità arbëreşë.

Senza tale consapevolezza, tutto diventa fragile, sostituibile, indifferente. Si lasciano distruggere i boschi come se non fossero più custodi di respiro e silenzio; si accetta di stravolgere i paesaggi fluviali e campestri, di sbiadire gli affreschi che raccontavano la fede e il lavoro di chi ci ha preceduto; si demoliscono finestre e soglie di casa, simboli di passaggio e accoglienza, senza più avvertire il dolore di una perdita.
Quando viene meno l’orgoglio delle proprie radici, si seppellisce anche il linguaggio, si lascia spegnere il parlato che dava voce all’anima dei luoghi, si dimenticano i canti, i gesti, le tradizioni. E insieme a esse, lentamente, si lasciano andare in rovina le proprie chiese, non solo quelle di pietra, ma anche quelle invisibili dell’anima e della memoria.

Ritrovare l’orgoglio del proprio paesaggio e della propria cultura significa allora difendere il senso stesso dell’esistenza collettiva.

È un atto di resistenza alla dispersione, un modo per dire che l’identità non è un vincolo, ma una forza che illumina, che tiene insieme, che rende ogni comunità unica e viva nel grande coro del mondo.

Conservare ciò che è di tutti, ciò che appartiene al nostro passato, non è soltanto un atto di rispetto verso coloro che hanno costruito, amato e abitato queste cose: è, prima di tutto, un gesto di rispetto verso noi stessi.
Ogni muro antico, ogni ponte, ogni albero piantato da mani che non sono più, porta impressa una parte del nostro volto. Distruggere, trascurare o dimenticare ciò che è stato eretto prima di noi significa negare una porzione della nostra identità, spezzare il filo che ci tiene uniti al tempo e alla terra.

Custodire non è nostalgia ma consapevolezza, nel riconoscere che la bellezza e la memoria non appartengono al passato, ma continuano a vivere solo se qualcuno le osserva, le comprende per diffonderle difendendole.
In ogni pietra preservata, in ogni parola tramandata, in ogni rito che sopravvive al tempo, c’è la misura di una integrazione inimitabile.

E quando una comunità sceglie di salvare i segni del proprio cammino, non compie un atto di mera conservazione: rinnova il patto tra le generazioni, riafferma il senso di appartenenza e di dignità che dà sostanza al futuro.

Perché rispettare ciò che è stato significa, in ultima istanza, rispettare ciò che siamo e ciò che ancora potremmo diventare.

La china di ogni società inizia nel momento in cui si perde lo spirito comunitario, quando gli uomini smettono di riconoscersi in una storia comune e, condividere ideali che li uniscano oltre i propri confini.

È allora che i centri storici vissuti e sostenuti in arbëreşë, si svuotano di voce, che le piazze tacciono, e che ciascuno si rifugia nel proprio bozzolo, credendo di salvarsi isolandosi.

Ma una comunità senza legami e confronto, non è più una comunità, perché diventa un arcipelago di solitudini, un insieme di vite parallele che non si incontrano mai.

Quando si vive solo per sé stessi, quando il bene comune diventa un concetto remoto e, quasi fastidioso, tutto comincia a impoverirsi, le relazioni, la cultura, perfino la speranza viene smarrita e, l’uomo che non partecipa più al destino degli altri si rimpicciolisce, perde grandezza e visione; e con lui si inaridisce l’anima collettiva che dà forma al e solidità alla regione storica in esame.

Ritrovare lo spirito comunitario non significa tornare indietro, ma riconoscere che nessun progresso può esistere senza solidarietà, senza quella trama invisibile di fiducia e responsabilità reciproca che tiene insieme soprattutto le generazioni.

Solo dove esiste un “noi”, può germogliare un futuro vero, un futuro in cui l’uomo non è spettatore del proprio tempo, ma parte viva di un destino condiviso.

Per questi solidi principi di profonda speranza conservano il sorgere di comitati spontanei, o gruppi di persone che, partendo da zero, scelgono di incontrarsi, discutere e, progettare insieme.

In questa epoca dominato dall’individualismo, il semplice gesto di riunirsi per un fine comune è già un atto di coraggio, un segno che qualcosa di vivo ancora pulsa nel cuore delle nostre comunità.

In questi spazi di confronto, talvolta animati, talvolta difficili, ma sempre sinceri, si elabora un pensiero collettivo e, si raccolgono idee, energie, fondi, che sollevano frammenti di bellezza e memoria che, pur non appartenendo a nessuno in particolare, sono di tutti.

Ogni pietra restaurata, ogni documento ritrovato, ogni gesto di cura diventa allora testimonianza di una volontà ritrovata: quella di non lasciare morire ciò che ci unisce.

È da questi piccoli fuochi che può rinascere un senso nuovo di appartenenza, un modo diverso di abitare il tempo e la terra, fondato non sul possesso ma sulla condivisione, non sull’utile ma sulla gratitudine.
E forse proprio in questa semplice, ostinata volontà di prendersi cura delle cose comuni — con mani che riparano, parole che uniscono, e sguardi che comprendono e, celano la vera possibilità di futuro, un futuro che, finalmente, torni ad avere il volto dell’uomo e della comunità.

Arch. Atanasio Pizzi direttore A.R.S.A.N.  (Attento Ricercatore Storico Arbëreşë Napoletano)

Napoli 2025-11-04 – venerdì

 

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