NAPOLI (di Atanasio arch. Pizzi) – Azioni come stare nelle botteghe, davanti al camino in casa, gli echi discreti delle strette vie, i colori madicamentali degli orti, sono la vita che scorreva lenta e, come un rivolo andava nel mare e trasporta storia di generi operosi e concordati dal patto stretto da uomo e natura.
Tuttavia quando questi atti o attività cambiano luogo tutto diventa confusione e confonde le ragioni che fanno la vita colma di senso e di doveri, si perde il senso delle cose.
Oggi, purtroppo, accade che nel dialogo quotidiano tra il cittadino e l’istituzione, il risultato sia già scritto e, tutto si risolve al contrario di quell’antico ammonimento delle sagge madri di, non stare in mezzo alla via.
Eppure eccoci lì, nel cuore dell’asfalto, dove le panchine mancano per timore che diventino casa di chi non ha qui una casa.
Così il cittadino, povero di spazio e ricco d’ingegno, apparecchia la via come fosse un salotto, allestisce tavolate dove un tempo passavano i tram, e fa economia egocentrica, nudo di ogni pudore, pur di sentirsi, almeno per un momento, parte di qualcosa che somigli e rappresenta una comunità, ma allo sbando.
E mentre il vecchio Antonio fa germogliare arte nel legno quadrangolare che custodisce tesori floreali, la sua bottega resta deserta, senza un discepolo che raccolga l’eredità del suo genio tramandato dal padre.
Fuori, in mezzo alla via, scorre come un fiume in piena la vita, dove ad essere protagonisti sono i viandanti della breve sosta, che si accontentano di rumoreggiare, di ruttare, ingurgitando il pane steso al forno, un pane dal condimento retribuito e senza lievito madre, come tutto ormai si fa in mezzo la via.
E il mondo con tutte le istituzioni, così, continua a voltarsi dall’altra parte, mentre il tempo, come la farina, si posa piano sulle cose dimenticate, coprendole di una bianca, silenziosa giustizia senza arte e doveri come fa il vento quando soffia e trascina ogni cosa.
Solo se nello scanno amministrativo sarà consentito l’accesso alle giuste figure di genere, potremo forse rivedere la vera vitalità che un tempo scorreva tra le vie, lento e senza affanno.
Quelle stesse vie che non erano soltanto passaggi di pietra o polvere, ma arterie di comunità, in tutto, ponti tra arti e case, tra lavoro e abitare.
Un tempo la via serviva a unire, non a fermare, perché luogo dove la storia camminava, non dove veniva ostacolata continuamente, ripetutamente, con isterica costanza ignorata o essere solo osservata mentre si compie il rituale dell’assaggio.
Oggi, invece, troppe decisioni si prendono sopra le teste o in mezzo alla via, dove il respiro della gente affanna il pensiero e il senso del vivere collettivo.
Restituire spazio e voce alle giuste presenze, alle sagge madri, agli esclusi, a quanti hanno perso il senso di guidare i figli, non è solo un atto di equità, ma il gesto necessario per rimettere in moto la storia vera, quella che non teme di avere calli nelle mani per fare arte senza farsi male.
Solo allora, la via tornerà a essere luogo o paesaggio di incontro e confronto, non di solitari pensieri colmi e, distratti dalla folla che cerca un tavolo e una sedia per osservare chiese e palazzi, ricoperti di grafiti e immaginario senza pudore.
Solo allora, l’amministrare tornerà a significare e servire la comunità intera e, non rimandare tutto a domani perché oggi l’infarinare le mani di continuo non fa i calli delle arti, come fanno uomini come Antonio che non temono di scalfirle con gli attrezzi. per dare vita all’arte napoletana; quella di un tempo non molto lontano che teneva i giovani lontano da in mezzo la via.
Un tempo la via non era luogo di sosta, ma di passaggio e di scambio, una trama viva che univa le arti alle case, il lavoro al respiro della città.
Le nostre madri ci redarguivano quando stavamo troppo in mezzo alla via e, dicevano: state in casa a studiare, o in bottega ad apprendere il mestiere assieme a vostro padre, perché la via apparteneva al movimento, all’ozio e agli estranei.
Per le vecchie generazioni la via era il luogo o meglio lo spazio dove la storia doveva camminare, non dove fermava o stare in mezzo per impedire il passaggio di chi dopo aver lavorato doveva rientrare in casa.
Oggi, invece, accade l’opposto, i pochi mestieri rimasti, spinti dal profitto, si riversano in mezzo alla via, e le antiche botteghe, dove l’arte aveva dimora storica, sono diventate depositi di auto e di cose per il turista della breve sosta, lì dove si forgiavano mani e pensieri, ora si parcheggiano oggetti che inquinano la vita.
Solo restituendo alla via il suo senso originario, quello di collegare, non di vendere il quotidiano, potremo rivedere la vera vitalità collettiva, in tutto, storia che riprende senso e vita, arte che respira, comunità che si riconosce e sa come tornare a casa.
Oggi tutto si è capovolto e, si chiama arte l’impastare e lo stendere pasta per pizze, riempire bicchieri mescolati con alcol, servire consumo, non dentro il locale, ma in mezzo alla via, propri lì dove un tempo le nostre madri ci dicevano di non stare mai, perché esposti al pericolo.
Tutto questo ha trasformato le botteghe dell’arte, un tempo officina del vivere, è ridotta a vetrina e passaggio per il turista della breve sosta.
Non esiste più manualità che costruisce, ma soltanto la spettacolarità del gesto che intrattiene e, chi ancora vorrebbe lavorare con senso e dedizione, viene spesso escluso, relegato a casa, come se il costruire fosse un atto di disturbo per chi vive “in mezzo alla via” senza fare nulla.
Così, la via ha smesso di collegare e, non unisce più le mani al pensiero, né le case all’arte, perché tutto è diventato luogo dove la storia si arresta, e dove la vita collettiva non scorre più, ma si osserva da fuori, come una vetrina che non si può toccare.
È una vergogna vedere i marciapiedi, le strade e le piazze colmi di tavoli e sedie, dove un tempo si passava, si lavorava, si viveva.
Chi oggi vuole raggiungere la bottega, spesso non può farlo; e chi ha finito di faticare, non sa più come tornare a casa.
Non è una questione di tempo, ma di vita, di spazio rubato al cammino, alla dignità, al silenzio del lavoro vero.
La via non appartiene più al passaggio comune, ma all’occupazione del consumo e, là dove prima correvano mani e voci, ora si allineano banchetti in mezzo alla strada, come altari del disinteresse.
Il vivere collettivo si è ridotto a sedersi e attendere, mentre la città, una volta officina del quotidiano, è diventata una sala d’attesa del nulla che non arriva mai.
E tutto questo non finirà, non finirà fino a che chi siede allo scanno non si accorgerà delle cose perdute, del tempo smarrito, del valore dimenticato del fare.
Perché finché il potere non guarderà la strada come luogo di vita e passaggio, e non solo di profitto,
la città resterà immobile, come un corpo senza respiro, e la storia continuerà a camminare altrove.
E tutto si concretizza nel lasciare ai nostri figli meno storia di quanto ne hanno steso al sole, per noi, i nostri saggi e semplici genitori.
Arch. Atanasio Pizzi direttore A.R.S.A.N. (Attento Ricercatore Storico Arbëreşë Napulitanu)
Napoli 2025-10-19








