NAPOLI di (Atanasio Pizzi Architetto Basile) – È una pena infinita osservare inesperti ed estranei allo spirito dei luoghi, avanzare con passi pesanti, quasi longobardi, lungo i vicoli di un centro antico arbëreshë.
Calpestano le pietre senza saperle ascoltare, senza avvertire il suono dei secoli che ancora vibra sotto i loro piedi, non conoscono le mani che le hanno posate, non sentono le voci che le hanno attraversate.
Eppure quelle pietre parla ogni curva, ogni intonaco, ogni finestra chiusa da anni e, chi non sa vedere passa oltre.
Sono questi i centri storicamente noti per essere stati piegati dal tempo e, vederli sottoposti ai cadenzati abbagli, che senza rispetto, immaginano sia una piramidale borgata medioevale, non è certo il modo per darli in pasto ai media.
E quanti si inoltrano in un Katundë, senza chiedere o informarsi prima di cosa e come fare, finiscono nel perdersi, calpestare, disorientandosi e terminare fuori dal costruito, perché si crede sia circoscritto da mura, non avendo misura di quanti ideali si elevano nel perimetro più estremo di un Katundë.
Qui pur se all’aria aperta, le case respirare con difficoltà e, le pareti scrostate, restituiscono echi e, le ombre riconoscono i viandanti, ancora prima che decidano di addentrarsi.
Perché i sassi riconoscono ogni suono che fa domanda anomala, ogni angolo diventa frammento di memoria, e l’aria vibra sottile, in lacrimoso patire per il termine che nel breve a venire diverrà realtà.
Si ode un lamento sommesso, in fondo al vico dove vibra una luce fioca, disturbata dai suoni smisurati e, che non appartengono a questo tempo, chi qui si trova a passare violento non ha misura di ascolto per questo animo arbëreshë.
Si passa sotto un arco, vicino a una crepa e una soglia di casa, da tempo remoto immutata e, a breve niente sarà più come prima anche, se la memoria delle voci riecheggiano il volto di quanti qui hanno vissuto per far crescere sani generi senza preferenze; chi sa ascoltare e vedere intravede anche i segni delle lacrime e il sudore quando tutti videro partire i figli capaci.
Tornare, come promesso, per raccontare cosa è stato, diventa un atto di rispetto verso questi luoghi che da troppo tempo, nessuno ascolta perché lasciati nella disponibilità degli “ischi imbibiti di gocce in minzione”.
Qui nessuno riconosce più le fondazioni, nessuno sa come valutare lo spessore e la qualità dei muri, come neanche gli spessori sovrapposti di calce per il tempo lungo e la fumigine di quello corto sulle pareti depositatesi non per capriccio ma per segnare il tempo impaziente della modernità.
È come se qui il tempo avesse smesso di contare, come se il progresso si fosse arreso davanti alla nuda e dura pietra, della polvere, delle assi inchiodate dei solai in silenzio e, tutti non chiede nulla se non di essere riconosciuto e rispettati per il lavoro fatto.
Camminare tra i vicoli del centro antico è come infilarsi in una cicatrice ancora calda e, ogni angolo conserva memoria di sangue vivo, in ogni muro dove l’eco di un nome, di una voce, di un passo che non tornerà qui ancora tutto è in grado di ricordare.
Tra questi vicoli, la presenza di un figlio buono è sempre viva, non è nostalgia, non è malinconia, ma qualcosa di più sottile e radicato, secondo un legame tra ciò che è stato e ciò che potrebbe ancora essere e, solo chi torna se accolto con giudizio e rispetto, avrà modo di ascoltare e tradurre questo riverbero antico che cerca aiuto per sfidare il tempo.
Il mio Katundë non ha bisogno di essere salvato, ma riconosciuto, confermato e chi torna, chi si prende la responsabilità di raccontarlo, non lo fa per romanticismo o per apparire, ma lo fa perché sente che il tempo non ha senso se le cose qui ancora in vita, non le si aiuta a fiorire alimentandole con la memoria vera.
Addentrarsi negli ambiti di un centro antico senza sapere chi ha tracciato i perimetri di case e chiese, illustrando esclusivamente graffiti e marmi moderni, non è certo un documento storico, ma una farsa mediatica, come lo fu il vendere Toto e Peppino vendere la Fontana di Trevi a un turista americano di passaggio.
Così chi entra nel Katundë, da olivetano non lo fa armato di telecamere o mape di palcoscenico, perché quelle mura le scambiano per cavalieri armati come facevano piratati e ottomani invasori che senza rispetto, esaltavano la loro presenza, perché questi luoghi non chiedono futuro incerto, chiedono ascolto di un figlio.
Trovare qui un vecchio baule con dentro le vesti delle madri o delle nonne, non li si deve indossare e poi scendere a illustrarle lungo il lavinaio, perché quello era il luogo dei suini locali, non certo opportunità per essere sposa.
E ogni parola detta qui senza ragione pesa quanto una pietra, e ogni silenzio che viene disturbato dai comuni viandanti ignari, vale più di un terremoto, tornare e procedere con saggezza, non fa altro che togliere la cenere che copre le cose dimenticate da quanti li avrebbero dovuti amministrare.
Il vestito da sposa non è solo pieghe e colori copiati dalla natura, ma un protocollo che per essere raccontato richiede anni di sapere e non il tempo di infilate il filo nella cruna dell’ago.
Non serve tornare rumorosi, né rievocativi di una realtà che qui non ha mai avuto luogo, infatti alcuni suoni, certi slanci celebrativi, certi racconti gonfiati da chi qui non ha avuto un solo istante di crescita, forse serve altrove, dove riempire il vuoto con l’immaginazione e senza decoro di memoria, crede sia professione.
Ma il nostro centro antico qui in esame, non chiede interpretazioni, non accetta sovrascritture, perché qui le grafiti erano solo opera del gatto irrequieto e, chi torna, se lo faranno tornare davvero, lo fa in silenzio, perché sa che il silenzio non è assenza ma momento di ascolto amplificato, della cassa armonica fatta di anima e tempo.
In questi ambiti ameni chi ha l’orecchio calibrato, non solo può udire, ma comprendere e cogliere ciò che quei muri, quelle soglie, quelle strade, sussurrano ancora, in tutto storie che esistono sempre e tentano di sopravvivere per non essere cancellate.
In un centro antico arbëreşë il passato non si manifesta con clamore, non reclama palco né nostalgia, il passato si deposita, si sedimenta nei luoghi e si plasmano, come fa l’olio quando si versa e diventando trama sottile che solo chi si ferma può percepire o riconoscerne l’essenza.
E allora non serve voce, non servono dichiarazioni, ma serve solo presenza, rispetto e la capacità di ascoltare e lasciarsi dire qualcosa da quel poco che ancora resta e risuona in questi vicoli circondati da soglie di storia.
Entrare in un circoscritto familiare arbëreşë, con preparazione specifica di ascolto e parlato, nella comprensione profonda del valore vernacolare e nella lettura del gesto quotidiano, significa accedere a un archivio del presente che non sta altrove ma depositato in questi scaffali fatti di crepe nei muri.
Qui ogni cosa e scaffale che conserva memoria e, gli oggetti, le tecniche manuali tramandate, non sono reperti muti, ma testimoni attivi di una storia non scritta.
Attraverso il riecheggiare delle mani operose che conoscono i gesti degli avi, si può rilevare con precisione ciò che nessun archivio conosce, ovvero i ritmi, le intenzioni, le modifiche minime tramandate per secoli in quello stesso luogo dove sono diventate operose.
È una storia che vive nel fare, nel dire, nel silenzio condiviso, una storia che resiste al tempo proprio perché non si è mai allontanata dal luogo dove è nata consolidando questi luoghi di consuetudini che segnano i battiti del tempo.
Ogni atto domestico, ogni parola detta secondo la consuetudine locale, ogni utensile posato nello stesso modo da generazioni, custodisce la verità di una memoria collettiva profonda, difficile da decifrare senza l’orecchio e lo sguardo giusto.
Attraverso un’analisi visiva e tattile degli elevati murari, appartenenti all’edilizia vernacolare, in particolare dell’edificato del centro antico e gli ambiti destinati a deposito, stalla e legnaia, è possibile ricostruire le principali fasi costruttive, individuando tanto le epoche di primo impianto quanto eventuali interventi successivi di riedificazione, ampliamento o riparazione.
Tale indagine si basa sul riconoscimento e sulla lettura stratigrafica degli apparati murari, che consente di identificare le tecniche costruttive, i materiali impiegati e le modalità di posa, fornendo così preziosi indizi per una datazione relativa delle diverse fasi edilizie.
In particolare, l’osservazione delle qualità dei materiali costituenti la muratura, come pietre locali di natura calcarea o arenaria, oppure l’impiego di frammenti laterizi e ceramici reimpiegati, spesso legati con malte a base di argilla o calce, permette il distinguere, tecniche più arcaiche e soluzioni più recenti, spesso legate a differenti disponibilità di risorse, a cambiamenti nei modelli costruttivi o all’introduzione di nuove tecnologie.
In alcuni casi, la presenza di materiali eterogenei o di riuso (come cocci, tegole, mattoni frantumati) inseriti in impasti terrosi può suggerire interventi di recupero o fasi di ricostruzione successive a eventi traumatici, quali crolli, incendi o modifiche funzionali dell’edificio.
Un ulteriore elemento fondamentale per l’analisi dell’edilizia vernacolare, soprattutto in contesti post-catastrofici o di ricostruzione, è rappresentato dalla presenza (o assenza) delle pietre angolari, spesso accuratamente squadrate o selezionate, collocate agli spigoli degli edifici.
Queste, oltre a svolgere una funzione strutturale e di consolidamento, costituiscono anche un indicatore del livello economico e sociale del nucleo familiare costruttore.
Nelle abitazioni appartenenti a famiglie più agiate, tali pietre si presentano generalmente ben lavorate, di dimensioni regolari e disposte con tecnica accurata, spesso provenienti da cave locali o da edifici precedenti smantellati in modo selettivo.
Al contrario, nelle abitazioni delle fasce meno abbienti, si riscontra frequentemente l’assenza di angolari ben definiti e, gli spigoli sono realizzati con pietre di recupero disposte irregolarmente, o addirittura senza soluzione tecnica evidente, segno di una costruzione realizzata con materiali di fortuna e con mezzi limitati.
Questo dato costruttivo permette di distinguere le ricostruzioni più strutturate, promosse da famiglie con maggiore disponibilità economica, da quelle più improvvisate o di emergenza, effettuate da chi aveva perso tutto in seguito a eventi calamitosi (sismi, frane, incendi, guerre, carestie).
In molti casi, infatti, i meno abbienti si trovavano a ricostruire sugli stessi ruderi delle case crollate, utilizzando materiali di spogliatura recuperati sul posto o da edifici abbandonati, spesso senza la possibilità di acquistare nuova materia prima.
Questa stratificazione di tecniche e materiali consente di leggere le disuguaglianze sociali direttamente nella muratura, rendendo il manufatto architettonico una fonte storica di prima mano.
La presenza discontinua di pietre angolari, insieme alla qualità delle malte, al tipo di leganti e alla composizione degli impasti murari, diventa quindi una chiave interpretativa per comprendere la geografia della ricostruzione, distinguendo chi ha potuto ricostruire con risorse proprie e chi invece ha dovuto arrangiarsi con ciò che restava.
Questa metodologia, che affianca l’archeologia dell’architettura all’analisi dei materiali, si rivela particolarmente utile in contesti collinari dove la documentazione scritta è spesso assente o lacunosa. L’indagine diretta sulle murature, quindi, rappresenta uno strumento fondamentale per la comprensione delle trasformazioni storiche del paesaggio costruito e delle pratiche costruttive locali tramandate oralmente o per tradizione.
Inoltre, l’incrocio dei dati materiali ricavati dall’analisi diretta delle murature con le fonti storiche relative ad eventi naturali e sociali, quali terremoti, pandemie, carestie o periodi di siccità, consente di contestualizzare con maggiore precisione le fasi di trasformazione degli insediamenti rurali.
Questi eventi traumatici, documentati attraverso cronache locali, registri parrocchiali, o documentazione storica più ampia, spesso trovano riscontro anche nella materialità del costruito di crolli, ricostruzioni parziali, sostituzioni di materiali, o addirittura mutamenti nella funzione d’uso degli edifici.
Nel caso specifico dei Katundë e, i cunei di pertinenza, tali eventi possono aver segnato veri e propri momenti della storia comunitaria, con conseguenze tangibili nell’assetto insediativo, nella qualità dell’edilizia e nelle tecniche costruttive impiegate.
Pertanto, il confronto tra dati rilevati dalle fonti storiche locali permette non solo di datare con maggiore attendibilità alle fasi costruttive, ma anche di restituire una lettura solida alla storia locale, intrecciando le vicende architettoniche con i processi, ambientali e socio-economici che hanno interessato questi contesti collinari fuori dalle pertinenze dell’anofele.
Se di un Katundë arbëreşë non si ha consapevolezza delle sue origini, delle tappe evolutive che lo hanno formato e del paziente lavoro di ripristino portato avanti dagli arbëreşe, allora non si può parlare di nulla. Ogni tentativo di comprensione risulterà vano e, così, chi si avventura con incoscienza o presunzione ad attraversarlo, finisce inevitabilmente per sbattere la propria conoscenza contro un muro.
E purtroppo questo un muro provoca confusione, disorientamento, scambiato per la ‘murazione’ della borgata, o, per dirla in altro modo, della bovara.
I centri storici arbëreşe, perché sostenuti in conseguenza della diaspora Balcana, portano in sé un’identità solida, profonda, che non può essere oggetto di indagine da parte di letterati improvvisati o di chi si accontenta di lettere superficiali.
La loro comprensione richiede invece la sapienza degli Olivetani, cresciuti nei luoghi dell’eccellenza formativa di Palazzo Gravina, dove l’architettura non è solo un mestiere, ma scuola di pensiero, disciplina e abnegazione totale.
Solo chi si è formato in questo edificio di conoscenza, tra i più solidi del meridione, per rigore e ampiezza di sapere, può aspirare a cogliere l’essenza di questi luoghi e tradurla con rispetto e maestria.”
Oggi tutti coloro che affermano di essere transitati sulla via degli Olivetani, magari dopo averne anche solo fissato l’ingresso, custodito come immagine, hanno il dovere di fermarsi, ascoltare, e lasciarsi attraversare dalle parole sagge che solo l’Olivetano autentico può tradurre.
Perché quelle mura antiche non parlano né il latino né il greco, ma una lingua indoeuropea originaria, arcaica solo parlato, che non si studia sui libri ma si apprende attraverso l’ascolto profondo.
È la lingua della pietra, del vento e delle stagioni, una lingua seminata tra gli orti, che non ha fretta di germogliare.
Vuole il suo tempo, pretende silenzio e attenzione, e si dona solo a chi sa davvero ascoltare, perché solo attraverso l’ascolto profondo si può comprenderla, non con gli occhi affrettati del turista o con le parole svuotate del letterato di passaggio, ma con la pazienza di chi è disposto ad attendere il suo frutto.
Atanasio Architetto Pizzi Napoli 2025-09-30