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I LETTERATI ARBËREŞË ALLA RICERCA PERENNE DELL’ALFABETO CON LA “Z” PERDUTA

Posted on 14 settembre 2025 by admin

Zeta ArberesheNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – C’è chi ha detto, con ironia e forse con un filo di disprezzo, che gli arbëreshë sono un popolo senza poesia, senza scrittura, ma pieni di voce, parola e canto.

Come se la scrittura fosse l’unico segno della civiltà, e la parola cantata non bastasse a fondare memoria, identità, esistenza e saggezza.

Ma gli arbëreshë, i discendenti degli esuli che migrarono dai Balcani e dalle terre sino ai confini Greci quando con il sorgere della luna apparvero le ombre ottomane, non hanno mai smesso di raccontarsi e fare memoria.

Lo hanno fatto attorno al fuoco, nei canti epici, nei riti liturgici in greco-bizantino e, nei proverbi, usando solo la voce, con il corpo e con il riverbero noto dei luoghi paralleli ritrovati.

Secondo le consuetudini di una cultura profondamente orale e, se la scrittura era assente, con molta probabilità non venne ritenuta necessaria o essenziale rispetto ad altre necessità.

Finché non inizio il cammino di cercare un alfabeto dove era stata smarrita la zeta che non dava conferma di un protocollo completo o noto alle intelligenze dell’epoca.

Non si può parlare di “alfabetizzazione” arbëreşë senza considerare la Chiesa, che per secoli ha cercato di formare generazioni di preti, poeti e studiosi.

Dai seminari di San Benedetto Ullano, San Demetrio Corone, e altri luoghi con capitale Napoli, uscivano giovani arbëreşë che conoscevano il latino, il greco, l’italiano… ma che volevano scrivere in arbëreşë, la lingua dei padri.

Ed ecco il paradosso: una lingua che nasce per essere detta, cercava ora di essere letta e, nel mentre codificano alfabeti, regole grammaticali, e fonemi, una voce ironica, forse dal fondo di un villaggio, forse dal margine della modernità, si fa sentire: “Un alfabeto che non avrà mai una z di fine”

L’ironia della “Z”, vera o apocrifa, assume un valore profondamente vero nel suo significato, in tutto è un rasoio, una critica sottile e tagliente.

La “Z di fine “ diventa simbolo di una lingua portata al suo estremo, chiusa in sé, priva di scopo pratico o reale, come a dire, cosa serve un alfabeto completo se la voce non o sente di essere padrona.

In molte lingue, la Z è la fine, il compimento, il sigillo, ma nella lingua degli arbëreşë, la fine non è scritta, perché cantata e, il canto non ha bisogno della Z, perché non ha bisogno di finire mai.

Il canto torna, si ripete e, riecheggia ogni volta che una nonna racconta una storia, che un giovane impara un proverbio, che un prete canta la liturgia in arbëreşë.

E allora l’alfabeto arbëreşë, senza una Z, sarà eternamente incompleto e consapevole di una lettera in grado si chiudere e confermare un parlato utile all’ascolto.

Gli arbëreşë non cercano la perfezione normativa, ma l’impronta culturale idonea all’ascolto e, un alfabeto senza meta, serve solo a chi crede che la meta sia la standardizzazione, l’omologazione e, la grammatica chiusa non ha senso.

Per gli arbëreshë, la scrittura è memoria che si fissa, ma non sostituisce la voce, in tutto è la cura del passato, non tradimento dell’oralità.

L’alfabeto arbëreshë non è nato per necessità linguistica, ma per sopravvivenza culturale, esso rappresenta l’esito di un popolo che ha scelto di non sparire, anche se i suoi suoni non si adattano facilmente a nessun sistema ortografico, anche se quella Z di fine, non è mai arrivata.

In buona sostanza, non serve l’ultima lettera per raccontare una storia di un popolo che non ha alcun titolo per dichiararsi termine.

Tra i nomi meno celebrati ma profondamente emblematici di questa curiosa vicenda, c’è quello di Pasquale Baffi, figura d’eccellenza della cultura arbëreshe, lui filologo, grecista, letterato, bibliotecario, lettore o interprete di ogni documento antico conoscitore del latino e delle lingue classiche, in tutto una figura che rappresentava ciò che di più raffinato poteva esprimere l’eredità intellettuale di una minoranza diasporica.

Eppure, proprio lui, che conosceva le strutture del sanscrito e comparava l’arbëreşë con le lingue indoeuropee, trovatosi davanti a un paradosso linguistico-tecnologico.

E siccome i caratteri di stampa di Gutenberg, giunti in Italia e divenuti standard nei torchi tipografici, non erano sufficienti a rendere graficamente i suoni della lingua arbëreşë, perché mancavano lettere, segni diacritici, soluzioni fonetiche.

Secondo Baffi, questo limite impediva al parlante di riconoscersi nella lettura ciò che veniva stampato e non rifletteva la musicalità, le nasalità, le aspirazioni e le combinazioni vocaliche dell’arbëreşë parlato.

Di conseguenza la scrittura, quindi, diventava una maschera, e non uno specchio, questa consapevolezza lo portò ad atteggiamenti molto cauti che nessuno ha mai concepito per diventare cauto come lo fu lui.

Infatti egli non rinnegò la scrittura, ma non cercò di forzarla in forme che non rispettassero la sostanza della lingua ereditata dal suo luogo natio.

Infatti la sua opera si concentrò sulla comparazione etimologica e filologica, lasciando alla parola orale, ancora una volta, il compito di portare e sostenere l’anima della lingua.

Pasquale Baffi, figura centrale dell’erudizione arbëreşë di fine Settecento, è l’unico arbëreşë che non seguì un percorso formativo lineare.

Infatti abbandonò il Collegio ancora adolescente, perché riteneva inadatti gli insegnati e, allontanatosi da quell’istituzione con atto di ribellione, nonostante fosse stata creata per la formazione culturale e religiosa dei giovani arbëreshë.

La scelta o forse la necessità di proseguire gli studi altrove, tra Salerno, Avellino e infine Napoli, segnò una rottura non solo biografica ma simbolica, una cesura rispetto a un progetto di formazione che, già allora, mostrava i suoi limiti strutturali e politici molto elevati.

Non si tratta oggi di mitizzare una breve permanenza al Corsini, né di attribuire a quella fase un peso eccessivo nel definire l’identità intellettuale di Baffi.

Al contrario, è proprio dalla sua distanza da quell’ambiente che si misura la sua originalità, la cultura che egli andò a formare fu, infatti, frutto di una tensione, tra le radici albanesi e l’attrazione per i grandi centri della cultura italiana ed europea del tempo.

Infatti tra il desiderio di preservare la lingua e la consapevolezza dell’emarginazione culturale subita dagli arbëreshë, anche nei momenti in cui sembrava aprirsi uno spazio per la scrittura e la codificazione.

Emblematico rimane, in questo senso, il caso di Monastir, quando si diede inizio alla formalizzazione dello scritto albanese e, in quel contesto, nonostante le premesse di apertura, gli Adrianensi non furono coinvolti né ascoltati anzi vennero pregati di rimanere a casa a cercare quella Zeta che mai nessuno ad oggi è stato in grado di ritrovare.

L’esclusione fu totale e nessuna accoglienza, nessuna parola, nessun ruolo fu assegnato agli studiosi ad ovest del fiume Adriatico.

E magari proprio lì come alcuni favolerei raccontano, vennero trascinati i bauli colmi di libri dalla madre patria e, chissà che proprio la Z ribelle non si sia stata trascinata in fondo al mare nostro.

Un episodio che rivela quanto la cultura arbëreşë fosse divisa, frammentata da logiche locali, da gerarchie ecclesiastiche e da interessi spesso lontani dalla reale salvaguardia di un parlato di una memoria comune.

A noi arbëreshë di oggi, eredi di questa storia interrotta, non resta che ripartire da dove altri si sono fermati. Il lavoro di Pasquale Baffi è una di queste linee spezzate: parte dei suoi scritti, stampati, si conservano oggi in Svezia, lontano dai luoghi che gli hanno dato origine.

 E chi si approprio dei suoi scritti, inconsapevole del valore di orientamento contenuto in esse, si ostino a stamparli dopo decenni, con i caratteri gutemberghiani incompleti senza la Zeta di fine e, chi conosce la lingua arbëreşë se oggi legge con attenzione quelle stampe, non può non rilevare quel rimprovero antico.

Una lontananza materiale che riflette una più profonda distanza culturale e, la sua opera resta, in larga parte, ancora da studiare, da integrare, da mettere in dialogo con le urgenze e le domande del presente.

Ma vi è un ostacolo ulteriore, forse più grave, ovvero l’inconsapevolezza, infatti è lecito domandarsi se i letterati odierni e, non solo quelli arbëreşë, abbiano piena coscienza della portata di questa eredità, di ciò che è stato lasciato in sospeso, di ciò che si potrebbe ancora ricucire.

Eppure, come ricorda un vecchio olivetano di Napoli, «la memoria, se non ha voce, marcisce» e quindi l’auspicio, allora, è che da queste pagine possa emergere non solo un omaggio al passato, ma un invito alla continuità a informarsi delle cose del passato per orientarsi a riflettere, parlare e cantare meglio.

Perché la cultura Arbëreşë, come ogni cultura minoritaria, non si salva con la nostalgia, ma con il lavoro ostinato e consapevole di chi sceglie di darle futuro e il futuro non lo si conquista da soli ma con larga e fraterna condivisione.

Nessun dipartimento moderno, nessun centro studi o commissione accademica ha avuto il coraggio, o l’umiltà, di volgere lo sguardo verso gli studi di Baffi, eseguiti a Napoli nel 1775, là dove l’alfabeto della nostra lingua aveva cominciato a tremare, a mostrare segni di vuoto, di omissione.

Si cercava la Zeta, non come ultima lettera, ma come elemento mancante, come suono negato, segno perduto, tessera invisibile nel mosaico della nostra identità ische contiene ad oggi solo una alfa e una beta iniziatica.

Eppure, invece di tornare a quel manoscritto dimenticato, polveroso ma vivo, si è scelto di affidarsi alle grafie c gli archivi rigidi e autoritari, dove le lettere erano più formule che parole, più dominio che espressione, in tutto immaginabile come una strada illuminata e con tanti vicoli dove si regala il cucinato.

Poi vennero le derivazioni spurie, le scritto-grafie germogliate senza seme, cresciute nei corridoi asettici del Collegio, dove si insegnava a scrivere senza dire, e si leggeva per non capire.

In quei luoghi, la lingua veniva forgiata con strumenti sordi al popolo, ciechi alla voce collettiva e, le tematiche adottate da queste istituzioni non erano solo inopportune: erano estranee, imposte, incapaci di parlare al cuore di un popolo che, nel suo silenzio, sapeva solo parlare, ma non leggere, e ancor meno scrivere.

L’Ottocento passò come un secolo di alfabeti incompleti, e fu allora che si moltiplicarono le grammatiche, i trattati, i vocabolari normativi, ma tutti ruotavano attorno a un vuoto mai colmato per essere terminato. La Zeta, o ciò che essa rappresentava, continuava a mancare e, non era questione di fonetica, ma di visione.

Una lettera può mancare anche quando è presente nell’ordine alfabetico, se non ha funzione, riconoscimento, respiro nel parlato e nello scritto della moltitudine.

Baffi lo aveva compreso e aveva annotato che tra le pieghe della parlata napoletana, nei vicoli e nei mercati, emergeva un suono che non trovava corrispondenza nello scritto.

Un passaggio, una cesura, un’interpunzione fonica che sfuggiva all’alfabeto ufficiale e, non era solo una lettera: era un simbolo di ciò che non si voleva registrare.

La voce del popolo, la lingua del corpo, l’incedere delle parole non normate non ricevevano nessuno ascoltò.
Troppo occupati a purificare la lingua, a renderla specchio dell’istituzione invece che dell’uomo.
E così la Zeta restò assente, presente solo come fine dell’ordine, mai come inizio di qualcosa di nuovo.

Oggi si compilano vocabolari al contrario, o manuali di consultazione, strumenti didattici, dizionari stampati con fondi pubblici o accademici, nei quali compare prima la parola arbëreşë, seguita dalla sua corrispondente grammatica italiana.

Un gesto che, a prima vista, potrebbe sembrare neutro, o peggio, inclusivo, ma è invece un errore gravissimo.

Perché a tutti è sfuggito il dato che l’arbereshe non è una lingua scritta, non lo è mai stata nel senso pieno, formale, codificato.

È una lingua parlata, memorizzata, trasmessa da bocca a orecchio, fragile come il soffio di chi l’ha conservata per generazioni senza poterla mai vedere su carta.

Ogni arbëreşë e questo è un dato storico, non un’opinione, non sapeva leggere né scrivere il proprio parlato.
In quanto essa è una lingua del cuore, della casa, del vicolo e, non è mai stata dell’aula, del banco mai del libro o documento dirsi voglia.

E allora ci si chiede: come può un individuo non alfabetizzato nella propria lingua madre orientarsi in un vocabolario che gli presenta, come primo riferimento, un llemë che non ha mai visto scritto, e per di più in una forma ortografica che varia.

Quello che doveva essere un ponte si è diventato labirinto e, il parlante, già spaesato, si ritrova a cercare il significato di una parola che conosce solo per suono, ma ora deve indovinare come venga scritta in albanese, secondo una norma che spesso non gli appartiene, perché è la lingua da cui dovette fuggire.
Diventa così un’impresa quasi impossibile anche trovare il più banale dei vocaboli e, l’italiano, lingua di scuola, di stato, di struttura, invece che fungere da orientamento, viene relegato in secondo piano, messo dopo, come se fosse marginale.

Questa è una inversione ideologica, più che linguistica, un tentativo goffo e spesso accademico di “nobilitare l’arbëreşë” non attraverso il rispetto della sua natura orale e viva, ma attraverso una falsa parità grafica e geografica.

Come se bastasse scriverla per renderla legittima, come se la scrittura valesse più della voce, ma la lingua arbëreşë non chiede di essere scritta per forza, chiede di essere capita, riconosciuta, salvata come è nella sua funzione originaria, parlata.

Ogni tentativo di tradurla nei termini rigidi della lessicografia moderna deve tenere conto di un fatto fondamentale, ovvero non si può alfabetizzare retroattivamente un popolo che non ha mai avuto una lingua scritta, e farlo partendo dalla parte sbagliata del vocabolario, non è una buona prospettiva illuminata.

Un altro dato fondamentale, sfuggito al dipartimento storico e linguistici per oltre un secolo e mezzo a quelli più moderni, ovvero: l’arbëreshe, più che una lingua scritta, è una lingua vissuta.

È un linguaggio parlato, tramandato oralmente, legato al gesto, al corpo, alla fatica quotidiana e alla stretta relazione con l’ambiente naturale.

È una lingua di sopravvivenza, che non ha mai avuto il lusso dell’astrazione o della decorazione letteraria, se non in rare eccezioni.

Per questo motivo, l’arbëreşë vive dell’essenziale: non costruisce castelli di parole, ma utensili, come i verbi del fare, le azioni primarie formano l’ossatura di questo idioma.

In queste parole si nasconde un’intera filosofia dell’adattamento, della conservazione, della necessità.

La lingua arbëreşë non racconta, mostra e, parla del corpo umano perché il corpo è strumento, è mezzo attraverso cui si lavora, si cura, si ama e si combatte.

Descrive la natura non per estetica, ma per necessità e, conoscere il vento, il tempo, le stagioni, il terreno, gli animali, era questione di vita o di morte.

Tutto il resto, i ghirigori, le esagerazioni letterarie, le favole inventate a tavolino, appartengono a una cultura del superfluo.

L’arbëreşë non si presta a questo: non perché non ne sia capace, ma perché non ne ha bisogno, perché essa è una lingua che resiste alla modernità proprio grazie alle sue radici profonde nella realtà concreta, nel quotidiano vissuto, nell’equilibrio tra l’uomo e il mondo che lo circonda.

Ed è qui che si cela il punto cieco degli studi accademici, quando si sono avviati nel bosco a cercare nella lingua arbëreşë, un’evoluzione simile a quella delle lingue ufficiali, senza capire che essa si è invece conservata proprio nella sua funzione più antica e originaria.

L’arbëreşë non cambia come cambiano le lingue di stato, mutate dalla politica, dalla burocrazia, dai media, ma si trasforma lentamente, rispettando i ritmi della terra, delle due stagioni ritmo e della voce umana.

Capire l’arbëreşë significa quindi rientrare nel corpo, riconnettersi con i gesti, con i mestieri, con l’oralità che plasma la memoria collettiva e in questo senso, ogni parola è una testimonianza, ogni verbo un’eredità, ogni frase un atto di resistenza.

Nel cuore dell’Ottocento, in un’Europa in fermento, attraversata da rivoluzioni, ideali nazionalisti e aneliti di unità, i fratelli Grimm si trovarono di fronte a una missione che andava ben oltre le fiabe. Jacob e Wilhelm, filologi e studiosi della lingua tedesca, erano mossi da una convinzione profonda: che dietro la molteplicità delle parlate germaniche, dietro i dialetti dispersi nei villaggi, tra le montagne e le pianure del Nord Europa, si celasse un’anima comune.

Un’essenza primitiva, un linguaggio originario che raccontava non solo la storia di un popolo, ma la sua natura più profonda.

Nel 1871, l’anno dell’unificazione della Germania, quell’ideale prese forma anche sul piano linguistico.

L’impresa dei Grimm era già iniziata da tempo, ma in quel momento storico acquistò un valore politico e culturale nuovo.

Non si trattava solo di raccogliere parole, né di uniformare la lingua per decreto, perché la vera sfida era scoprire ciò che univa, piuttosto che ciò che divideva.

Fu così che rivolsero lo sguardo verso il corpo umano, verso le attività primarie dell’uomo: il mangiare, il dormire, il costruire, il seminare, il cacciare, il generare.

Parole che non mutano mai del tutto, perché radicate nell’esperienza quotidiana e ancestrale dell’essere umano.

I Grimm notarono che, pur nelle differenze fonetiche e lessicali delle varie parlate, alcune radici tornavano con una regolarità sorprendente.

Il verbo essen (mangiare), per esempio, si ritrovava con minime variazioni in ogni angolo delle terre germaniche.

Così anche gehen (andare), hand (mano), herz (cuore), haus (casa), esse non erano solo parole, ma erano segni della vita, impronte lasciate da generazioni di uomini e donne che avevano vissuto, sofferto, amato e lavorato in quelle terre.

Anche per gli Arbëreşë vale la stessa regola e, quando si tratta del corpo umano o della natura, tutto è uguale in ogni parallelo.

Se i dipartimenti ne avessero avuto consapevolezza, dovevano solo trovare la zeta e, invece si sono smarriti nel bosco delle parlate locali, perdendo l’essenza universale delle cose.

I fratelli Grimm capirono allora che il linguaggio non si impone, si riconosce e, ciò che si riconosce è già dentro nel gesto, nel ritmo del respiro, nella necessità del fuoco, dell’acqua, del pane.

La lingua comune germanica non andava inventata, né raffinata, ma andava riscoperta scavando nel tempo, raccogliendo ciò che era rimasto sotto la polvere delle varianti locali.

Non fu un’operazione scientifica fredda, ma un atto quasi sacrale per i Grimm, la lingua era il sangue del popolo.

Era nella voce delle madri che cantavano ninne nanne, nei proverbi dei contadini, nei canti degli artigiani, nelle formule magiche che proteggevano i bambini dai lupi.

Fu così che emerse l’idea di una lingua unificata, non come imposizione, ma come ritorno all’origine, in tutto una lingua che parlava con mille voci, ma che aveva un solo cuore.

E così giungiamo al termine di questo viaggio in diplomatica attraverso la lingua che non scrive, la poesia che non si legge, l’identità che si balbetta nei corridoi dell’etnografia di provincia.

Gli arbëreshë, figli di una diaspora antica e custodi di una memoria a lungo idealizzata, si trovano oggi al cospetto di una verità semplice e scomoda: la loro lingua, un tempo viva come un canto tra gli ulivi, oggi lotta per esistere, e non sempre trova alleati sinceri.

Ci sono stati tentativi, certo, alcuni nobili, altri improvvisati, con accademie improvvisate nei retrobottega della buona volontà, laboratori dove cuciva la scrittura con ago e filo sulla pelle di dialetti sopravvissuti a stento.

Si è cercato un alfabeto comune, un codice condiviso, sacrificando suoni, si sono selezionate lettere. E in questo processo chirurgico o forse estetico, dove qualcuno ha deciso che la Z non serviva, perché forse faceva troppo rumore.

E allora si può anche sorridere, con un filo di amarezza, pensando che chi ha scolpito queste scelte nella pietra fragile di un’identità ricostruita, oggi si meriti almeno una lettera.

Non la Z, certo, perché quella è stata bandita o come presuppone lo scrivente smarrita nel fiume adriatico.

Ma una A, magari, una bella A scarlatta, cucita come marchio, chi in fronte, chi al collo, chi sul petto e, tutti gli altri che seguono, con quella A attaccata alla schiena.

Non per adulterio, come nell’antica allegoria, ma per l’ambiguità con cui si è adulterata una lingua senza averla mai veramente amata.

Eppure, non è solo colpa loro, perché ignari, in quanto l’oblio è una responsabilità collettiva, e la dimenticanza si costruisce giorno dopo giorno, con ogni madre che smette di cantare in arbëresh, con ogni scuola che non insegna, con ogni festa che diventa folklore da sagra.

Resta la domanda sospesa, che è certezza: le parole che non si scrivono si dimenticano, le canzoni che non si sanno pronunziare muoiono in silenzio, come le verità che nessuno ha il coraggio di dire ad alta voce.

Questo non è un addio, né un epitaffio, ma solo un punto fermo, forse, l’unico che ci possiamo permettere e fare tesoro per non dimenticare di parlare e cantare tutti assieme senza stonature.

Atanasio Pizzi Olivetano e Basile Architetto                                                                  Napoli 2025-09-14

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