NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Viviamo un tempo fragile che diventa sempre più sottile, in cui la storia si piega sempre più spesso alle esigenze della narrazione spettacolarizzata.
Le manifestazioni pubbliche, un tempo strumento sincero di ricordo, rivendicazione e rievocazione culturale, oggi si stanno trasformando in palcoscenici per l’autocelebrazione e la mistificazione.
Nel caso specifico della cultura arbëreşë, questa tendenza assume contorni preoccupanti: un sistema sempre più alimentato da disinformati, mistificatori e propagandisti sta progressivamente svuotando di senso la narrazione autentica delle nostre radici.
La regione storica sostenuta e custodita per generazioni dai cultori arbëreşe non è solo un concetto linguistico, ma un sistema complesso di memoria, valori, simboli e pratiche consuetudinarie irripetibili. Essa è frutto di una resistenza silenziosa ma potente, esercitata da chi ha scelto di tramandare lingua, fede, rituali e visione del mondo.
Oggi, però, quella resistenza è minacciata non tanto da forze esterne, quanto da una devianza interna, nutrita da ignoranza, superficialità e una malintesa idea di “promozione culturale”.
Si assiste alla moltiplicazione di eventi in cui il folklore viene ridotto a parodia, la lingua manipolata o esibita fuori contesto, e la storia compressa in slogan approssimativi e, tutto questo, spesso, senza alcun coinvolgimento critico delle comunità stesse, la quali si trovano rappresentate da figure estranee o auto-nominate, prive di competenze storiche, linguistiche o antropologiche, ma desiderose di visibilità e riconoscimento.
Questa dinamica conduce a una perdita progressiva dell’autenticità, poiché ciò che viene proposto al pubblico, spesso al solo scopo di ottenere fondi, premi, consensi o assunzioni, non è più memoria condivisa, ma caricatura funzionale.
Di fronte a questo scenario, il rischio più grave non è solo la falsificazione della storia, ma lo smarrimento del senso stesso di appartenenza.
La cultura arbëreşë, come tutte le culture di minoranza, sopravvive solo se nutrita da un equilibrio delicato tra conservazione e consapevolezza.
Non basta ricordare, bisogna sapere cosa si ricorda e perché, non basta celebrare, bisogna conoscere ciò che si celebra e con quali strumenti.
Occorre dunque un rimedio urgente, anzi necessario per rimettere al centro il rigore, lo studio, la ricerca con responsabilità culturale.
Occorre che i cultori autentici, studiosi, anziani depositari della memoria, insegnanti, traduttori, sacerdoti, poeti, artigiani, tornino ad avere un ruolo guida nel discorso pubblico, sottraendolo alle mani di chi lo ha trasformato in spettacolo per il comune viandante della breve sosta.
La posta in gioco è alta se non si interviene or ora, si rischia di smarrire ogni cosa e, quando una cultura smarrisce sé stessa, non si spegne solo un patrimonio, ma si perde una possibilità di pluralismo, di dialogo, con il futuro.
La strada da percorrere richiede coraggio, rigore e una visione lunga, ma soprattutto richiede di riconoscere l’inganno in corso e, avere la forza di opporvisi, anche quando questo significa rompere equilibri consolidati o mettere in discussione consuetudini rassicuranti, non per chiudersi, ma per tornare ad aprirsi nella verità.
Quattro decenni e più fanno, quarant’otto anni trascorsi a raccogliere dati, testimonianze, microframmenti dispersi nel tempo e tessendo una storia vera, fedele e rigorosa.
Una storia senza protagonisti di secondo ordine, senza lustrini né accomodamenti, in tutto un’opera ciclopica, racchiusa in diecimila pagine di storia, archiviate, commentate, trascritte con pazienza monastica.
Eppure, tutto questo non è bastato, non è servito a fermare la deriva, non ha arginato la marea montana dell’approssimazione, della leggerezza, del pressapochismo.
Questa mattina, la diga della decenza ha ceduto, il limite di capienza della diga dell’ignoranza che ha straboccato, come un caffè versato da mani inesperte, tutto è precipitato nelle parole false in dialetto albanese, ricostruzioni fantasiose secondo le regole del noce, travestimenti grotteschi di un’identità trasformata in maschera per valorizzare generi incerti.
Le rievocazioni, un tempo sacre, oggi sono ridotte a teatrini improvvisati, non da preti ma miss credenti e, lee voci competenti sono sommerse da grafiti senza patria, che urlano contro il sole che fa ombre riverse.
L’eco del lavoro paziente di decenni è oscurato da una giornata sui social, da un vestito colorato, da un piatto affiliato al natale che non è mai stato.
In questo caso non si mette in dubbio solo il rispetto, una la sopravvivenza culturale di un luogo specifico e di tutte le sue generazioni che lo abitarono.
Perché quando la storia vera viene soppiantata dalla finzione a o dall’apparire di chi non trova agio nei propri luoghi natii, quando lo studio viene considerato “poco comunicativo”, e quando chi ha dedicato la vita alla ricerca viene ignorato in favore di chi improvvisa, allora la sconfitta non è solo degli studiosi, ma di un intero popolo di un luogo specifico che ha sin anche fatto la storia dell’unità d’Italiana.
Siamo oltre il punto di rottura, eppure, anche adesso, in mezzo al rumore, resta possibile scegliere se rimanere in piedi e, controcorrente, nella verità.
Perché ogni pagina autentica scritta, ogni documento custodito, ogni parola detta con onestà, è una diga che ancora resiste.
Tuttavia trattare argomenti profondi e sacri con leggerezza equivale a profanarli, come ad esempio ridurre la sacralità della Cena di Natale; momento centrale del ciclo rituale arbëreşe e, atto collettivo di fede, memoria, trasmissione, ad un qualsiasi adempimento culinario domenicale, è un atto di svilimento che non ha nulla di innocente.
Essa rappresenta la misura di una trasformazione più ampia e devastante, che trasforma l’identità specifica in superficie piana e, l’eredità in intrattenimento.
Allo stesso modo, la sontuosità della vestizione femminile, che non è solo bellezza, ma codice, gerarchia, dignità sociale, linguaggio sacro dei colori e dei fili, ed oggi è stata ridotta a una sfilata cromatica lungo un lavinaio, come se bastasse il riflesso della seta per dire chi siamo, un poco come dire che l’estetica potesse assorbire la storia, cancellarla, sostituirla in parodia di parlato pronunciato sin anche deforme.
E ancora, si arriva a innalzare il valore di un luogo sacro, chiese, icone, cimiteri, o le soglie di un altare secondo le metriche di chi allevava i figli sotto un noce, confondendo l’intimità del rito personale con il significato della credenza storica e collettiva.
Non si distingue più tra il sacro e il privato, tra la verità rituale e la tenerezza domestica, si fa del vissuto un parametro di misura universale, confondendo la memoria con la nostalgia.
Ma il picco dell’alluvione culturale si tocca quando si afferma che gli arbëreşë tramandano la storia attraverso strumenti a corda o a fiato, ignorando il lavoro secolare di combattenti di parlato e canto.
Quando si mette la narrazione in mano a chi non ha mai letto una cronaca, mai tradotto un testo, mai posto una domanda su cosa significa essere eredi e non solo dissipatori di un’identità trasmessa di voce in voce e canto in canto.
Non si conoscono gli uomini che hanno dato la vita per questa storia, non si distingue il martire dal traditore, il testimone da colui che ha venduto i fratelli per un attimo di gloria o di un discorso che ad oggi attende giustizia calligrafica.
E nonostante questa distinzione sia fondamentale, la linea rossa che la determina e le separa come chi ha costruito le fondamenta dalla folla che oggi danza sul tetto, senza sapere su cosa poggia.
E poi è chi misura con attenzione, in silenzio, quanto la corrente è tempesta e supera la diga che dovrebbe contenere l’ignoranza, ma solo lui sa che siamo a un passo dal disastro definitivo.
Perché la piena è già arrivata davanti l’uscio di casa ed è pronta per trascinare non solo l’oblio, ma l’inversione, la glorificazione, l’inconsapevole, l’applauso superficiale, i premi del vuoto.
Eppure, nel disordine della piena, una voce resta, è del canto autentico, della parola detta con rispetto e non per compiacere.
È la voce che non cerca consenso, ma verità, perché la voce che non si può mettere in scena, perché viene da lontano e chiede umiltà di ascolto, non applausi da podio.
Questa voce non può essere spenta e, finché ci sarà chi la riconosce, chi ne custodisce l’eco, chi si rifiuta di danzare sul nulla, allora nulla sarà davvero perduto.
E il fiume, un giorno, tornerà nel suo letto, non per volontà del caso, ma per scelta consapevole di chi non ha accettato di ignorare quella antica promessa del 17 gennaio del 1977 alle ore 15.30 nel largo dove le poche cose, per chi non possedeva nulla, si misurava con la bilancia dell’oro.
Architetto Olivetano Atanasio Pizzi Napoli 2024-09-28