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IL BISOGNO VERNACOLARE DEGLI ARBËREŞE Shëpja Katonë e Moticellje

Posted on 25 settembre 2025 by admin

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NAPOLI (di Atanasio Pizzi l’Olivetano Arbëreşe) – Tra le linee che definiscono lo spazio di un Katundë, il termine moenia può essere riferito alle mura che circoscrivono le singole abitazioni familiari, innalzate per delimitare spazio e fare casa.

Tuttavia, a differenza delle città chiuse o fortificate, il centro antico dei Katundë arbëreşë è sempre privo di vere moenia, cioè non possiede difese perimetrali condivise.

Questo riflette la natura aperta a contatto con l’agro diversamente, dalle città storiche, infatti qui l’architettura vernacolare dei Katundë arbëreşë, rivela, come una comunità diasporica sia riuscita a radicarsi in un territorio straniero, mantenendo vive la propria tradizione senza l’uso di moenia.

Gli Arbëreşë costruirono nel corso dei secoli il sistema abitativo senza architetti e il loro agire denota, non solo le esigenze materiali della vita quotidiana, ma anche una precisa visione del mondo, in cui il lavoro, la cura, l’apprendimento e l’allevare generi, erano attività integrate in un unico universo culturale.

Le abitazioni non erano mai soltanto case, in quanto luoghi produttivi, ambienti in cui la sfera domestica e quella economica che coabitavano armoniosamente, secondo il governo delle donne; le instancabili “Architetti Arbëreşë”.

Il cortile o spazio libero della casa, fungeva da fulcro delle attività quotidiane ed erano, qui che avevano origine e si svolgevano operazioni legate al vernacolare progetto del bisogno, come ad esempio: la prima spogliatura agricola, la selezione dei semi, ma anche lavori artigianali e ogni progetto di tutela per la conservazione e sostentamento utile alla specie.

L’interno della casa, pur semplice, era progettato e concepito in modo funzionale con baricentro il focolare che rappresentava il cuore simbolico e pratico della vita domestica.

Intorno ad esso si preparavano le cose da cuocere, si discuteva, si tramandavano racconti, saperi e tradizioni.

La casa è per gli Arbëreşë, il luogo dove vivevano, si confrontavano generazioni, in un continuo scambio per sostenere le sostanze primarie radici del germoglio culturale.

All’interno di questo volume abitativo del bisogno, trovava spazio anche la cura della salute con la sua dimensione specifica pur se, in assenza di strutture sanitarie, in quanto la comunità faceva affidamento su pratiche di conoscenze empiriche, con radice di esperienza e osservazione i condivisione con la natura.

Le piante officinali, coltivate negli orti di pertinenza della casa, erano utilizzate per la preparazione di tisane, decotti, impacchi e unguenti.

Alcuni spazi dell’ambiente casa, solitamente ben esposto al sole e riparati dai venti, era riservata alla convalescenza, alla cura dei più fragili e anziani.

La casa non era solo spazio domestico, ma anche il seme di una proto-industria, un luogo dove, ciclicamente, si attivavano catene produttive di prossimità.

In certi periodi dell’anno, la famiglia e la comunità si organizzavano per trasformare e conservare alimenti, come la passata di pomodoro, le conserve, o i salumi, garantendo così scorte per l’inverno. Queste attività, radicate nella tradizione, rappresentavano una forma primitiva ma efficace di economia domestica e cooperazione locale.

Accanto alla medicina naturale, la dimensione spirituale giocava un ruolo fondamentale, con piccoli angoli sacri, addobbati con luminarie votive ad olio, ed erano queste ad accompagnare la credenza come forma di conforto e di guarigione spirituale all’interno di questo spazio a misura della famiglia.

L’apprendimento, nella società era anch’esso parte integrante della quotidianità e, prima ancora dell’istituzione di scuole formali, la trasmissione del sapere avveniva per via orale, dentro le case, nelle chiese, nelle piazze.

I bambini imparavano a memoria preghiere in greco liturgico, canti tradizionali e racconti epici che narravano la storia dell’esodo arbëreşë.

La casa diventava così anche scuola, o un ambiente in cui si educava al rispetto della tradizione, alla conoscenza dei ruoli sociali, e al mantenimento della lingua con essenze specifiche contenute all’interno di quelle mura e della natura che la circondava.

In alcuni centri maggiori, specialmente in ambito ecclesiastico, esistevano spazi adibiti a scuola, spesso molto semplici, ma funzionali, ed era qui coglievano i rudimenti della lingua, della religione e della storia di camino penitente.

L’allevamento e l’agricoltura completavano il quadro di un’economia familiare autosufficiente, dove l’abitare accoglieva sin anche gli animali domestici, in modo da sfruttare il calore degli animali durante i mesi freddi.

Ogni cosa di questo circoscritto costruito dall’uomo e progettato dalle donne, accoglieva sin anche i depositi per gli attrezzi e le manzane per dell’acqua e il tutto costituiva un sistema integrato che univa la casa al paesaggio.

Il confine tra costruito e natura era sfumato e, ogni elemento era pensato per essere fondamentale alla sopravvivenza e la continuità della comunità.

Il paesaggio, modellato nei secoli da mani pazienti, parlava la lingua dell’adattamento e della cura, dove ogni campo coltivato, ogni recinto, ogni tetto in rappresentava una risposta concreta ai vincoli imposti dall’ambiente, ma anche un gesto di appartenenza culturale.

In questo senso, l’architettura vernacolare arbëreşe non si limitava a essere un insieme di tecniche costruttive o un’espressione estetica, ma sistema complesso, in cui ogni spazio riflette una funzione sociale, culturale e simbolica.

L’abitazione diventa il luogo in cui si manifesta la cultura materiale, ma anche il pensiero simbolico di un popolo in esilio, che ha saputo trasformare l’adattamento in forma di resistenza.

Le case delle donne arbëreshë che per rispetto portavano il cognome del marito al plurale, non nascevano mai per caso.

 Non erano solo strutture in pietra e legno, ma organismi viventi, concepiti in simbiosi con il paesaggio e la memoria.

Ogni casa prendeva forma in un luogo preciso, scelto non solo per necessità pratica, ma per risonanza interiore, una piega del terreno, una fenditura tra le rocce, un affaccio sul silenzio.

Erano anfratti che parlavano, e la donna che vi avrebbe vissuto li ascoltava prima ancora che il primo sasso fosse posato.

Il progettista era la madre ed era lei che decideva dove, come e perché una casa dovesse sorgere, in tutto non un architetto nel senso moderno, ma la sapienza del quotidiano, custode di saperi tramandati attraverso gesti, silenzi, e fatica.

La casa non era solo rifugio, ma proiezione del corpo e dell’anima, ogni apertura, era pensata in funzione dei cicli della vita, della luce del giorno, dei riti familiari.

L’angolo per la farina, la nicchia per le erbe, il punto esatto dove il sole colpiva il focolare al tramonto, tutto era previsto, e nulla era superfluo.

Quando la casa prendeva forma, era la donna a sostenerla, con il suo lavoro, la sua presenza, il suo respiro.

E nel tempo, era la casa a sostenere lei, offrendole rifugio, forza e continuità e così, nell’intreccio di pietra e di carne, nasceva un microcosmo in cui si custodivano identità, storie, e segreti, vero resta il dato che non si costruiva solo un’abitazione, ma un destino.

Le case delle donne arbëreşë erano piccole cattedrali del vissuto, silenziose ma vive e, crescevano radicate nella terra e nella volontà femminile, in un equilibrio antico tra natura, necessità e sogno

Gli spazi della casa, di ogni Katundë, del paesaggio, non sono mai neutri o fini a sé stessi, ma sono impregnati di memoria, di riti e di gesti quotidiani che raccontano una storia di resilienza e di coesione. L’organizzazione dell’ambiente costruito rivela così una profonda sapienza progettuale, frutto di secoli di esperienza condivisa, in cui il vivere, il lavorare, il guarire, l’imparare e l’allevare si intrecciano in un’unica trama culturale, silenziosa ma resistente.

Per eseguire questa missione, primaria e fondamentale focalizziamo l’indagine conoscitiva volgendo attenzione nei meriti e lo sviluppo, dei fenomeni acustici e rispecchiare l’evoluzione naturale del parlato e dell’ascolto all’interno degli elementi primari noti come shëpia in forma di Katonë, Kaulljeve e Motëicelliurë.

La filosofia del bisogno si concentra sulla ricreazione dell’esperienza sonora all’aperto riportata negli spazi interni, perché forma naturale ed essenziale per migliorare il benessere delle persone attraverso il suono della voce.

Gli arbereshe sono gli appassionati sostenitori dell’importanza dell’acustica per il benessere dell’apprendimento e, in ogni ambiente e situazione.

E l’insieme si traduce in soluzioni acustiche di alta qualità e, il suono ha un impatto significativo nella nostra vita quotidiana, e il supporto scientifico per migliorare gli ambienti dal punto di vista sonoro all’interno della casa senza dover travalicare il costruito di moenia.

Nasce così l’esigenza di un ambiente sonoro interno ideale per le persone, basato sull’esperienza del suono all’esterno.

Il senso uditivo è naturalmente adattato a un ambiente all’aperto senza riflessioni sonore da soffitti e pareti.

E replicare le qualità acustiche naturali negli ambienti interni, serve ad ottimizzare gli spazi secondo la percezione uditiva naturale, migliorando la chiarezza di voce, suoni e contenuti in ascolto.

Infatti se vi dovesse capitare di entrare o visitare una casa vernacolare quello che subito attrae è il soffitto, che da parete a parete è la chiave per ottenere una vasta superficie fonoassorbente, riducendo l’intensità del suono, abbreviando i tempi di riverbero e migliorando la chiarezza della voce e il comfort uditivo complessivo.

Sostenibilità non è soltanto una parola, è un movimento collettivo per difendere sin anche tutte le consuetudini riferite e, per questo richiede un impegno concreto.

Infatti le pareti di anno in anno assemblano strati di fumigine e calce che crea con il passare degli anni una pellicola fondamentale per riverberare con cautela il parlato.

Anche il solaio, così come veniva fatto, era un’opera o architettura del bisogno diretta dalle donne ed eseguita dagli uomini e, aveva due momenti cruciali in cui la struttura e tutti gli adempimenti più pesanti erano diretti dalle donne ed eseguiti dagli uomini mentre le rifiniture sostanziali all’uso e all’ascolto e, ogni solaio portava la firma non scritta di chi l’aveva pensato, assemblato, finito.

Le madri dicevano: “Se il solaio è buono, non senti nulla, ma se è mal fatto, ti entra nella testa come un tamburo.”

E non era solo un modo di dire, perché i rumori, i freddi, i vuoti non ben chiusi, diventavano col tempo piccole crepe nella convivenza.

Per questo la costruzione del solaio era sempre accompagnata da un’attenzione collettiva, quasi rituale e, nessuno lo faceva da solo, perché un lavoro di casa, ma anche di comunità.

Nei paesi dove le famiglie erano cresciute dentro le stesse mura, si poteva ancora sentire, a distanza di anni, il modo in cui erano stati costruiti i solai.

Alcuni erano elastici, leggermente cedevoli sotto il passo, mentre altri, sembravano assorbire tutto, anche le voci.

Le donne più anziane riconoscevano i materiali dal rumore secco che veniva da sotto. “Questo è o secco,” dicevano, “questo invece è terra cruda con calce. Qui hanno fatto bene.”

Non c’era solaio uguale all’altro, ma tutti seguivano quella logica stratificata che mescolava terra e tecnica, silenzio e resistenza.

Nessuno usava cemento, nessuno parlava di norme, ma piuttosto di tenuta, di isolamento, di pazienza nel fare le cose bene.

Il tempo era parte del materiale e, si doveva aspettare che ogni strato assestasse, che ogni laminato trovasse il suo equilibrio.

Col tempo, quando alcune case vennero rinnovate, i nuovi materiali cominciarono a sostituire i vecchi, solaio di legno fu coperto da gettate di calcestruzzo, le lamie quadrangolari scomparse sotto piastrelle industriali.

Ma nelle case dove ancora si poteva vedere un frammento di quel vecchio solaio, una trave viva, una mattonella consumata al centro, una fuga sottile colma di calce, si leggere ancora la storia.

Si sente il passo lento di chi, sopra, si muoveva piano per non disturbare chi viveva sotto, in tutto un passo che non era solo rispetto, ma parte stessa della struttura.

E oggi, quando quelle case vengono recuperate, spesso si scopre che i solai originali sono ancora là, nascosti sotto strati più recenti, ma ancora sani, ancora capaci.

Basta sollevare un angolo, ascoltare il legno, sentire l’odore della paglia pressata, ed è lì che l’architettura del bisogno diventa memoria solida, che regge non solo i piani superiori, ma tutto quello che nel tempo si è costruito sopra: vite, parole e silenzi.

In tutto l’assetto dell’architettura del bisogno presso gli arbëreshe, erano le donne a stabilire dove cominciava e dove finiva la cosa da fare. Con un bastone, una pietra, o semplicemente con il piede, tracciavano a terra un segno. Dicevano: “Qui ci vuole un muretto basso,” oppure “Qui lo spazio serve largo, per stendere, per stare seduti, per vedere chi entra.” Nessuno chiedeva perché. Gli uomini prendevano gli attrezzi, i materiali, e iniziavano. Non si trattava di obbedienza cieca, ma di fiducia in un sapere che veniva da lontano.

Il primo momento cruciale era sempre quello della costruzione grezza. I materiali si portavano a spalla, si sceglievano le pietre una per una. Le donne non toccavano quasi nulla con mano, ma erano sempre lì. Coordinavano i ritmi. Dicevano quando bastava scavare, quando bisognava alzare di un palmo, quando una pietra era troppo larga o troppo friabile. Le frasi erano brevi, decise. Ogni parola serviva. Gli uomini non si prendevano licenze: se una cosa non era chiara, si aspettava il cenno.

Durante la costruzione, le donne preparavano da mangiare e intanto osservavano. La posizione del sole, il vento, il modo in cui l’ombra cadeva dentro lo spazio nuovo. Le più anziane avevano occhio per tutto. Dicevano: “La pioggia batterà qui prima che altrove, fate in modo che scorra via.” E così si faceva. Non era solo una casa, era una creatura viva che doveva respirare, durare, proteggere.

Il secondo momento cominciava quando la struttura era finita. A quel punto gli uomini si fermavano, le donne prendevano il tempo per sé. Entravano nello spazio ancora grezzo, ancora sporco di terra e polvere, e ci camminavano dentro.

Lo percorrevano in silenzio e poi iniziava il lavoro di fino lee mani femminili che rifinivano gli spigoli, aggiustavano le altezze, riempivano i vuoti.

Le sedute venivano sistemate con piccoli panni sotto le gambe, gli angoli diventavano utili, i ripiani nascevano da nulla.

La cosa più importante era che lo spazio cominciasse a parlare. Non parlava con voce, ma con uso. Le donne ascoltavano col corpo: dove si inciampava, dove faceva freddo, dove mancava qualcosa. Sistemavano. Tutto doveva servire.

Niente doveva essere solo bello, ma tutto doveva avere un senso. Ogni oggetto aveva un posto, ogni gesto doveva poter compiersi senza spreco.

La casa, o la stanza, o il magazzino, diventava così un’estensione della donna che l’aveva pensata. Quando una giovane si sposava e veniva portata in casa nuova, le altre donne venivano con lei. Non era solo un rito: serviva a sistemare, a renderla abitabile, a darle il giusto orientamento. Senza quelle rifiniture, lo spazio restava muto. Con quelle mani, invece, si apriva e cominciava a vivere.

Le donne non firmavano nulla. Nessun nome restava inciso da nessuna parte. Ma ogni cosa fatta bene portava la traccia di chi l’aveva pensata. Bastava entrare in un cortile per capire se lì c’era passata una mano attenta. Bastava sedersi a un focolare per capire se lo spazio era stato finito da una donna che sapeva ascoltare.

 

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                             Napoli 2025-09-25

 

 

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