NAPOLI (di Atanasio Pizzi Olivetano Architetto Basile) – Negli ordinamenti moderni, le democrazie di Europa, quelle Nazionali e Regionali si sono dotate di leggi che riconoscono il valore delle minoranze storiche, garantendo sulla carta eguaglianza, tutela e partecipazione.
Tuttavia, questa intenzione di pianificare resta confinata sul piano esclusivo del foglio di carta e calamaio dove attingere inchiostro, in quanto gli ambiti di radice o aspetti materiali e immateriali che accolsero e sostennero la qualità della vita degli arbëreşë, continuano a essere ritenuti equipollenti alle logiche maggioritarie e, quindi da non tutelare se non per specifici esempi.
Riconoscere i diritti di una minoranza significa molto più che dichiararla “uguale davanti alla legge”, perché esige interrogarsi quali siano le condizioni concrete per esercitare quei diritti e con quale fine.
Serve soprattutto, intervenire sui contesti, culturali, educativi, economici e spaziali, che strutturano l’inclusione di una diversità consuetudinaria sostanziale.
Valga di esempio la lamentela perpetua di nonna Carmelina, una donna forgiata nella brace delle antiche abitudini, matrona di tempi in cui il calore di una casa si misurava non in gradi ma con la presenza attorno al camino.
Lei, che aveva sempre diretto la sua famiglia come un’orchestra seduta accanto alla fiamma viva, si ritrovò, negli ultimi anni della sua vita, estromessa da quel trono che sapeva come sostenere e dirigere.
Fu il figlio a portarla con sé nella casa nuova, moderna, funzionale, ma fredda per chi sapeva ascoltare le stagioni osservando la danza della fiamma piegarsi e e riscaldava sin anche il forno.
In quella casa, il camino era stato sacrificato in nome del progresso, rimpiazzato da una “macchina del fuoco”, come la chiamava lei, con disprezzo malcelato, una stufa d’acciaio, silenziosa, efficiente, e del tutto priva d’anima, anzi forse macchina del diavolo visti i suoi cerchi superiori, per liberare le fiamme.
Ogni sera, dopo cena, nonna Carmelina si sedeva in silenzio, guardando il punto dove avrebbe voluto vedere il camino ardere la fiamma e, con voce ormai stanca, diceva: “Questa non è una casa, perché qui il fuoco non parla ma resta prigioniero e muto.”
Quelle parole si ripetevano come un rosario, ogni giorno, con lo stesso tono, lo stesso dolore sordo e, figlio la ascoltava, afflitto, incapace di restituirle il tempo andato, ma troppo legato alla modernità credendo che quelle nostalgie potevano essere con un gesto di modernità superate.
Quando Carmelina se ne andò, senza un grido né un rimprovero finale, fu come se anche l’ultima brace della casa si fosse spenta.
Il silenzio che seguì fu più freddo di qualunque inverno, più vuoto di qualunque stanza e il senso di quella fiamma inizio ad ardere in quel figlio senza più una madre riverberando anche nelle case sei vicini dove imperava la macchina del fuoco.
Fu allora che il figlio comprese che non era solo il fuoco ciò che mancava, ma la ritualità, la presenza, il respiro della casa che si faceva corpo attorno al camino.
Non per fede nel passato, ma per rispetto di ciò che aveva costruito la loro identità, ed è così, in un gesto tardivo ma sincero, cominciò costruire sulla parete dove la stufa era adagiata, con un vecchio muratore, e con i rinforzi in ferro di un saggio fabbro che conosceva ancora il segreto di costruire un camino, non fosse solo funzionale, ma capace di realizzare con misura la bocca de fuoco dove una lingua antica inizio ad ardere e parlare.
Ci vollero il tempo di una settimana, per dare il via al nuovo fuoco acceso e, il figlio si sedette di fronte ad esso, nel silenzio e poi assieme a lui, le vicine Adelina e Silvia, imitarono quel gesto per poter sentire e respirare quella antica fiamma arbëreşë e sedere anche loro davanti al camino come regine del fuoco.
Non c’erano più lamentele, ma pareva quasi di sentire, in i crepitii più vivaci degli altri e, una voce bisbigliare: “Adesso sì… è di nuovo casa”
E da quel giorno, ogni sera, il figlio accendeva il camino, non solo per scaldarsi, la stufa sarebbe bastata, ma per tener viva una fiamma più antica, che non riscaldava solo il corpo, ma la memoria stessa.
Immaginate oggi se questa metafora del camino come cuore della casa, come centro del tempo e della parola, la portassimo in processione per le vie del paese, senza dover seguire la musica.
seguiremmo una verità antica che non hanno bisogno di fanfare, ma di silenzio raccolto. Dei suoi credenti, senza urla di giubilo, ma come si porta un dolore sacro, o una preghiera che non ha più bisogno di parole e, prima ancora di commemorare, dovremmo lamentare.
Sì, lamentare apertamente, senza vergogna, la perdita di quel calore che le modernità non sanno più dare.
Perché è vero: si vive più comodi, più veloci, più sicuri, ma ci si scalda meno, non nel corpo, ma nell’anima e, i nuovi camini non crepitano, non parlano, non radunano.
E allora, per le strade del paese, in questo corteo muto, potremmo portare la memoria del fuoco.
Non solo di nonna Carmelina, ma di tutte le voci che si spegnevano lentamente al calore della fiamma, e che oggi cercano spazio tra il ronzio costante delle macchine, degli schermi, delle solitudini moderne.
Il camino, oggi, non è solo un oggetto perduto, ma una domanda che brucia, domandandoci: “Cosa ci tiene ancora insieme, se non abbiamo più un fuoco da guardare in arbëreşe?”
Lo spazio urbano, per quanto accennato, diventa il camino fisico in cui si misurano i diritti, dei centri storici, storicamente, modellate secondo le priorità delle culture e dalla scuola del camino arbëreşe e, la pianificazione urbana, architettonica, la toponomastica, nei monumenti, nelle scuole e nei centri decisionali devono avere come radice questa metafora.
Le minoranze storiche, pur avendo contribuito in modo determinante alla formazione di questi spazi, con lavoro, cultura, memoria e pratiche sociali, si trovano spesso relegate ai margini, non solo geografici ma anche simbolici e funzionali.
Lasciare questi aspetti al “libero pensiero di esclusiva letteraria” o dei meccanismi economici e politici senza indirizzo specifico, equivale a non tutelare nulla.
L’assenza di politiche abitative, di servizi culturalmente accessibili, di luoghi di memoria condivisi o di processi partecipativi autentici, generalmente privi delle figure indispensabili deteriorano senza rispetto la cittadinanza e il luoghi di vita comune.
La contraddizione è evidente: si riconosce un’identità, ma la si svuota di potere. Si afferma un principio di pari dignità, ma non si costruiscono le condizioni per esercitarlo. Si dichiara il valore della pluralità, ma si continua a costruire spazi e istituzioni secondo un modello unico.
Così facendo, si dimentica che l’evoluzione urbana, sociale e culturale, frutto di un’interazione continua tra maggioranza e minoranze.
Le minoranze storiche non sono presenze aggiuntive o “tollerate”, ma sono parte integrante e costitutiva del tessuto nazionale.
Eppure, quando lo spazio viene progettato senza di loro, si nega non solo la loro cittadinanza, ma anche la loro storia.
L’inclusione reale richiede dunque un cambio di paradigma e, non basta più riconoscere formalmente; occorre riconfigurare strutturalmente.
Le politiche urbane, educative, culturali e sociali devono farsi carico delle esigenze specifiche delle minoranze storiche, non come eccezione, ma come parte integrante della norma e, non si deve affidare empiricamente tutto a una legge che lascia indietro lo spazio e i corpi che lo abitano, è una legge che tradisce il suo stesso principio di giustizia.
A tal fine diventa fondamentale studiare gli ambiti dei centri antichi disegnati dagli arbëreşë, il che significa addentrarsi in una stratificazione architettura, fatta di memoria, identità e storia condivisa.
I centri abitati, nati dall’insediamento delle comunità in fuga dall’Impero Ottomano, sono oggi un patrimonio fragile ma denso di possibilità e pieno di operose intenzioni per fare integrazione.
In essi, il costruito racconta un adattamento profondo al territorio, un uso sapiente delle risorse locali e una concezione dell’abitare che riflette un equilibrio tra uomo e natura, tra esigenze individuali e logiche comunitarie di una ben identificata macro are.
Il saggio quando faceva ricerca di luogo arbëreşë, sedeva sulla sedia a fianco la porta di casa, con una mano dietro la schiena e l’altra a sostenere il mento e, ascoltava.
Le parole delle donne che si rincorrevano come galline nel cortile, ciascuna portava un pezzo, un nome, una data, un fatto mezzo dimenticato o mai confermato.
Ma solo dopo lo scontro acceso, la memoria prendeva forma, come l’impasto del pane dopo una lunga lavorazione.
E alla fine, quando tutte annuivano in silenzio, si poteva dire che quella, sì era la verità del Katundë, più forte di qualsiasi carta d’archivio.
L’architettura vernacolare del vissuto arbëreşë non è mai stata mira di un progetto formale, bensì di un processo continuo dell’indagare il luogo per depositarvi in armonica condivisione consuetudini, la lingua e credenza.
Le case, si incastrano e si sostengono le une accanto alle altre, seguono il declivio del terreno senza modificarlo, guardando verso gli orientamenti solari, senza necessità di difesa perché luoghi di coesione sociale.
I materiali sono quelli che il paesaggio offre, come la pietra locale per i muri, il legno per le coperture, la terra e la calce per le finiture e, ogni elemento costruttivo è espressione di una sapienza che non ha bisogno di essere codificata per essere efficace.
Le strade strette, i cortili condivisi, le scale esterne parlano di un vivere quotidiano collettivo, in cui lo spazio privato e quello comune si sfiorano e si sovrappongono con garbo e senza prevaricare.
Eppure, anche questi paesaggi dell’anima hanno subito nel tempo trasformazioni, alcune inevitabili, altre più traumatiche.
Rigenerare un Katundë non è semplicemente un’operazione edilizia, ma un processo culturale e politico, che richiede analisi, ascolto, studio, lentezza e passione.
Occorre prima di tutto comprendere le esigenze del “costituito”, ciò che esiste, resiste, sopravvive, per poter poi intervenire con coerenza e rispetto.
La sostenibilità, in questo contesto, non può essere ridotta a una questione energetica o tecnologica o al sogno di costruire Gjitonia come ha tentato di fare alcuni llitirë.
Questo è un concetto più ampio, che riguarda l’integrazione tra memoria e innovazione, tra forma urbana e funzione sociale.
Recuperare l’insieme costruito di un Katundë arbëreşë significa restituire valore allo spazio, ma anche offrire risposte contemporanee ai bisogni delle persone, in tutto riaccendere quel fuoco di servizio, mobilità lenta e coabitazione.
Significa anche pensare a nuovi modi di abitare che sappiano accogliere chi desidera comunità, chi cerca bellezza non come lusso ma come senso.
In questa prospettiva devono rientrare i Katundë per tornare a essere luoghi di accoglienza, come già lo furono nei secoli passati.
Accoglienza non solo fisica, ma culturale e sociale, in tutto un laboratorio in cui sperimentare nuove economie locali, forme integrazione condivisa degli e negli spazi pubblici.
Le architetture storiche, se lette e interpretate correttamente, possono offrire soluzioni contemporanee senza essere musealizzate.
È possibile costruire sul passato senza replicarlo in modo sterile, ma traducendone i principi del modulo, copiati persino dai luminari razionalisti al tempo dell’industrializzazione.
Non si tratta, quindi, di tornare indietro, ma di andare avanti con consapevolezza e, il rischio più grande è quello di trasformare questi luoghi in scenografie, in fondali immobili per un turismo di consumo.
Al contrario, l’unica rigenerazione autentica è quella che parte dalle comunità esistenti o nuove, che scelgono di vivere questi spazi con responsabilità seguendo la meta dell’integrazione.
E l’architettura, in questo processo è il mezzo per ricucire fratture, per ridare senso allo spazio, per costruire futuro senza cancellare il passato o discriminare i nuovi arrivi, perché sono un Katundë detiene la formula dell’integrazione, bisogna solo saperla ascoltare, perché gli arbëreşë storicamente non hanno mai scritto ma vissuto con il parlato e l’ascolto.
Atanasio Olivetano Partenopeo Pizzi Napoli 2024-09-26