Napoli (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – In questa diplomatica rivelatrice, non tratteremo degli arbëreşë quale entità astratta o campanilistica, né della versione ufficiale e centralizzata che proviene dalla terra madre diffusa da quanti, si arrogano il diritto di definire “arbërishtë” ogni variante linguistica che sopravvive fuori dai confini della moderna Albania in pena di riconoscenza.
Al contrario, voglio raccontarvi di cose solidamente e intelligenti vissute con omogeneità sino alla fine del XIX secolo, trattando per questo della regione storica diffusa, concreta, vissuta e sostenuta dagli arbëreşë, non nei libri, ma nella vita quotidiana, nella fratellanza, nei gesti e nelle parole tramandate con garbo solidale.
Questa regione non ha confini politici né un centro geografico preciso, non è un’entità amministrativa ma, operosa e, non risponde ai parametri della nazione moderna oltre adriatico ad est, che ha seguito la deriva prevista da chi guidava gli arbëreşë quando vennero qui nell’ovest dell’adriatico.
Ma di quello che fu solido reale e vivo in tutti i Katundë sparsi dalla Sicilia al Molise, tutta l’Italia meridionale.
Essa è fatta di voci, memorie, riti, paesaggi solidi in forma di ambiente e affettivi, tutti custoditi per secoli, o meglio sino al XIX secolo, adattando e trasformando la propria eredità in qualcosa di profondamente radicato e locale, pure connesso a una storia ampia e solidale.
Parlare di questa regione storica diffusa, significa riconoscere la soggettività e l’autonomia culturale degli arbëreshë, senza ridurli a semplici “varianti o derivati dell’albanesità nazionale”.
Significa anche rifiutare l’appiattimento che arriva da est dove ancora si, impone un’antica etichetta linguistica a realtà profondamente diverse, appellando tutti come parlanti “arbërishtë”, ignorando i contesti, le specificità, le storie e i patimenti che queste genti dovettero affrontare e superare senza agio alcuno.
Qui, invece, tratteremo di una regione costruita dalla pratica viva degli arbëreshë e, non una nostalgia, non un arcipelago di folklore, ma un paesaggio storico attivo, resistente, lo stesso che è stato in grado di raccontarsi senza bisogno di deleghe della madre patria che arretrava nello scenario europeo condiviso.
Oggi si allestiscono musei del costume e si espongono, con orgoglio ma spesso senza riguardo, gli attrezzi che furono indispensabili alla vita contadina delle comunità arbëreshë.
Tuttavia, in questa operazione si finisce per svuotare questi oggetti del loro senso originario, in quanto in essi non è racchiuso semplicemente il lavoro manuale del singolo, ma l’operosità collettiva di un gruppo che costruiva case, coltivava la terra e praticava la pastorizia in forma cooperativa.
Non si tratta di reliquie di un passato folclorico, ma di testimonianze di un’organizzazione sociale concreta, fatta di alleanze, di patti, di convivenze profonde e tutte condivise, senza le quali niente avrebbe potuto essere raccolto.
Si espone il vestito nuziale come se fosse solo espressione estetica o simbolo arcaico di un matrimonio di un singolo genere, in tutto un emblema di preparazione di “un ratto matrimoniale o endogeno nel senso etnografico del termine”.
Ma si dimentica che quel matrimonio, in molti casi, era un patto condiviso, frutto di logiche comunitarie e territoriali, in cui il legame tra generi e famiglie rafforzava l’equilibrio di ogni Katundë.
Ogni oggetto, ogni tessuto, ogni arnese porta con sé relazioni tra generi, non semplici usi e musealizzarli senza comprenderli è, in fondo, un modo di tradire la loro funzione e, con essa, la vera storia della regione storica che gli arbëreshë hanno costruito e vissuto in fraterna condivisione.
Quando oggi prendiamo la parola seguendo il solco tracciato da figure umili ma luminose come Baffi, Bugliari, Giura, Scura e Torelli, non stiamo solo facendo memoria, ma stiamo riprendendo un itinerario solido, fondato sulla condivisione fraterna, sull’impegno collettivo, sulla fedeltà al proprio luogo colmo di identità.
Questi uomini non erano eroi isolati, ma interpreti di un agire e fare comune, essi camminavano insieme, portavano avanti battaglie culturali, linguistiche e sociali non per ambizione personale, ma per costruire un futuro condiviso da ogni figura che si sentiva arbëreşë.
Questa è una strada dissimile da quella percorsa da chi, nel buio delle proprie prospettive culturali o nella miopia di calcoli politici, ha tradito i propri simili, cedendo a facili compromessi in cambio di agio, denaro o visibilità campanilistica.
Questi ultimi non sono altro che figure distaccate dalla realtà vissuta dalla comunità intera e, oltremodo incapaci di sentire il respiro collettivo di una regione storica diffusa, che si sostiene solo grazie alla solidarietà, alla memoria e alla responsabilità reciproca.
Parlare oggi con la loro voce, quella dei Giura e degli altri, significa non lasciarsi sedurre dalla rappresentazione sterile del folklore o dall’individualismo mascherato da leadership.
Ma significa riconoscere che la vera forza degli arbëreshë non è mai venuta da un singolo, ma dalla coesione consapevole di una comunità che ha scelto di non perdersi, anche quando tutto intorno cambiava e loro si moltiplicavano e crescevano sotto il governo delle donne.
Oggi si tende a valorizzare le attività dei singoli, a celebrare personalità isolate, spesso scelte non per merito o visione, ma per comodità politica o convenienza economica.
Si preferiscono figure meno adatte, meno formate o, culturalmente ignare di ogni cosa, perché più facilmente gestibili per essere sottomessi agli interessi di poteri esterni.
Siano esse figure economiche, istituzioni o associate a fratrie locali, il processo che si propone, perde completamente di vista la progettazione di una pluralità di luogo, cioè di un territorio pensato come spazio condiviso, abitato da differenze che collaborano con individui in competizione.
Non si costruiscono percorsi collettivi, non si favorisce la cooperazione tra realtà locali, non si valorizzano le comunità nella loro complessità, ma si produce perentoriamente una narrazione semplificata, in cui pochi parlano per tutti, spesso senza alcun mandato comunitario, ma con l’appoggio di reti di potere invisibili e trasversali.
Così, ciò che dovrebbe essere bene comune, attraverso la lingua, la memoria, il paesaggio culturale, diventa strumento di potere privato, svuotato di senso e restituito sotto forma di rappresentazione sterile, buona solo per mostre, convegni autoreferenziali o progetti calati o trasmessi dalle antenne dall’alto.
Oggi assistiamo al paradosso di vedere progetti culturali, mostre, festival e “attività divulgative identitarie” ispirate e suggerite dalla moderna Albania.
La stessa Albania che, nel secondo dopoguerra, ci ha appellato come traditori, come figli illegittimi di una patria abbandonata, accusandoci di essere fuggiti nel momento del bisogno.
Siamo stati, per loro, una vergogna, un’anomalia da ignorare o ridicolizzare, eppure oggi, gli stessi che ci hanno negato la dignità storica, tornano alla carica per appropriarsi della nostra memoria, cercando di riplasmarla secondo la loro narrazione ufficiale.
Questo è un tentativo sottile ma violento che si traduce ne fare a noi ciò che gli Ottomani fecero a loro dalla epica battaglia dei merli, ovvero assorbire, omologare, spogliare l’identità di ogni autonomia.
Nel panorama identitario albanese contemporaneo si assiste a un progressivo irrigidimento del canone storico, operazione che non solo semplifica la complessità del passato, ma la riscrive secondo esigenze ideologiche del presente.
Simbolo eloquente di questa riscrittura è la figura di Giorgio Castriota Skanderbeg, ridotto spesso a un’icona folklorica, svuotata della sua reale densità politica e culturale.
Il suo eroismo, inizialmente inscritto in una rete di alleanze transnazionali e in una lotta pan-balcanica contro l’espansione ottomana, viene oggi incasellato in una narrazione esclusivamente nazionale e monocorde.
Emblematico è anche il trattamento riservato al suo legame con Vlad III di Valacchia, l’”Ungherese” Vlad, spesso relegato ai margini o trattato con sufficienza.
La fratellanza politica e simbolica tra i due condottieri, uniti dalla comune resistenza contro l’Impero Ottomano, viene ignorata o derubricata a dettaglio secondario, perché estranea alla retorica di un eroe puramente “albanese”, privo di contaminazioni.
Questa rimozione storica non è casuale e, si inserisce in un più ampio processo di purificazione del passato, dove tutto ciò che non rientra nel modello dell’”albanesità moderna”, spesso laicizzata ma ancora intrisa di nostalgia.
In questo contesto, appare significativa anche l’assenza degli albanologi contemporanei dai luoghi simbolo della memoria diasporica e transnazionale, come Napoli e in particolare il Maschio Angioino.
Qui, nella porta bronzea del castello, si conserva un’eredità materiale e simbolica che richiama direttamente la presenza albanese in Italia.
Eppure, quest’opera, in cui alcuni studiosi intravedono riferimenti alla nobiltà arbëreşe e alla memoria del Castriota, resta ignorata da chi dovrebbe interrogarsi sul destino europeo degli albanesi attorno e davanti ai Balcani.
Questo silenzio non è neutrale, ma è lo specchio di una storiografia che preferisce alimentarsi di un “ottomanesimo” identitario, dove l’Albania si riscopre figlia legittima del sultano, e non anche del papa, imperatore, del re o del principe valacco.
Una visione, questa, che finisce per essere una forma di autonegazione culturale, uno “schiaffo morale ed etico”, per usare parole forti ma necessarie, a quella parte di memoria storica che resiste ai riduzionismi.
La stessa lingua arbëreşe viene inglobata sotto la comoda etichetta di “arbërisht, forma dispregiativa plaudeste” privata di ogni forma di rispetto e, la sua autonomia, la sua lunga elaborazione in terra italica candidamente sostenuta dalla radice.
Questa pretesa egemonica, che si maschera da “fratellanza ritrovata”, è in realtà un’operazione politica e culturale ben precisa, che mira esclusivamente a svuotare la “regione storica diffusa e sostenuta degli arbëreshë” della sua forza autonoma, per trasformarla in un’appendice folklorica dell’albanesità di Stato.
Ma noi non siamo l’eco lontana di una patria perduta, perché restiamo solide figure di un territorio culturale vivo, con una storia propria, una lingua propria e un’eredità che non ha bisogno di essere omologata da chi ha preferito piegarsi e non patire, per poter esistere.
Purtroppo per loro e, per fortuna nostra, tra gli arbëreshë esistono ancora oggi figure alte, persone che hanno conservato non solo la memoria, ma anche la competenza profonda per leggere ogni gesto, ogni copricapo volgare, tessuto, canto o silenzio.
Queste figure Olivetane sono i custodi consapevoli, non nostalgici o passivi e, sanno distinguere ciò che vale da ciò che viene venduto come folklore o importato dalla terra parallela abbandonata, perché essi sanno riconoscere le vere radici da quelle inventate per assecondare mode o progetti esterni.
A quanti sanno conoscono e sono solidamente formati non fa paura questa nube fitta di ignoranza che continua a invadere la nostra “terra parallela ritrovata”, tradita più volte dai preposti che avrebbe dovuto proteggerla.
Non si contano le volte che fu proposto di modellarla a immagine e somiglianza di un’identità precostituita, ma noi conosciamo le vene vive di questa terra e, ne riconosciamo il respiro, ne leggiamo i segni, ne ascoltiamo le voci per impedirlo.
E finché ci saranno queste figure alte, silenziose, ma radicate nella regione storica, essa non potrà mai essere espropriata dai suoi principi antichi conservati ad ovest del fiume Adriatico.
I musei del costume, così come quelli delle arti, non possono continuare a esistere come esposizione di singoli abiti o di opere solitarie, se il loro stesso nome non riflette la voce profonda della terra che intendono rappresentare.
Quando si tratta di cultura arbëreşe, la lingua usata per designare questi luoghi ha un valore che va oltre la comunicazione o atto identitario.
Non basta raccogliere tessuti, ornamenti, ricami, strumenti, non basta etichettare le cose come “albanesi” per ricostruire una memoria viva.
L’arbëreşë non è una variante linguistica dell’albanese moderno, ma la sua radice sempre viva che si denota come una tempesta parallela che vive e si rigenera da sola, custodendo nei secoli un’identità autonoma, fondata sul dettaglio, sul gesto, sul silenzio che conserva e osserva atti.
È una cultura che non ha mai avuto lo sguardo della massa, ma ha sempre valorizzato il Katundë, inteso sia come ambito tradizionale, sia come un loco portatore di memoria.
Ogni costume è un microcosmo, ogni canto un lascito, ogni attrezzo, ogni ornamento un discorso inciso nel tempo e, in questa prospettiva, chiamare un museo “Muzeu della cultura albanese” invece che “Mëndià Arbëreşe” significa togliere radici, per uniformare ciò che per sua natura appartiene a noi tutti.
Il nome in arbëreşe non è nostalgia, ma verità, riconoscimento dell’alterità e della specificità, in tutto una forma di rispetto verso le comunità che, pur marginali, hanno custodito nei secoli una lingua, una memoria di sostanza ancora non compresa dalle categorie della contemporaneità.
Un museo, se vuole essere luogo vivo e non solo vetrina, deve parlare la lingua di chi ha generato i suoi contenuti e, in questo caso, l’unica lingua possibile è l’arbëreşe, la stessa parla ognuno di noi discendenti, della:
– Regione storica diffusa e sostenuta dagli Arbëreşë –
Atanasio Architetto Pizzi Napoli 2025-09-20