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COLLEGIO CORSINI FOCOLARE DI CREDENZA E FORMAZIONE DI CALABRIA CITRARA (thë nëdijturatë i thë fijaituratë ka Shën Sofia)

Posted on 18 ottobre 2025 by admin

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Napoli (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Quando la diocesi di Thurio, all’epoca del tramonto di Sibari fannullona, venne suddivisa nelle circoscrizioni ecclesiastiche di Sammarco e Bisignano, Cassano, Rossano, Anglona e Tursi, dalle quali dipendevano spiritualmente gli arbëreşë di Calabria, Basilicata, si aprì cosi una nuova fase nella storia religiosa e culturale del territorio citeriore di Calabria.

In questo contesto, a Bisignano era un convento di formazione clericale di rito latino, destinato a formare il clero locale secondo le direttive della Chiesa Romana.

Questa fondazione rappresentò un momento decisivo per la riorganizzazione della forza ecclesiale e per la diffusione di nuove forme di sapere religioso e culturale, che andarono progressivamente a innestarsi nelle comunità già radicate sul territorio, comprese quelle arbëreşë.

L’istituzione religiosa ebbe implicazioni politiche, sociali e culturali, influenzando le modalità di integrazione e di convivenza tra riti, comunità e identità differenti.

Per dare agio e stabilità ai giovani clerici in formazione, la Chiesa avviò un importante progetto di organizzazione degli spazi destinati all’istruzione religiosa.

Nel 1595 venne edificato a Santa Sofia Terra, il Palazzo Arcivescovile, destinato a ospitare le attività formative e spirituali delle giovani leve ecclesiastiche nei periodi estivi, visto il clima mite rispetto la sede di Bisignano.

Si trattò di una scelta strategica, la posizione del palazzo favoriva il controllo e la guida del territorio, creando un centro di riferimento per la formazione del clero di rito latino.

Successivamente, nel 1625, venne allestita un’altra sede a San Benedetto Ullano, con simile funzione, offrendo ambienti adatti allo studio e alla vita comunitaria.

Queste due sedi estive di formazione, strettamente collegate, alla sede di Bisignano costituirono i pilastri su cui si svilupparono formazione religiosa e civile locale.

I due presidi di permanenza estiva contribuirono non solo a creare nuove basi per generazioni ecclesiasti, ma anche a plasmare le relazioni tra il clero latino e le comunità arbëreşe nel territorio, incidendo profondamente sulla storia religiosa e culturale delle due macro aree citeriore.

Va inoltre sottolineato che, questo avvenne a seguito del Concilio di Trento, conclusosi alla fine del XVI secolo quando, le diocesi ebbero maggiore libertà nell’unificare la propria pratica religiosa e la credenza alla Chiesa di Roma.

Questa scelta politico-religiosa ebbe ripercussioni profonde nelle comunità arbëreşe, che fino ad allora avevano custodito in autonomia il proprio patrimonio spirituale di rito bizantino.

L’imposizione dell’uniformità liturgica e dottrinale creò difficoltà identitarie e, molte comunità furono costrette ad adeguarsi alla nuova linea romana, spesso contro la propria volontà, che ebbe modo di annebbiarsi.

Anche quando continuarono a praticare i propri riti tradizionali, lo sguardo venne obbligato a mirare verso Roma, che divenne simbolo di una pressione costante, segnando per lungo tempo i rapporti tra la Chiesa Latina e le comunità di rito greco-bizantino.

Questa frattura culturale e spirituale avrebbe accompagnato la storia arbëreşë per secoli, intrecciandosi con i processi di integrazione e resistenza identitaria che ne hanno plasmato la memoria collettiva.

Questo stato di imposizione religiosa, non rimase senza conseguenze e, nel corso del tempo generò una profonda deriva nella vita spirituale e comunitaria nei Katundë.

Dove le pratiche tradizionali, stratificate da secoli e legate alla ritualità bizantina, si trovarono improvvisamente in conflitto con le direttive romane, che terminarono di non essere più fondamentali.

A testimoniare questa situazione fu Giuseppe Rodotà, originario di San Benedetto Ullano e attento osservatore del mondo arbëreşë, che relazionò al Papa lo stato di “deriva malsana” in tutte le comunità.

Il Rodotà descrisse con lucidità la frattura tra fede imposta e credenza vissuta, sottolineando come nei Katundë si fosse creata una condizione di disorientamento e sfiducia nei confronti dell’autorità ecclesiastica centrale.

Secondo Rodotà, questa crisi di coesione spirituale e comunitaria rendeva necessario assumere una misura decisa e concreta, capace di ricomporre le tensioni tra Roma e le comunità arbëreşë per, restituire equilibrio a un tessuto sociale e religioso profondamente turbato.

La fondazione del Collegio italo-greco in S. Benedetto Ullano avvenne, dietro le vive e ripetute istanze di Felice Samuele Rodotà (che ne fu anche il primo Vescovo Presidente), che vennero ben accolte dal Papa Clemente XII con Bolle 11 ottobre 1732, 1° luglio 1734, 19 aprile e 10 giugno 1735 e 1° aprile 1736, che non incontrarono il compiacimento e, vennero subito avversate dai quattro vescovi ordinari latini delle Diocesi su citate, dalle quali dipendono spiritualmente gli Albanesi di Calabria e Basilicata.

Le stesse diocesi che hanno sempre ostacolato ed avversato anche il rito greco, e tale avversione moveva da diversi motivi, prima di tutto per essere il Collegio una Diocesi in Diocesi; in secondo luogo perché quei quattro Vescovi latini avevano visti scemati la loro autorità ed i loro guadagni, dovendo i chierici di rito greco essere ordinati dal loro Vescovo nazionale.

Infatti perché i sacerdoti di rito greco, illuminati, morali ed abilitati al matrimonio, divennero ben presto un ottimo elemento nella società, fecero temibile concorrenza nell’insegnamento privato ed ufficiale e brillarono nella carriera ecclesiastica.

Ma poiché quelle due istituzioni erano sostenute dalla Sacra Congregazione di Propaganda Fide, non pure per la conservazione del rito greco in Italia e, per l’istruzione degli arbëreşë, così i pre accennati quattro Vescovi Latini e gli Ordini monastici da loro dipendenti, misero in opposizione le superiori Autorità della Chiesa, pur celando l’odio contro il rito greco, allorché trattavasi di eleggere il Vescovo greco di S. Benedetto, di farne cadere la nomina sopra persona della loro Diocesi o di loro gradimento, lavorando e comperandosi, già s’intende, ognuno per conto proprio.

Infatti nella scuola di formazione civile ed ecclesiale di san benedetto Ullano a dare la valutazione finale per i voti ecclesiali era il vescovo della diocesi di Bisignano, che ne valutava orientamento e valore di credenza.

E’ per vero che, dopo il decesso di Monsignor Giacinto Archiopoli avvenuto addì 26 marzo 1789, aspirarono alla carica di Presidente e Vescovo del Collegio italo-greco di S. Benedetto Ullano i seguenti nove distinti sacerdoti di rito greco delle colonie albanesi della Provincia di Calabria Citra (Cosenza):

Francesco Bugliari, Arciprete di S. Sofia, Domenico Damis, Arciprete di Lungro, Antonio Roseti, Arciprete di Frascineto, Luigi Pascuzzi, Rettori di detto Collegio, Gugliemo Tocci, Curato di S. Cosmo, Ignazio Archiopoli, Salvatore Pace, Vincenzo Gancale e Pietro Bellizzi; dei quali primeggio il Bugliari Sofiota, per una traduzione eccellente che la commissione intera trovo eccellente.

A seguito di quella relazione e delle sollecitazioni provenienti dai territori arbëreşe, ebbe inizio un periodo di formazione religiosa e civile, più strutturato e consapevole, volto a sensibilizzare e rafforzare la cultura in senso generale in questi piccoli centri collinari.

Le comunità, pur mantenendo radici profonde nella tradizione bizantina, furono gradualmente coinvolte in percorsi formativi programmati per armonizzare, almeno formalmente, la loro spiritualità con quella della Chiesa di Roma.

Questo processo si tradusse nella creazione di centri educativi per giovani che si avviavano alla formazione, con l’obiettivo di rendere figure in grado di essere ponte tra la tradizione arbëreşë orientale e quella locale occidentale.

Fu così che la vita religiosa si avviò verso una fase di mediazione e adattamento, che avrebbe segnato profondamente la storia e l’identità delle comunità arbëreshë per i secoli successivi.

Tuttavia, le risorse economiche disponibili erano limitate, a San Benedetto Ullano e per questo riuscivano a formare un numero di clerici e civili non propriamente sufficiente, ma comunque indispensabile a garantire una fiammella di luce nuova alla continuità culturale e spirituale delle comunità.

Ogni giovane formato rappresentava un presidio di fede, sapere e identità, contribuendo a mantenere viva la memoria storica e la coesione sociale.

Inoltre, questo fu anche il tempo in cui si concluse la fase di costruzione di nuove chiese, segnando così l’avvio di una stagione di consolidamento spirituale e sociale nei Katundë tutti.

Parallelamente, prese forma un nuovo slancio nella crescita delle figure clericali e civili, che nei decenni successivi avrebbero inciso profondamente nella storia del Regno di Napoli.

Queste figure, formate tra tradizione bizantina e disciplina latina, divennero ponti culturali, religiosi e politici, contribuendo non solo alla vita dei propri Katundë, ma anche alla costruzione di un dialogo più ampio con le istituzioni del Regno.

Fu un’epoca di fermento silenzioso ma decisivo, in cui le radici arbëreşë si intrecciarono stabilmente con la storia meridionale.

Il Collegio Corsini di San Benedetto Ullano, sorto con l’intento di sostenere la formazione religiosa e civile delle comunità arbëreşë, assolse con fatica la sua funzione.

Le risorse economiche limitate e i mezzi a disposizione ridotti non permisero di accogliere e formare un numero elevato di allievi.

Nonostante ciò, il collegio riuscì a preparare un ristretto ma prezioso gruppo di clerici e civili, che avrebbero poi svolto un ruolo significativo all’interno dei Katundë e, nei rapporti con le istituzioni del Regno di Napoli.

Annaspando tra difficoltà logistiche, ristrettezze economiche e confini politici, il Collegio Corsini rappresentò comunque un baluardo di resistenza culturale e religiosa, garantendo la trasmissione della fede e dell’identità arbëreshë in un’epoca di profonde trasformazioni.

Fu la politica dei liberi pensatori della Napoli capitale, ad assumersi la responsabilità di elaborare e promuovere un progetto più ampio e organico, volto a istruire e preparare culturalmente quella vasta sacca di arretratezza che ancora dominava nella Calabria Citeriore.

In quell’epoca, infatti, l’assenza di un solido tessuto educativo avrebbe impedito qualsiasi reale trasformazione sociale e politica che potesse garantire privilegi diffusi a tutta la popolazione.

L’obiettivo era innalzare il livello culturale e favorire un pensiero innovativo e solidale, capace di aprire nuove prospettive al popolo tutto e, creare un terreno fertile per una partecipazione più consapevole alla vita del Regno.

Questo impulso riformatore avrebbe rappresentato una svolta decisiva, non solo per le comunità arbëreşe, ma per l’intero Mezzogiorno, allora regno di Napoli.

L’occasione per tradurre in pratica quella visione riformatrice arrivò con il luttuoso evento sismico del 1783, che devastò parte della Calabria Citeriore e di tutto il meridione, mettendo in crisi l’organizzazione ecclesiastica e sociale del territorio.

A seguito di quel terremoto, fu disposta “la dismissione della Cassa Sacra”, e numerosi conventi e proprietà ecclesiastiche passarono nelle disponibilità dei governanti, che intesero così riorganizzare il patrimonio religioso e formativo e dare agio a pochi presidi di accogliere i frati in pena.

Tra gli immobili interessati vi fu anche il complesso monastico di Sant’Adriano, che divenne parte integrante di una nuova strategia volta a razionalizzare le risorse e creare spazi per l’istruzione e la formazione.

Questo evento, pur nato da una tragedia, rappresentò un passaggio cruciale per aprire una nuova stagione educativa e civile in cui le comunità arbëreshë avrebbero avuto un ruolo significativo.

A San Demetrio Corone, il 1º febbraio 1794, in occasione del trasferimento ufficiale del Collegio da San Benedetto Ullano, la comunità locale celebrò una vera e propria festa nazionale mentre a San Benedetto Ullano, il fabbricato venne circondato al fine di impedire la migrazione dell’istituto.

L’evento fu percepito come un momento di svolta storica, poiché il nuovo insediamento del Collegio rappresentava la rinascita della formazione clericale e civile in un luogo strategico per la cultura e l’identità mentre per San Benedetto dal non essere più protagonista di cultura e credenza.

Le celebrazioni coinvolsero l’intera comunità religiosi, autorità civili, studenti e popolazione si unirono in un clima di entusiasmo da una parte e rabbia dall’altra del fiume crati e, tutti consapevoli che quella giornata avrebbe segnato l’inizio e la fine di una stagione culturale.

San Demetrio sognava di avere le terre del Collegio, mentre San Benedetto immaginava una stagione o meglio un futuro buio e di abbandono.

Il Collegio di San Demetrio Corone, divenne così un centro vitale di istruzione, spiritualità e identità, destinato a formare generazioni di figure di rilievo nel panorama politico, ecclesiastico e culturale del Regno di Napoli.

Il trasferimento del Collegio da San Benedetto Ullano a San Demetrio Corone non avvenne in modo solenne né dichiarato apertamente, ma fu condotto con un gesto astuto e strategico, degno di un momento storico delicato.

Fu il vescovo Bugliati a orchestrare l’operazione, onde evitare proteste e ostacoli da parte della comunità locale e, finse di organizzare una semplice gita lungo le rive del fiume Crati, invitando gli studenti e i religiosi del Collegio a parteciparvi come fosse un’uscita conviviale.

Una volta giunti sul luogo, ad attenderli c’erano il fratello del vescovo e alcuni uomini fidati, pronti con carri e mezzi di trasporto.

Senza clamore, gli allievi e i religiosi furono caricati sui carri e accompagnati a Santa Sofia, dove furono ospitati per la notte nel palazzo arcivescovile, quello costruito per la stagione estiva della scuola clericale dei frati di Bisignano.

E all’alba del giorno seguente, la carovana ripartì in direzione di Sant’Adriano, raggiungendo il Collegio, destinato a diventare la nuova sede della formazione religiosa e civile delle comunità arbëreshë.

Quell’azione, velata ma determinante, segnò la chiusura definitiva dell’esperienza formativa a San Benedetto Ullano e l’inizio di una nuova stagione educativa a Sant’Adriano.

Nonostante il modo improvviso e silenzioso con cui fu condotto, il trasferimento divenne un passaggio cruciale nella storia culturale e religiosa arbëreshë, imprimendo un nuovo impulso alla formazione di generazioni di giovani destinati a lasciare un segno profondo nella vita del Regno di Napoli.

Il vescovo Bugliari, operando in sintonia con le direttive provenienti dai sistemi politici ed economici dell’epoca e sostenuto da fraterne alleanze, divenne una figura centrale per Sant’Adriano.

Tuttavia, questa sua posizione di potere e le scelte compiute in nome della stabilità istituzionale non furono accolte favorevolmente da tutti.

Infatti, per coloro che si riconoscevano negli ideali del libero pensiero che aleggiavano nella Napoli rivoluzionaria di fine Settecento, Bugliari rappresentò un simbolo di compromesso e di adesione all’ordine costituito.

Quando la Rivoluzione Napoletana del 1799 ebbe il suo glorioso ma tragico epilogo, la sua figura divenne bersaglio perché lui conosceva e sapeva chi aveva tradito quegli ideali di quel grandioso progetto di rinnovamento politico e sociale.

Da ciò, il suo Paese natio e in San Adriano divennero il teatro ideale per dare seguito a un malsano piano e, luogo ideale per tensioni e contrapposizioni profonde, dove la cultura e la religione arbëreşë, si intrecciavano con i fermenti rivoluzionari e le pressioni politiche del Regno di Napoli.

Quando Giuseppe Bonaparte entrò a Napoli il 15 febbraio 1806, dopo aver conquistato la città e costretto i Borbone a rifugiarsi in Sicilia, il clima politico e sociale nel Regno cambiò radicalmente.

In quel contesto di trasformazione e di resa dei conti, coloro che avevano tradito i rivoluzionari del 1799 divennero oggetto di sospetti e manovre inimmaginabili.

Tra questi, alcuni noti al vescovo Bugliari, tentarono svilire l’attenzione dalle proprie responsabilità, orchestrando una falsa rivolta locale, pretestuosamente legata a una questione di confini terrieri manomessi. In realtà, quella presunta sollevazione nascondeva calcoli politici e personali, volti a consolidare posizioni di potere e a dipingere i vecchi rivoluzionari come elementi destabilizzanti.

Questa manovra contribuì ad alimentare divisioni e tensioni all’interno dei Katundë arbëreshë, dove le fratture ideologiche nate con la rivoluzione si intrecciavano agli interessi territoriali ed economici.

San Demetrio Corone, centro vivo di cultura e politica, divenne nuovamente scenario di scontri sottili ma profondi, che segnarono la memoria collettiva per molti decenni.

 Ed ebbero la fine del capitolo, nelle sei giornate di Santa Sofia, ad iniziare dal 12 agosto del 1806 sino al 18 dello stesso mese, devastando e violentando santa Sofia intera, per devastare fisicamente il Collegio a Sant’Adriano, per tutto il decennio francese con mira la dismissione del collegio e la distruzione di quelle prove che ancora oggi non sono state lette.

Degne di cronaca sono l’eccidio del Vescovo reggente Bugliari Francesco a Santa Sofia, la violenza subita da tutta la popolazione e in particolar modo della sua casa e dei suoi familiari, la successiva devastazione del collegio, il suo abbandono e la richiesta di metterlo in vendita, dismetterlo e trasferire la scuola a Corigliano Calabro nel 1811 e, in fine la presa di posizione del Vescovo reggente Ballusci, il quale, recatosi a Napoli evidenziò, il valore e il significato civile ed ecclesiale di quella struttura, facendo ricredere il diffuso volere politico dei regnanti, infatti nel breve il collegio venne ricomposto e reso fruibile per continuare la sua missione civile e religiosa.

Altro dato fondamentale nella storia e nella memoria collettiva del Collegio Corsini a Sant’Adriano è rappresentato dal protocollo di vestizione e dai rituali che accompagnano la famiglia nel corso della sua esistenza.

Il protocollo o tema, conservato e, chissà dove venne conservato e da chi dopo essere stato compilato, realizzato, come terzo capitolo di questo istituto che nel passaggio da San Benedetto Ullano a Sant’Adriano, oltre a formare clerici e civili illustri, ideò anche il percorso della famiglia nel tragitto che la unisce il focolare della casa con l’altare della chiesa.

Infatti il tragitto non era mero momento di una semplice cerimonia, ma vero e proprio atto fondativo della vita comunitaria, strumenti di formazione e consolidamento dell’identità collettiva a partire dalla famiglia.

In particolare, la vestizione della donna scandiva le tappe principali dell’esistenza, segnando con precisione il passaggio dallo stato di: bambina a quello di donna, madre, vedova e infine vedovo incerta sino, a figura sociale riconosciuta nel lessico e nei costumi e nella memoria terrena dell’epoca.

Ogni cambio d’abito, non era solo un gesto pratico o estetico, ma un segno visibile di trasformazione spirituale e sociale: un modo per dichiarare pubblicamente il proprio nuovo ruolo nella comunità che in questo modo era sostenuta.

Quelle vesti non erano considerate un semplice abito cucito da un sarto con ago e filo, ma rappresentavano un cammino di fede, una pedagogia silenziosa ma potente, con la quale si educava al rispetto della tradizione, alla responsabilità verso la famiglia e alla devozione religiosa.

Ogni stoffa, ogni colore, ogni piega e ornamento indossato aveva un significato preciso, riconoscibile da tutti i membri della comunità, in tutto era un messaggio visivo da seguire e rispettare perché luce di un fuoco in tutto un abbraccio materno.

L’obiettivo profondo di questo protocollo era unire il focolare domestico, con l’altare della chiesa: due poli inseparabili della vita di ogni Gjitonia, che si sostenevano a vicenda nel definire la via più dignitosa per essere parte della collettività.

La casa e la chiesa, non erano luoghi distinti, ma spazi complementari di una stessa vocazione comunitaria, dentro cui ogni individuo trovava la propria collocazione e la propria dignità.

Questi riti di passaggio, pur nella loro semplicità materiale, costituivano una vera “grammatica del vivere”: insegnavano valori, rafforzavano i legami sociali e imprimevano nelle generazioni future un senso di appartenenza forte e condiviso, per questo la vestizione, nel suo silenzio rituale, raccontava una storia di fede, di identità e di memoria.

Tuttavia il collegio non fu mai abbandonato dall’essere controllato dalle istituzioni, divenendo poi anche per i Borbone tornati al trono, il luogo delle vipere politiche culturali e clericali.

Dopo la riapertura e sino all’unità d’Italia furono numerose le eccellenze qui formatesi e sempre tutte attive per la bona gestione politica del sociale e della credenza in tutto il regno di Napoli.

 Degno di nota è il gesto di Agesilao Milano, che per i ricercatori della Z perduta, riducono quel gesto ad atto di un’capace e violento, ma chi è attento alle cose della storia perché architetto riconosce in quell’atto un grande rispetto per la vita umana e la credenza con le quali venne allevato.

E anche Garibaldi nella sua risalita verso Capua trovo agio a respirare quelle ideologie trovando il passaggio della valle del Crati, agevole e senza pena alcuna, sino a Campotenese, dove era l’inizio del Bosco del Diavolo.

Il collegio di Sant’Adriano continuò a diffondere fede e cultura dalla fine del decennio fino all’Unità d’Italia e alla sua successiva stabilizzazione romana.

Tuttavia, dopo la reggenza del vescovo Bellusci di Frascineto, la direzione dell’istituto passò ai vescovi Siciliani, ritenuti più solidali, i quali, per motivi strategici, affidarono la gestione a loro sottoposti di fiducia, la scelta, però, generò una deriva amministrativa e organizzativa che portò alla progressiva spoliazione di ogni adempimento materiale e immateriale.

Nel 1876 venne quindi nominato un nuovo vescovo sofiota, il quale garantì la solidità dell’istituto e ne pianificò il futuro sviluppo, progetto che trovò concreta e attuazione nel 1919.

Era il vescovo Giuseppe Bugliari, che ebbe l’incarico di rendere chiaro al papa e al re quali fossero le condizioni dell’istituto e, le relazioni inviate alle due autorità dell’epoca, emerse l’esigenza, poi portata a compimento, nel 1919, di scindere in tre parti, l’istituzione: la scuola civile in sant’Adriano, il vescovato, nella baricentrica e strategica Lungro e, la scuola clericale a Grottaferrata sotto la vigile attenzione della li attenta San Pietro.

Questo per grandi linee sono le tappe del collegio Corsini da San Benedetto Ullano a Sant’Adriano, oggi celebrata secondo la visione della moderna lingua parlata albanese, che vive alla spasmodica ricerca della z mancante.

Tirando le somme, il Collegio Corsini, quando fu di San Adriano, non fu soltanto un edificio di pietra e memoria, ma una vera e propria lanterna di cultura e identità.

Esso fu immaginato, condotto, diretto e illuminato da quella stessa luce che, sorgendo e tramontando su Santa Sofia d’Epiro, rischiarò le pieghe più buie dell’unità d’Italia. durante il secolo della coscienza più alta del mondo arbëreshë.

Là, dove la tradizione si fa sapienza e la lingua si intreccia con la fede e la dignità di un popolo, furono illuminati e formati gli uomini migliori, quelli che hanno saputo custodire e tramandare la propria eredità con fierezza e visione.

Il Corsini si staglia così come un faro nella storia degli arbëreşë, secondo una luce che continua a riverberare nel tempo, segno di una comunità che non ha mai smesso di riconoscersi e di rinnovarsi nella propria forma intrisa dell’olivetano sapere della salita della Sapienza e della fratria Partenopea nella cala a nord di Napoli.

 

Atanasio Pizzi Architetto Olivetano                                                                                 Napoli 2025-10-17

 

 

 

 

 

 

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