Archive | Racconti

NAPOLI: SANT’ATANASIO IL GRANDE FIGURA DI UN’EPOCA

Posted on 15 gennaio 2013 by admin

NAPOLI (di Atanasio Pizzi)  – Secondo l’antica tradizione della Chiesa di Costantinopoli, il 18 di gennaio si celebra il ritorno di Sant’Atanasio dall’esilio, quando alla morte dell’ariano Gregorio di Cappadocia il 21 ottobre 346, egli riuscì a tornare alla sua sede come patriarca di Alessandria.

La festa principale di Sant’Atanasio il Grande si celebra il 2 maggio, giorno del trasporto delle sue reliquie.

In questo stesso giorno ricorre anche l’Ufficio di San Cirillo perché, come Atanasio il Grande anche egli fu difensore del dogma ortodosso della Trinità consustanziale contro l’arianesimo, così Cirillo Grande, anch’egli arcivescovo di Alessandria (412-444) è stato il difensore del dogma dell’Incarnazione del Verbo nel grembo di Maria.

La vita di Sant’Atanasio il Grande (295-373) è legata al grande sforzo che la Chiesa dovette sostenere in quegli anni per definire l’accesa controversia sul dogma trinitario, alla cui difesa si dedicò con tutte le sue energie.

Ancora diacono accompagnò il suo vescovo Alessandro al primo Concilio di Nicea del 325, voluto dall’imperatore Costantino I per dirimere la questione sollevata dalla predicazione di Ario, anch’egli di Alessandria, circa la natura di Cristo che costituisce, tuttora la base dogmatica del Cristianesimo storico.

Nell’attuale Via Mezzocannone, sede storica della cittadella Universitaria partenopea, un tempo s’identificava come la regione degli Alessandrini.

Il Nilo, fiume importante e caratterizzante l’Egitto, da il nome al sedile che è segnato dal monumento rappresentato da una persona sdraiata sul fianco sinistro che si appoggia a un sasso dal quale sgorga l’acqua, sotto i piedi sporge un coccodrillo e bambini nudi a raffigurare il segno della fecondità del grande fiume.

Prima in quest’area sorgeva un tempio pagano, poi sostituito da una Chiesa intitolata a Sant’Atanasio di Alessandria rappresentando il luogo atto ad accogliere e riunire in preghiera i mercanti provenienti dall’Egitto.

La chiesa fu per lungo tempo meta di culto e riferimento cristiano di rilievo, tanto che appare trascritta nel volume delle Chiese maggiori Napoletane, ove si legge: “S’Athanasius Alexandrinus, in vico dicto Alessandrinorum in regione Nili”.

Oggi la città partenopea, in ricordo del santo conserva una statua nella Basilica di San Francesco di Paola in Piazza Plebiscito.

Nella regione del Nilo, Via degli Alessandrini oggi via Mezzocannone, è stata modificata in modo radicale dalla sua originaria configurazione urbana e conserva solo il monumento acefalo al quale è stata aggiunta una testa barbuta; conservando in questo modo il riferimento antico degli Alessandrini.

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Protetto: L’EREDITÀ

Posted on 26 dicembre 2012 by admin

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Aurora svanita?

Posted on 02 dicembre 2012 by admin

ROMA ( di Paolo Borgia) – E venne il tempo per il nonno di portare in campagna il nipote. Il primo, quello del nome. Da molto tempo, il bimbo gli chiedeva questa gita, ma la saggezza attendeva la fine del freddo inverno e che il sole salisse più alto nel cielo. Ora,dunque, poteva iniziare ad esplorare il mondo al di là del protetto piccolo vicinato.

Una tiepida brezza saliva dal Piano di Santa Caterina verso il Monte Saravulli accarezzando il mulo gravato dal peso del nonno sul basto e del bimbo di dietro a cavalcioni sulla groppa, mentre raggiungevano la contrada sottratta alla boscaglia e spietrata: Llazi. Lungo la costa del monte, ricoperto di querce e castagni, apparivano al bimbo rocce appoggiate in bilico sul vuoto, che gli sembravano antichi inquietanti fantasmi, protagonisti di acrobatiche lotte solitarie.

Entrarono nella vigna attraverso un angusto varco tra i rovi, le acacie e i fichi d’India cresciuti da molto tempo tra le pietre tolte dal campo e messe  tutt’intorno a confine. Appena dentro, ecco nell’angolo kalivja, il consueto capanno di pietre a secco poste in tondo e sormontate da una alta copertura conica di canne. Nello spiazzo antistante una grossa pietra cubica e in un angolo un fornello di muratura per scaldare al fuoco il misero cibo, sostegno per la dura fatica.

Non c’era un filo d’erba nel campo, tenuto pulito come una chiesa. Le viti erano messe ad alberello solitario e sorrette ad una ad una da un tutore di canna, distanziate giusto a farci passare un mulo. Un legaccio nella parte alta manteneva i lunghi tralci a formare una pupa di pampini. Qua e là alberi di pere, fichi, ciliege, amarene e un maestoso noce. C’era anche lo spazio sul bordo per seminare ceci o lenticchie. Due piccole sorgive d’acqua sgorgavano dal terreno ed erano raccolte da due cubici tabernacoli appoggiati  al suolo, aperti su un lato da cui si attingeva per bere da pale di fichi d’India rinsecchite a forma di coppa.

Raccolsero insieme un po’ d’amarene, fili d’erba da masticare un po’ rossicci di un sapore aspro ma gradevole e qualche ramo di ceci. I bacelli erano ripieni del seme già ingranato e risuonavano allegri come giocattoli. Il nonno si mise, poi, al lavoro e il bimbo andava scoprendo il ricco nuovo mondo dalle infinite possibilità di gioco. Il tempo trascorse veloce. Poi il nonno a conferma dei sintomi della fame guardò l’orologio a catena del gilé, lasciò la sua occupazione, mise sull’altare di pietra il pane, il vino ed un tocco di formaggio. E accese il fuoco nel fornello per scaldare la zuppa di zucchine e patate dentro la gamella portata pronta da casa. Un raro fresco vento del Golfo portò il suono delle campane di mezzogiorno.

Ci volle un po’ perché la zuppa si scaldasse. L’aria si era andata riempendo della sua fragranza  e il bimbo faceva impaziente festa…

Tutt’a un tratto apparvero dal varco due uomini a piedi: uno, vecchio con le mani legate con una catena, l’altro con  un fondina di pistola alla cinta che trascinava il primo, il vecchio.

Il bimbo, intimidito, corse verso il nonno appoggiandosi alle sue gambe. Il nonno come ispirato riuscì  a dire d’un fiato: «A manciari! (favorite!)». Rituale formula di invito a condividere la mensa. Il bandito, strattonando il vecchio, si accostò alla mensa senza proferir verbo e in men che non si dica si sbafò il cibo e si scolò il vino del bariletto.

Poi, subito, così come erano apparsi, scomparvero entrambi nel verde della vegetazione, proseguendo nell’infame traduzione del sequestrato: lontano appena pochi metri dalle strade carrozzabili continuamente percorse dalle Guzzi e dalle Campagnole in dotazione alle forze dell’ordine. I soldati del 24° Reggimento Artiglieria da Campagna erano accampati lì di fianco, sotto gli ulivi della Sclizza.

Il bimbo…..

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Protetto: LA BANDIERA ITALIANA ULTIMO BALUARDO A DIFESA DI UNA STRADA

Posted on 04 ottobre 2012 by admin

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Protetto: BAULI STRACOLMI DI SANI IDEALI

Posted on 28 settembre 2012 by admin

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STORIE SILENZIOSE

Posted on 26 settembre 2012 by admin

ROMA (di Paolo Borgia) –  C’era una volta un asino. La sua vita era quella di tutti gli animali domestici. Si può dire che se la passava bene. Il suo padrone, vecchio e malato, lo teneva per sé solo per andare nel suo campo appena fuori paese. Aveva, raro privilegio, una stanza solo per sé e con l’ingresso indipendente. Qualche volta il figlio del fratello del padrone, morto ancora giovane, lo prendeva in prestito. Anche quel giorno il giovane lo prese per raggiungere il luogo dove si celebrava la Festa dei Lavoratori a quattro chilometri dal paese. Una gita per lui: Nino, il ragazzo, era magro. Come tutti, allora.

Giunti nella zona dell’evento, dopo aver lasciato l’asino nello spiazzo dove erano tutti i quadrupedi, il giovane si recò nel luogo dell’adunanza. E l’animale ne approfittò per fare una dormitina.

Improvvisamente si svegliò di soprassalto. L’aria si era riempita di crepitii assordanti, come quando esce di chiesa la processione nei giorni della festività. Però questi erano colpi di mitraglia sparati sulla folla. Una tragedia, una strage di innocenti ammazzati da un nemico vile e senza volto. L’asino sentì un fitto dolore alla pancia. D’istinto si svincolò e fuggì. Ma come provò a correre, il dolore si fece più forte. Così decise di tornare piano piano a casa sua. Trovò la porta della stalla spalancata e si mise davanti alla mangiatoia, aspettando che il dolore passasse, come le altre volte. Più tardi, giunse anche Nino concitato e agitato per la scomparsa dell’asino a lui affidato. Quando lo vide, si rasserenò e si mise a raccontare allo zio quello che era successo e di come avesse avuto paura di morire.

Due giorni dopo l’asino stramazzò al suolo, morto. Solo allora si accorsero che nel fianco che dava al muro l’animale aveva un foro di proiettile infettato. Per tutti era ‘L’asino’.

——-

Il padre pensò che fosse arrivata l’ora di staccare il figlio dalla madre e di farlo entrare nel suo mondo, quello degli uomini. Decise così che quel giorno il figlio di cinque anni sarebbe andato con lui alla Festa dei Lavoratori. Era una persona dal carattere impossibile. Litigava con tutti. In casa non parlava, al massimo urlava comandi: un orso selvatico.

Fino a quel momento per il bimbo l’idea di padre era per lui assai diversa da quella di madre. Così il bambino, quando per la prima volta si trovò solo con lui in mezzo alla folla, era intimidito, frastornato ed inerte…

Tutt’a un tratto esplose l’inconsulta guerra. L’uomo capì subito quello che stava succedendo e senza perdere tempo prese tra le braccia il figlio e si gettò per terra, coprendo la sua creatura con il proprio corpo. Restarono entrambi indenni dalla furia dei banditi e dai proiettili della mitraglia. Ma tutto era cambiato nella vita del bambino.

Poi, crebbe e andò lontano per trovare lavoro, come la maggior parte. Ogni anno, tutte le volte che può, torna a casa per rivedere la madre e quell’uomo dal carattere impossibile, che occupano i suoi pensieri. Però, quei pochi fotogrammi di una sequenza-azione nata forse più dall’istinto primordiale che dalla consapevolezza tornano ripetutamente nella sua mente, e destano i sentimenti più dolci che un uomo possa sentire. Senso profondo anche nella più insignificante delle storie umane.

——-

La ragazza si fermava a parlare con un ragazzo, che gli era simpatico. Riusciva a farlo solo mentre aspettava il turno per riempire alla fontana la ‘nxirja’ (recipiente di legno). Non c’era nessuno con cui parlare di questa nuova esperienza. La sua amica fidata si era sposata e con lei ormai c’era il divieto d’incontrarsi, parlare: il racconto della sua esperienza coniugale avrebbe potuto turbarle l’anima innocente. Con sua madre, parlarne significava non potere più uscire di casa da sola. Sì, perché il ragazzo faceva il muratore, mentre la famiglia di lei viveva del lavoro dei campi e questo costituiva un impedimento al fidanzamento: non erano dello stesso ceto sociale. Solo per carnevale riuscivano a stringersi, ballando mascherati. Poi, solo sguardi di intesa da distante e poche parole rubate alla fontana.

Un giorno decisero di ‘fuggire’ – e fuggirono con tutta la nxirja -, mettendo i genitori di fronte al fatto compiuto. Poi, l’indomani, festa del 1° maggio, si presentarono dal prete per il matrimonio riparatore. Questi li lasciò soli in sacrestia  e andò a cercare i genitori e pacificare gli animi. Quando furono riuniti, i due ragazzi, messa la corona, bevvero il vino dallo stesso bicchiere. Poi ridotto in frantumi: come tutte le regole.

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TRA SISIFO E PROMETEO – MONS. PAOLO SCHIRÒ

Posted on 26 luglio 2012 by admin

PALERMO (di Paolo Borgia) – Scendere a Palermo da Piana e fare ritorno in paese con una cavalcatura o con un calesse in tutte le stagioni dell’anno, cento anni fa – e ancor oggi, nonostante il manto di asfalto – significava  viaggiare per cinque ore buone.

C’era, allora, chi ogni settimana si sobbarcava questo strapazzo per portare un foglio manoscritto in tipografia per stamparlo, per correggere la bozza dello scritto della settimana precedente e per ritirare l’ultimo numero di “Fjala e t’in’Zoti”, la Parola di Dio. Rivista settimanale diretta da Antonio Masi, dal  25.2.1912 al 28.2.1915 (nei numeri di aprile, giugno, luglio dell’anno 1912 comprendeva anche “Fjalori”, vocabolario, vocaboli premessi alla rivista): dove Antonio Masi era famiglio nell’Episcopio e la rivista era un foglio scritto in arbrescio, distribuito per la liturgia domenicale. La chiusura del periodico coincise con l’inizio della grande guerra e con la sua opprimente ombra di morte caduta su molte famiglie della nostra comunità.

L’idea, originale novità editoriale in assoluto, è di Mons. Paolo Schirò.

Ma per la comunità “Fjala e t’in’Zoti” è molto di più, è una manna di vita culturale (cfr.Norbert Jokl, Geitie, Guys, Holger Pedersen). Continue Reading

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NJE VASHEZ ARBËRESHË

Posted on 30 giugno 2012 by admin

NAPOLI (di Atanasio Pizzi) – Quando la giovane Eleda completò gli studi dell’obbligo al collegio, si aspettava che i genitori, così come avevano già fatto con i suoi fratelli maggiori, le avrebbero offerto la possibilità di proseguire gli studi universitari.

Invece i tempi e le regole di allora le imposero marito, e l’agoniata università e quel corso di laurea divennero solo un sogno.

Quella mattina, quando io la conobbi in ospedale, la prima cosa che mi sentii dire fu: ho sempre sognato Napoli come il luogo dove poter approfondire i miei studi ed allargare i miei orizzonti, non mi sarei mai aspettata di venire ed avere la conferma che non ho più un domani.

Il primo di Marzo, era una splendida giornata di sole e con passo sostenuto mi dirigevo verso la stazione ferroviaria di Napoli, per raggiungere Salerno dove mi recavo compatibilmente con gli impegni universitari.

Salito sul vagone di coda, del treno che collegava Torino con le zone più estreme del meridione, era mia abitudine soffermarmi ad osservare le allegorie che trasportava quell’indispensabile mezzo di speranze e aspettative future.

Quel giorno  fui incuriosito dal modo in cui era vestito un viaggiatore,  le sue scarpe, raccontavano la  vera estrazione sociale.

Esse, nonostante fossero state pulite e portate a lucido, conservavano evidenti i segni e i patimenti dei contesti rurali in cui erano abitualmente utilizzate.

La conferma la ebbi quando osservando con più attenzione intuii che, una probabile emergenza lo aveva portato ad abbandonare la sua vita quotidiana e proiettato in questa realtà che non gli apparteneva e lo metteva in soggezione. Continue Reading

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ARBËRESHË – Italo-albanesi

Posted on 30 marzo 2012 by admin

NAPOLI (di Atanasio Pizzi) – L’arberia è nei fatti disunita e senza fini comuni, ha una bandiera che non è la propria, non ha un centro politico comune che abbia rilevanza nelle sedi della Nazione Italiana.

Smembrati in 50 e più comuni, indipendenti l’uno dall’altro, senza alleanze, senza unità di interessi materiali e non, inceppati con il progresso, privi di manifatture che vivono dell’incremento di duecento anni orsono e le attività commerciale non splendono certo della diversità di cui si va tanto fieri.

Eccellenze  territoriali che abbondano in una provincia, difettano in un’altra senza che si sia mai posto un adeguato senso comune per ristabilire un ideale equilibrio.

Trenta o più modelli linguistici ci uniscono in una fratellanza che se da un lato ci fanno dialogare gli uni agli altri dall’altra ci pone alla stessa stregua di  estranei.

E tutti questi paesi, sono governati dispoticamente privi d’intenti comuni, è indubbio che una regione che si potrebbe definire arbëreshë esiste e potrebbe formare un grande gruppo politico economico e sociale unitario, ma allo stato è pura utopia.

Non vi sono cinque, quattro, tre, o più Arberie, esiste una sola, i suoi confini sono delineati nei contesti più suggestivi del sud Italia; il risultano di simboli della loro natura. Continue Reading

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LA CANZONE DEL CANE TURCO

Posted on 29 marzo 2012 by admin

 

 

 

 

 

NAPOLI – (di Atanasio Pizzi) –  Gli usi, i costumi e le tradizioni popolari degli albanesi in Calabria, anche se hanno subito
ingerenza, hanno conservato, in buona parte, la schiettezza della loro terra d’origine.

A Santa Sofia d’Epiro il linguaggio è quasi originale, la si noti nella canzone qui di seguito riportata:

 

Linghirjan di vochiche

Tinghe pe eia pevo u.

Unghe pe da pevoti.

Iscia gna Turca te aio vota.

Ma gna vascia ta liturid,

Liturid pra va sceccia.

Poi me raun te gna erna:

Se, ti zot, e ti gra mastra,

Lascom ta liturid,

Ta Teja gna pica uja.

Ghat goja, chieni Turcu!

Unga dua te cupa Jote,

Se u dua te grusti imma,

Mo pregasti tanazon

Te driggon diza ribara,

Za ribara e za grusara

Za grusara nga ghiacu isaji,

Appena sosi fialzan

Marrivati za ribari,

Za ribari eza grusarì,

Za ribari nga ghiacu i sufi

Turcona ma fundacosan,

Vasciana ma je rumbiena,

Conca viena me sosudidh.


La traduzione italiana è rilevata da una Rivista del 1890, così tradotta:
Discorrevano due fanciulli

 

Tu non vedesti ciò che vidi io

Io non vidi ciò che vedesti tu

C’èra un turco a quella volta,

con una giovane legata,

legata per la treccia per la treccia,

e mani e treccia.

Poi giunsero ad una fontana:

O tu, Signore e gran signore,

allargami la legatura.

Affinchè io beva un po’ d’acqua

Che ti mangino la gola,

cane turco, non ne voglio alla tua coppa,

perché voglio al mio pugno

Poi pregò il Signore di mandarle alcuni difensori,

alcuni difensori e parenti,

difensori del sangue suo.

Appena che ebbe finita la preghiera,

arrivarono i difensori,

alcuni di­fensori e parenti,

difensori del sangue suo. I

l turco stran­golarono,

la fanciulla gli tolsero.

La canzone è terminata.

Un argomento, come si vede, che si riporta al secolare odio verso i turchi, invasori della terra d’Albania, violenti e selvaggi, che, per le efferatezze commesse avevano co­stretto i vinti a fuggire in cerca di una patria adottiva.

Ma la cosa che ha più rilevanza, sta nel fatto, che la poesia è scritta con l’alfabeto delle magiche 21 lettere.

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