Posted on 12 marzo 2013 by admin
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Posted on 23 febbraio 2013 by admin
NAPOLI ( di Atanasio Pizzi) – Adagiato su una spianata dei contrafforti presilani, a poco più di seicento metri sul livello del mare, tra poggi e valloni che degradano fino alle rive del Crati, si distingue per la sua particolare conformazione urbana, il piccolo agglomerato di Santa Sofia d’Epiro.
Francesco Bugliari e la Moglie Maria Pizzi, abitavano in questo paese nel corso del XIX secolo e precisamente nella cortina edilizia posta sul declivio a sud del Trapeso, da dove si poteva osservare l’affascinante scena dell’Appennino, che si sviluppa nella catena del Dolcedorme; verso levante con le montuosità che degradano nello Ionio e verso ponente i frastagliati e imponenti fianchi della Mula che coprono l’orizzonte del Tirreno.
I Bugliari come la maggior parte delle famiglie di origine arbëreshë viveva in questo paese una vita agiata tra la casa e i campi, da cui provenivano le risorse di sostentamento in attività agro-silvo-pastorali; solida e nello stesso tempo razionale economia che rnon offriva alcun eccesso.
Era di sabato, quel 12 di Marzo del 1813, quando Maria Pizzi diede alla luce il figlio Giuseppe, che fu accolto e cresciuto sotto la vigile guida dei due genitori, i quali, lo formarono con sani principi morali, rispettoso per il prossimo, divenendo per lui la fondamentale guida di tutto il suo percorso di vita.
Giuseppe Bugliari consapevole dell’indigenza familiare, da autodidatta riuscì a svolgere l’apprendistato necessario a essere accolto tra gli allievi del Seminario Vescovile di Bisignano; terminando in pochi anni il percorso d’istruzione grazie al suo elevato valore in campo filosofico e teologico.
Durante la sua ascesa di religioso e letterato non ebbe mai incarichi ufficiali, in quanto, fu per quasi tre decenni insegnante privato, ambito dai nobili casati, sia in Calabria Ultra sia in quella Citeriore.
Solamente al termine della sua carriera, per nomina di Papa Pio IX, riveste la carica di Vescovo e Presidente del Collegio Italo-Greco in S. Adriano.
La carica di guida didattica, spirituale ed economica del Collegio gli fu attribuita per il suo indubbio valore morale e religioso, doti essenziali per assumere la guida dell’istituto, siccome ormai alla deriva, andava riformato secondo gli antichi dettami per i quali era stato fondato.
Le sue indiscusse capacità di religioso eccelso, ebbe occasione di metterle in luce già quando asceso agli Ordini Minori, era richiesto in quanto ottimo predicatore, a tal proposito va ricordato in particolare l’orazione del due di maggio del 1835 a Santa Sofia d’Epiro, in onore del Patrono S. Atanasio l’Alessandrino.
Ordinato Sacerdote nell’aprile del 1837, gli fu offerta con insistenza dai dirigenti del Seminario Vescovile di Bisignano, una delle cattedre, che preferì all’insegnamento privato che gli consentiva di uscire dalla sua provincia per trasferirsi a Catanzaro, in casa dell’avvocato Ignazio Larussa, a formare i giovani rampolli di quella famiglia.
Nella capitale di Calabria Ulteriore, il Bugliari intrecciò molte relazioni con letterati di quella città ed avere così a sua disposizione le biblioteche private più rinomate per affinare sempre di più il suo grande bagaglio filosofico, letterale, e teologico.
Religioso per intimo convincimento, con tutto il rispetto e la dovuta obbedienza al capo della Chiesa, il Bugliari, non trascurò mai il percorso degli ideali, di libertà, indipendenza e unità dell’Italia.
Negli anni in cui risedette a Catanzaro, ebbe la possibilità di confrontarsi con eminenti magistrati presso la Corte di Appello, tra i quali il Procuratore Generale Pasquale Scura, arbëreshë di Vaccarizzo e da parte della madre di costui, Rosa Ferriolo concittadina del Bugliari.
Fu proprio negli ambiti della provincia catanzarese, colmi di ideologie unitarie che instaurò solidi rapporti all’interno del gruppo dei liberali mazziniani.
Con essi partecipò alla divulgazione del giornale politico della Giovane Italia e per distribuirlo lo spinse a esporsi a rischi e pericoli.
A Catanzaro la Polizia Borbone aveva sentore che i liberali si comunicassero tra loro le notizie del giornale di Mazzini; il Bugliari era tra quelli che erano attentamente sorvegliati, ma per l’autorità che casa Larussa rappresentava in quella città non ebbe mai problemi.
Nell’autunno 1847, dovendosi recare a S. Sofia, durante il tragitto, in diligenza, da Tiriolo a Cosenza il Bugliari ebbe modo di viaggiare assieme a un Padre Gesuita.
La conversazione tra i due religiosi divenne ben presto animata; dalla teologia alla filosofia approdarono nel campo minato della politica.
Il Bugliari, manifestò esplicitamente le sue opinioni come d’altronde era convinta tutta la generazione liberale del 1848 e si rivolse al Gesuita con espressioni incaute.
Quest’ultimo prese atto di tali dichiarazioni; a quel punto il Bugliari si rese conto di essersi esposto in maniera incauta e con la persona sbagliata.
Giunti a Cosenza intorno a mezzanotte, il prete sofiota, scese dalla diligenza e prese alloggio in un albergo nei pressi della stazione di posta.
Il mattino seguente fu svegliato della polizia, il Gesuita lo aveva denunciato, per questo motivo venne condotto in commissariato e dopo essere stato minutamente perquisito, lo sottoposero a interrogatorio.
Rilasciato, giunse a S. Sofia, dove gli pervenne dopo pochi giorni, la condanna senza essere sottoposto ad alcun giudizio: l’esilio con divieto d’insegnare per sei anni ad Arena nella Calabria ultra.
In questa cittadina dopo poco tempo si ammalò di gotta e solo grazie all’intercessione del Barone Satrino, del Larussa e del Marchese Gagliardi, tutte famiglie che dal Bugliari avevano grande stima del prelato sofiota, ebbe ridotta la pena.
In seguito nel 1858 si trasferì a S. Sofia, per educare i figli di Raffaella Fasanella, nipote del Vicario Generale della Diocesi di S Marco e Bisignano.
Nel novembre del 1867, abbandona l’insegnamento privato per dare idonea formazione culturale ai nipoti, a Cosenza, allievi del rinomato Liceo Telesio.
Nel mese di ottobre del 1860 lo Scura rivestiva la veste di Ministro di Grazia e Giustizia a Napoli sotto il Governo Pro-Dittatoriale di Garibaldi, avendo l’incarico di scegliere persone note, per coprire posti di fiducia, si ricordò del Bugliari, cui scrisse in Amantea per ben due volte, offrendo la carica di Prefetto della Biblioteca Nazionale di quella città, con lo stipendio di seimila lire annue.
Il Bugliari ringraziò, perché uomo contemplativo, religioso e maestro di scuola privata non ritenne appropriato insediare quel dicastero.
Nel 1870 i nipoti che erano stati posti alla sua guida si trasferirono a Napoli per completare gli studi presso quell’Università, con il Bugliari a giuda della loro formazione culturale.
Nell’autunno del 1873 e la primavera del 1874 la Santa Sede, per i tipi di Propaganda Fide, diede alle stampe in Roma i libri liturgici del rito greco cattolico, per distribuirle alle chiese di pertinenza arbëreshë in Calabria, Basilica, Abruzzo, Puglia, Sicilia oltre alle città di Livorno, Roma, e Venezia.
Giuseppe Bugliari, lontano da ogni celebrità, fedele guida dei suoi nipoti, celebrava messa nella Chiesa nella zona dei tribunali e ogni sera accanto ai nipoti, mentre loro studiavano, lui leggeva libri liturgici messi a sua disposizione dal Canonico Sovrintendente alle chiese delle colonie Italo – greche, Rosario Frungillo.
Nelle lunghe serate di studio dell’inverno tra il 1874-1875 Giuseppe Bugliari ebbe modo di confrontare le nuove edizioni messe in stampa con quelle antiche conservate nell’arcivescovato partenopeo.
La sua preparazione letterale e la perfetta conoscenza di quei temi gli consenti di rilevare due errori dogmatici incorsi nella nuova edizione di Roma.
La creazione di una quarta persona nella Santissima Trinità, era il grave errore rilevato dal Bugliari.
Preoccupato per la gravissima svista editoriale, dato alle stampe, scrisse due relazioni, dense di cognizioni teologiche e dogmatiche, permettendosi in conclusione di suggerire il ritiro dell’edizione diffusa e la ristampa di una nuova, idoneamente corretta.
Consigliato anche dal Mons. Frungillo, che pur riconoscendo il grave errore, non si ritenne idoneo a disquisire nei meriti messi in luce dal Bugliari, facendo inviare, a sua firma, le relazioni a Roma.
Nel gennaio del 1875 la Congregazione di Propaganda, appena ricevute le relazioni, richiese informazioni su chi fosse il prelato Giuseppe Bugliari da Santa Sofia, sia al Frungillo che alla Curia di S. Marco e Bisignano, senza che il sacerdote ne fosse informato.
Domenica primo agosto del 1875, il Bugliari nell’ora del vespro fu invitato dal Frungillo a recarsi nella Cattedrale partenopea, ricevuto dal superiore all’interno del sacro perimetro, gli venne comunicato che il Pontefice nel Concistoro privato, lo aveva nominato Vescovo greco del Collegio di S. Adriano in Calabria.
Il Bugliari, che non era abituato alla ribalta che gli avrebbe dato questa promozione fu convinto ad accettarla dal Frungillo, dal prof. Vincenzo d’Orsa, dall’avv. Luigi Masci e di tanti altri della colonia albanese residenti a Napoli, in quanto quella era un passo in avanti che faceva tutta la comunità albanofona e fu solo allora che accolse la nomina.
Nella prima decade di settembre 1875, il Papa Pio IX, nomina il Sacerdote di rito greco Giuseppe Bugliari Vescovo di Dansara in partibus infidelium e gli conferisce la facoltà di ordinare i sacerdoti di rito greco nelle province di Calabria e Basilicata.
Eseguite tutte le pratiche in data 15 aprile 1876 fu firmato il R. Decreto con il quale Bugliari era eletto Presidente del Collegio di S. Adriano e gli concedeva l’Exequatur come Vescovo Ordinante per gli Italo-Greci di Calabria e Basilicata con nota del 30 aprile 1876 n° 1645.
Mons. Bugliari, che in quei tempi risiedeva a Napoli, solo nell’agosto successivo raggiungere la sede dell’istituto, poiché dovette prima ristabilirsi per gravi problemi di salute.
L’elezione di Giuseppe Bugliari a Vescovo fu per le comunità albanofone negli ambiti di Calabria e Lucania, come una nota stonata.
Infatti egli era un prete vissuto prevalentemente fuori dai contesti minoritari per circa quattro decenni, in oltre era stato formato nel Seminario di Bisignano senza essere stato tra gli alunni al Collegio di Sant’Adriano, in poche parole era quasi uno sconosciuto.
Alla sorpresa iniziale, si diede subito avvio a quelle note vicende interrotte nel agosto del 1806, trame oscure che avevano accompagnato la storia del Collegio da quando venne trasferito a Sant’Adriano.
I residenti di quegli ambiti, si vedenro sfuggire la gestione dello svuotato scrigno e ipotizzarono che l’autore di ciò fosse il Frungillo da Napoli e si recarono presso di lui.
Proveniente dalla gjitonia di Moormorica, una dama istruita dai mandanti locali, abile esperta in questo tipo di mansioni, grazie anche alla sua avvenenza, descrisse il Bugliari come una persona di dubbia morale, riprendendo persino lo stesso Frungillo per aver fatto una scelta, che non avrebbe fatto il bene del Collegio, invitandolo a rivedere la sua decisione.
Monsignor Frungillo, che con le doti della nobile donna e le relazione che essa intrecciava aveva una lucida visione, poiché era già stato in quegli ambiti come ispettore, a quell’atteggiamento ambiguo, scortese e inconcepibile, s’indispose e con la sua proverbiale calma, moderazione, prudenza e riservatezza rispose: “Signora, i Vescovi li fa il Papa, e non io; le chiacchiere sono chiacchiere e i fatti sono fatti; Monsignor Bugliari è un distinto soggetto, di retta coscienza e di mente elevata, egli ha dato buone prove di sé; e farà il bene del Collegio; le nomine dei Vescovi non si possono revocare, mettete quindi l’animo in pace, e non se ne parli più”.
Il 3 agosto 1882 finalmente Mons. Bugliari s’insediò nel Collegio rivestendo la duplice funzione, vacante da troppo tempo, di Presidente e Vescovo Ordinante per gli Albanesi di Calabria e Basilicata.
Mons. Bugliari amministrò correttamente l’Istituto, mise il vitto in appalto e diede avvio alle fondamenta del pareggio del bilancio, dando avvio all’ispezione della 4a e 5a ginnasiale.
Questo compito fu affidato, addivenendo ad un lodevole risultato, al prof. Kerbacker titolare di sanscrito nell’Università di Napoli.
La gestione per la riforma del collegio era ormai avviata, furono risolti un numero rilevante di giudizi in via bonaria, che da molto tempo travagliava la vita del Collegio con gli appaltatori del dazio consumo, si mise in vendita con trattative private il legname della Grancia di Paola e il ricavato reinvestito favore dello Stabilimento sul Gran Libro del Debito Pubblico.
Anche se l’operazione non venne conclusa definitivamente, servivano i permessi sulla contabilità dello Stato, ed è per questo che il Bugliari si recato personalmente a Roma per esporre al Ministero della Giustizia la bontà delle scelte strategiche ed economiche.
In occasione di questa visita a Roma il Vescovo Bugliari venne ricevuto dal nuovo Papa Leone XIII che di lui conosceva la vicenda della correzione dei testi e per questo gli fece dono di un calice d’oro che fu messo a disposizione dei possedimenti Vescovili.
Nel 1885, peggiorate le sue condizioni fisiche, fece atto di grande coerenza e si recò a Roma per consultarsi direttamente con il Cardinal Prefetto di Propaganda e con il ministero riguardo al suo ritiro a vita privata oltre alle scelte da attivare per la nuova definizione dell’Istituto.
Il Cardinal Prefetto, riconosciuta la necessità del Bugliari, approvò la determinazione, autorizzandolo a concentrarsi col Governo come meglio stimare per la direzione del Collegio.
Dal ministero ebbe la seguente risposta: Lei, Monsignore, si è occupato delle cose di S. Adriano con molto zelo e intelletto, sarebbe dovuto essere nominato Vescovo quaranta anni addietro, per farlo rifiorire come lei ha ipotizzato; ora l’età e la cagionevole salute non le permettono di lavorare più adeguatamente.
Il progetto che tracciò scrupolosamente il Bugliari, in accordo con le istituzioni politiche e religiose romane, preferì delegarlo ad altri, poiché ormai aveva avviato le più idonee strategie, per le quali era stato designato alla guida dell’istituto, decisioni che in pochi anni sarebbero state poste in atto.
Monsignor Bugliari alla fine del 1885 ritornò a S. Sofia, abbracciato dalla quiete della vita di quel luogo ameno, senza tralasciare le sue mansioni spirituali, amministrando la cresima, ordinare i sacerdoti di rito greco e aggiornando scrupolosamente la sua corrispondenza vasta e complessa.
Affaticato dall’età, dalla gotta cronica, sottoforma cachettica e complicata a broncorrea, venne a mancare nell’abitazione a ridosso del Trapeso di S. Sofia d’Epiro la sera di sabato primo settembre 1888, la sua salma fu tumulata nella chiesa di S. Atanasio del paese natio.
Tratto da:
Biografia del Vescovo Giuseppe Bugliari;
Il Pontificio Collegio Corsini;
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Posted on 16 febbraio 2013 by admin
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Posted on 12 febbraio 2013 by admin
BOLOGNA (di Giuseppe Chimisso ) – Il Paese delle aquile ha da qualche tempo istituito ‘la Giornata della Memoria’ della Shoah e in questo si è distinto essendo il primo Paese, a prevalente cultura islamica, a farlo; questo è stato indubbiamente un atto di grande civiltà per la condivisione di una memoria comune europea, anche perché se l’Olocausto rappresenta un macigno nella coscienza di molti popoli europei, non figura fra le responsabilità storiche del popolo albanese, andremo poi a spiegare il perché.
A ben pensarci però, mi riesce difficile accettare l’idea che un giorno del calendario, il 27 gennaio, sia stato istituito, in molti Paesi occidentali, quale ‘Giornata della Memoria’ della sola Shoah e non del Genocidio in generale. Tanti altri popoli hanno subito eccidi inenarrabili nel cosiddetto secolo breve, come i Tutsi sterminati dagli Hutu in Ruanda, come il popolo cambogiano decimato dai Kmer rossi, come gli Armeni nei primi anni del secolo scorso, o come gli zingari e gli omosessuali sterminati dalla lucida follia nazista, che meriterebbero, tutti, di condividere nella memoria collettiva dell’umana vergogna, un posto accanto agli ebrei, visto anche che il nazismo aveva pronta una lista di popolazioni ritenute inadatte alla sopravvivenza…D’altro canto la recente guerra nei Balcani, con le sue pulizie etniche e stragi, per queste ultime basta un solo nome ‘Srebrenica’, ha materializzato l’incubo di un possibile ritorno a pratiche genocide, da molti rimosse.
Gabriele Nissim Presidente della Foresta dei Giusti dopo un lungo e paziente lavoro ha ottenuto dalla maggioranza del Parlamento Europeo che da questo anno il 6 Marzo divenga la ‘Giornata dei Giusti’. I Giusti sono coloro che per rispondere alla loro coscienza hanno rischiato in prima persona per proteggere e quindi salvare le vittime della campagna di sterminio nazista, sono coloro che hanno saputo dire no, al danaro, alla carriera ed all’ipocrisia, uomini e donne normali che nella loro normalità hanno compiuto gesta che non si possono dimenticare semplicemente perché hanno saputo ascoltare il loro cuore.
Durante il secondo conflitto mondiale in Europa, quando il rispetto della dignità della persona era ridotto a brandello umano, come edere sferzate dal vento i valori di solidarietà, di tolleranza e di umanità, resistevano tenacemente in Albania, malgrado l’imposizione, dopo l’8 settembre, anche di un governo filo tedesco. Questi valori permanevano perché la cultura antropologica e quindi i costumi del popolo albanese sono caratterizzati dalla ‘Besa‘, da quel concetto di onore, di giustizia umana e di tolleranza che porta molto spesso ad aiutare chi si trovi in difficoltà, al di la della condizione, della religione, della nazionalità o stato sociale. Proprio per questo decine di migliaia fra soldati italiani, profughi, sbandati, ebrei in fuga provenienti in gran parte dal resto d’Europa, sono stati protetti e nascosti; una storia straordinaria rimasta, oggi, nella memoria di tanti anziani, assai poco nota all’estero, perché composta di tante storie di normale ospitalità ed accoglienza praticate da semplici contadini e cittadini qualunque.
Un fenomeno, questo, che merita di essere riportato completamente alla luce della verità storica.
La ricerca storica non ha effettuato ancora profondi studi su questo fenomeno, anche perché con la dittatura di Enver Hoxha l’Albania non ha più avuto rapporti con il resto del mondo, e questa storia straordinaria di grande dignità è stata in parte coperta dall’oblio del tempo, però alcuni elementi precisi si possono avere anche oggi: dai rapporti epistolari fra gli alti gerarchi nazisti deputati alla soluzione finale, si evince che per la pulizia del territorio albanese (dagli ebrei) bisognava attendere perché non vi erano condizioni favorevoli, e non vi sarebbero mai state, infatti nessuna deportazione di ebrei si effettuò dall’Albania. Un’altra testimonianza certa è rappresentata, nel Museo dell’Olocausto di Washington, dall’elenco dei nomi di 2.264 ebrei salvati da cittadini albanesi sovente di cultura islamica.
Riporto le affermazioni di Michele Sarfatti, studioso della Shoah e di altre pagine buie della Storia, che in passato affermava: ‘se i Giusti sono l’orgoglio delle nazioni, il popolo albanese, mi azzardo a dire, anche se le ricerche e gli studi debbono proseguire, rappresenta il Popolo Giusto fra le nazioni d’Europa’. Questa affermazione rappresenta, forse, una inconsapevole parafrasi della piccola targa che vicino al Muro del Pianto in Gerusalemme ricorda un solo nome di un popolo europeo, degno di menzione, quello albanese.
Auspichiamo che, come per la ‘Giornata della Memoria’, le Autorità Statuali albanesi istituiscano il 6 Marzo ‘La Giornata dei Giusti’ per ricordare e tributare non solo un omaggio ai Giusti nel mondo, ma per onorare nel contempo le nobili ad alte tradizioni di tolleranza e civiltà espresse dal proprio popolo in diverse vicende e momenti storici.
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Posted on 25 gennaio 2013 by admin
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Posted on 19 gennaio 2013 by admin
NAPOLI (di Atanasio Pizzi) – Le famiglie allargate di origine albanofona, nel XV secolo, al pari di quelle più antiche del periodo greco-romano hanno partecipato al secolare funzionamento del sistema urbano dei piccoli borghi del Regno di Napoli, mantenendo nel tempo un evidente livello di solidità con le antiche origini, nonostante la costante esposizione alle costumanze meridionali italiche e di assoggettamento ai dominatori ispanici.
La partecipazione alla vita del regno di Napoli, capitale, da parte degli albanofoni avveniva attraverso un vincolo simbiotico, giacché i diretti referenti erano le tante famiglie patrizie, proprietarie dei possedimenti in cui essi ebbero l’opportunità di insediarsi, in quanto esuli esuli.
Gli arbëreshë organizzati in gruppi familiari allargati, si insediarono in aree ben definite dai regnanti, abbarbicandosi alle tradizioni e costumanze proprie, diventando in breve tempo importanti protagonisti dello sviluppo economico, urbanistico, poi anche letterario, del meridionale e in modo più pregnante nella provincia citeriore calabrese.
Traccia indelebile del proprio livello socioculturale e orgogliosi del linguaggio di appartenenza, edificarono manufatti, cappelle, chiese e contribuendo, inoltre, alla nascita di importanti modelli urbani, che non sono stati mai adeguatamente studiati, perché di architettura minore, perché di non facile lettura.
Di rilevante importanza, peraltro, fu il contributo degli albanofoni allo sviluppo dell’economia, specializzati nell’attività di rassodamento delle zone collinari intensive e quelle pianeggianti estensive.
Il latifondismo feudale, garantì nei secoli un micro-sistema economico locale basato su un’agricoltura sviluppata su varie attività di allevamento collegate.
Il luogo di governo e di strategie di queste attività è rappresentato dai così detti Sheshi o Seggi.
La nascita delle piccole pertinenze di governo albanofono, si ritiene essere alquanto antica, tale da risalire alle leggendarie fratrie urbane delle città greche, che componevano le fratrie per gli albanofoni manxane, cioè i corpi in cui era diviso il popolo.
Le fratrie corrispondevano a spazi in cui erano contenuti gli elementi caratterizzanti, come le Chiese e i piccoli Katoj icone ancora presenti nelle cittadine.
Secondo la tradizione urbanistica greca, inoltre, prevedeva un numero di queste aree d’incontro, presenti in tutte le colonie della Magna Grecia, pari a quattro da cui deriva il termine quartiere.
Una schiera di storici antagonista a questo teorema, di contro, sostiene che i presidi urbani all’origine fossero divisi in tre, piazze o strade, (Sheshi e Udha) e altre per traverso, dette Vichi ( Ruath).
Le fratrie o sheshi, erano dedicate ad un nume, dal quale prendevano il nome e ove era tradizione radunarsi per ricordare le gesta dei valorosi avi, nel caso degli albanofoni era il luogo deputato a tramandare la cultura le tradizioni e le antiche regole non scritte perché preferite nella forma orale, che per gli arbëri era ritenuta la più sicura giacché non consentiva interpretazioni personali.
La trasformazione delle fratrie in sheshi avvenne alla fine del XVI secolo, quando popolani ecclesiasti e gentiluomini cominciarono a erigere edifici e manufatti edilizi di espansione e della religione cristiana.
In seguito, appositi sedili di riunione o seduta per i cittadini, sono diventate vere e proprie cattedre a cielo aperto dai quali derivò l’uso della denominazione per indicare detti luoghi, Gjitonie.
Comunque, occorre mantenere la distinzione tra “Sheshi” e “Gjitonia”, in quanto: sia più generico il nome, di Gjitonia, che di Sheshi, considerandosi come specie al genere, onde si può dire è sheshi, dunque è gjitonia, perché è una parte di essa; dove convengono gli appartenenti al gruppo della famiglia allargata primitiva, che adesso dimorano nei pressi.
Citare un vecchio detto rende più chiara la dimensione ed il valore di questi piccoli anfratti di formazione culturale; dove arriva la vista e la voce: (ku shòh e ku gjegjen).
Posted on 15 gennaio 2013 by admin
NAPOLI (di Atanasio Pizzi) – Secondo l’antica tradizione della Chiesa di Costantinopoli, il 18 di gennaio si celebra il ritorno di Sant’Atanasio dall’esilio, quando alla morte dell’ariano Gregorio di Cappadocia il 21 ottobre 346, egli riuscì a tornare alla sua sede come patriarca di Alessandria.
La festa principale di Sant’Atanasio il Grande si celebra il 2 maggio, giorno del trasporto delle sue reliquie.
In questo stesso giorno ricorre anche l’Ufficio di San Cirillo perché, come Atanasio il Grande anche egli fu difensore del dogma ortodosso della Trinità consustanziale contro l’arianesimo, così Cirillo Grande, anch’egli arcivescovo di Alessandria (412-444) è stato il difensore del dogma dell’Incarnazione del Verbo nel grembo di Maria.
La vita di Sant’Atanasio il Grande (295-373) è legata al grande sforzo che la Chiesa dovette sostenere in quegli anni per definire l’accesa controversia sul dogma trinitario, alla cui difesa si dedicò con tutte le sue energie.
Ancora diacono accompagnò il suo vescovo Alessandro al primo Concilio di Nicea del 325, voluto dall’imperatore Costantino I per dirimere la questione sollevata dalla predicazione di Ario, anch’egli di Alessandria, circa la natura di Cristo che costituisce, tuttora la base dogmatica del Cristianesimo storico.
Nell’attuale Via Mezzocannone, sede storica della cittadella Universitaria partenopea, un tempo s’identificava come la regione degli Alessandrini.
Il Nilo, fiume importante e caratterizzante l’Egitto, da il nome al sedile che è segnato dal monumento rappresentato da una persona sdraiata sul fianco sinistro che si appoggia a un sasso dal quale sgorga l’acqua, sotto i piedi sporge un coccodrillo e bambini nudi a raffigurare il segno della fecondità del grande fiume.
Prima in quest’area sorgeva un tempio pagano, poi sostituito da una Chiesa intitolata a Sant’Atanasio di Alessandria rappresentando il luogo atto ad accogliere e riunire in preghiera i mercanti provenienti dall’Egitto.
La chiesa fu per lungo tempo meta di culto e riferimento cristiano di rilievo, tanto che appare trascritta nel volume delle Chiese maggiori Napoletane, ove si legge: “S’Athanasius Alexandrinus, in vico dicto Alessandrinorum in regione Nili”.
Oggi la città partenopea, in ricordo del santo conserva una statua nella Basilica di San Francesco di Paola in Piazza Plebiscito.
Nella regione del Nilo, Via degli Alessandrini oggi via Mezzocannone, è stata modificata in modo radicale dalla sua originaria configurazione urbana e conserva solo il monumento acefalo al quale è stata aggiunta una testa barbuta; conservando in questo modo il riferimento antico degli Alessandrini.
Posted on 04 gennaio 2013 by admin
BARILE (di Lorenzo Zolfo) – La comunità arbereshe di Barile, grazie al Comitato Sacra Rappresentazione della Via Crucis di Barile, presieduta da Angioletta D’Andrea, il 3 gennaio scorso è stato a Roma in piazza S.Pietro a visitare il Presepe (attorniato da splendidi plastici raffiguranti alcune scene della Cripta del Peccato originale di Matera) realizzato dall’artista materano, Franco Artese la mostra Basilicata: Tradizioni, Arte e Fede promossa dalla Regione Basilicata, dall’APT e dalla Soprintendenza per i Beni Storici Artistici ed Etnoantropologici della Basilicata, con il coordinamento della Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici della Basilicata. Questa mostra, inaugurata il 24 dicembre è visitabile fino al 3 febbraio presso il Braccio Carlo Magno, in Vaticano. Nella sezione espressioni della devozione popolare non poteva mancare Barile con la sua Sacra Rappresentazione con personaggi viventi del Venerdì Santo di Barile, la più antica della Basilicata e del Sud Italia. Le sue origini risalgono al 1600. Da allora, ogni anno, ininterrottamente, “Fede, Tradizione e Storia”, in quest’angolo di terra della Basilicata, per le viuzze del centro storico si tengono per mano il giorno del Venerdì Santo. Tra i personaggi in mostra a Roma, vi figura il Moro, è un personaggio pagano, creato dalla tradizione del borgo vulturino. Non ha origini precise. Forse simboleggia i Turchi, che nel 1400 minacciarono l’Albania, causando dal «Paese delle aquile» la fuga di molti cittadini. Gli albanesi fondarono diverse comunità nell’Italia meridionale. Compresa quella di Barile. L’11 maggio del 1983 il “Comitato Sacra Rappresentazione – Via Crucis di Barile” realizzò a Roma e nella Città del Vaticano, alla presenza di Giovanni Paolo II, l’inimitabile processione dei misteri, ricevendo la Benedizione. Ad accogliere il visitatore in questa mostra un maestoso Carro della Bruna, che si festeggia a Matera ai primi di luglio. Tra i tanti visitatori del 3 gennaio, si è notata la presenza di due anziane. Lucia Carriero di Matera, adesso abita a Roma e Maria Altavista di Brienza di circa 90 anni , ospite della signora materana.Alla vista di queste gigantografie dal titolo Terra d’incanto e di sacralità hanno riferito: “ Matera ed altre cittadine lucane finalmente finiscono di uscire dall’anonimato, contrariamente allo spirito meridionale. Finalmente anche i piccoli centri della Basilicata visti da tutto il mondo”. Che questa mostra sia visitata da centinaia e centinaia di persone ce lo conferma Martina Buoscio di Roma, una delle assistenti di questa mostra: “dal giorno di inaugurazione, 20 dicembre, entrano almeno 600 persone al giorno. Quelli che vi entrano, non è gente da passatempo, percorrono con attenzione ed ammirazione tutte le sale della mostra, come anche i video sono visti da tante persone”. Una famiglia di Brescia, pur non conoscendo la Basilicata, ha riferito: “chiunque visita questa mostra alla fine ha voglia di visitare questa regione”. Dispiace non aver visto gigantografie inerenti il Santuario di San Donato di Ripacandida gemellato con la Basilica Superiore di Assisi grazie ai suoi splendidi affreschi cinquecenteschi o i centri arbereshe con le loro tradizioni culturali! La giornata della comunità arbereshe di Barile è continuata per alcuni con un pranzo al ristorante”I Vascellari” gestito da un lucano, Ivo Bitetti di Paterno, in quel momento frequentato da Francesco Apolloni, sceneggiatore (distretto di polizia),regista (Un sueno a Mitad) e attore( in scusa ma ti voglio sposare) e Alessandro Haber, attore, regista e cantante, ed altri con la visita presso le Scuderie del Quirinale alla mostra di Vermeer, il secolo d’oro dell’arte olandese.
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Posted on 01 gennaio 2013 by admin
NAPOLI (di Atanasio Pizzi) – Terminate le ricorrenze dell’unità d’Italia e la proclamazione dell’Indipendenza d’Albania è auspicabile istituire un comitato multidisciplinare per promuovere, divulgare e rilanciare le reali eccellenze albanofone, affinchè la libera iniziativa, generalmente priva dei requisiti e i titoli idonei, possa continuare a diffondere un errato patrimonio.
Il fine che si dovrebbe perseguire è quello di dare una lettura storica vera a iniziare da chi realizzò il Gozzo Culturale del Collegio, nella vetusta residenza a San Benedetto, sino a giungere ai tenaci dotti che dal 1794 al 1815 furono capaci di trasformarla nella Solida Corazzata Culturale arbëreshë nel monastero di Sant’Adriano, oltre ai trascorsi che lo accompagnarono al suo inesorabile destino, una volta che vennero meno i solidi riferimenti.
La magia che avvolge gli albanesi del sud’Italia e particolarmente suggestiva, in fatti, essi sono l’unica isola albanofona che ha resistito nel tempo senza nulla subire nella propria essenza.
Le migrazioni che dai Balcani li portarono verso l’Italia sono molteplici e abbracciano un intervallo storico prolungato, essi infatti, giunsero in tutte le regioni d’Italia a cominciare dal veneto dove ancora oggi,Venezia conserva il rione dedicato agli Albanesi, così come in Liguria in Toscana e nella pianura padana, ove diversamente, restano solo flebili riscontri storici o qualche citazione.
È spontaneo chiedersi quali e quanti parametri contribuirono nel meridione d’Italia, per fare si che le parlate, i riti, le tradizioni si conservassero identicamente nell’espressione antica così come traghettata dai Balcani.
Aver lasciato alle cure delle municipalità il disegno di questo percorso non ha dato la idonea valenza storica agli arbëreshë italici; i cento cinquant’anni dell’unità d’Italia ne sono la conferma.
È cosa nota che per quanto riguarda il mezzogiorno, gli arbëri abbiamo partecipato al Rinascimento nell’Italia meridionale, al Regno di Carlo III, al Decennio francese, alle Rivoluzioni dal 1820 al 1860 e alle vicende politiche ed economiche sino ai nostri giorni.
Nulla però è stato fatto per produrre uno stabile percorso che potesse essere commemorato attraverso i canali dei media, ne sono stati messi in atto dibattiti cittadini utili a produrre una serie di conferenze popolari da stamparsi poi in volume.
Pubblicare un Albo illustrativo di quel periodo storico che dura più di cinque secoli in cui gli arbëreshë hanno fatto la storia del meridione Italiano e di Albania, doveva essere il primario impegno per dare l’ideale leggibilità ai tanti avvenimenti che hanno reso protagonisti, gli arbëreshë.
Non è stato mai immaginato, ad esempio, un monumento che segnasse i paesi d’arberia, incui l’emblema fossero i suoi uomini più eccelsi, magari, acquisendo le risorse necessarie nei fondi messi a disposizione della legge a tutela dei minoritari, che tutto producono meno che lasciare tracce indelebili.
Si dovrebbe operare dipartendo le pertinenze negli aspetti, linguistici, religiosi, architettonici, consuetudinari e canori; nominando una Commissione, composta da esperti, per compilare il progetto di un Albo con le relative linee guida secondo cui operare e ricercare.
In seguito presentarlo pubblicamente, traendo spunto dal frutto di ricerche, che si devono compiere e per quelle già avviate poterle terminare con le dovute cautele in tempi brevi, tenendo d’occhio le stampe di altri documenti grafici e figurativi di quei periodi, coinvolgendo anche coloro che di queste collaborazioni non fanno certo brillare l’arberia come patria della cooperazione, un tempo zoccolo duro della famiglia allargata albanofona.
Tutte le minoranze, anche le più piccole della nostra penisola, ci hanno preceduti in questo rinnovamento di criteri illustrativi solo la nostra minoranza, molto spesso per parlare e disquisire di essa si deve fare riferimento a viaggiatori o letterati alloctoni che dell’etnia arbë ignoravano ogni cosa; lasciando trasparire che le vicende storiche interessavano molto gli altri e meno a noi.
Non è il caso qui di esporre il valore storico delle pubblicazioni, che si sono prodotte, negli ultimi tempi, artisti improvvisati che lavorano di invenzione e fantasia, che troppo facilmente sostituiscono la storia reale con avvenimenti e favole.
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Posted on 26 dicembre 2012 by admin
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