Archive | In Evidenza

GJITONIA È UN COSTUME, IL VICINATO UN VESTITO “Ku Shohg e Ku Ndienj i veshësur Karnival”

GJITONIA È UN COSTUME, IL VICINATO UN VESTITO “Ku Shohg e Ku Ndienj i veshësur Karnival”

Posted on 24 gennaio 2016 by admin

GJITONIA È UN COSTUME, IL VICINATO UN VESTITONAPOLI (di Atanasio Pizzi) – Gli ambiti naturali paralleli e i sistemi urbani diffusi, ricercati prima per essere poi edificati dagli esuli albanesi nelle colline dell’Italia meridionale, sono espressione del Genius Loci Arbëreshë.

La disamina degli ambiti attraversati segnati e vissuti dagli arbëreshë, non deve prescindere da aspetti fondamentali, senza i quali non è possibile fornire alcun tipo di certezza .

Per questo è bene ribadire che, oltre ad avere titoli ed esperienza adeguata ventennale, bisogna essere nati all’interno dei paesi albanofoni, cresciuti avendo come idioma primario l’arbëreshë e conoscere il consuetudinario ad esso riferibile negli aspetti più intimi e radicali.

Altrimenti, il ruolo cui si può ambire diventa marginale o complementare, inteso come contributo di mera segreteria, atta a recuperare materiale di archivi o bibliografico, senza avere consapevolezza del ruolo o la collocazione dell’essenza fornita.

Un altro aspetto fondamentale è conoscere il concetto di agglomerati diffuso o policentrico e i due termini, che con molta facilità sono usati in maniera inappropriata: il significato di“rione” e di “quartiere”; essi appartengono a scenari distinti che identificano rispettivamente: ambiti urbani, quindi aree che assumono configurazione diversa nel corso del tempo, mentre il secondo indica generalmente presidi militari rigidi, con i confini ermeticamente definiti.

In funzione di ciò il “rione” rientra negli assetti urbanistici dei modelli urbani diffusi, mentre il “quartiere” è da ritenere estraneo ai sistemi storici del costruito arbëreshë.

Gli aspetti tecnici sono un elemento imprescindibile nell’analisi urbana dei componimenti nati a seguito delle migrazioni del XV secolo, allo scopo, occorre avere ben chiaro ogni piccolo aspetto che si va ad analizzare, evitando di associarli o ritenerli simili a quelli nati durante il medio evo o di altre epoche più remote.

Gli agglomerati urbani espressione del consuetudinario arbëreshë, realizzati sul territorio della provincia citeriore calabrese, sono depositati lungo una fascia, identificata come: “Isoglossa Sanseverinense”.

Essa è il risultato cui si è giunto sovrapponendo un insieme di layer cartografici, con l’ausilio di planimetrie storiche, uso del suolo, individuazione degli agglomerati urbani, percorsi viari, percorsi fluviali, traccia delle aree di salubrità ambientale.

Gli elementi opportunamente messi a confronto, consentono di ottenere certezze per le quali  i siti d’insediamento furono individuati seguendo un rigido disciplinare, il cui risultato garantiva parametri abitativi e strategici; connubio ideale tra uomo, ambiti naturali e clima.

Caratteristiche che si ritrovano anche nelle note storiche delle cartografie Aragonesi, risalenti al VX secolo, nelle quali esiste un’approfondita descrizione per la definizione degli ambiti costruiti e non costruiti.

Il tracciato ideale trova conferma nelle abitudini storiche delle genti che vissero le terre bagnate dall’Adriatico, identificate come preferite anche nel libro settimo di Aristotele.

Queste notizie sono molto utili per comprendere quali siano state le scelte per le quali i paesi di origine albanofona, hanno avuto modo per svilupparsi senza nulla rilevare dagli elevati contigui più antichi e abitati dagli indigeni.

Dopo un periodo di nomadismo protrattosi oltre mezzo secolo, (1470-1535) i miseri esuli, non avevano riconosciuto alcun privilegio, ma a seguito della stipula di regolari atti di sottomissione, s’impegnarono a ripopolare casali disabitati e rassodare i territori di pertinenza.

Gli atti sottoscritti erano fondamentali per i casati calabresi, i quali nelle vendite dei possedimenti per il valore aggiunto, garantito con la presenza degli esuli, faceva lievitare il costo, questo creò una grande speculazione, che i principi di Bisignano misero in atto visto l’indebitamento nei confronti di finanziatori ispanici, offrendo assieme al possedimento anche l’acquisizione de  l titolo nobiliare riferibile a quel territorio, il che rappresentava anche un lasciapassare per accedere a pieno titolo agli appuntamenti della corte Napoletana.

Tutto quanto anzidetto per i poveri esuli si traduceva nel essere sottoposti a insostenibili gabelle che dovevano sostenere la filiera burocratica dell’epoca rinunciando così a ogni benessere, pur se era riconosciuta la possibilità di edificare manufatti in muratura oltre ad avere i privilegi di trasferire alle discendenze quanto di materiale nella loro disposizione.

Il dato produce un duplice effetto all’interno degli ambiti urbani costituiti da albanofoni; da una parte una ribellione diffusa che porta alle regie diffide del 1562 e dall’altra la scissione dei gruppi familiari allargati i quali sono costretti a lavorare presso gli assegnatari di grossi possedimenti.

È così che si crea un nuovo modello sociale che segue due binari paralleli; uno che ricalca gli aspetti economici delle genti autoctone, e l’altro sociale che rimanere abbarbicato alle consuetudini, barricato e difeso dal modello linguistico, consuetudinario e religioso.

È in questo periodo che il modello sociale, importato dalla terra di origine, denominato, Ligjia assume una nuova connotazione, che impropriamente tradotto da esperimenti a dir poco approssimati, frettolosi, acerbi e discutibili, riassunsero nel Vicinato.

Esso impropriamente tradotto in Gjitonia, “dove vedo e dove sento”, assume un significato molto più ampio rispetto al semplice modello materico e di scambio, assegnatogli, in fatti (ku shohg e ku ndienj) se compreso in arbëreshë assume un significato a largo spettro, molto più intimo, perché avvolge dentro di se la magica espansione dei cinque sensi.

Non focalizzata la fondamentale definizione, si è giunto a una rappresentazione impropria del modello social/consuetudinario, legando la gjitonia a una strada o a una piazza, al pari del “vicinato” dei centri abitati indigeni, che in Calabria come in tutto il bacino del mediterraneo è largamente attuato, dalle classi meno abbienti.

La gjitonia assume una valenza sociale che se analizzata con le dovute conoscenze percorrendo un itinerario dissimile dal concetto di vicinato dei paesi indigeni, questi ultimi nascono come punti di unione eterogenea del territorio regionale, attraverso il quale, attivava protocolli di mutua convivenza e soccorso, uno stato di fatto, riconducibile a tutto il bacino del mediterraneo.

Per i profughi albanesi giunti nel meridione italiano dal 1471 al 1534, il processo segue un percorso molto diverso in quanto gli agglomerati urbani diffusi si attuano con l’insediamento di gruppo familiari allargati, fortemente coesi, quindi il processo attua secondo una percorso trasversale o addirittura contrario.

Per circa un secolo, gli albanofoni vivono e si confrontano con le realtà contigue sviluppando i loro centri secondo le città policentriche, avendo come unità abitativa le Kalive, a esclusione di una ristretta cerchia di addetti, perché proprietari di mulini e trappeti che vivevano un modello abitativo più evoluto e a due livelli, ma che avevano già perso il riferimento familiare allargato.

La caratteristica fondamentale degli agglomerati Albanofoni, diversamente da quelli indigeni mediterranei, si distingue proprio per la caratteristica ricerca parentale dall’antico nucleo della famiglia allargata, tendenzialmente accolgono le direttive dell’urbanistica grecanica, identificabile nell’allocare gli accessi delle abitazioni sulle strette vie secondarie, Ruhat e con molta diffidenza nel tardo periodo in quelle principali Uhdat.

Per quanto riferibile al concetto di famiglia, nel periodo che va dal XVII sino al XXI secolo, gli esuli lentamente si dissociano dal modello allargato, per quello urbano e in seguito, in tempi più recenti, vive il modello della multimedialità.

Commenti disabilitati su GJITONIA È UN COSTUME, IL VICINATO UN VESTITO “Ku Shohg e Ku Ndienj i veshësur Karnival”

CAMPIDOGLIO PREMIO “SALVA LA TUA LINGUA LOCALE”ALLA PRO-LOCO DEL CENTRO ARBERESHE DI BARILE (PZ).

CAMPIDOGLIO PREMIO “SALVA LA TUA LINGUA LOCALE”ALLA PRO-LOCO DEL CENTRO ARBERESHE DI BARILE (PZ).

Posted on 21 gennaio 2016 by admin

premio salva la tua linguaBARILE (di Lorenzo Zolfo) -Il 50° anniversario della Fondazione della Pro Loco di Barile, sarà festeggiato con un ambito premio, da ritirarein campidoglio per conto dall’UNPLI (Unione Nazionale delle pro-loco d’Italia), con menzione speciale, “Salva la tua lingua locale”.

Soddisfatti i circa 60 soci della pro-loco barilese:” per l’importante progetto messo in campo per la salvaguardia del patrimonio immateriale!”.

Questo premio verrà ritirato il prossimo 22 gennaio al Campidoglio in Roma, riconoscimento che fa onore al centro arbëreshë, noto la cultura e per lae caratteristiche uniche del suo vino, il centro dove si parla ancora l’albanese e vivono tanti emigrati dall’Albania, pienamente inseriti come tradizione vuole.

Un centro noto anche perche fu il teatro a cielo aperto utilizzato nel 1964 del noto regista Pier Paolo Pasolini per le riprese più salienti del suo film: “Il Vangelo secondo Matteo”.

Per questo ed altri aspetti caratteristici alcuni mesi or sono, la pro-loco  ha deciso di pubblicare una nuova Brochure Turistico-Culturale intitolata ” Barile, Storia, Tradizioni e Culture”.

Una raccolta di notizie della storia del paese in cui si evidenziano le note caratteristiche delle tradizioni etno-linguistiche arbëreshë, fondata da colonie di greci-albanesi giunte dal 1477 al 1675, immagini e trafiletti delle Chiese, dei Monumenti, la Fontana dello Steccato costruita nel 1713 da un nobile albanese, i Portali, i numerosi Palazzi, oltre alle tipiche Kalive oggi utilizzate come cantine dalle quali e per le quali si riesce a caratterizzare il buon vino Vulturese.

In oltre un’ampia pagina della Via Crucis del venerdì santo, la più antica manifestazione del Sud Italia, le cui origini risalgono al 1600.

Commenti disabilitati su CAMPIDOGLIO PREMIO “SALVA LA TUA LINGUA LOCALE”ALLA PRO-LOCO DEL CENTRO ARBERESHE DI BARILE (PZ).

KATUNDI (borghi, terre e casali)

KATUNDI (borghi, terre e casali)

Posted on 20 gennaio 2016 by admin

KatundiNAPOLI (di Atanasio Pizzi) – I centri abitati in origine identificati come borghi, terre e casali di pertinenza arbëreshë, innalzati dal XVI secolo, sono ritenuti simili al costruito storico di quelli più antichi dalle genti indigene.

Questo è un errore di valutazione cui bisogna dare una risposta esatta, in quanto, l’ERRORE DI ANALISI è un frutto acerbo prodotto da una pianta anomala, le cui radici non sono state innestate nelle fonti storiche riferite al territorio, al sociale, all’economia e alla politica strettamente riferita alle epoche d’insediamento e sviluppo degli esuli.

I percorsi qui di seguito trattati vogliono fornire una traccia degli agglomerati costruiti secondo uno “schema architettonico” riconducibile a uomini, luoghi e tempo.

La differenza, tra i diversi ambiti  è sostanziale, in quanto, pur se simili negli aspetti generali, hanno caratteristiche intrinseche, innestate nella consuetudine e nei riti della terra d’origine Balcana.

Le note più evidenti sono riassunte nelle direttive che trovano rilevante caratterizzazione negli aspetti idiomatici, sociali, nella religione, nella salubrità e la difesa territoriale, qui di seguito esposti per grandi linee:

  • Sociale: organizzati secondo un disciplinare consuetudinario tramandato oralmente, indispensabile a blindare la sua divulgazione  entro gli ambiti della Famiglia tradizionale Allargata, tale che, pur venendo a mancare uno dei cardini identificativi la comunità riusciva a sostenersi in maniera indelebile;
  • Religioso: ogni serie di gruppi familiari aveva come accompagnatore ecclesiasti, greco-ortodosso, che presumibilmente predispose le nuove dimore secondo l’antico rito della “Skita” (piccole celle nei pressi di un presidio religioso, a uso dei gruppi di preghiera).
  • Orografico: ricercavano ambiti paralleli o simili alla terra d’origine per attivare i protocolli di sostentamento preservando il territorio senza incutere ferite indelebili;
  • Salubrità: gli esuli avendo conoscenza dei pericoli provenienti delle zone paludose si stabilivano ben distanti altimetricamente, collocati al disopra di tale soglia limite.
  • Difesa: è noto che gli ambiti facilmente raggiungibili dalle costa erano territorio di cacca di pirati e banditi, i quali, consapevoli di non incontrare alcuna opposizione spaziavano in lungo e in largo le coste e le zone ad esse facile menta raggiungibili dello ioni motivo per cui i paesi albanofoni sono disposti secondo uno schema che garantiva di intervenire per troncare nel nascere ogni tipo di incursione.

Questi elementi caratterizzano in maniera indelebile il percorso urbanistico e architettonico dei centri edificati dagli albanofoni.

Essi rappresentano l’espressione materiale e immateriale di un modello consuetudinario che produsse il costruito urbano, schemi apparentemente articolati in cui trovano dimora, per una continuità storica senza eguali, riti e consuetudini difesi dall’inflessione idiomatica del gruppo familiare, che poi coralmente si ritrova al cospetto ideologico religioso.

Ragion per cui i paesi albanofoni si svilupparono esclusivamente nelle immediate vicinanze di chiese o conventi, allocati ad altitudini superiori a trecento metri sul livello del mare; miseri sistemi abitativi composti da tuguri e capanne, dei quali non rimanevano che pochi resti, in quanto, abbandonati dagli indigeni a causa di eventi tellurici, pestilenze e carestie .

Questo dato facilitò la messa in atto secondo le disposizioni sopra indicate dei modelli abitativi, perché i territori assegnati agli esuli, oltre il costruito dei plessi religiosi, non aveva alcun altro elevato murario se non i pochi resti consumati  dal tempo, di quelle che erano state le antiche dimore .

Certamente uno scenario desolante, ma nello stesso tempo un piano di insediamento svuotato da ogni regola, una tavolozza su cui incominciare ad incidere le esigenze organizzative degli esuli, perché, territori incontaminata dai segni di altre civiltà.

Sono  gli ambiti ad essere fondamentali, mentre il costruito (chiesa e le resti dei tuguri) segnano il luogo, riconosciuto dagli albanofoni come l’elemento orografico e climatico parallelo alla loro terra di origine, è per questo che essi hanno avuto modo di imprimere i tratti organizzativi dei sistemi urbani diffusi, dai quali e per i quali ha avuto inizio la scalata per l’integrazione di una civile convivenza ancora oggi stesa alla luce del sole.

Dopo un lungo periodo di confronto e scontro con le genti indigene, questa si attenua a iniziare dal 1562 data del primo richiamo ufficiale fatto agli esuli, per disposizioni regie, è per questo che si avvia un confronto costruttivo in cui la difesa dei beni materiali e quelli immateriale racchiusa nella consuetudine e nella religione divennero fondamentali per gli esuli albanofoni.

Le conseguenze derivanti da scelte politiche, oltre i terremoti, le pestilenze e le carestie che dal 1636 sino al 1783,  avviano una serie di eventi che  cambiano il volto ai piccoli centri albanofoni, che comunque proteggono riti consuetudine dietro il forte radicamento, all’idioma e alla religione greco bizantino.

Essi trovano altra linfa nel 1742 con la costituzione del plesso per la formazione civile e clericale in San Benedetto Ullano; istituzione fondamentale sia per gli albanofoni ma anche per l’intera provincia citeriore, giacché nel 1792, Pasquale Baffi riconoscendo il ruolo strategico che avrebbe assunto la cultura dell’itera provincia Citeriore, si adopero assieme a Mons. Francesco Bugliari, entrambi con l’appoggio della rinascita culturale europea, perché l’istituto fosse trasferito nel complesso monastico di Sant’Adriano, struttura economicamente più ricca che offriva nuovi presupposti a un gran numero di allievi di quella Provincia e non solo.

L’evoluzione edilizia ha quindi inizio con la trasformazione delle capanne o tuguri in piccole e più confortevoli Kalive, avendo come dato inconfutabile le capitolazioni che furono sottoscritte con i regnanti locali a iniziare dal 1535/40 con le quali erano poste nella disposizione degli esuli l’assegnare porzioni di terreno a singoli per produzioni mirate al mero sostentamento.

Il periodo su citato corrisponde però anche allo stesso in cui in maniera diffusa in tutto il meridione vede protagonisti i grandi mezzadri che ricevono dei principi e baroni la totalità del territorio ad esclusione di quelle ecclesiali.

Ciò sulla base del fatto che poi riscuotere tante piccole somme non era più conveniente da parte dei proprietari inviare continuamente gli esattori per tante piccole somme, (sono tanti i riferiti storici in cui si racconta di capanne bruciate o di genti che si rifugiava in zone impervie per non corrispondere esose gabelle), per questo motivo da allora rilevanti esenzioni sarebbero state corrisposte da persone referenziate secondo accordi che tenevano conto anche di eventuali annate poco produttive.

Questo è fondamentale per la riorganizzazione sociale degli albanofoni, i quali per il loro sostentamento erano inclini a operare esclusivamente all’interno del gruppo familiare allargato, in quanto rappresentava una vera e propria sorta di stato, che da ora in avanti non ha più l’esclusiva di una colonia territoriale su cui trarre profitto.

La necessità di svolgere attività, non avendo le garanzie per avere assegnato una considerevole porzione di territori con cui poter vivere, crea due eventi fondamentali, da una parte una ribellione diffusa che porta alle regie diffide del 1562 e dall’altra la scissione dei gruppi familiari allargati i quali sono costretti a lavorare presso gli assegnatari dei grandi possedimenti.

è così che si crea un nuovo modello sociale che segue due binari paralleli; uno che ricalca gli aspetti economici a quelli delle genti autoctone, e l’altro sociale che continua a rimanere abbarbicato alle consuetudini, ermeticamente difeso dagli aspetti linguisticonsuetidinari e religiosi.

È in questo periodo che il concetto di Ligjia assume una nuova connotazione che con metodi matematici, freddi e frettolosi, gli studiosi del priodo della guerra fredda riassunsero nella Gjitonia.

Gjitonia, dove vedo e dove sento, assume un significato molto più ampio rispetto al semplice significato che gli fu assegnato, in fatti (ku shohg e ku ndienj) se adeguatamente compreso dall’albanese assume un significato profondo e a largo spettro perché raccoglieva in sostanza l’espressione dei cinque sensi.

Per circa un secolo, gli albanofoni vivono e si confrontano con le realtà contigue sviluppando i loro centri prevalentemente con l’ausilio delle Kalive, escluso una ristretta cerchia di addetti vicini agli organi che gestiscono la produzione e la trasformazione dei prodotti agricoli, come proprietari di mulini e trappeti.

Questi pochi eletti utilizzano, diversamente dagli altri, un nuovo tipo edilizio che si distingue con il tipico ingresso ad arco regolare, posto a piano terra e che da accesso anche ai depositi di frumento e ogni bene derivante dalla produzione agricola, in oltre questo tipo di manufatto diversamente dagli altri, alloca le stanze da letto al primo livello, abbandonando in questo modo l’antico vivere a pian terreno, a contatto con le strette vie.

La configurazione del centro urbano in questo periodo ha una svolta decisiva infatti il sistema diffuso suddiviso in rioni cresce e produce un continuo del costruito secondo due caratteristiche principali.

Gli isolati (Manxsanet) che compongono i vari rioni, (identificabili come i luoghi dove s’insediarono gli originari gruppi familiari) si sviluppano secondo la configurazione orografica e per meno incutere ferite al territorio, secondo due tipologie riassunte in: articolato e lineare, le due parti danno così origine a un sistema complesso che oggi sono difficili da leggere, in quanto si presentano molto confusi, ma se analizzato con perizia, incrociando dati storici e gli elementi costruttivi, si addiviene a un percorso costruttivo semplice che segue comunque le antiche regole di quella consuetudine che non è stata mai dismessa.

Un dato fondamentale che segna appunto la svolta nella crescita edilizia dei piccoli centri, che comunque hanno gia una configurazione planimetrica ben precisa, sono le disposizioni regie del a seguito del terremoto del 1783 e quelle sucessive elaborate nel decennio francese.

L’economia in rilancio diede avvio ad un nuovo modello edilizio che in alcuni casi viene riedificano ex novo, inglobando le mura dell’originario insediamento, utilizzando modelli architettonici largamente in uso nel periodo post napoleonico; in molti casi non avendo i proprietari dei manufatti la forza economica sufficiente, ammodernarono gli immobili aggiungendo elementi architettonici caratteristici alle quinte edilizie e in altri casi inglobando i volumi dei profferli.

Commenti disabilitati su KATUNDI (borghi, terre e casali)

SAT MËN GJALOMI  (Per poter Vivere)

Protetto: SAT MËN GJALOMI (Per poter Vivere)

Posted on 03 gennaio 2016 by admin

Il contenuto è protetto da password. Per visualizzarlo inserisci di seguito la password:

Commenti disabilitati su Protetto: SAT MËN GJALOMI (Per poter Vivere)

LA KALJVA (Sat mos hàrromj  Kajveriçi)

Protetto: LA KALJVA (Sat mos hàrromj Kajveriçi)

Posted on 27 dicembre 2015 by admin

Il contenuto è protetto da password. Per visualizzarlo inserisci di seguito la password:

Commenti disabilitati su Protetto: LA KALJVA (Sat mos hàrromj Kajveriçi)

SINO A QUANDO IL MIO PAESE, NON È PIÙ

SINO A QUANDO IL MIO PAESE, NON È PIÙ

Posted on 19 dicembre 2015 by admin

SINO A QUANDO IL MIO PAESENAPOLI (di Atanasio Pizzi) – Non t’importa dove porta il tracciato della cinta Sanseverinense, fondamentale è seguirla per addentrarsi nel fantastico mondo consuetudinario di gesta, parole, canti e segni della cultura arbëri; indelebile modello tramandato oralmente senza soluzione di continuità sin dalla notte dei tempi.

L’arberia combatte, senza tregua, per la sua sopravvivenza, contro le avversità del tempo e degli uomini che per fare salvaguardia e conservazione si sono scambiati ruoli, arti, mestieri, professioni, divenendo fautori di tradizioni mai poste in essere; per questo è opportuno ricordare che:

Il mio paese mi apparteneva quando le stagioni avevano suoni, sapori, odori, colori, che riconoscevi; armonia di sensi che sbocciavano, s’intensificavano e poi scomparivano, per ripetersi identicamente gli anni a venire.

Il mio paese mi apparteneva quando il pane si produceva  in casa, durava un mese e si faceva con farina autoctona, acqua delle fontane naturali, sale di cava, il lievito, quello del XV secolo rigenerato secondo antichi dettami .

Il mio paese mi apparteneva quando le strade non erano utilizzate per collegare un posto con un altro, perché quel segno del tempo, rappresentava la fratellanza e il bene condiviso.

Il mio paese mi apparteneva quando i rapporti del vivere arbëreshë rendeva tutti protagonisti nell’indimenticabile palcoscenico del proprio rione.

Il mio paese mi apparteneva quando Francesco Fusaro, portava il lavoro a casa perché i suoi attrezzi (Ascia, Mazza e tre cunei di ferro) li poteva perdere recandosi a tagliare la legna a casa d’altri, per questo con la sua carriola, trasportava prima davanti a casa sua le grosse quantità di legna(30-60 quintali), per poi consegnarle  tagliate.

Il mio paese mi apparteneva quando fare fritùmetë era dovere di ogni gjiton e tutti erano fieri di partecipare per i dodici giorni che precedevano il Natale.

Il paese mi apparteneva quando alle ore 11.00 del Sabato Santo, alla fine della Santa Messa, le campane suonavano a festa e tutti si davano gli Auguri della Santa Pasqua.

Il paese incomincio a destarmi perplessità quando alle ore 11.00 del Sabato Santo di quest’anno, alla fine della Santa Messa, è stato vietato i suonare le campane a festa e dare gli Auguri della Santa Pasqua, perche si doveva cambiare la consuetudine da Greco Bizantina a Latina.

Il mio paese mi apparteneva quando le strade erano praticabili a piedi e a dorso di mulo e quelle più instabili erano lastricate con le pietre provenienti rigorosamente dalla cava thë pontìth i madh.

Il mio paese mi apparteneva quando i passi del vicino, ritmavano il tempo del mutuo soccorso, conferma vitale dell’antica ricerca parentale.

Il mio paese mi apparteneva quando lavina Shicshònes scorreva tutto l’anno.

Il mio paese mi apparteneva quando le notizie erano diffuse dalle campane; ore, festa, dipartita, allarme e inizio delle novene, battiti noti che riempivano le operose giornate.

Il mio paese mi apparteneva quando nelle sere d’estate i ragazzi riempivano di vita ogni anfratto del centro storico, mentre gli anziani guardavano divertiti.

Il mio paese mi apparteneva quando per pudore s’immaginava che Udha Kassanes, era la via che conduceva a Cassano Ionio.

Il mio paese mi apparteneva quando Tonino aspettava Marino thë Scigata, e lungo la mulattiera, ognuno su un lato della via in silenzio senza conversare si recava al Collegio, con la speranza che acculturarsi li avrebbe resi entrambi migliori.

Il mio paese mi apparteneva quando le donne con le tipiche vesti, nei giorni di festa, portavano in dote al Santo lo splendore delle stolit e Llambadhòr.

Il mio paese mi apparteneva quando B. Michele, B. Ottavio, F. Elio, C. Raffaele, P. Vito, B.S. Domenico, E. Francesco, L. Enzo, facevano le corse me Karozzet lungo Via Ascensione e la piazza, sin dove terminava la chiesa.

Il mio paese mi apparteneva quando i segni della storia su, udha madhe, udha stangoìt e udha ipeshpëk, scaturivano dalle radici e non da acculturazioni anomale e senza alcun senso storico.

Il mio paese mi apparteneva quando ad agosto, nei rioni si depositava la legna per i fuochi di settembre e senza soluzione di continuità il rito si prolungava per realizzare il falò alla vigilia di Natale con il fine di confermare, prima la vitalità , d’ambito e in seguito quella condivisa di tutto il paese.

Il mio paese cominciava a non appartenermi più da quando i fuochi si preparano poche ore prima dell’evento utilizzando autocarri e trattori che hanno tolto il senso e il sacrificio legato all’evento.

Il mio paese ha incominciato a non appartenermi più quando si è deciso di intraprendere la strada dell’accanimento terapeutico per l’affiancamento di una forma scritta, che ha spogliato il continuo storico di molte generazioni.

Il mio paese mi apparteneva quando le favole le raccontavano le nonne ai bambini; piccoli racconti dal grande valore.

Il mio paese incominciava a non appartenermi quando le favole le hanno raccontare i futurologi alle nonne; inutili dialoghi privi di radici.

Il mio paese mi ha dato l’impressione che mi appartenesse quel maggio dell’otta, ma è durato il tempo di un battito di ciglia, cosi anche in quello dell’anno scorso quando sollevando il coperchio della pentola dei contenuti culturali, sono rimasto oltremodo sconcertato.

Il mio paese iniziava a non appartenermi quando i costumi furono raccolti nelle “cristalliere pubbliche/private” e il vestire femminile è diventato farsa, utilizzato impropriamente per rievocare sin anche la leggenda della Nusia o per brillare nelle manifestazioni carnevalesche senza regola e significato.

Il mio paese mi piaceva quando la strada nuova è stata fatta lì dove esisteva un antico limite che divideva la parte alta dalla parte bassa del centro storico.

Il mio paese mi apparteneva quando gli abitanti nati a Ovest del paese, attingevano acqua a Moroìti e quelli nati a Est rigorosamente Stangùa.

Il paese era mio kur grath ndreqëjn murxjielin me bukë è pështier, për burrëth çë veijn e shërbejn asximes.

Il mio paese mi apparteneva quando i ragazzi per stare vicini alle loro ragazze andavano di notte nelle colonie estive creando sconcerto e panico, nonostante depositassero corone di ginestra fiorita.

Il mio paese mi apparteneva quando a Natale il presepe in chiesa lo facevano i giovani del paese e l’albero lo donavamo gli orerai dell’Opera Sila, ed era un pino naturale.

Il mio paese mi apparteneva quando mia nonna per non dirmi di no! Mi diceva :egni, biri nàneh.

Il mio paese mi apparteneva quando nella gjitonia riecheggiavano le frasi: Ndriculà Adolì ke brumìn?; – Menat veme vjelmì!; – Më ndihën sàt scalismi?; – Menatë vemi e cuermi!; – Mhë ndighen sat mbiedmi a tà di ulignë?; – Thë sola gnë lagane!; – Menatë hesht hënëz?; Më huen gnë kravele?

Il mio paese mi apparteneva quando luce, spazio e ordine, erano le cose di cui gli abitanti avevano bisogno, nella stessa misura cin cui avevano necessità di acqua, di pane e di una casa utile a vitalizzare gjitonin.

Il mio paese mi apparteneva quando il cantare era la musica dell’anima e del cuore, così come la vecchia consuetudine albanofona aveva insegnato.

Il mio paese mi apparteneva quando il palcoscenico del canto serviva per alimentare amore e lavoro, con le storiche melodie, diversamente a quanto avviene oggi con le mille comparse che del canto non conoscono il valore, il significato e la pronuncia, divenendo per questo apparati stridenti.

Il mio paese non mi apparteneva più quando a emulare la trafila tradizionale del matrimonio, sono stati i discendenti dalla famiglia che ha menomato una delle più belle storie d’amore arbëreshë e la ragazza rimasta in vita per tutta la sua misera esistenza era abitudine salutare: “malin tim më vran!”.

Il mio paese mi apparteneva quando la vestizione delle preziose stolit e Llambadhòr avveniva secondo le rigide regole conservate da Maria Teresa Baffa, Adelina Basile, Marchianò Rosaria, Erminia Miracco, Carmela Monaco.

Il mio paese non incominciava ad appartenermi quando la regia delle preziose stolit e Llambadhòr grazie alle disposizioni della politica fu affidata alla percezione delle tarantellare silanitide.

Il mio paese non incominciava ad appartenermi quando si è dato spazio alle “tarantellare silanitide” e ai fautori delle “cristalliere pubbliche/private” invece di realizzare una solida e capace mnemoteca molto più utile a conservare la naturale capacità arbëreshë.

Il mio paese mi apparteneva quando la vendemmia terminava con i muli caricati con le capienti sporte.

Il mio paese non mi apparteneva quando la vendemmia era l’occasione per invadere il paese con trattori, e motozappe trainanti i rimorchi che lasciavano segni sui paramenti delle strette vie.

Il mio paese mi apparteneva quando Vicèu Abramith faceva l’orto Moròith nelle terre dei Caccuri/Baffa e l’acqua che non veniva attinta, dalla storica fontana, era raccolta nella Gibia.

Il mio paese mi apparteneva mentre si riempiva la Gibia, per irrigare l’orto e il vecchio saggio realizzava nella storica capanna gli zoccoli per i più poveri del paese, proto industria delle calzature ortopediche.

Il mio paese incominciava a non appartenermi quando per dar spazio all’inventiva, figlia dei fumi del vino, si ammodernò la storica fontana, posta ai piedi thë campanarith, dismettendo sin anche il magico canale di displuvio che sfidava i principi della gravità.

Il mio paese incominciava a non appartenermi quando lungo l’antico percorso “thë stangoit”, costruirono un manufatto abitativo, espressione del più anemico periodo politico.

Il mio paese non mi apparteneva quando udha e ree partiva dalla piazza e arrivava sino al casale dei Fasanella.

Il mio paese non mi apparteneva più quando gervaso per costruire il sentiero veicolare, dovettero piegarsi al volere dell’ignoranza, della prepotenza e della bestialità.

Il mio paese mi apparteneva quando per costruire la strada nuova, (udha e ree) che attraversava il centro storico, furono realizzate le colmate: del vallone del duca, Ka Prati, Thë arra dhën Vicenzith; thë Shèshi Kuaravògnen, thë Màxhit, Për para Marìtit, thë tedera nenit, Prapa Klishësh, thë gabina e thë kstegnet i paulitanit; divenuti i luoghi moderni di aggregazione.

Il mio paese mi apparteneva quando per molti decenni le autovetture arrivate in piazza terminavano la loro corsa.

Il mio paese incominciava a non appartenermi quando con lentezza, prima Klishësha e Vieter, poi Trapësa, Udha Epiro con Udha Shicshònes, ha aperto il transito ai veicoli, violentando oltremodo vecchie consuetudini.

Il mio paese incominciò a preoccuparmi quando all’università dicevano che la gjitonia era funzione dell’uscio e dei paramenti murari o di aspetti ancor più elementari.

Il mio paese incominciò a preoccuparmi quando la sua storia fu scritta immaginando l’agglomerato e i suoi abitanti estranei al territorio e i contesti geografici di macroarea, estrapolandoli e per questo immaginando scenari secondo il principio dello studio ideale.

Il mio paese incominciava a non appartenermi quando la demenziale preparazione storica degli amministratori ha sventrato fischien thë sheshit i caravonit.

Il mio paese incominciava a non appartenermi quando il compianto Padre Giovanni C., ammalato, lasciò lo svolgimento della processione del 2 maggio, che divenne evento da stadio.

Il mio paese incominciava a non appartenermi quando le manomissioni hanno dato avvio alla dismissione di un antico modo di vivere, per consentire alle autovetture di riverberare all’interno del centro storico, sonorità che coprivano le antiche gesta, fatte, di lavoro, voci e canti.

Il mio paese incominciava a non appartenermi quando è stato beolizzato, coprendo e devastando le funzioni e i significati storico religiosi di ogni strada, ogni angolo e ogni piazza.

Il mio paese incominciava a non appartenermi quando morto zio Kosta si è dato avvio alla realizzazione della villa comunale, la centrale telefonica e una strada inutile, violentando il senso di quel luogo ameno.

Il mio paese mi ha sempre destato perplessità giacché un numero considerevole delle eccellenze o martiri che qui ebbero i natali, rimangono addirittura sconosciuti, mentre i pochi a cui è stata dedicata una strada o un struttura pubblica non hanno coerenza con le dinamiche che li ha resi famosi.

Il mio paese mi lascia ulteriormente perplesso per i tanti edifici che hanno partecipato alla storia dell’unità d’Itali sono rimasti nelle disponibilità e nella direttive di ignari privati.

Il mio paese incominciava a non appartenermi quando via lëmi letirith e stata veicolata per coprire il valore storico a una delle più belle gjitonie della consuetudine arbëreshë.

Il mio paese incominciava a non appartenermi quando con un colpo di spregiudicatezza politica sono state rimosse tutte le fontane del paese.

Il mio paese incominciava a non appartenermi quando Thë Trapësa hanno unificato le quinte, replicando una metrica priva delle più elementari proporzioni architettoniche e il bel palazzo che fu la scuola media, Pasquale Baffi, fatto di mattoni  venne intonacato, in tempi recenti persino replicato l’errore.

Il mio paese incominciava a non appartenermi quando l’amministrazione ha ritenuto inutile mantenere vivo il senso di kroin e Stàngoitë.

Il mio paese incominciava a non appartenermi quando l’economia nelle disposizioni degli anemici della cultura, ha deturpato la splendida orografia dell’area a nord della storica Pedalati, dove è stata emulata Bisignano.

Il mio paese mi apparteneva quando nei pomeriggi di primavera le donne si riunivano per cucire rammendare, fare lavori a maglia, esaltando o minimizzando le gesta e gli atteggiamenti di amici e nemici.

Il mio paese non mi appartiene più da quando sono, stati tolti gli antichi riferimenti dell’infanzia, offeso oltremodo la ricerca, la professione e la voglia di tracciare la storia del paese.

Il mio paese non sarà più, in quanto, sono stati distrutti i cardini cui collegare i filamenti per riprendere la trama negata che giorno dopo giorno è stata disfatta.

Tuttavia avverto che il compito più utile da portare a termine sia di radunare il gregge all’interno dell’ovile, per chiudere l’uscio e custodire sotto lo stesso tetto quanto ancora nelle nostre disposizioni e che un domani, speriamo prossimo, vedrà protagonisti coloro che meglio di noi, sapranno vitalizzare e dare senso alle rigide metriche della magica consuetudine arbëreshë.

Commenti disabilitati su SINO A QUANDO IL MIO PAESE, NON È PIÙ

PREMIO “HORA VERES”

PREMIO “HORA VERES”

Posted on 12 dicembre 2015 by admin

Premio Ora VeresBARILE (di Lorenzo Zolfo) – La Pro Loco Barile (presieduta da Daniele Bracuto)  con la collaborazione di Convento Wine Space, FIDAS Barile, Comune di Barile e Basilicata in Arte, ha organizzano la seconda edizione “HORA VERES “( I colori della vita, la precedente edizione ha visto la partecipazione di 40 artisti, provenienti da ogni parte d’Italia), mostra Internazionale di Pittura finalizzato alla promozione dell’arte contemporanea e alla valorizzazione dell’arte pittorica che si terrà presso il Convento Wine Space il  13 dicembre con la presentazione di tutte le opere pittoriche giunte nel centro arbereshe ( che rimarranno esposte fino al giorno della premiazione). Il 27 dicembre 2015 la premiazione. Il tema al quale attenersi per questa seconda edizione 2015 è:  “L’Acqua, il vino e l’olio

La commissione, che giudicherà le migliori opere, scelte dalla Pro Loco Barile, sarà composta da un massimo di 9 componenti n.1 Critico d’arte, n.1 Presidente proloco, n.1 Presidente FIDAS BARILE, n.1 Sindaco o Assessore del Comune di Barile, n.1 Architetto, n.1 Presidente Associazione BASILICATA IN ARTE, n.1 Prof. D’arte, n.1 Curatrice arte, n. 1 Presidente di giuria, con il compito di esaminare le opere e proclamare con motivazione di merito il 1° 2° 3° classificato. I premi saranno cosi ripartiti: 1° premio € 500,00 al netto della ritenuta + trofeo 2° premio € 300,00 al netto della ritenuta + trofeo;  3° premio € 200,00 al netto della ritenuta + trofeo; 4° menzione speciale da parte della giuria; 5° menzione speciale da parte della giuria; 6° premio FIDAS BARILE  – targa; 7° premio FACEBOOK – targa; 8° premio giuria popolare – targa. A tutti gli Artisti verrà consegnato un Attestato di partecipazione.

Commenti disabilitati su PREMIO “HORA VERES”

UN PROGETTO PER LA SOSTENIBILITÀ DELL’ARBERIA

Protetto: UN PROGETTO PER LA SOSTENIBILITÀ DELL’ARBERIA

Posted on 09 dicembre 2015 by admin

Il contenuto è protetto da password. Per visualizzarlo inserisci di seguito la password:

Commenti disabilitati su Protetto: UN PROGETTO PER LA SOSTENIBILITÀ DELL’ARBERIA

CANTI POPOLARI ALBANESI

Protetto: CANTI POPOLARI ALBANESI

Posted on 16 novembre 2015 by admin

Il contenuto è protetto da password. Per visualizzarlo inserisci di seguito la password:

Commenti disabilitati su Protetto: CANTI POPOLARI ALBANESI

IL COSTUME ARBËRESHË SPEZZANESE  - “Llambadhor”

Protetto: IL COSTUME ARBËRESHË SPEZZANESE – “Llambadhor”

Posted on 08 novembre 2015 by admin

Il contenuto è protetto da password. Per visualizzarlo inserisci di seguito la password:

Commenti disabilitati su Protetto: IL COSTUME ARBËRESHË SPEZZANESE – “Llambadhor”

Advertise Here
Advertise Here

NOI ARBËRESHË




ARBËRESHË E FACEBOOK




ARBËRESHË




error: Content is protected !!