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LA PARABOLA DEI MINORITARI

LA PARABOLA DEI MINORITARI

Posted on 24 giugno 2016 by admin

La parabolaNAPOLI (di Atanasio Pizzi) – La parabola differisce da una favola giacché espone i fatti con la personificazione dei fenomeni; essa rappresenta la similitudine più vicina alla realtà e restituisce le proporzioni di un racconto, li rende comprensibili verosimilmente in forme religiose o morali.

La forza della parabola è contenuta nella comparazione, senza il bisogno di ricercare l’identificazione dei singoli personaggi o delle azioni svolte.

Una parabola può raffigurare gli avvenimenti che vedono protagonisti amministratori, antiquari e venditori di fumo degli ambiti detti “minori”.

Il cui comportamenti, nella gestione di quanto posto nelle loro disponibilità, appare priva di ogni logica e coerenza storica, per questo si collocano ben distanti dal seminato del garbo e della modestia culturale.

Ai gestori inconsapevoli, è riconosciuto il ruolo di “galline dalle uova d’oro”, i quali vengono sistematicamente circuiti da rampanti cultori, che forti della posizione all’interno di benemeriti dipartimenti universitari, si recano nei piccoli “furiki”, millantando oro, incenso e mirra.

Il risultato di questo modus operandi, ormai consolidato, mira prevalentemente a elementi indefinibili d’ignota fattura, il cui culmine è rappresentato, sotto la luce dei riflettori dei mas media locali, dalla fatidica inaugurazione seguita dal convegno, il cui indicatori fondamentali sono due: il primo è l’apparire; il secondo, rendere poco chiari i contenuti del realizzato, per questo, l’uovo è ingurgitato dal cultore; il contenitore e il fumo resta alle galline.

Solo il gesto del taglio assume un ruolo, chiaramente negativo, perché innesca l’interruzione tra identità del passato, quella del presente e depauperano le radici per il futuro identitario.

L’atteggiamento ormai consolidato non rappresenta altro che la svolta secondo cui, la ricerca assume concetti a spettro molto prossimo al ieri; elementi di un passato troppo recente che non ha alcuna attinenza con le origini storiche di macroaree, è per questo intorbidisce rarissimi lasciti culturali per le nuove generazioni, compromettendo irreparabilmente la logica di rilancio degli stessi ambiti.

Un vecchio saggio del mio paese che abitualmente, nei lunghi pomeriggi di calura estiva, sedeva nei gradini del profferlo “the sheschi lemë letirit”, diceva: prima di manomettere ogni cosa, per renderla duratura, devi avere consapevolezza di come funziona e a cosa serve, altrimenti finirai per danneggiarla o dismetterla per sempre.

Contrariamente a questo principio, la gallina dalle uova d’oro, affidandosi a queste sterili o grigie figure, che pongono in essere incompiute vergognose, tutti avvolti dal mantello dalla funzione che rivestono,  di cui non hanno alcuna capacità operativa o di attuazione.

La storia dovrebbe dare certezze sulle vicende che hanno caratterizzato questi ambiti, i quali hanno impregnato il costruito, ma l’incapacità interpretativa e l’inadeguatezza culturale, non oso dire altro, di questi avvoltoi della finanza, ha reso tante volte labile la solidità degli ambiti, per cui occorre porre nelle disponibilità di gruppi multidisciplinari quanto ancora riesce a rimanere abbarbicato nei centri di questi borghi, altrimenti non ci sarà più tempo per un domani.

Bisogna intervenire subito, ricollocando ambiti, tradizioni e tutto ciò che caratterizza il territorio dei minori, da quelli indigeni seguendo una logica geografica che distingue almeno i meridiani dai paralleli.

Tutto quanto sul dato che anche se un centro è qualificato minore, i piccoli frammenti della sua storia gravitati entro il suo perimetro territoriale fanno parte di aree ben più ampie e rappresentano le  cerniere che sostengono avvenimenti, consuetudini, idioma e religioni della storia del globo.

Molti errori sono stati compiuti e per certi versi sostenuti nell’inconsapevolezza generale, ma una volta individuati e come incongruenze storiche, devono essere banditi pubblicamente come malevole, senza dover ricorrere alla consolidata nenia: che tanto nulla è certo e qualsiasi cosa è sempre idonea per attirare attenzione e sollevare l’indice di ascolto.

Questi non sono gli ambiti della televisione, questi sono gli ambiti della storia e chiedono rispetto, così come in chiesa un comportamento va mantenuto, anche gli ambiti minoritari devono essere considerati come un luogo sacro e nei luoghi sacri bestemmiare è un grave peccato.

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SANTA SOFIA D'EPIRO 2 MAGGIO 2016

Protetto: SANTA SOFIA D’EPIRO 2 MAGGIO 2016

Posted on 07 maggio 2016 by admin

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VALJE

VALJE

Posted on 10 aprile 2016 by admin

SAMSUNG CAMERA PICTURESNAPOLI (di Atanasio Pizzi) – Allocate nei versanti Est e Ovest della Manfriana, nel parco del Pollino, Civita e Frascineto sono due paesi Italo albanesi noti rispettivamente per la Gola del Raganello – Golja thë Raganelith e la Timpa del Corvo – Tìmpen e Korbith; all’interno della Regione Storica, tutelano il valore delle Valje, che, il martedì dopo Pasqua, riecheggia tra gli splendidi scenari del Dolce Dorme calabrese.

I due borghi seguono un percorso di tutela secondo punti di vista antitetici; mentre il primo accoglie nuove sonorità e associa alla metrica del canto suoni e vestizioni sempre più moderne; Frascineto rimane abbarbicata alla vecchia tradizione consuetudinaria del canto e delle caratterizzazioni tipiche.

Gli ambiti del “Dolce Dorme”, per i dissimili aspetti culturali, dinamici e statici, assumono, durante l’appuntamento secolare del Martedì di Pasqua, il ruolo di “Purpignera delle Essenze Culturali Arbëreshë” (vurvìnereth e arbëreshë) per questo è doveroso valorizzarle e mantenerle partecipate al fine di non perdere l’originario senso delle Valje.

E. Fortino, negli anni sessanta del secolo scorso, partecipando ad un convegno, sottolineava che: gli arbëreshë si rinnovano ogni volta che due o più  si incontrano e parlano conversando in lingua madre; Civita e Frascineto, rappresentano i palcoscenici naturali dove questa magia si ripete ogni anno e porta un gran numero di albanofoni a rendersi partecipi dell’evento, che con canti è danze confermano l’appartenenza ad un etnia, che sente e vede la fratellanza ritrovata.

Il motivo sociale che ha generato la manifestazione, in ottica odierna, appare irrazionale e a dir poco paradossale, ma se analizzato secondo le dinamiche dei trascorsi arbëreshë, si aprono scenari che trovano logica collocazione negli ambiti di minoranza.

La testimonianza che lega le Valje al secolare appuntamento di Pasqua nel Pollino è resa nel paragrafo “Etimologia” del 1835 da S. Basta, il dottore nel suo trattato relativo a Civita riporta quanto segue: “É tradizione tra noi, che i nostri padri avessero edificato i primi abituri in due punti diversi, e la vetustà delle case esistenti nel Piano del Magazzino, e nell’ estremità superiore del paese ci persuadono a fa­vore. Esistevano in questi due piccoli villaggi due diver­se famiglie condizionate, ambedue di cognome Bellusci; dominate dallo spirito di ostilità, 1′ influenza che esse estendevano sui loro coabitanti manteneva una viva dissensione, e coglievano l’occasione nei tre giorni di Pa­squa, quando solennizzavano i Piekisit (vecchi), per ve­nire a dei fatti d’arme, e sfogare i loro rancori; le cau­se produttrici dell’odio nei Bellusci, che indussero la co­lonia a scindersi in due partiti, hanno dovuto essere va­levoli anche a dare una diversa denominazione ai rioni che abitavano”.

Dei tanti capitoli che raccontano lo stato del paese arbëreshe è interessante ciò che viene riportato nella disamina dei “ Tre giorni di Pasqua”: “nel dopo pranzo di Domenica, Lunedì e Martedì a Pasqua varie compagnie di giovani, hanno consuetudine di riunirsi e vestiti alla foggia orientale, con turbanti in testa, con spade levate in alto e con bandiere, “vanno cantando i fatti guerreschi del Eroe di Croia”.

Le donne nella ridda unite cantando ancor esse canzoni nazionali ed accrescono al diletto ai curiosi dei paesi vicini, che corrono a divertirsi.

È tradizione esser state stabilite queste feste per avere nel decorso degli anni una memoria del natio paese,che imperiose circostanze costrinsero ad abbandonare.

Ci duole non poter qui riportare questi canti popolari che il tempo vorace a ridotto in frazioni sconnesse, e siamo assai dolenti di veder cadere in disuso le patrie costumanze.

Le manifestazioni folk in senso generale hanno perso la direzione per il quale furono realizzate, non conservano più l’originaria radice che affondava sia nel canto che nelle melodie ad esse direttamente connesse”.

I due trafiletti storici  riportati da S. Basta con garbo, sottolineano due momenti distinti della storia arbëreshë, il primo legato a esigenze territoriali dei primi insediamenti, mentre il secondo rappresenta la riproposizione della tradizione arbëreshë e confermare la metrica con la quale si tramanda il disciplinare linguistico – consuetudinario.

Si può, quindi, presupporre senza commettere errori, che l’origine nasca con il racconto etimologico e poi con il tempo, l’esigenza di tramandare le proprie origini all’interno della Regione Storica, abbia assunto valore folcloristico nei Tre giorni di Pasqua, in essi sonno riversati gli ingredienti tipici della minoranza, il canto, i costumi, la consuetudine, il valore della fratellanza, la confermare l’integrazione tra arbëreshë e indigeni, anche se già dal XV secolo, la nota del Basta termina con il rammarico di un processo che iniziava deteriorasi.

E. Koliqi, attribuisce alle Valje un ruolo identificativo per tutti i discendenti della diaspora balcanica ben preciso, in quanto, i canti tradizionali, narrano la lotta, contro il turco invasore, il dolore per quanto dovettero abbandonare la terra natia, i solidi sentimenti di fratellanza, l’ammira­zione per i guerrieri che li difesero, in altre parole la storia degli arbëreshë.

Non avendo avuto agli Albanesi una letteratura scritta, per le vicende storiche ben note, favole, racconti, proverbi, detti e canti in specie, divennero l’unico mezzo per tramandare i sentimenti, gli affetti e la storia.

Gli arbëreshë amano i canti, perché rappresentano l’enciclo­pedia storica, morale, civile, patriottica, che conserva attraverso la metrica del canto, nella radice originaria.

Sono canti amorosi, nuziali, natalizi, funebri, morali, giocosi, satirici, storici, che, diffusi per i monti e per i piani, nei villaggi e nelle città, tra i pa­stori e tra i contadini, tra i notabili, tra i vassalli e formano il solido collante per il popolo arberi.

Esse rappresentano la parola d’ordine che unisce tutte le comunità albanofone sparse in ogni dove, il codice in terra straniera, in mezzo al caos etnico, al cosmopolitismo assimilatore delle immense metropoli, sono i ricordi, le memorie storiche degli Albanesi, che per mezzo di questi canti mantengono, vivo il culto della lingua e delle costumanze della patria d’origine, vivendo da secoli tra popolazioni diverse, essendo gli arbëreshë cittadini della seconda patria.

Dalla nascita alla dipartita di ogni arbëreshë, esiste una svariatissima quantità di manifestazioni canore, i conviti sono allietati dagli improvvisatori di versi, le feste nuziali si svolgono anche oggi, benché meno che nel passato, come un rito dalle fasi regolate da rigorose e minuziose tradizioni, con canti per ognuna di queste fasi.

Il canto delle Valje a tre momenti salienti e si svolgono così come segue: il coro delle donne viene avanti, cantando il primo distico; quando questo è terminato, si fa avanti il coro degli uomini, cantando il secondo e alla fine un intreccio di tonalità mette in relazione i due gruppi che vogliono suggellare la fratellanza dei generi.

Essendo l’arbëreshë, una lingua che si tramanda oralmente, il canto rappresenta la metrica attraverso cui si lascia in eredità il senso linguistico.

Esse divengono il momento di massima espressione linguistica e consuetudinaria, matrimoni, lavoro nei campi, spogliatura dei prodotti agrari, le festività, i momenti di giubilo e quelli del trapasso sono Valje.

I temi spaziano in ogni ambito della vita e delle vicende che hanno visto gli arbër protagonisti, esse sono un espressione identitaria senza luogo e ne tempo in quanto esprimono le vicende passate presenti e future.

Lo stesso Vincenzo Torelli nella sua carriera giornalistica fu ispirato da questo modo di portare notizie e creò una sorta di battaglia tra il canto e la musica, ritenendo che la vera espressione artistica era racchiusa nel canto mentre la musica era solo un accessorio.

Del canto albanofono riferisce anche Pasquale Scura, ponendo in evidenza le doti canore innate degli arbëreshë, le innumerevoli cantate che caratterizzavano i luoghi d’insediamento e le attività agricole, silvicole e pastorali, canto come forza trainante con la quale s’immaginava il ritorno nella terra d’origine rispettosi delle antiche tradizioni.

Questi sono i motivi per i quali le valje, divengono, il momento della massima espressione culturale albanofona, Civita e Frascineto rappresentano le pietre miliari dell’arberia,segnano il percorso antico, tuttavia negli ambiti Civitioti confermano quella preoccupazione di Serafino Basta che oggi è diventata certezza.

Sonorità canore accompagnano o addirittura sostituite con suoni di tarante, tarantelle e suoni Albanesi acquisiti dopo la diaspora dagli invasori turchi, cadenze e movenze per le quali gli arbëreshë preferirono l’esilio, oggi si confondono in quella manifestazione che dovrebbe darci la certezza della nostra identità, la stessa che i nostri avi proteggevano a costo di sacrifici e patimenti.

A Frascineto la manifestazione nasce sicuramente da simili avvenimenti, ma rispettosa dell’antico senso socio culturale e rimane radicata ancora alla valorizzazione della metrica del canto, anche se poi le cantate non hanno una logica per la quale si possa giungere a una caratterizzazione dell’evento, per cui le esternazioni e le motivazioni, rese ai midia non chiariscono in maniera univoca il senso storico linguistico delle Valje, vurvìnari arbëreshëvet.

Mi rivolgo ai Sindaci e agli Organizzatori di queste fondamentali manifestazioni, ricordando che il tema delle Valja, si rispetta  con i costumi della modestia  culturale, questo è il modo  di fare  tutela per la comunità albanofona intera; valorizzare le Valje diffondendo essenze originarie, fa si che tornando a casa, siamo  sicuri di aver fatto un ottimo lavoro, altrimenti si promuovono, sotto mentite spoglie, le tarantelle e i balli turchi, che sono altra cosa.

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PALAZZO BUGLIARI DREGLIÀRTË

PALAZZO BUGLIARI DREGLIÀRTË

Posted on 26 marzo 2016 by admin

Palazzo Bugliari dregliarthNAPOLI (di Atanasio Pizzi) – La fragilità morale e le ristrettezze culturali producono molti più danni di un cataclisma, specie nelle persone che vivono convinti che appartengono alla categoria che dice di far parte di quanti del rispetto per ogni cosa ne fanno una ragione di vita.

Ostinarsi a presentare come malevolo l’emblema della propria crescita morale e spirituale, perché non si ha la forza di accettare ‘l’identità,  che ognuno di noi non sceglie è un atteggiamento che esula da ogni di buon senso di convivnaza.

Trovare le parole adeguate per esprimere il disappunto verso tanta ostinazione non è impresa semplice, alla luce del fatto che i segni e le gesta del passato, tuttavia hanno contribuito a rendere più solida la nostra morale e prepararci ad affrontare la vita.

È chiaro che non siamo tutti uguali, per questo, chi ha preso consapevolezza che il rispetto esiste continua l’ascesa culturale, mentre chi ha vissuto solo per coprire il proprio disagio, vive la vita sotto forma di commedia.

Alla luce di quanto premesso Palazzo Bugliari il teatro di una moltitudine di vicende sofiote, la storia del manufatto ha origini antiche e la sua tipologia appartiene al periodo rinascimentale del meridione italiano, l’essenza riporta alla cultura bizantina, araba, angioina, sino al predominio aragonese, con innesti della consuetudine arbër.

Il Regno delle due Sicilie, la Provenza e Valenza, descrive un perimetro, entro la quale furono stipulati intrecci artistici ancora oggi misteriosi, sensi comuni in cui le linee di scambio sono difficili da estrapolare, rimangono la constatazione di un’osmosi regolare, sequenze evolutive dei modelli che gli albanofoni fanno propri per miscelarli ad antichissime consuetudini.

Questi non sono altro che gli ingredienti fondamentali che divengono architetture all’interno della regione storica arbëreshë, elementi fondamentali per lo studio di questi ambiti.

La notorietà del riferimento culturale per tutti gli albanofoni: il Collegio Italo-Greco di Sant’Adriano; si deve alla caparbietà del Vescovo/Presidente Monsignor Francesco Bugliari da Santa Sofia d’Epiro.

Egli nacque il 14 ottobre 1742 da Giovanni e Maria Baffi, nel rione detto Bulëravetë; e il complesso fa parte di quelle architetture degli enunciati in premessa.

La residenza dei Bugliari, realizzata lungo una degli assi viari a monte dell’agglomerato urbano, collegava il rione lëmi litirith e la conca naturale detta kasàna.

L’insula, (manxsana), si presenta ad andamento pressoché lineare secondo l’asse Nord-Su e si compone di quattro moduli abitativi simili, eccetto l’ultimo quello allocato più a oriente che crea un insenatura al continuo edilizio, secondo la direttrice Ovest-Est.

L’edificio ingloba al suo interno alcune di quelle murature che i Bugliari come altre famiglie realizzarono secondo le disposizioni dei principi di Bisignano dal 1535, per questo conserva le diverse stratificazioni che si sono succedute nelle varie epoche

Gli elevati, nonostante abbiano subito le vicissitudini del tempo e degli eventi tellurici, che hanno penalizzato tutti gli edifici della provincia citeriore, conservava i suoi tratti distributivi, strutturali e materici, inalterati sino all’inizio di questo secolo.

L’edificio è composto dal piano terra, un primo e la copertura, l’elevato altimetricamente misura pressappoco sette metri alla gronda ed è così distribuito: a piano terra i magazzini e le cantine; al primo livello è allocata l’abitazione che per le caratteristiche geomorfologiche del fronte naturale in calcare su cui e incastonato, dispone il piano alla quota di campagna nella parte rivolta a sud.

Il prospetto principale esposto a nord, si presentava con una sequenza di porte gemellate a finestre, fortemente modificate.

L’accoppiamento dei due infissi conferma l’esistenza dell’originario modulo abitativo Cati o Kaljvej, aggregati in questo rione secondo la disposizione lineare.

Tra il seicento e il settecento gli antichi moduli a piano terra, furono adeguati secondo le tipologie correnti, in altre parole, costruire un nuovo piano sulle murature di piano terra, ottenendo così il piano superiore abitabile, quest’ultimo per essere temperato aveva aperture modeste e l’intero volume era sovrastata da uno spazio tecnico canizàri (Kanicari) a cui erano apposte delle apertura di circa 50 x 30 cm. di forma quadrangolare posizionati nell’estensione muraria che va dall’architrave delle finestre e la base del cornicione aggettante del tetto.

Al primo livello le finestre degli ambienti residenziali erano contraddistinte da una cornice di intonaco pigmentato più chiaro, al di sopra delle quali erano collocate le aperture per la ventilazione del sottotetto; per coronare lo sviluppo altimetrico dell’intero prospetto era disposto un cornicione realizzato con doppio ordine aggettante di coppi murati, da cui partiva la lamina di coppi della copertura verso il colmo dell’edificio.

Gli infissi di fattura diversa distinguevano la distribuzione interna, stanze da letto con gli scuri e la cucina con vetrate poco più grandi.

L’antico asse viario nel corso dei secoli è stato inglobato nella trama edilizia del rione, in corrispondenza del palazzo è diventato disponibilità di esclusiva dei Bugliari.

La necessità di interrompere l’antico percorso nasce da fatto che il lavinaio principale del paese, non faceva apparire dignitosa dell’abitazione.

Al fine di fornire al palazzo un’area  di pertinenza fu elevata una murazione a confine della proprietà, lungo la direzione del lavinaio che nei fatti rese la strada di esclusiva dei nobili di sopra, schermando definitivamente quel nero corso d’acqua .

A seguito della legge n. 130 del 2 agosto 1806 che dismetteva i privilegi dei Principi e la conseguente acquisizione delle terre da parte dei cittadini, le disponibilità economiche dei Bugliari migliorarono.

Il manufatto cresce di pari passo con le vicende sofiote, assumendo anche la funzione di abbaco edilizio albanofono in quanto la configurazione rimane immutata e leggibile per diversi secoli, ma a seguito dei molteplici “ammodernamenti di ponente” ; oggi rimane solamente il luogo delle vicende storiche svolte, transitate e scritte durante la partecipazione di Santa Sofia d’Epiro, alla causa dell’unità d’Italia.

Il paese comunque conserva altri due riferimenti edilizi, che rimangono i luoghi che detengono i trascorsi della storia, i patimenti e le evoluzioni architettoniche diffuse, non solo degli albanofoni, ma di tutta la valle del Crati.

Quando nel 1792 a Mons. Francesco Bugliari gli fu affidato la reggenza del Collegio Corsini, questi instaurò un filo diretto con il suo parente e compaesano Pasquale Baffi, affinché l’istituzione clericale e laica non andasse dismessa, come lentamente stava avvenendo prima del suo avvento nella sua sede originaria di san Benedetto Ullano, per questo ritenne che si potesse giungere a un grande progetto di rinascita culturale se l’istituto assumeva un’autonomia economica e territoriale più dignitosa, in cui coltivare modelli di pensiero politico e sociale, in linea con i tempi anche per il martoriato territorio della Calabria Citeriore.

Pasquale Baffi a Napoli era conosciuto e rispettato per l’alto valore culturale in tutti gli ambienti, politico sociali che contano nella capitale partenopea, per questo quanto rese noto che la Calabria citeriore rimaneva un ‘sola senza un riferimento culturale forte, riuscì a inserire il plesso tra i presidi per la divulgazione del nuovo pensiero di rinnovamento.

Quante riflessioni e pensieri propositivi ha ispirato il vescovo nei periodi di calura trovava refrigerio all’ombra delle acacie che adombrava il percorso di quell’antica strada di costa.

Quante lettere sono state ricevute o inviate nella consapevolezza di essere in un posto sicuro, da cui non sarebbe trapelato nulla e tutte le strategie di rilancio culturale oltre alle misure sarebbero andate a buon fine.

Palazzo Bugliaro è stato la culla strategica per il “rilancio culturale durevole d’arberia”, furono preventivati gli aspetti positivi e quelli malevoli come poi avvenne nell’agosto del 1806; per questo sin dal 1792 i vescovi prescelti per il progetto culturale furono due prescelti Bugliari e Bellusci, quest’ultimo non a caso fu inviato a Napoli per prendere consapevolezza di quando doveva prodursi per portare a buon fine il progetto di acculturazione territoriale.

È proprio in questa fase della storia italiana, che l’insula identificata come “le case dei Bugliaro di sopra” entra a pieno titolo come riferimento logistico di quel pensiero che contribuì a unificare l’Italia.

Strategie pianificate e poi realizzate attraverso il filo diretto Napoli, Santa Sofia d’Epiro, immaginare che è stato realizzato senza colpo ferire il trasloco di una istituzione; il Collegio Corsini da San Benedetto Ullano venne collocato a Sant’Adriano senza alcun intralcio burocratico se si esclude la sterile rivolta della annoiata comunità Ullanese, che venne raggirata con la favola di un escursione botanica nella direzione del fiume Crati.

Anche in questo frangente palazzo Bugliari divenne un riferimento storico, vero è che, sia i carri per il trasporto delle suppellettili e gli asini da soma per le persone più anziane, partirono da questa dimora per volontà del dott. V. Bugliari fratello del prelato, è sempre la stessa dimora ad accogliere tutti gli studenti e il corpo docente del plesso, i quali, dopo essersi rifocillati per una notte, poterono proseguire il giorno dopo verso il nuovo insediamento per far crescere i semi della cultura arbëreshë.

Il tempo conserva il valore storico dei manufatti; muri, infissi, solai, pavimenti, intonaci e persino il suo assetto distributivo, per questo gli edifici rappresentano la culla in cui e stata conservata una delle più belle pagine di cui ogni arbëreshë va orgoglioso, e fiero, tuttavia gli uomini con le loro inconsapevolezze manomettono quanto il tempo è riuscito a tramandare, a noi che crediamo in un futuro migliore rimane solo il compito di realizzare la metrica di tutela.

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I PATTI DELLA SCRITTURA, LA VOLUBILITÀ CONSUETUDINARIA E LE CERTEZZE ARCHITETTONICHE

Protetto: I PATTI DELLA SCRITTURA, LA VOLUBILITÀ CONSUETUDINARIA E LE CERTEZZE ARCHITETTONICHE

Posted on 22 marzo 2016 by admin

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ARBERESHE NON SI DIVENTA PERCHÉ SI NASCE CON VOCAZIONE

ARBERESHE NON SI DIVENTA PERCHÉ SI NASCE CON VOCAZIONE

Posted on 27 febbraio 2016 by admin

ARBERESHE NON SI DIVENTANAPOLI di Atanasio Pizzi) – La divulgazione delle tradizioni all’interno delle piccole comunità minoritarie per opera di fautori di una consuetudine fuori da ogni regola, è emersa a seguito di una serratissima ricerca d’ambito, dalla quale è stata confermata una preoccupante e paradossale realtà.

Se prima del sondaggio la mia era sola, sensazione, scaturita dal modo in cui è stato trattato il patrimonio edilizio; gli appunti ricavati a seguito di conversazioni realizzate telefonicamente, ha confermato la mia perplessità, in quanto una consistente fetta del patrimonio consuetudinario è andato disperso, stravolto e manomesso.

Il demerito di quanto dismesso, va attribuito a una categoria ben individuata e che si potrebbero appellare come quelli di “un discorso nuovo” (gnë discùrs i rì) i cui promotori, ambivano a rinnovare consuetudini che ritenevano vetuste e fuori dal tempo, in quanto, motivo di vergogna e disagio, verso le realtà contigue.

È chiaro che quanto detto si è tradotto in una rivoluzione generale, le cui origini vanno ricercate negli enunciati politici del Grande Vecchio, che a quei tempi era difficile da comprendere perché  poneva a dimora il seme del processo economico culturale, oggi identificato come globalizzazione.

Grazie a Dio però, qualche decennio prima una schiera di “saggi cultori”, racchiusi all’interno del quadrangolare dei paesi di Civita, San Benedetto Ullano, Santa Sofia d’Epiro e San Giorgio Albanese, attuava certezze e solidità storiche che avrebbero assorbito l’inappropriato scontro generazionale; ad esempio a Santa Sofia d’Epiro, negli anni cinquanta del secolo scorso “zoti Giovanni Capparelli” coadiuvato da un manipolo di uomini, pose in essere una delle pagine più rappresentative a tutela dell’arbëreshë e venne valorizzato il processo di integrazione degli esuli albanesi,  racchiusa nella “ Primavera Italo Albanese”.

La folta schiera di Sofioti così come altri gruppi dei paesi che ricadevano all’interno del quadrangolare su citato, furono i precursori di una stagione che condusse i minoritari a primeggiare all’interno della R.s.A. sia per gli ideali divulgati, sia per le consuetudini valorizzate, realizzando quel focolare d’ideali attorno al quale ogni buon arbhëre si rigenera, quando sta per smarrire la retta via.

Essi i “saggi cultori” istituirono tavoli di dialogo e ambiti di aggregazione, oltre a divulgare notizie attraverso riviste annuali, distribuite alle famiglie del paese e spedita a tutte quelle emigrate sparse nel resto del mondo; salvarono testi antichi, costituirono comitati, gruppi musicali, folcloristici e dettero avvio ad una serie di attività fondamentali per rendere coese tutte le comunità dei piccoli centri albanofoni; diedero forza, alla cadenza idiomatica, ai canti, ai costumi e i balli; illuminarono le feste e regolarizzarono lo svolgersi di tutti gli avvenimenti con i quali la consuetudine di radice albanofona si riconosce sin anche negli ambiti locali.

Una vera e propria corazzata di temerari, grazie ai quali agli arbëreshë, fu consentito di affermare la propria identità; il tempo purtroppo e gli eventi inesorabili hanno fatto si che quando uno di loro veniva a mancare, c’era sempre lo lëtir di turno, che lo sostituiva; vero è che a cavallo degli anni settanta e ottanta del secolo scorso, rimasero solo in pochi audaci per guidare le nuove generazione di radice lëtir, fu così che dopo poco meno di un decennio l’oceano di consuetudini riferibili alla minoranza albanofona si prosciugo ed è divenuta una pozzanghera alloctona.

A questo punto essendo il patrimonio nelle disposizioni di coloro che si vergognavano di esprimersi in arbëreshë, per meglio dire quelli di “un discorso nuovo”, questi ultimi aprirono scenari nuovi e paradossali attraverso i quali volevano riferire della storia arbëreshë alla luce di espedienti estrapolati nelle frasi o nelle pieghe canore di Bruce Springsteen, Bob Marley, Mino Reitano, ecc., ecc., ecc., immaginando gli ambiti albanofoni del primo periodo fatti di capanne, di pelle di bufalo, come riferito nei racconti di Tex Willer e di altri miti della fumettistica più alla moda; come se ciò non bastasse si identificavano anche come fiori del deserto(??); quest’ultimo sostantivo in particolare, oltretutto!!!, con gli ambiti albanofoni, storicamente riconosciuti come esclusivamente collinari, non ha nulla a che fare, se non fosse per il deserto identitario da loro stessi posto in essere.

Ritengo che produrre focolai cosi alloctoni e fuori da ogni regola, all’interno delle macroaree minoritarie, mi astengo dal definirli, per evitare di essere sgarbato o addirittura volgare; una miscellanea disomogenea fuori da ogni buon senso, che ha innescato il disfacimento della particolarissima identità culturale; fu così che ebbe inizio il fenomeno di confusione in cui vivono le generazioni che seguirono.

Il Discorso Nuovo, non aveva e non a tutt’oggi, alcun modo di confrontarsi con una comunità, radicata nel territorio e il valore delle cose arbëreshë, non sono mai state nelle loro disponibilità culturale, pur se hanno inconsapevolmente prodotto elementi di sintesi, una sorta di ibrido che chiamerei Lëtarbhër .

Questi erano e sono i figli di una radice anomala, che ritenevano, i trascorsi arbëreshë, prima durante e dopo il ventennio del secolo scorso, non degni di nota, ma non solo, in quanto gli attuatori di un discorso nuovo, non avevano nella loro disponibilità culturale, annotazioni d’arberia, le eccellenze e quanto venne offerto dai grandi intellettuali per renderla viva, partecipata e nota nello scenario culturale europeo.

La messa in atto delle leggi a tutela delle minoranze nel 1999 ha innescato una corsa per produrre la migliore idea, per rendere visibili e speciali gli ambiti di minoranza, ma purtroppo con i presupposti di quanto esposto prima, le gjitonie dei paesi albanofoni divennero peggiori del paese dei balocchi, in cui i figli di un discorso nuovo hanno attuato modelli per i quali la genuinità minoritaria è peggiore di una farsa di carnevale.

Gli ambiti sono stati letteralmente stravolti, le gjitonie distrutte, le strade tappezzate, le quinte edilizie pigmentate, le chiese gestite secondo gusti imprenditoriali, le proloco dissociate tra di loro e promuovono attività alloctone, ma quello che più duole è il senso della consuetudine arbëreshë che ormai parla in Lëtarbhër, con qualche frammento di inflessione anglosassone.

Ambiti minoritari che si muovono senza una regola, promuovendo storie e consuetudini che non hanno nulla a che fare con i trascorsi degli ambiti arbëreshë, ogni evento, sia esso civile, religioso o che abbia la cadenza della vecchia consuetudine, è rievocata attingendo frammenti da ambiti fuori da ogni regola dei minoritari.

Volendo fare alcune citazioni tra le più inadatte valgano:

  • l’ottava di Sant’Atanasio, “La Primavera Italo Albanese” scambiata per“Valle Çivitjote”;
  • i percorsi religiosi modificato a misura delle famiglie dei Comitati Festa;
  • la toponomastica storica stravolta;
  • gli ambiti della chiesa matrice caratterizzati a misura e i gusti dei lëtiri;
  • l’ospitalità turistica che non parla arbëreshë;
  • le fontane storiche poste nelle disponibilità dei privati, come quelle dell’acquedotto pubblico.

Tutto per colpa di una “società conservatrice del consuetudinario minoritario” che pur avendo nelle disponibilità cinque secoli di trascorsi storici, rimane immobile e non è capace di scuotere gli ambiti istituzionali, amministratori, dirigenziali, scolastici, clericali al fine di mutare il senso di questa disfatta.

Per questo chiedo alla “società conservatrice del consuetudinario arbëreshë” di attivarsi per far emergere in maniera coerente le caratteristiche del costruito storico, gli ambiti sociali, l’idioma e tutto il patrimonio tangibile e intangibile, per avere i riferimenti giusti in cui identificarci, e sentirci arbëreshë a casa propria secondo gli originari protocolli: tutto cio per due motivi fondamentali:

  • il rispetto che noi arbëreshë nutriamo verso questi luoghi;
  • preparare il vecchio patrimonio per le generazioni future, cosi come i nostri genitori lo posero nelle nostre disposizioni.

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GRECI - KATUND “Apertura di un nuovo spazio di fatto”

GRECI – KATUND “Apertura di un nuovo spazio di fatto”

Posted on 21 febbraio 2016 by admin

GreciKatundiNapoli (di Atanasio Pizzi) -La cittadina di Greci insiste all’interno di una macroarea albanofona, extra-regionale e rimane l’unico agglomerato a conservare idioma e consuetudinari arbëreshë; essa per questo va tutelata in modo mirato, affinché il tesoro, materiale e immateriale ancora vivo all’interno del suo centro storico non vada smarrito nell’inconsapevolezza generale.

I sistemi urbani diffusi, e le Kaljve che hanno dato origine al centro storico, rappresentano l’humus ideale, dove il GENIUS LOCI ALBANESE ha avuto modo di mettere a dimora i semi dove oggi sono radicati i beni tangibili e intangibili della minoranza denominata Arbëreshë.

Diviene quindi prioritario tutelare non solo l’idioma, la consuetudine e la religione dei minoritari ma anche i luoghi fisici costruiti e gli spazzi vissuti dal popolo albanofono, sulla base di quanto asseriva Servio, il quale sottolineava che: “ nessun luogo è senza un genio ” (nullus locus sine genio).

Nonostante il legislatore europeo e quello italiano, in seguito, tuteli questi ambiti con: LA CARTAEUROPEA; seguita dalla CONVENZIONE-QUADRO la LEGGE n. 482 del 15 Dicembre 1999, il DECRETO del Presidente Repubblica n. 345 Art. 1 Comma 3 e la LEGGE REGIONALE N.14 DEL 20 DICEMBRE 2004, che tutela specificamente la minoranza alloglotta e il patrimonio storico, culturale e folkloristico della comunità albanofona del Comune di Greci in provincia di Avellino, oggi si predilige l’aspetto linguistico consuetudinario non operando alcuna tutela verso i contenitori fisici costruiti o vissuti dagli arbëreshë.

A tal proposito, per evitare atteggiamenti impropri e giungere alla confusione storica, realizzata negli ambiti emergenziali delle pendici del monte Mula, si vogliono portare alla luce punti fondamentali, per la ricerca di microarea; condotta tracciando un itinerario riferibile alla storia albanofona legato direttamente alle specifiche territoriali, a iniziare dalla suddivisione della “Regione storica Arbëreshë” in macroaree omogenee che qui di seguito si riporta quella riferita a Greci: CAMPANIA: Provincia di Avellino e Benevento; (Macroarea del Bovino).

Esaminando nello specifico caso, glia ambiti dell’abitato di Greci, l’unico paese che ancora oggi parla l’arbëreshë orgogliosa delle proprie origini, con l’apertura del nuovo stato di fatto, è stato assemblato digitalmente un modello, G.I.S. (Geographic Information System), attraverso il quale sono state individuati dati interessanti come: la linea per la difesa lungo la quale furono disposti gli agglomerati diffusi albanofoni.

Il dato si ritrova sovrapponendo Layer diversi delle planimetrie del 1546-1623, e le odierne ortofoto; se a queste si sovrappongono i due assi viari (Foggia, “Stazione di posta Savignano”, Ariano Irpino) e (Cerignola, Ascoli, “Stazione di posta Savignano”) emerge in modo palese l’avamposti naturale di controllo e difesa della capitale de Regno partenopeo da oriente .

Se a questo dato, sono associati gli aspetti urbanistici e abitativi con i quali gli albanofoni ricercavano e organizzavano gli spazi da utilizzare per insediarsi, la lettura del piccolo centro arbëreshë dell’avellinese conferma quanto è storicamente divulgato.

Va comunque sottolineato che gli abitati  di pertinenza arbëreshë, innalzati dal XVI secolo,  sono stati ritenuti simili al costruito storico indigeno, tralasciando per questo gli aspetti sociali, economici e politici connessa alle epoche  d’insediamento degli esuli.

Il percorso qui di seguito trattato vuole fornire elementi utili a sfatare questo dato anomalo, sulla base di elementi  secondo uno “schema architettonico/sociale” riferito a uomini, luoghi e tempo.

Le note più evidenti sono riassunte nelle direttive che trovano rilevante caratterizzazione negli aspetti idiomatici, sociali, nella religione, nella salubrità e la difesa territoriale, qui di seguito esposti per grandi linee:

  • Sociale: organizzati secondo un disciplinare consuetudinario tramandato oralmente, indispensabile a blindare la sua divulgazione esclusivamente entro gli ambiti della Famiglia tradizionale Allargata, tale che, pur venendo a mancare uno dei cardini identificativi la comunità riusciva a sostenersi in maniera indelebile;
  • Religioso: ogni serie di gruppi familiari aveva come accompagnatore ecclesiasti, greco-ortodosso, che presumibilmente predisposero le nuove dimore secondo l’antica disposizione della “Skita” (piccole celle nei pressi di un presidio religioso, a uso dei gruppi di preghiera).
  • Orografico: ricercavano ambiti paralleli o simili alla terra d’origine per attivare i protocolli di sostentamento preservando il territorio senza incutere ferite indelebili;
  • Salubrità: gli esuli avendo conoscenza dei pericoli provenienti delle zone paludose si stabilivano ben distanti altimetricamente, collocati al disopra di tale soglia limite.
  • Difesa: è noto che gli ambiti facilmente raggiungibili dalle costa erano territorio di cacca di pirati e banditi, i quali, consapevoli di non incontrare alcuna opposizione spaziavano in lungo e in largo le coste e le zone ad esse facile menta raggiungibili dello ioni motivo per cui i paesi albanofoni sono disposti secondo uno schema che garantiva di intervenire per troncare nel nascere ogni tipo di incursione.

Il Paese di Greci fu ripopolato dalle genti albanofone per strategie per la difesa del Regno di Napoli nel XV secolo, linea di confine delle Provincie del Principato Ultra e l’Appennino della Daunia, insediamenti non casuali, ma esigenze strategiche, studiate, per la difesa e attuate, con l’ausilio di  origine albanesi rispettosi alle regole della  Besa; (Promessa, Patto, Impegno), in cambio della libertà d’uso e lo sfruttamento delle risorse territoriali.

Dal confronto dei supporti cartografici digitali, attuali con quelli storici e delle aree a rischio, si è potuto costatare che l’edificato è riconducibile a capisaldi strategici; agglomerati delle due province cinquecentesche, (oggi sono tre, Avellino, Benevento, Foggia), unite dalla radice idiomatica e consuetudinaria albanofone, rispettivamente con i Comuni di: Greci, Ginestra degli Schiavoni, Faeto, Panni, Monteleone di Puglia e Castelluccio dei Sauri, della quale oggi solo Greci mantiene idioma e modello consuetudinario.

In queste macro area, assicurata la salubrità dei luoghi di residenza, confermate le costanti dei sistemi urbani, comparati gli ambiti paralleli e di difesa, si è dato avvio a tipologie urbane ancora presenti sul territorio, utilizzando per la loro posa esclusivamente materiali reperibili in loco senza troppo incidere violenza sul territorio, realizzando così il recinto, la casa e il giardino.

Relativamente agli aspetti sociali, nel periodo che va dal XV secolo, data di arrivo degli albanofoni, sino al XXI secolo, gli esuli lentamente si allontanano dal modello familiare allargato, per quello urbano, in seguito, in tempi più recenti, vive il modello della multimedialità.

Quando la famiglia allargata inizia ad assumere la connotazione di famiglia urbana, realizza i primi isolati (manxane), seguendo schemi che sono funzione indissolubile dei rapporti sociali e dall’orografia; essi si possono identificare in articolati o lineari, generati rigorosamente dai presupposti sociali che poi sono riconducibili alla Gjitonia, riassunta nella frase “dove vedo e dove sento”.

La gjitonia ha origine dal tepore del focolare, si espande con cerchi concentrici negli sheshi si estende lungo le ruhat all’interno delle manxane, sino a giungere negli angoli più reconditi delle macroaree.

Per i profughi albanesi giunti nel meridione italiano dalla fine del XV a tutto il XVI secolo, il processo segue un percorso dissimile o addirittura contrario; gli agglomerati urbani diffusi per la consuetudine dei gruppi familiari allargati, quando s’insediavano erano, fortemente coesi, quindi il processo si attua attraverso un percorso che parte dal centro per allargarsi.

Per circa un secolo, gli albanofoni vivono e si confrontano con le realtà contigue sviluppando i loro centri secondo le città policentriche, avendo come unità abitativa le Kalive, se si esclude una ristretta cerchia di privilegiati che alle dirette dipendenze nobiliari, gestivano mulini e trappeti, per questo vivevano un modello abitativo più evoluto a due livelli, che avevano già perso il riferimento familiare allargato.

Esaminando nel dettaglio il borgo di Greci, il centro storico pur se rimaneggiato conserva l’originario assetto planimetrico escludendo le aree d’espansione a Nord- Ovest in cui episodi isolati per le dimensioni, possono facilmente essere estruse.

La toponomastica ha come riferimento Bregù, in albanese promontorio, infatti, proprio qui gli esuli albanesi edificarono le prime Kaljve che conservano l’originario assetto planimetrico, anche se nel tempo materiali e la definizione degli spazi interni ha subito l’evoluzione dei tempi, assumendo funzioni allineandosi ai tempi.

Oltre al Bregù e gli altri Rioni, Sheshi, Fontane oltre le macroaree urbane definite Drèlartë e Drehjimë, a Greci, rimane fondamentale il ruolo della chiesa, caposaldo storico sin dalla sua origine in epoca greca.

Urge allo scopo realizzare una ricerca che possa identificare in maniera inequivocabile la toponomastica dei Rioni e Sheshi, attraverso i quali ricostruire il percorso evolutivo dell’insediamento, supportata da un’attenta analisi dei materiali, utilizzati, per realizzare paramenti verticali, orizzontali e inclinati.

Avendo cura di valorizzare le Kaljve ingrediente che caratterizza la storia albanofona, e per questo, vanno solo catalogati e censiti avendo cura di seguire la cronologia di sviluppo.

Il fine cui si dovrebbe giungere è quello di sensibilizzare il quadro generale delle istituzioni locali riferito alla popolazione di minoranza arbëreshë, (ç‘shohin e gjegjin) con l’auspicio di far crescere una nuova forza culturale con i giovani in prima fila da contrapporre all’impetuoso processo noto come la globalizzazione che appiattisce e reprime ogni cosa.

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NON CI HO COLPA!  (Udet cë gnë gher iscin diert)

Protetto: NON CI HO COLPA! (Udet cë gnë gher iscin diert)

Posted on 12 febbraio 2016 by admin

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PERCHÉ LA TRADIZIONE ARBËRESHË È DIVENTATA TRASVERSALE

PERCHÉ LA TRADIZIONE ARBËRESHË È DIVENTATA TRASVERSALE

Posted on 07 febbraio 2016 by admin

TRADIZIONI TRASVERSALENAPOLI (di Atanasio Pizzi) – Per ricucire il continuo delle tradizioni, all’interno della R.s.A., si è ricorso all’utilizzo dello “slogan del Recupero della Tradizione” inconsapevole modello dei mali prodotti.

Due termini antitetici a ben interpretare, in quanto, il senso della parola “Recuperare” intende rimettere in funzione una cosa nelle disponibilità, che per un periodo prolungato è stata dismessa o in parte dimenticata.

La “Tradizione” rappresenta il filo ininterrotto delle conoscenze e quindi legano l’essere senza cesure o soluzione di continuità; come si può allora recuperare una continuità da cui non si può prescindere?

L’opera del recupero ha come fondamento la certezza che la tradizione si sia interrotta per il determinarsi di una nuova scienza, di un rinnovato concetto da storia-racconto da storia-problema, o per lo sviluppo dei nuovi processi, sociali, industriali ed economici.

Se l’ultimo punto è molto chiaro, gli altri due vanno analizzati con più attenzione.

Il termine Tradizione (dal latino traditiònem deriv. da tràdere = consegnare, trasmettere) assume il significato di passaggio di nozioni e racconti, soprattutto in forma orale, così come è fortemente radicato nei paesi albanofoni.

La consegna di nozioni da una generazione all’altra, richiede la contemporanea presenza di chi riceve e chi da: il racconto orale non può avvenire che con la partecipazione dell’azione.

Chi racconta è sullo stesso piano di chi ascolta, entrambi devono appartenere alla stessa categoria idiomatica ed entrambi partecipare all’azione più volte, perché i mezzi a loro disposizione sono identici e appartengono allo stesso gruppo cui fa parte il rito da tutelare.

La tradizione implica contatto diretto tra chi tramanda e chi apprende, ciò comporta che le due sfere coinvolte appartengono allo stesso ambito, in funzione della vicinanza parentale.

La tradizione non è altro che il passaggio dell’esperienza vincolata ad alcune regole fondamentali la cui attendibilità del messaggio è garantita dall’appartenenza, del comunicatore e dell’ascoltatore.

A fare da contro altare a ciò è la prassi largamente diffusa dell’esperimento che affonda le radici in presupposti dissimili dagli enunciati originali, l’approssimazione è padrona, e le lacune per questo, cercano l’allineamento senza mai trovarlo, perché perpendicolare alla linea della tradizione originale, producendo così surrogati senza senso, tempo e luogo.

Appare evidente che nel momento in cui si è andato a rispolverare elementi fortemente radicati nelle singole macroaree, immaginando di rivitalizzare o dare continuità a riti, consuetudini, costumi, attraverso il contributo di figure che hanno vissuto ai margini della comunità, il messaggio diffuso è fortemente distorto e colmo d’incongruenze.

Questo penoso atteggiamento è stato possibile vista la statica degli addetti istituzionali storici e clericali, i quali invece di intervenire, energicamente, alla messa in opera del modello trasversale “ del Recupero della Tradizione”, hanno preferito non intromettersi e attendere gli eventi per criticarli.

Il dato è paradossale, in quanto, sarebbe stato più ragionevolmente e costruttivo, predisporre, almeno un momento di confronto per evitare la messa in atto delle pericolosissime e trasversali nozioni, queste ultime amplificate oltre modo, nel corso di appuntamenti storici delle comunità, che per la mancanza, del indispensabile Tavolo hanno confuso: Primavere con Vale; Carnevali per appuntamenti Istituzionali; Riti Religiosi con Eventi da Stadio.

Questo chiaramente per evidenziare solo gli aspetti più elementari, giacché volendo addentrarsi in aspetti legati all’idioma, all’arte e alla consuetudine per i quali è indispensabile una formazione accademica, la manomissione ha innescato infiniti stati di labilità.

Allestimenti innalzati come originali da cento (tanti quanti sono i paesi nel meridione di etnia minore) Armate Brancaleone, che si appoggiano allo slogan e nella migliore delle ipotesi con fare elementare persino nell’utilizzare sostantivi quali: Gjitonia, Rioni, Quartieri, Sheshi, Uhda, Rugha, Shpia, Kaliva, Katoj, Vatra, per gli aspetti urbani; per non parlare di quando i figuranti si auto elevano a ricercatori sotto le vesti di: Linguisti dei Terreni, Scriba, Dottori, Traduttori, Foto-ricalcatori e Antiquari, immaginando che il popolo più anziano del Continente Antico, radicato al solo idioma, si possa interpretare solamente perché si ha nelle disposizioni finanziamenti elargiti, senza cognizione e parsimonia, dalla Comunità Europea o dagli organi preposti per l’emergenza delle calamità naturali.

P.S. – Gli atti volti a individuare le caratteristiche urbanistiche e architettoniche della R.s.A. (Regione storica Arbëreshë) sono stati qualificati secondari o minori, rispetto a quelli confinanti.

Per questo è indispensabile eseguire approfondimenti che partendo dalla lettura geoeconomica, connesse con lo studio degli ambiti storici, urbanistici e architettonici, forniscano elementi utili dai quali e con i quali, identificare il concetto di “Minore”.

Esso va inteso non come inferiore o marginale ma ingrediente indispensabile per scrivere la storia di una macroarea nota; volendo usare un eufemismo sarebbe che: per fare il pane serve tanta acqua e farina “ la Maggioranza”, cui vanno aggiunte piccole dosi di lievito e di salela Minoranza”, ma tutti gli ingredienti sono fondamentali per fare il vitale alimento.

Il fine da perseguire deve essere indirizzato verso la ricercare dei diversi contributi delle comunità minori, questi ultimi, nella loro semplicità, hanno caratterizzarono il divenire del paesaggio, visto non tanto come condizionante, ma interconnesso con le realtà attigue, con le quali ha scambiato elementi caratteristici espressi negli ambiti architettonici, urbanistici e ambientali, indirizzati a produrre sistemi sostenibili che ancora oggi sono i contenitori preferiti della micro filiera delle eccellenze.

Va quindi considerato, come scrive L’autore di Sheshi che: “ le comunità, come gli individui, sono dissimili, così come le loro architetture segnano in maniera diversa il territorio dove sono depositati i valori dell’identità culturale”.

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VICINATO FIET LËTIR E GJITONIA ARBËRESHIN

Protetto: VICINATO FIET LËTIR E GJITONIA ARBËRESHIN

Posted on 29 gennaio 2016 by admin

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