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LE DELOCALIZZAZIONI NEL CORSO DELLA STORIA

Posted on 27 settembre 2016 by admin

san-leucioNapoli (di Atanasio Pizzi) – I “centri antichi italiani” si distinguono, per l’operato dei ricercatori storici, in due categorie: qualitativi e quantitativi, questi ultimi per le particolari esigenze di realizzare “ambiti costruiti condivisi” sono stati, sulla base di esigenze economiche culturali legate alla gestione e controllo del territorio agreste, realizzati nei pressi di complessi monastici, pievi di campagna o chiese.

Le manovalanze che realizzarono gli elevati murari e sia gli orizzontamenti, non avevano alcuna formazione nell’arte dell’edificare e sono frutto d’improvvisazioni strutturali, che sfidano i principi delle scienze delle costruzioni.

Il dato, sino a oggi è stato pacificamente ignorato induce a ritenere i centri antichi, particolarmente vulnerabili agli effetti di terremoti, frane e non ultimo in ordine di pericolosità, “gli incontrollati abbellimenti secondo l’antica tradizione dell’improvvisare”.

Nella storia che illustra questa caratteristica geologica e costruttiva del territorio meridionale, racconta che quando gli effetti naturali si manifestano, gli scenari che si presentano sconvolgono i soccorritori, i quali hanno come prima reazione l’abbandonare il sito da parte della collettività insediate e di quanti, ne hanno responsabilità politica/tecnica.

Il tempo e la saggezza dell’uomo, dopo la prima reazione fatta di impeto, attendono prima come evolvono o si stabilizzano i meccanismi per realizzare la migliore strategia per il ripristino dello stato con tecnologie e norme più moderne; tuttavia sono diversi gli episodi dell’offerta delocativache si configurava più come un miraggio invece che come possibilità di perseguire un risultato soddisfacente e preferisce la delocalizzare“tout court” dei residenti.

Ogni delocalizzazione, pur consentendo la messa in sicurezza “fisica” dei residenti, comporta però la loro separazione da quanto”intangibile” era presente nell’insediamento.

In molteplici, anche in recenti, circostanze in tal senso si è ricorso a “espedienti” volti ad invogliare i residenti ad allontanarsi dal loro centro di origine, per accumunarli sotto ideali che esulano da ogni ragionevole principio di una società moderna come dovrebbe essere la nostra.

Gli effetti negativi di tali metodi di separazione o unione forzata si ritrovano ad esempio a San Leucio nel casertano, Filadelfia nel vibonese, le Mortelle nel materano e Cavallerizzo nel cosentino.

Un bagaglio di conoscenza storico-culturale in tale senso vuole informare e far comprendere gli espedienti che esulano da ogni ragionevole posizione odierna a indurre la popolazione ad accettare il protocollo, che pretende di impiantare o generare altrove elementi fisici del centro storico originario o generare tessuti culturali e sociali idealistici tra gli abitanti.

San Leucio nel Casertano

Nelle intenzioni del Governo borbonico di fine Settecento, le cosiddette scienze severe fossero ancona un’idea astratta, se non apertamente osteggiata, trova riscontro nel 1801 con la nomina a primo direttore del Reale Museo Mineralogico di Antonio Planelli da Bitonto, singolare figura di eclettico, passata finora inosservata.

Personaggio di Corte e mas­sone, Planelli è ricordato nelle biografie come cava­liere Gerosolimitano e dopo il 1775 monaco di Montecassino.

Intellettuale non di primo piano nella lista degli illuministi napoletani ebbe tuttavia una certa influenza nel ristretto entourage del primo Ferdi­nando, il Planelli ebbe co­munque la capacità intellettuale di incardinare le sue idee moderniste e di spin­gersi fino alla sperimentazione delle utopie.

Convinto sperimentatore della mac­china umana si coglie senza perifrasi nel capitolo del volume pedagogico in cui tratta dello studio dell’uomo e delle discipline egli definisce antropo­logiche, dove infatti aggiunge: Ciò che è utile in ogni altra materia, nelle discipline antropologiche è necessario.

Lo studio dell’Uomo non può farsi che sperimentando.

La manifattura serica di San Leucio infatti non fu solo una fabbrica moderna, tecnologi­camente avanzata ed in grado di produrre effetti du­raturi nel tempo, fu anche, nel suo primo decenni, una straordinaria utopia, come ap­pare fin troppo evidente dai contenuti del Codice ferdinandeo che escludevano, nel circuito murato della colonia, tutte le altre leggi del Regno.

I presuppo­sti culturali furono chiaramente le idee illuministiche sulla fratellanza e nelle teorie del Rousseau sul mito del buon selvaggio: tutti gli uomini sono buoni all’origine, ma sono poi corrotti dall’ambiente e dalla lotta quotidiana per l’esistenza.

Affermazione affa­scinante e mai dimostrata. Perché non farlo con gli stru­menti della scienza?

Ed ecco che un certo numero di artigiani, noti e probi e di nuclei familiari accuratamente selezionati, vengono scelti per l’esperimento e relegati fra le mura della collina di San Leucio a formare una colonia autonoma, retta da un Codice di leggi morali, come nella Repubblica di Platone.

Ai privilegiati fu risparmiata la lotta per l’esistenza, pro­tetti dal Sovrano ed esentati dal foro baronale, ottennero senza sforzo casa, lavoro ed assistenza sociale.

Non solo, ma sulla scia delle esperienze del sensismo e del materia­lismo inglese, si scelse per loro un ambiente naturale par­ticolarmente ameno, con residenze comode ed agiate ed un lavoro manuale privo di particolari sforzi fisici.

Unico dovere per tanto benessere l’ottemperanza quoti­diana alle regole morali e comportamentali trascritte nel Codice, la colonia avrebbe così procreato nel tempo più generazioni d’individui eticamente selezionati, grati al Sovrano e ti­morosi di Dio e delle leggi, poi una città (Ferdinandopoli), infine una Nazione, dimostrando così la bontà delle teorie e l’infallibilità della scienza.

Da ciò l’inconsistenza e la marcata utopia dell’esperimento, conclusosi infatti con la Repubblica Partenopea ed il Decennio francese, quando l’ingrata colonia pianterà, non senza motivo, l’albero della libertà.

Fine Prima Parte ( fërnoi i para Pies)

Pranà i dyta  Pies         “Filadelfia nel vibonese”

Pranà i trëta  Pies         “Martirano nel catanzarese”

Pranà i katëta Pies       “Cavallerizzo nel cosentino arbëreshë”

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