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DARDHÀ KU ESHT MUSCARELIA AFER LEMTIT E LIALH NINITH

Posted on 08 dicembre 2016 by admin

dardha-ku-esht-muscarelia-afer-lemtit-e-lialh-ninithNAPOLI (di Atanasio Pizzi) – In età moderna per accedere alle proprie risorse economiche si utilizzano codici numerici o ancora più sicuri composti di lettere e numeri (alfa-numerici).

Tutti abbiamo l’abitudine di ricordare mentalmente e non appuntare in alcun modo, né mai fornire a estranei questi numeri e lettere privati.

Così anche i beni materiali li conserviamo in luoghi che non possono essere accessibili o facilmente individuabili se non attraverso una chiave (codice) che possa consentire l’accesso esclusivo per l’utilizzo.

La storia e la lingua Albanese rimangono vive nella loro essenza originaria perché un gruppo di caparbi e valorosi profughi, “gli Arbëreshë”, pur di non sottostare alle angherie degli invasori turchi preferì l’esilio.

Gli esuli che dal 1471 al 1502, raggiunsero le coste del meridione Italiano sono Arbër, i quali pur abbandonando le terre, difesero le loro origine, mantenendo viva  lingua,  consuetudine, ma quello che più conta, sono sempre, comunque e dovunque uniti in gruppi fortemente consolidati; diversamente dagli stessi conterranei che in epoche più recenti, una volta sbarcati abbandonarono i loro conterranei, o meglio compagni di viaggio.

L’approdo dei profughi arbëreshë, i conservatori del codice linguistico/consuetudinario del popolo oltre Adriatico, sulle terre dell’allora regno di Napoli, avvenne senza traumi, in quanto si insediarono in ambiti territoriali simili alla terra di origine, per questo rapidamente misero a regime agli equilibri culturali, sociali e economici che li caratterizzavano.

Le  regole a cui gli albanesi dovettero inchinarsi, nei nuovo territori furono il baglivagio e la Kaliva, il primo rappresenta la legge a cui dovettero subito inchinarsi   e rispettare , il secondo rappresenta il modulo abitativo, contenitore costruito, modulo architettonico primario entro cui ritrovarsi e conservare il patrimonio orale/consuetudinario.

Oggi spesso ci s’interroga per quale forza o dinamiche sociali, la parlata arbëreshë è ancora presente nel territori, dell’allora regno di Napoli, le risposte passano dal paradossale al ridicolo, in quanto si è abituati a guardare il luogo della risposta negli ambiti ristretti di ogni singolo agglomerato urbano e non quello di macroarea.

Infatti, il dialetto acrese, cosentino, bisignanese, catanzarese e cosi via elencando, sono esclusivi di ogni comunità, all’interno di macro-aree storiche ben identificate, codice di riconoscimento  comportamentale, capace di creare l’effetto osmotico necessario per circoscrivere un limite territoriale ideale che lega tutti gli individui dia un ben identificato gruppo.

Appare evidente che per gli albanofoni, riconosciuti gli ambiti territoriali, definiti i confini, trovandosi gia con un solido codice linguistico consolidato e noto esclusivamente al gruppo di profughi, hanno avuto facilitato il compito è stato molto comodo usare un codice già consolidato, con il quale identificarsi per difendere in maniera solida il loro nascente sistema territoriale per fare economia.

La popolazione arbëreshë per questo più ermetica delle altre macro-aree fu soprannominata in senso dispregiativo nella provincia citeriore calabrese, come Ghégj, confermando per questo la scelta posta in essere degli arbereshe, per questo, cosi come fa il mare con i frammenti di terra, assunsero il ruolo di “codice della lingua albanese divenendo isola di un idioma dalle antiche origini”.

Gli esuli portatori dell’antico codice, furono sottoposti costantemente al fluttuare delle onde indigene, tuttavia hanno avuto la forza di contenere sotto i livelli di guardia l’erodersi delle proprie coste, impalcatura umana, guscio in cui accogliere i codici linguistici, consuetudinari e umani a difesa del proprio essere; membrana osmotica che consente infiltrazioni alloctone a misura tale che la radice non sia mai intaccata, a iniziare dagli indigeni per seguire poi con i dominatori francofoni, ispanici e in età moderna allo tsunami, della globalizzazione.

Nonostante la minoranza albanofona fosse aggredita in maniera latente e continua, le solide membrane sono state in grado di conservare i preziosi “codici”, questi, fisicamente non hanno alcuna consistenza scrittografica, perché sono in sostanza racchiusi e trasmessi oralmente nel tempo di una generazione.

Oggi i “codici” nonostante pressati dalle forze esterne, rimangono l’unica costante antica della lingua albanese, indifesa, solitaria, ferita, deturpata e in alcuni intervalli della storia recente, come figli inconsapevoli, cresciuti sotto l’ombra della storia moderna del 68 fu anche anche motivo di vergogna.

Essi vivevano secondo principi di ribellione ideologica e non secondo progetti di tutela o analisi storiografiche; lo stesso errore di valutazione che fecero i turchi che nel XV secolo costringendo quel manipolo di caparbi arbëreshë a preferire l’esilio.

È definito inculturazione il processo con il quale un gruppo etnico trasmette e riproduce le proprie “tradizioni”al suo interno; acculturazione invece sono i tratti culturali provenienti dall’esterno, e appartenenti ad altre aree culturali che modificano il valore dell’atto del tramandare.

La lotta per difendere il codice, rimane sempre vivo negli ambiti vissuti attraversati e modificati dagli albanofoni, sin dal loro arrivo; i linguisti hanno cercato di comprendere quali fossero i motivi di questa caparbia difesa, quale fenomeno unico in Europa, affidandosi purtroppo a schematismi superficiali cercando le motivazioni facendo unire lingua albanese odierna con quella arbëreshë, in effetti riproponendo quel matrimonio antico che nel XV secolo diede avvio alla storica diaspora.

La minoranza Arbëreshë che vive l’Italia meridionale, resta, entità legata a un codice proprio che sfugge ai ricercatori e rimane un interrogativo aperto, perché, chi studia e si adopera per dare risposte non l’ha mai considerato come il codice di un modello sociale impenetrabile dai non appartenenti al gruppo, perché classificati come malevoli.

L’arbëreshë è il risultato diretto di cultura, religione e lingua di antiche origini, pur assumendo con i suoi uomini migliori il ruolo di attuatore in prima linea agli eventi che si susseguono nel decorso dei secoli, resta legate al codice che la identifica e lo rende sempre più solidale nel tempo.

Per comprendere il valore bisogna nascere, parlarlo e cimentarsi attivamente nella consuetudine ricevendo come prima domanda le dosi massicce d’inculturazione che ti abituano a ricordare mentalmente quel codice.

Cultura pastorale che cresce, si modella e si adopera negli eventi storici della terra che li accoglie; essa rappresenta un’identità autonoma che assume il ruolo di stato multi cefalo senza confini, un popolo solidariamente unito dal codice linguistico e tuttavia disconosce tutte le forme politiche di valorizzazione comune che superi gli ambiti della casa e del cortile.

In Italia “gli Arbëreshë” dopo un breve periodo di scontro, si confrontano con gli indigeni e nasce l’alba culturale con l’avvento di Carlo III; inizia l’ascesa che si protrae sino agli anni sessanta del secolo scorso, per tracollare con andamento logaritmico con la messa a regime della legge 482 del 1999.

È lo stesso Pasquale Baffi, la massima espressione culturale di tutti i parlanti, il vecchio codice albanese, che nel “Discorso sugli albanesi del regno di Napoli” pubblicato in maniera non esemplare dal cugino A. Masci, non lo indagare oltre la comparazione  con altri modelli simili.

Il pericolosissimo processo di lettura e diffusine ha inizio proprio quando dagli ambiti d’Albania si volle realizzare un processo di standardizzazione della lingua, sottovalutando gli anticorpi di difesa che gli arbëreshë conservavano sempre vivi nel loro codice genetico; sono proprio questi che classificano il fenomeno, come malevolo, al pari degli indigeni calabresi e dei dominanti francofoni e ispanici, rigettando il prodotto di sintesi, senza lasciare alcuna possibilità di erodere l’alveo che protegge il codice linguistico originario.

Passi lentissimi, quasi rasentas­sero l’immobilismo, un ritmo di vita scandito per lo più dalle incombenze consuetudinarie, un’economia che si riflette con discrezione anche negli ambiti costruiti dell’architettura, nei riti, nella religione, nelle tecniche di adattamento, facendo apparire il codice linguistico come un mezzo che scandisce sempre lo stesso tempo.

Il presente discorso intende spiegare il senso e non rivelare il cocdice, evidenziare come la lingua, frantumata più che mai dalle continue invadenze albanesi e non, sia capace di rigenerarsi cosi come fa il corpo umano quando è attaccato da codici geneticamente non compatibili.

Se, fino agli anni sessanta del secolo scorso, il ristagno plurisecolare dell’isola “aberia” era pienamente avvertito da illustri osservatori, il quadro che emerge dalla situazione attuale è tutt’altro che confortante: la massic­cia emigrazione, il concomitante abbandono dell’habitat tradizionale, la  più allegra scolarizzazione che non aiuta  il vecchio codice, la sempre più crescente fruizione dei mass-media e l’inar­restabile italianizzazione hanno promosso lo scardina­mento delle strutture tradizionali della vita e del pensiero,  di conseguenza, si avvicinano più velocemente al nucleo che protegge  il codice arbëreshë.

La natura di tanta caparbietà innata negli arbëreshë non è stata mai realmente compresa, affiancando al singolare fenomeno culturale/linguistico nozioni poco attendibili e oserei dire incauti, perché si è scelto di alfabetizzarlo per  rendere noto il codice.

È forse questo il punto terminale dell’iter evolutivo dei pastori e dei guerrieri albanofoni d’Italia? Contadini prima e poi uomini di scienza e di cultura, capaci di difendere ed essere co-protagonista delle vicende unitarie, politiche, economiche italiane.

Diventa sempre più urgente porsi il quesito se è il caso di correre hai ripari o mettersi comodamente seduti a subire la vita moderna che tendente ad uniformare comunità e individui?

Spesso si pone la domanda di cosa e chi abbia mantenuto viva la lingua albanofona in terra italiana sino ad oggi, si palesano mille teorie di tempo e luogo alcuni lo attribuiscono alla concomitanza storica del rito religioso greco ortodossi, altri all’isolamento caratteristica del territorio attraversato e vissuto degli arbëreshë, in altre analisi alla loro diffidenza, che vogliono evidenziare personalismi vuoti e che non hanno alcun riferimento o studio comparato di base.

Innanzitutto l’analisi del fenomeno dei codici non va racchiuso solamente in quello delle disposizioni degli arbëreshe che pur se alloctono segue quello dei paesi indigeni calabresi e non solo.

I territori italiani e in particolar modo quelli del meridione oltre il limitone di Eboli, hanno vissuto un isolamento sociale ed economico in cui l’unica risorsa di vita e di confronto erano le attività, agricole, silvicole e pastorali, non vi è dubbio che questa fosse l’unica risorsa di confronto dell’allora modello feudale che pretendeva tutto senza nulla restituire i poveri abituri.

È una conseguenza naturale che nel momento in cui si torna l’interno degli spazi vissuti dali componenti di una determinata comunità si ritiene più opportuno identificarsi con modelli linguistici e consuetudinari che sono anche un modo per identificarsi ed evitare penetrazioni dall’esterno che per le ristrette possibilità economiche potrebbero essere malevole e minare le poche risorse a disposizione.

È alla luce di questo stato di fatto si sviluppava la fiducia e rispetto delle popolazioni verso i regnati che lasciava molto a desiderare, in questo quadro generale si deve ricercare il motivazioni per le quale i dialetti linguistici sia meridionali, quindi indigeni e albanesi hanno trovato la linfa ideale per riverberarsi.

La questione meridionale è stata sempre vista sotto la luce economica che è stata e rimane precarie prima e assistenziale oggi, dato che gli unici strumenti in grado di fare economia nel meridione sono stati dismessi, perche preferiti come serbatoi di manovalanza per svariate attività.

Una diffidenza diffusa tra le categorie sociali e gli organi istituzionali dominanti, un rapporto di sfiducia e diffidenza, mai terminata o tantomeno attenuata, in cui l’unico modo per difendersi rimaneva il codice linguistico.

Un codice che aveva senso se applicato nel territorio circoscritto; come oggi ogni individuo conserva il suo alfanumerico identificativo, che non va mai trascritto o lasciato incustodito.

Due sono gli aspetti più salienti che nascono dal conflitto qui deli­neato tra lingua e dialetti:

   corrosione del dialetto, e dunque, nel avvicinare le grammatiche a danno di evoluzioni autonome plurisecolari.

2) i nuovi rapporti tra lingua e società {o individuo) che vengono ad instaurarsi con la situazione di diglossia e che non sono più vincolati unicamente a requisiti consuetu­dinari ma a molteplici motivazioni di ordine sociale e psicolo­gico.

Sul piano politico e linguistico, il primo fenomeno ha promosso una rinascita della coscienza linguistica dei parlanti arbëreshë che rifiutano la grammatica e la lingua dell’albanese odierno che comunque nasce da presupposti flebili e priva di un’idonea solidità culturale, ma sopratutto intellettuale, anzi direi suggerita dai mas-media che per l’Albania sino al 1991 sono stati l’unica finestra attraverso cui evolversi.

Creare un codice linguistico normativo e tutt’altro che agevo­le; occorre dapprima riconoscere lo status di lingua moderna all’arbëreshë e poi elimi­nare quelle strutture che risultino più abnormi alla sensibilità dei parlanti nativi: due quesiti da affrontare in sede linguistica, ma purtroppo permeati da molteplici connotati di natura extralinguistica che consente a figure anomale e prive delle più elementari titoli socio culturali, di rivestire ruoli sensibili che non gli possono essere attribuiti se chi di dovere avesse un poco di buon senso, ma che la meritocrazia italiana e albanese continua ostinatamente a perseguire.

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