Posted on 21 febbraio 2021 by admin
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Posted on 11 febbraio 2021 by admin
NAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) – Dal VII secolo, il territorio dell’odierna Italia, aveva terminato di essere un continuo territoriale di pertinenza geopolitica romana; e il confine a sud divenne il corso dei fiumi Crati e Savuto, dalle coste del Tirreno di Amantea sino a quella Joniche dalla Sibaritide (4).
Per la difesa trovarono dimora numerosi distaccamenti di soldati: Longobardi nel versante nord, a sud i Bizantini, in specie lungo la strada di costa che da Rossano conduceva verso Bisignano e Cosenza.
I soldati preposti al controllo in sicurezza, si disponevano lungo il camminamento Rossano Cosenza, risalendo i greti degli affluenti storici del Crati, da sud.
Questi per difendersi anche dagli avversari naturali invisibili, giunsero in quei promontorio altimetrici, che nel caso di Santa Sofia, divide la depressione dove scorre il torrente Galatrella e il vallone del Duca.
Lungo lo storico camminamento, iniziarono a costruire i presidi abitativo e religiosi monocellulari, per questo il camminamento da Rossano a Cosenza fu interessato dal fenomeno d’insediamento; prova ne è altri il costruito nei pressi della via “Caminora” a Sant’Adriano, anch’esso di credenza bizantina, orientata verso la Grande Madre Chiesa di Costantinopoli.
Tra le diocesi di Cosenza, Rossano e della Calabria in maniera diffusa; non si commette errore, nel citare la Chiesa di Bisignano, di S. Sofia e altre in Acri, Luzzi, Rose, San Demetrio e San Cosmo.
Ciò è confermato oltre che dalla credenza ancora viva, in queste località, anche dal commercio tra i Greci di Costantinopoli, e la diocesi di Bisignano, le cui testimonianze oltre che nelle chiese, si collocano nell’abbondanza dei prestiti idiomatici ancora in uso nella macro area.
Tornando alla Chiesa elevata in Santa Sofia Terra, essa caratterizza il toponimo locale dalla sua edificazione, riportando a riferimenti religiosi della capitale Costantinopoli e dal IX secolo in avanti, il luogo da Casale Terra di Bisignano assunse l’appellativo di “Santa Sofia Casale di Bisignano”.
I suoi abitanti professarono quindi il rito bizantino dalla fondazione e la chiesa compare in un documento censuale, tra i possedimenti, citato come “tenimentum ecclesiae Sanctae Sophiae.” (2)
Nota, come Chiesa Vecchia di Santa Sofia d’Epiro (Kisja Vieter in arbëreshë; essa, si sviluppa su pianta rettangolare con l’area dell’altare a una quota rialzata rispetto la navata; i lati corti: a est l’abside e il coro; a ovest l’ingresso principale, (la porta degli uomini) e a sud la piccola porta definita l’accesso alle donne.
Gli apparati murari realizzati con pietre di fiume alettati su malta di calce sabbia torrentizia e argilla, la stessa che ordinava anche il continuo murario come intonaco.
Il tetto composto nella parte strutturale da rudimentali capriate, sosteneva la travatura secondaria di collegamento su cui era depositata la lamia di copertura (3).
Se la campana è rimasta la stessa, diversamente lo è per il campanile e la consistenza della fabbrica che ha mutato nel corso dei secoli la forma, disposizione e l’allocamento del campanile; in origine si elevava con un corpo addossato alla parete nord, all’esterno e nella linea che divide altare con la navata.
Il fronte opposto, a ovest più sicuro per quanto attiene all’aspetto geologico, a seguito di numerosi eventi tellurici, consentì, di aggiungere al volume uno novo; senza ricostruire la parete crollata per la qualità del paramento murario, furono realizzati archi e colonne per consentire il continuo murario e l’accesso alla nuova navata al resto della chiesa; innalzando alla testa di questa sul fronte ovest il nuovo campanile (Foto 01).
L’ingresso principale, immette direttamente nella navata (5-6), mentre quella laterale conteneva rispettivamente, il fonte battesimale, la porta delle donne e gli altari dedicati alla Santa Madre e alla Madonna del Carmine; sul fronte nord della navata erano allocate piccole nicchie per altre devozioni, la cui consistenza e caratteristiche di rifinitura sono andate perse nel corso dei continui lavori di manomissione.
L’’interno, si presentava scarsamente illuminato, a tal proposito va rilevato che la finestra, sopra l’ingresso, quando illuminava la navata, segnava il termine della divina liturgia, cosi come quella alla testa dell’absidale indicava l’inizio.
Superato il varco di accesso, a mano destra era il fonte battesimale, l’elemento lapideo, scampato a diversi crolli, in fine fortemente danneggiato è stato utilizzato come materiale di spoglio.
Dal settembre (1471 la chiesa diventa il luogo di approdo anche degli esuli Arbanon, (oggi Arbëreshë) proveniente dalle terre sparse dell’Epiro secondo le divisioni dell’impero con capitale Costantinopoli (1).
Questi rispettosi dei principi religiosi, si insediarono nelle prossimità della chiesa realizzando i tipici rioni in consistenza di capanne, secondo il protocollo d’insediamento importato dalla terre citate; e furono proprio gli arbëreshë da quel tempo ad integrare al malandato presidio religioso, quanto citato sopra.
Da ciò si deduce che la Chiesa dagli inizi del XV e sino alla meta del XVII secolo, ospitò anche il patrono Sant’Atanasio l’Alessandrino (7).
Giunti gli Arbëreshë nel Casale, sotto la guida dell’effige Alessandrina, trovato l’antico manufatto, intitolato alla Grande Madre di Costantinopoli, considerarono come un segno divino l’emblema religioso, ritenendo il luogo como la terra promessa.
La chiesa nel passato era anche nota per il suo ipogeo, dove la popolazione trovava sepoltura nella chiesa, mentre nel terreno posto nel lato nord, trovavano cristiana sepoltura, forestieri, persone uccise, suicida, adulteri, ladri e pagani, tutto ciò sino nell’Agosto del 1726, quando alla, ecclesiae Sanctae Sophiae, venne sostituita da uno più moderno intitolato a S. Atanasio, al centro del paese.
La chiesa dalla metà del XVIII secolo, fu lasciata al suo lento e inesorabile destino, ormai fuori dal centro urbano, usata solo nel periodo di settembre, poco più di quindici giorni l’anno, per i festeggiamenti della Madre Santa.
In oltre, dal 1839, impedita la funzione di storico ipogeo, per disposizioni regie, che venne allestito, proprio in quel pianoro dove i soldati Bizantini giunsero nel IX secolo.
In fine, il 23 Febbraio del 1957 avviata la procedura di recupero, visto il suo precario stato strutturale, fu unificando tutta la superficie interna sotto una impropria carena rovesciata cementizia (5-6)
Alla luce di ciò nella chiesa di Santa Sofia, da oltre un millennio è celebrata la divina liturgia di S. Giovanni Crisostomo in greco.
Prima dai soldati Bizantini per difendere il confine storico, poi dagli Arbëreshë a seguito della caduta di Costantinopoli, un percorso identitario che senza soluzione di continuità utilizza la stessa chiesa e lo stesso rito greco.
Per dare merito di ciò, dal 17 al 20 settembre 2019, il Patriarca Ecumenico Bartolomeo, con la Sua storica visita nella Diocesi di Lungro, ha voluto premiare l’amore degli Arbëreshë verso la Madre Chiesa di Costantinopoli.
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Posted on 24 gennaio 2021 by admin
NAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) – Il patrimonio culturale arbëreshë, notoriamente tramandato attraverso la forma orale e la consuetudini d’ambito, dagli anni settanta del secolo scorso è stato scosso dalle nuove generazioni che hanno intrapreso, a loro dire, la via dei discorsi nuovi.
Questa è stata l’epoca che ha prodotto la “nuova alba culturale” dove i pittori pur di vedere al loro seguito, generi che sognano bagliori di luce, ne fanno di tutti i colori, escluso, quelli più opportuni o a tema pittorico.
Le manifestazioni di pigmentazione, così attuate, sono drammaticamente penose e variopinte senza alcun senso per il proseguimento del protocollo identitario; per questo, urgono misure preventive atte ad arginare le soverchianti folgori.
Ormai viviamo una stagione di confusione totale, basti solo porre l’accento sulle innumerevoli manifestazioni prive di senso e di garbo, generalmente aperte al grido di Borghi Arbëreshë, Arbëria e Scanderbeg e tanta altre diavolerie che è vergogna citare, perché si usa vestirsi a mo variopinto con cui disegnare a terra ruote, cerchi e ridde, immaginando di stupire gli spettatori che allibiti si danno a gambe.
Tutte manifestazioni che lasciano il tempo che trovano e non interessano a nessuno, se non i comuni praticanti, che nel vedersi abbagliati dai riflettori della ribalta, pensano di aver fatto festa, senza rendersi conto di bruciare quanto non gli appartiene.
A tal proposito e senza dubbio alcuno, dei tre componimenti: Borghi Arbëreshë, Arbëria e Scanderbeg, è bene rilevare, che nessuno di essi trova allocazione nella storia, neanche in forma di ombra, per la popolazione minoritaria che oggi vive la REGIONE STORICA DIFFUSA ARBËRESHË.
Questa deve ricevere rispetto da tutti, sin anche, chi travestito da pifferaio, saltimbanco e ogni genere d’inadatto alchimista, crede di poter disporre a suo piacimento del patrimonio che non ci appartiene, perché ricevuto per consegnarlo alle nuove generazioni, per questo più rimane puro e intatto dalla sua origine storica e più ha durevolezza nei secoli.
Nello specifico iniziamo a porre l’accento, con forza e senza sorta di dubbio alcuno, che la denominazione “Borgo” non ha alcuna attinenza storica, urbanistica, architettonica, sociale, economica culturale, sia di tempo, sia di luogo, sia di uomini; i paesi arbëreshë sono Katundë, il parente stretto di Castrum, Paese, Casale e rappresentano storicamente l’inizio dei processi urbanistici delle città aperte, oggi metropolitane.
A proposito del concetto di Arberia, per com’è inteso, vorrebbe essere uno stato, con i suoi abitanti, un proprio governo, una propria autonomia, con proprie leggi e comunque si giri e si osservi il concetto, nulla del genere esiste, in quanto gli arbëreshë sono una minoranza storica italiana, verso la quale lo stato offre tutte le tutele di rispetto dovuto a quanti hanno saputo integrarsi e proteggere il territorio con lo stesso senso degli indigeni, gli stessi che li accolsero sei secoli or sono.
Relativamente all’appellativo con cui viene soprannominato Giorgio Castriota di Giovanni, (volgarmente denominato Scanderbeg) bisogna stare molto attenti nell’utilizzare o il nome o l’alias.
Perché l’eroe con intelligente astuzia, per evitare che il suo popolo e le terre di quest’ultimo fossero cancellate dal ricordo degli uomini, realizzo uno degli stratagemmi che la storia ancora stenta a comprendere e valorizzare.
Egli per questo resosi conto che non aveva possibilità di prevalere sui cani turchi, operò la strategia seguente, grazie al patto di mutuo soccorso che il padre Giovanni aveva con Il re di Napoli, Vlad I, i Principi dell’allora Epiro nova e Vecchia, trovando il modo di lasciare un messaggio indelebile, irriconoscibile ai turchi, e unisse quanti vivevano le terre oggi denominate Albania e nel frattempo, salvare lingua consuetudini, metrica e religione nelle terre del meridione allora regno di Napoli.
Alla luce di ciò, quando si fa uso del suo nome, bisogna guardarsi attorno per comprendere cosa pronunziare, per questo se state in terra d’Albania gridate con forza, ai quattro venti, l’appellativo “Skanderbeg”, lo slogan nato per unire e risvegliare antichi legami in senso di confini territoriali.
Tuttavia se vi dovreste trovare, per caso, negli sheshi o ambiti della regione storica, il luogo dove la lingua, le consuetudini, la religione, fa vibrare i cinque sensi Arbëreshë, per non cadere nel banale è d’obbligo usare solo ed esclusivamente Giorgio Castriota il valoroso figlio di Giovanni; null’altro.
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Posted on 01 gennaio 2021 by admin
NAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) – Mi rivolgo a tutti voi perché siete l’unica forza, assieme a un numero ristretto di saggi, che potrebbero preservare e dare continuità storica al protocollo identitario più solido del mediterraneo, diventato meta di comuni protagonisti.
Sono ormai due decenni che agli arbëreshë si vedono servito a colazione, a pranzo, a merenda e cena, tutti i giorni, comprese le feste comandate, pietanze a dir poco paradossali, proposte come la panacea per evitare il declino culturale.
Ad assumere il ruolo di cuoco, comunemente, sono quanti nelle vita non hanno avuto accortezza nel preparare adeguatamente il proprio processo di scolarizzazione, da ciò immaginano che per fare pietanza bastasse miscelare, alla bene meglio, una serie di ingredienti per meritarsi la ” Stella Michelin”.
Purtroppo non è così, sia per le stelle e sia per essere annotati, in quella istituzioni globale, per i beni materiali e immateriali, a cui si giunge solo se capaci di allestire pietanze irripetibili .
Sino a quando la lingua, le consuetudini, la metrica, la religione molte volte stravolte per essere imposte, non saranno storicizzate univocamente, tale che si possano analizzare, secondo protocolli certificati, unici e indivisibile, in radice, materiale e immateriale, tutto sarà mero protagonismo utile solamente a sminuire il canto del gallo che non ha la forza del monte “Athos” su cui salire e si accontenta dei cumuli di prossimità per il riciclo.
Ecco perché sindaci e i pochi esperti sono diventati l’unica risorsa che può e deve, riportare agli antichi splendori, il senso della Regione storica Arbëreshë, essa non ha bisogno di verifica, non ha bisogno di essere formata, deve solo ed esclusivamente depositata stesa, per epurare dalle sue 240 pieghe, le muffe che la pigmentano impropriamente.
Quanti sino a oggi sono stati alla ribalta inutilmente e senza alcuna coerenza è facile individuarli, sono il nostro male, e non basta che usino parole e adempimenti anglosassoni, turkofoni, germanofoni per ritenersi i conservatori del sacro Graal, in quanto dai veli pietosi di cui si coprono, si scorge che si tratta di semplice contenitore di aceto riversato.
Faccio appello ai sindaci e agli organi istituzionali, che urge individuare competenti esperti nelle varie discipline di’indagine, non attraverso “forme dipartimentali curricolari”, ma sperando nell’acume politico, che sappia distinguere il gruppo di lavoro multi disciplinare in grado di ridare senso all’antico modello consuetudinario arbëreshë, in un numero di figure che non superino le dita di una mano per evitare incroci in numero di due.
Si vuole comunque precisare che in tutte le civiltà dell’antichità, anche gli arbëreshë, sono storia di uomini e non devono essere sempre considerati come il popolo: ignudi in riva al mare, con le mani proiettate verso il cielo si lamentava in lingua ignota; e come tutti i popoli della storia predisporre metodiche di studio indirizzate verso l’edificato storico e le vicende di di equilibrio messe in atto nel èieno rispetto tra esigenze dell’uomo e ritmi dell’ambiente naturale.
Gli arbëreshë non sono esclusiva espressione linguistica, essi sono i portatori sani di un modello sociale inestimabile, indagare per comprenderne i significati, è il dovere che hanno quanti si sentono tali; per questo è irrevocabile predisporre misure idonee per leggere senza preferenza alcuna verso gli elementi tangibili ed intangibili che caratterizzano la minoranza e l’ambiente naturale che li ha da sempre coadiuvati.
Un arbëreshë non è più lo stesso se perde la sua radice, quella che gli ha storicamente permesso di realizzare il proprio micro cosmo ideale in cui attraverso la bonifica e il costruito storico, i rapporto sociali tra simili, all’interno dei centri antichi, in armonia con gli indigeni e l’ambiente naturale vive ancora oggi.
Tutte le i generi che vedono o sentono gli arbëreshë: parla minore, ballata che descrivendo forme circolari perché è sempre Pasqua, minimizza la minoranza e tutti gli illustri che per essa e le terre dove vissero diedero la vita, ad iniziare dal noto eroe Giorgio di Giovanni Kastriota.
Si Kastriota! come Kastrum e non Borgatari, o Borgo, diffusamente si individuano gli oltre cento agglomerati urbani facente parte la regione storica, perché costruiti secondo il disciplinare tipico della famiglia allargata, la stessa di estrazione Kanuniana, caratterizzante queste antiche popolazioni.
Per confermare ciò basta che vi rechiate a Cavallerizzo in Provincia di Cosenza, a Ginestra in provincia di Benevento, a Casal Nuovo in provincia di Foggia, questi solo per citarne alcuni dei più caratteristici di questo fenomeno sociale; qui dove per necessita pure se nessun riecheggiare si manifesta, i “Veri arbëreshë”, avvertono magicamente di esser nel proprio “Sheshi”, ed ecco il miracoloso, calore del costruito storico che ti avvolge e i cinque sensi che riscaldano il cuore e la mente.
“AUGURI A TUTTI E BUON 2021 “L’ANNO DELLA STELLA COMETA”
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Posted on 22 dicembre 2020 by admin
NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Se l’idioma e la consuetudine seguono senza soluzione di continuità la metrica del canto, questo diviene il mezzo attraverso il quale la storia arbëreshë imita il cuore quando ripetere i battiti per far vivere l’uomo.
Questa è il principio su cui si basa l’esistenza di un popolo tra i più enigmatici del mediterraneo, prima nella loro terra di origine a est delle rive dell’Adriatico, identificati nel corso della storia come: Kalbanon, Arbëri e Arbanon e dal XIII secolo anche nelle terre a ovest dello Jonio e dell’Adriatico, con il nome di Arbëreshë.
I due modelli Arbëri con radici equipollenti, nati e innestati poi in territori paralleli; i primi a misurarsi con i popoli che di li a poco iniziarono a piegarli; i secondi, per non seguire questa sorte emigrarono, garantiti dall’essere lasciati vivere con il proprio patrimonio identitario.
Di queste popolazione, “comunemente inquadrata esclusivamente linguistica”, si fa un gran discutere della più caparbia, ovvero gli Arbëreshë, la risorsa da valorizzare, in forma di parlata, associata addirittura a una forma scritta, necessità di cui ancora oggi non si comprende l’esigenza, nonostante resti apparecchiata una vivace e coloratissima trattazione, a dir poco paradossale e della quale nessuno si assume l’onere di essere madrina o padrino; nel contempo prende il largo, il comunemente, libero pensatore, fantasmagorico e colorato, divulgatore di fatti, luoghi e cose senza senso.
In poche parole un teatrino ineguagliabile, del quale la cultura in senso generale cerca di coprire con veli pietosi, lasciando apparire così, gli arbëreshë al pari di una generica minoranza che evidenzia la propria radice ballando e volteggiando con fazzoletti, legati ai polsi, mentre gli uomini divertiti stanno a guardare che arrivi il tempo del pasto.
Nessun ripensamento ha avuto ragione nel convincere che gli arbëreshë sono solo una lingua diversa, sin anche quando furono emanate leggi, che dovevano tutelare esclusivamente questo aspetto “maritato” a un ambito urbano, denominando impropriamente (Gjitonia come il Vicinato) per accennare anche agli ambiti urbani come un patto di prestito deformato, coperto con veli pietosi senza rilevanza.
E fu così che i numerosi elementi caratteristici e caratterizzanti, raccolto più per necessità e non perché parte fondamentale della tradizione, innestando sin anche, elementi, provenienti da anfratti mai attraversati o vissuti dagli arbëreshë.
Purtroppo, tutti gli istituti il cui protocollo seguiva imperterrito questa rotta, hanno terminato la loro corsa in malo modo e i risultati stanno stesi alla luce del sole, con la speranza che vaporizzino, non offrendo così appiglio alcuno dove asciugare i fazzoletti di lacrime amare legate al polso.
Se oggi, una fiammella è stata accesa per la minoranza storica arbëreshë e illumina le consuetudini, la metrica secondo la forza del magico modello che la sostiene, lo si deve a pochi esperti, mentre dalla parte dei comunemente, nessuno ha avuto il buon senso di chiedere scusa a quanti hanno individuato le essenze nella loro originaria forza.
Dati di fatto concreti contenuti chiaramente nella prima migrazione, da cui emerge palesemente che si disposero secondo arche prestabilite e prevalentemente marchiate della religione greca bizantina, (confusa per ortodossa), rotta non casuale, e fortemente controllata anzi, si direbbe proprio un accanimento terapeutico, inferto per far apparire tutto come “arco di ponte” in favore della romana religione.
L’esigenza di produrre questo breve nasce, con la certezza “matematica” che gli ambiti e le caratteristiche delle genti arbëreshë, non sono esclusiva espressione idiomatica, ma soprattutto espressione di luogo, ambiente naturale e vissuto secondo un disciplinare antico, battito del tempo regolato delle stagioni e le procedure ad esse legate per rendere possibile la convivenza tra arbëreshë e natura già nota.
Gli ambiti così organizzati sono riconducibili alla Regione storica Arbëreshë, insieme indissolubile non per l’espressione idiomatica che pur se mantiene la sua radice, si frammenta quando si riverberata tra i numerosi anfratti simili; per questo complementare a elementi identificativi forti, sia in forma materiale e sia in concetti immateriali, quali avvenimenti, gestualità, suoni, comportamenti, ritualità e scelta di ambiti naturali paralleli, tutti in egual misura bonificati edificati per poter essere mantenuti secondo adempimenti in spazi liberi e in spazi edificati.
Sono proprio questi ultimi a essere considerati le culle, le purpignere entro cui i valori, in forma di labirinto del gruppo familiare allargato, sono depositati e certamente non alla portata culturale di quanti si sono mossi senza un progetto preliminare da seguire.
Secondo le ricerche storicamente riconosciute come brillanti, solo con una base come quella appena accennata si sarebbe potuto dare seguito a livelli superiori, a cui dare seguito alla lettura degli elementi e comprendere il significato linguistico di radice e non il comunemente indifferenziato della terra di origine.
Tutto questo non per dividere il significato di due specie, ma trovare la radice, rispetto ad altre anomale che non sono simili neanche nella forma di sviluppo, in tutto, creare presupposti idonei di spagliatura capaci a restituire la bianca farina per fare il pane, non è certo preferire la crusca come hanno fatto nelle regioni dove per volontà dei conquistatori si buttava il bianco prodotto secondo volere dei conquistatori.
A tal fine è bene precisare che sino a quando si perderà tempo a classificare favole, parabole o parlate locali, non si produrrà nulla di solido, in quanto l’unico componimento scritto che nessuno ha mai composto avrebbero dovuto fare riferimento esclusivamente:
“agli appellativi del corpo umano e lo spazio costruito e agreste che li circondava e garantiva la vita in origine”.
L’elenco alfabetico dei vocaboli espressi in italiano, era l’unica isola da trovare, poi da qui ripartire seguendo le favole, così come fecero gli ispiratori fratelli Grimm per la lingua tedesca nel 1871, tassativamente e senza confusione alcuna, prima il corpo umano e gli ambiti di crescita e poi le favole.
Che l’Arbëreshë non sia solo una mera espressione linguistica, lo dimostra la non esistenza di un paese appartenente al ceppo identitario a cui non siano legati i quattro elementi fondamentali per l’insediamento, ovvero: un presidio religioso “kishia”; luogo di avvistamento,” Brègù”; una trama urbana denominata “sheshi”, il labirinto; identificato come “Katundë” .
Oltre cento paesi, che ancora oggi, conservano questa trama urbana, nella quale depositarono, o meglio costruirono il micro clima ideale per allevare, consuetudini, metrica e attività uniche, non in forma di gioielli o altro a cui si potesse dare un valore commerciale, ma semplicemente, creare presupposti paralleli senza i quali il valore dell’identità arbëreshë, non si sarebbe riverbera per secoli identicamente.
Un’identità, non è mera espressione linguistica come disinformate sedi, prive di alcuna formazione, se non titoli equipollenti, si sono cimentati a definire mono tema, immaginando che annaffiare con forme di scrittura liquida, avrebbero sostento la crescita, sotto il sole, che si sa, fa sempre evaporare ogni cosa.
Un incauto adempimento che se opportunamente, progettato, come poi tutte per tutte i popoli anti chi si è proceduto, iniziando per protocollo dagli elementi materiali, ovvero i contenitori fisici dell’espressione linguistica regolata esclusivamente dallo scorre re del tempo e le stagioni.
Per concludere, possiamo affermare che quanti hanno immaginato di fissare per tutelare la cultura o il senso generale della minoranza storica più solida del mediterraneo, affidandosi solo allo studio o espressione linguistica di questo popolo hanno fatto un catastrofico errore, giacché, se la lingua in vari modi esprime un modo di destare curiosità e interesse, le risorse solide sono conservate nelle architettura, nell’urbanistica e nelle regole non scritte, a tutti note, per convivere e progredire nella più solida e leale rapporto tra ambiente naturale, ambiente costruito e generi arbëreshë.
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Posted on 06 dicembre 2020 by admin
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Posted on 25 novembre 2020 by admin
NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Dal primo incontro nel suo centro culturale e poi durante le conversazioni telefoniche, Gerardo M. e lo scrivente, erano in linea sul dato che: le conseguenze subite dai giovani pensatori del 1799, non erano riferite alla ribellione popolare, ma a una nuova linea di pensiero innovativo, che andava cancellata e non doveva lasciare traccia ereditaria.
Vero è che rileggendo la storia, annotando i particolari del disciplinare adottato, verso i giovani pensatori, emerge un dato inconfutabile, in altre parole, negli immediati momenti che seguivano l’arresto, si operava a distruggere libri editi e ogni sorta di documento scritto.
Ovvero, tutto ciò che poteva avere forma o consistenza di un discorso, erano distrutti perché considerati pericoloso, al pari, anzi peggio, di chi lo possedeva o lo aveva scritto, per questo era opportuno dare subito alle fiamme l’edito, per evitare che sfuggisse.
Solo dopo si passava al processo e al conseguente afforcamento in pubblico, mentre chi nel chiuso delle proprie case e quanti li davanti a guardare, non alzava un lamento di diniego, ne prima, ne durante e ne dopo l’esecuzione.
Le vicende di bruciare gli editi e poi eliminare fisicamente gli antagonisti reali proseguono anche fuori dagli ambiti della capitale partenopea dal giugno del 99 e per diversi anni, si racconta almeno più di cinque e meno di sette.
Le ideologie dei giovani pensatori furono soffocate e chi magari vigliaccamente le ha conservate, non avendo la cultura per comprenderne il significato, le ha usate in malo modo.
Tuttavia, la metodica di bruciare il pensiero e poi eliminare fisicamente i pensatori, è finita sin anche tra le pianure e gli anfratti del regno, senza mai terminare la sua corsa, rimanendo viva imperterrita e senza epoca.
Un esempio che conferma questa regola viene anche dagli anfratti delle colline arbëreshë, dove proprio allo scadere di quegli anni, per un millantato limite di proprietà fu soppresso un Bugliari.
Le vicende poi si accavallarono venne, l’unità, le guerre e il bum economico sino ai motti della rivoluzione giovanile.
E vista ancora la divisione sociale che aleggiava tra le colline anzidette, un comitato di affari in maniera perversa immaginò di porre guida un altro omonimo, con a cuore, non la coesione sociale, ma il buon termine della sua carriera.
Ragion per cui, lo scettro passo nelle mani di un comitato d’affari, che ritenere solamente senza cultura, garbo, dignità e onore è un eufemismo che non da misura del danno prodotto, perché, ebbe inizio la stagione della moderna metodica del 1799, sopprimere le idee degli altri e poi togliere beni e benefici gli antagonisti.
Questo penare senza soluzione di continuità andò avanti sino agli inizi degli anni ottanta, stranamente, giusto un ventennio, dove al posto della svastica era stata posta la falce e il martello; il primo per tagliare risorse agli antagonisti il secondo per fare male fisicamente.
Il ventennio trascorse con una piccola parte sociale che accumulava ricchezza, la plebe che si cibava di trapesi e gli antagonisti a penare immaginando un idolo giusto.
Vennero gli anni ottanta, e festa fu, ma Emilio, Atanasio e Carletto si resero conto solo dopo i dieci minuti che seguirono lo spoglio che il nuovo era cresciuto nello “sheshi” di chi avrebbe dovuto sostituire il comitato prima citato e così fu continuità.
A subire furono gli stessi e andare avanti, se non tutti, una buona parte del citato comitato rimase sempre in piedi e comunque sempre comitato rimase.
Nulla sarebbe cambiato nei seguenti due ventenni e la deriva assunse forme e dimensioni paradossali, dove il rispetto e la tutela, divenne una leggenda, da citare davanti al camino in forma di favola ai nipoti adolescenti.
Dopo il primo ventennio e i due seguenti, di quinquennale illusione, un segno benevolo era apparso a Ovest delle colline, illudendo però nel breve di una stagione invernale quanti annotano e hanno lucida visione storica; constatando ora come nell’ottanta, di dover riporre ago filo e ditale, nell’attesa di un quinquennio migliore per cucire, culturale, società, politica e religiosa, dilaniata e appesa al sole a perde consistenza.
Aveva tutte le caratteristiche di una nuova era, purtroppo quel bagliore scambiato per una nuova alba, non era di sole, ma un lampo di tempesta, perché a ovest.
A ben vedere, nella stessa direzione è allocato lo “sheshi” del primo ventennio, proprio lì, dove finiva la strada che dalla piazza doveva essere la via di tutti, ma finì privata e solo per amici.
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Posted on 13 novembre 2020 by admin
NAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) -Come di sovente, nei giorni scorsi mi sono state segnalate numerose attività all’interno della regione storica arbëreshë, in senso di consuetudini, attività di confronto con la terra madre e progetti secondo i quali dovrebbero essere rispettati i termini di tutela e valorizzazione storica tra passato, presente e futuro.
Di esse, essendo le altre di carattere intangibile e per questo lasciano il tempo che fa, l’osservare da tecnici un “Master Planning”, vantato dai committenti, come eccellenza, preoccupa e per questo si ritiene di precisare quanto segue.
La presentazione del modello in forma tangibile, lascia palesemente trasparire la totale inconsapevolezza di quali fossero le strategie d’indirizzo e programmazione per l’ottenimento di risultati, questi attraverso il disegno sono prova espressiva di un procedimento che non dimostra quale fase voglia esternare in forma: preliminare, definitiva, esecutiva o cantierabile.
Astenersi nell’entrare nei meriti del grafico, in termini di scelte e di esigenze, per le quali sono stati richiesti e si è ritenuto produrre cose è un’analisi doverosa, visto che appiattisce i meriti del senso locale in forma tangibile.
In conformità di studi, condotti da oltre quattro decenni, sarebbe un errore non cercare di fornire elementi fondamentali, o meglio far almeno ruotare la direzione di quel grafico, perché l’inadeguatezza di affrancamento si sviluppa incuneandosi in forma anonima nei valori religiosi e consuetudinari di riposo eterno.
Lavorare in ambiti minoritari dove la valorizzazione del consuetudinario della metrica e la credenza popolare, sono gli elementi fondamentali depositati in forma tangibile, alterarli, gratuitamente produce danno incalcolabile, specie se terminano la discendenza tra, passato, presente e futuro, le di cui generazioni, devono avere in eredità, adeguati aspetti tangibili da riverberare.
A tal proposito è bene ricordare che “Harj Shëgnët” il 12 giugno 1804, grazie alle direttive di Napoleone inizia a disciplinare, diventando per questo i luoghi per il ricordo degli uomini di un tempo.
Prima di allora era costume seppellire, nei sotterranei delle chiese e quando gli spazi divenivano insufficienti si sistemava in area urbana adiacente, creando per la bisogna spazi opportunamente recintati.
Dopo la Restaurazione, Legge 11 Marzo 1817 di Ferdinando I, regola nel meridione, costruzione dei luoghi dell’eterno riposo “Harj Shëgnët” e in ogni comune di qua del Faro, fece seguito il Regolamento Ministeriale del 21 Marzo 1817.
Solo dopo una serie migliorativa, con l’atto del 14 Luglio 1841, veniva disposto ogni elemento indispensabile per accogliere secondo credenza e arte chi avrebbe riposato eternamente.
Nel 1839 nel nostro caso era presentato un progetto per“Harj Shëgnët”, rispondeva egregiamente a tutte le linee guida, sanitarie e clericali, in senso di credenza, orientamento e distanziamento, vie pedonali, spazi privati e murazioni atte a coprire l’intimità del luogo di riposo.
Dopo poco meno di duecento anni l’opera è stata continuamente menomata di ogni sua parte fondamentale avendo in eredità il senso manomesso e confuso di quel luogo di riposo, stravolto nel citato elaborato di premessa; coprendo di bare e di segni, sin anche la strada percorsa secoli or sono dai padri fondatori per scappare dagli antagonisti che li avevano condannati a morte certa.
Oggi vedere interrotta quella via proprio da un luogo di riposo di specie è palesemente un atto ironico, probabilmente, ma sotto l’aspetto dell’identità è un pezzo di storia pubblicamente e continuativamente violentata.
Non so se questa piccola nota sarà accolta con il dovuto rispetto, perché, si tratta non di prese di posizioni, politiche o di controversia gratuita, né si tratta di adempimenti espressi da alchimisti senza titolo ed esperienza.
Qui parliamo del rispetto per quanti non vivono più, espresso secondo i voleri antichi; sono i germogli che fioriscono per il ricordo; non ascoltarli e renderli propri, significano fare il prossimo “fosso”, in direzione verticale, l’unica anomalia ancora non contemplata in quel sacro perimetro, che così facendo diventa di accumulo.
Terminando questo breve, si può affermare che dall’innesto del torrente Galatrella al fiume Crati, dopo un percorso tortuoso ed impervio, giunti sul pianoro, termina la strada che alimentava la luce del Casale terra dentro “Harj Shëgnët” se oggi comunemente la si vuole sopprimere, non si fa altro che confondere la luce abbagliate, quando si nasce, con la fiammella di chi spira.
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Posted on 13 ottobre 2020 by admin
NAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) – Voglio raccontare la regione storica arbëreshë, non per come va verso l’estinzione, ma per quanto è stato realizzato dai suoi figli, al fine di renderla talmente solida da consentirle di riverberarsi identicamente sino a divenire un modello unico di solidità culturale.
Si da inizio a questo breve, seguendo una via che non da merito, ai divulgati in forma di favole, il cui fine voleva comporre una parlata identitaria infima per unire arbëreshë e Arbanon rimasti in madrepatria, non si sa a quale titolo o scopo, se si esclude il velleitario progetto turco.
Non parlerò di ambigue figure, giullari, alchimisti e operatori culturali economici, giacché, si ritiene che non debbano apparire, ma sciogliere e imbibire le radici, come fa la neve quando spunta il sole.
Tratteremo di generi nello specifico del corpo umano, gli organi che lo compongono, l’ambiente e la natura che lo accoglieva, per renderlo parte del sistema naturale; la radice da cui si diramano le forme idiomatiche più antiche in esclusiva forma orale.
Racconteremo come essi edificarono e come depositarono, consuetudini antichissime, oggi alla base dei principi sociali più moderni, delle grandi città e metropoli.
Parleremo di Kastrijoni, l’insieme di Sheshi, il modello urbano aperto e composto di Uhda, Rruga, Shëpi, Kopshëti e Gardë, il labirinto, modellato prima dalla natura, poi dagli uomini per generare il luogo dei cinque sensi: Gjitonia.
Inquadreremo, l’unica forma artistica arbëreshë: il costume nuziale, realizzato sulla base storica di antiche credenze identitarie greco bizantine, le stesse che con grande perizia sono racchiuse in quelle vesti di filamenti, colorati, porporati e dorati.
La figura femminile, l’emblema della crescita, nell’indossarlo durante la finzione matrimoniale religiosa e nel seguito diventa espressione dell’unione, una diplomatica identitaria, per la continuità generazionale.
Saranno trattate le indagini “onciarie”, in specie quelle iniziate alla fine del XVII secolo, quando la direzione generale del Regno di Napoli, si rese conto, dell’avanzare di una nuova classe che non aveva né attitudini, né capacità per amministrare e tutelare il territorio, ma produrre solo interesse privato.
Divulgheremo i modi in cui la direzione generale a Napoli aveva preso consapevolezza di ciò e dell’assistenza di una numerosa e folta schiera di “faccendieri locali” che dirottavano, risorse notevoli, per i loro personali interessi a scapito del territorio che subiva e incassava perdite che ormai non erano più trascurabili.
Così come avevano già fatto gli uomini della regione storica, dopo i periodi di scontro e di confronto con le genti indigene, terminati alla fine del sedicesimo secolo.
Lo stesso periodo in cui anch’essi volsero lo sguardo verso il futuro, guardando, pensando e pianificando secondo le consuetudini e le regole sociali e religiose, importate dalla terra di origine e in arbëreshë.
Questo è un dato fondamentale, in quanto, nello stesso periodo in cui erano terminate le trascrizioni onciari, si dava inizio alla formazione culturale degli arbëreshë attraverso l’Istituto Corsini, prima in San Benedetto Ullano e poi espandendosi, grazie alla florida Scuola Napoletana, di estrazione bizantina, in tutto il regno e in particolare nel Vulture in Lucania e nella provincia citeriore calabrese nella sede di Sant’Adriano, sino a che Sofiota.
Sino a quando non si metteranno in riga, rispettando senza alcun campanilismo il ruoli dei Rodotà, i Bugliari, il Baffi, i Ferriolo, i Giura, i Torelli, lo Scura, a tal proposito si vuole sottolineare, a quale traguardo si mira, quando si parla di altre figure di irrilevante spessore, nel disquisire dell’istituto Corsini quando venne affidato alla scuola Sofiota in Sant’Adriano.
Sono, San Benedetto e Sant’Adriano i due poli che dalla meta del XVII secolo, sino all’unità d’Italia creano quella solidità culturale e identitaria che non trova più eguali.
Nonostante l’intervallo è da considerare come il culmine dell’ascesa culturale degli Arbëreshë in Europa, indirettamente anche per gli Albanesi dormienti.
Oggi se dovessimo esporre cosa abbia alimentato quel glorioso periodo culturale, della regione storica, non troveremmo nessuna pubblicazione che restituisca una dignità storica, se non divagazioni campanilistiche senza senso, in altre parole una calca culturale dove si cerca di sollevare la propria bandierina più in altro possibile rispetto agli altri.
Ciò nonostante, nessuna istituzione si è mai prodigata a produrre una ricerca unitaria e condivisa relativamente, a quale fosse l’impegno preso dagli arbëreshë e per quale ragione essi si siano insediai, secondo precise arche, scontrati e confrontati con le genti indigene e i regnanti, portato a buon fine onorevolmente secondo la “BESA”fatta, persino andare oltre, suggellando la perfetta integrazione all’indomani del 1861.
Alla luce di tutti questi temi assieme ad altri non di minore importanza si vuole sottolineare che siamo giunti alla fine dell’estate Arbëreshë del 2020 e tra poco più di un mene, inizia l’inverno, la seconda delle stagioni arbëreshë.
Sono proprio questi pochi mesi che la mente degli arbëreshë, oggi come allora, assorbe tutta la forza fisica, di quanti si sentono figli di questa minoranza, per pianificare e porre in essere il futuro sostenibile della regione storica.
A questo momento di rinascita sono invitate tutte le categorie amministrative, affinché pongano in essere attività progettuali che mostrino un solido futuro per la minoranza.
Il dovere vi impone di consolidare adeguatamente, quel tragitto consuetudinario che per la sua solidità, dall’unità d’Italia ha consentito la continuità della minoranza, grazie alla Inerzia Culturale, che oggi chiede nuova energia.
Ora è giunto il tempo di cambiare e se non si predispongono le giuste misure in questi mesi, termineremo con lo smarrire quelle preziose direttive di integrazione che giacciono indifese nei vostri ambiti territoriali di macroarea; gli stessi che tutta l’Europa cerca e non può, ne capire e ne vedere, perché tramandati in consuetudini orali arbëreshë.
Oggi si dice di caratterizzare valorizzare e porre a dimora le radici del passato, le stesse che il più delle volte si millanta di conoscere e per distrarre gli spettatori si finisce di strimpellare sonorità, portati da corone, offrendo per completare l’opera, prodotti di scarsa qualità, scambiandoli con quelli dei micro ambiti.
Si parla di costumi, si vestono ragazze, si fanno e si cercano immagini, come se questi fossero la medicina per guarire da mali o ricongiungere arti deformi, per questo è palese lo stato di fatto e sino a quando non sarà predisposto la metodica capace a rendere comprensibile i messaggi contenuti negli ambiti minoritari, continueremo irreparabilmente a disperdere quanto di più prezioso possediamo.
Oggi si va alla ricerca di foto, documenti e onciari, incapaci di proiettarli nel territorio e ricostruire la memoria perduta, sfracello generalizzato imposto, sostenuto e valorizzato pure da una grossa fetta della politica per ricevere consensi.
Fortuna vuole che chi sia partito per studiare, conserva memoria e valori culturali, perché solidamente formato in quelle fucine consuetudinarie che sino agli inizi degli anni sessanta del secolo scorso funzionavano a pieno ritmo.
Ciò a fatto si che una solida generazione abbiano compreso che inchinarsi a indagare, pur ricevendo sarcasmo, non è un pegno troppo grande da sostenere, ma una risorsa intelligente a favore degli ambiti costruiti e naturali della regione storica.
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Posted on 01 ottobre 2020 by admin
NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – I beni tangibili e intangibili del patrimonio culturale della minoranza storica arbëreshë, avrebbero dovuto esse considerati indistintamente, eccellenze da tutelare, dopo essere state opportunamente catalogate, nelle forme e nei luoghi dove si sono sviluppati secondo le esigenze degli uomini e del tempo.
Ciò nonostante “i detti saggi generali” hanno preferito seguire la deriva del mono tema, tralasciando progetti, in grado di predisporre strategie di sostenibilità, accomunando l’intangibile con il modello abitativo minoritario di base, in ogni loro aspetto caratterizzante.
Alla luce di ciò “i saggi” saranno ricordati, nei secoli a venire, per lo spreco di fondamenti andati dispersi o espressi senza adeguata cognizione, in specie l’esperienza abitativa; la culla, dove è stata allevata la radice identitaria della minoranza nel corso dei secoli.
Ciò nonostante la cosa che più duole si racconta nel fatto che non è stato un momento di sbandamento o di perdita della retta via, ma una scelta politica studiata a tavolino, il cui fine mirava a lasciare al libero arbitrio, la fonte primaria d’insediamento, nonostante apparisse evidente l’importanza del modulo abitativo tipo e della sua radice nel corso dei secoli.
E nonostante quest’ultimo, assieme all’ambiente naturale abbiano contribuito, in maniera fondamentale, al riverberarsi identicamente nel tempo della propria tradizione identitaria, le vicende storiche della minoranza arbëreshë, cono state considerate irrilevanti e per questo imprestato dalle genti indigene.
La deriva cosi sostenuta e voluta ha finito nel ritenere quale elemento complementare lo studio e l’analisi storica dell’architettura minore, ovvero l’ambiente costruito secondo le necessità del luogo naturale, senza porre alcuna riguardo per i valori in essi conserva o contenuti, sicuramente difficili da interpretare da comuni ricercatori, questi in specie ha portato lo scrivente, da diversi decenni a lamentare la carenza di studio in tale disciplina o direzione dirsi voglia.
Un campo lasciato al libero arbitrio, dove a germogliare è stato la faciloneria diffusa di studiosi contemporanei senza alcun titolo specifico, i quali ritenendosi eccellenze incontrastate e forti della loro posizione politico/culturale, hanno assunto verso questa storica disciplina un atteggiamento molto soggettivo, tradottosi nel breve di un decennio, in supervalutazione delle influenze architettoniche maggiori, calettandole gratuitamente nell’intimo del costruito Arbëreshë.
Una diffusa compagnia di non titolati della storia dell’architettura ha immaginato modelli costruiti all’interno dei centri antichi, quali manufatti realizzati nel tempo di una stagione, come avviene in epoca moderna, collocandoli e stimandoli come elementi di una circoscritta e ben definita parentesi storico edificatoria.
A tal proposito e per meglio comprendere il discorso è opportuno fare una premessa; notoriamente gli arbëreshë quando riferiscono di una casa, una dimora o manufatto architettonico in generale lo pronunzia al plurale, ad esempio, la casa di Bugliari è detto le case dei Bugliari (shëpitë e Bulërveth).
Ciò è riferibile al corso del tempo, in quanto, la casa, nata sotto forma estrattiva si era evoluta nel tempo sino a diventare prima manufatto additivo a piano terra, poi elevato in altezza e in fine diventare espressione nobiliare, ovvero le diverse case che avevano avuto nel corso di cinque secoli una ben identificata famiglia, cambiata con le vicende sociali del tempo e dell’economia crescente secondo le dinamiche e le necessità di quel ben identificato gruppo familiare.
Genericamente oggi si rende merito al paese arbëreshë e agli ambiti dove si parla l’antica lingua ritenendo che dove questa non si riverbera più, quell’ambito è magicamente diventato indigeno, come se si fossero volatilizzati per incanto i trascorsi della storia tra uomo e ambiente costruito.
Ebbene non è così, in quanto un ambito abitato per secoli dalla minoranza, non smette di essere un luogo segnato solo perché non si parli l’antico idioma, come se fosse vera la leggenda dello Skirrò, che senza alcun rispetto o vergogna diceva, che la “sua arberia” era dove due arbëreshë si erano fermati a parlare per poi partire, in poche parole untori di territori.
Come se i membri della minoranza fossero untori seriali di territorio, per il loro modo di colloquiare spargendo saliva e chissà cosa altro, fortunatamente non è così, giacché, la stria ci da meriti più consistenti e di altra natura.
Prendendo spunto da questa volgare affermazione si può dedurre che un termine più razzista, omofobo e privo di alcuna consistenza storica e spregevole poteva essere partorito dall’inadeguatezza dell’uomo.
Egli sin dalla notte dei tempi ha avuto tempo per migliorarsi per poi prendere la china e distruggere quanto innalzato e se volessimo fare una disamina di quanto dura questo principio, ci sono grandi margini entro i quali avrebbe potuto correggere tale affermazione, tuttavia si continua imperterriti su tale deriva, e non si fa errore nel ritenere questa, la più ignobile e denigratoria affermazione che, la storia ricordi.
Gli arbëreshë hanno una tradizione di accoglienza e di principi sociali, consuetudinari che farebbe invidia alle più moderne società avanzate ideologiche e di pensiero, essi non sono un’utopia, sono realtà culturale, che si riverbera da secoli nel silenzio delle ideologie di partito, ritenendo che la magia della loro esistenza è racchiuso nel loro modo autonomi a rispettosa dello stato shëshi.
Ritenere che la regione storica arbëreshë sia fatta esclusivamente di espressione idiomatica, associata alla consuetudine alla metrica canora e alla religione greco bizantina è un errore storico senza eguali, in quanto il vetusto ed irriverente enunciato, è un prodotto alchemico studiato a tavolino, senza avere consapevolezza di luoghi, immaginando che solo i prodotti archivistici e scrittografici possano delineare il corso della storia.
L’unico e solo progetto d’indagine tiene conto degli ambiti attraversati bonificati e costruiti dagli arbëreshë, la vera espressione scrittografica, fatta di solchi colmi di sudore e sangue sulla terra dove essi fermarono per essere utili e uniti con gli indigeni.
Le case arbëreshë non sono le case kotra o le Albanesi kulla, in quanto la prima non esiste, in quanto un mero abuso edilizio realizzato con materiali delle industrie negli anni del dopo guerra del secolo scorso; mentre la seconda è un elemento fortificato del XIX secolo, quando gli albanesi preferirono allocarsi nelle zone più a valle pianeggianti, e per difendersi realizzarono questa sorta di fortino verticale che non fa parte della storia degli insediamenti collinari.
La casa tipica degli arbëreshë è un modulo tipo che ritroviamo in tutti i cento dieci paesi che formano la regione storica, e quando di questo modulo tipo, non vi sia traccia, basta indagare abitazioni più recenti, per trovare al suoi interno la perla abitativa, come quando si separa lo scafo di un’ostrica.
I Kastrijonì (i Paesi o Katundë, dirsi voglia, ma non Borghi) erano dunque, un’unità territoriale, con una società organizzata secondo radice antichissima, dove trovavano dimora i meccanismi istituzionali in grado di preservare tutti gli aspetti immateriali.
Sono questi ambiti a divenire vere e proprie purpignere, che dal XII secolo, sono state in grado di consentito alla radice, importata dalla terra di origine, di fiorire e riverberare quegli elementi che senza uno sheshi, senza una casa non avrebbero avuto modo di durare tanti secoli.
Il modello in origine limitava persino di contrarre matrimoni all’interno del proprio ambito e tra gruppi esterni e comunque indigeni.
La tutela e la valorizzazione dei Kastrijonì Arbëreshë e Albanesi, attraverso un’attenta analisi degli elementi giunti sino ai giorni nostri, è ancora in grado di fornire una traccia solida, che nessun documento è in grado di fornire.
Ciò ha fatto nascere negli ultimi anni la conseguente necessità di pervenire alla conoscenza delle tipologie in grado di offrire risposte alle vicende del passato ponendo in analisi l’edificato delle varie epoche, associandole a forme di dimore prima estrattive e poi additive.
Esse sono riscontrabili in specie negli insediamenti nell’Epiro nuova e nell’Epiro vecchia, relativamente al tardo medioevo, poi in seguito, dal XV secolo, in quelli arbëreshë del meridione italiano e di tutta la fascia del’entroterra collinare adriatico.
Le capitolazioni, che per il loro significato sono un atto di sottomissione non possono riferire della storia degli arbëreshë, ma le pietre si; tanto meno la possono rilevare i catasti onciari, questi per i presupposti secondo cui vennero realizzati a dare risposte alla questione meridionale, essa rimane viva e pietosamente frena ogni ambito del sud, diversamente dai paramenti murari che raccontano, con le loro consistenze verticali, orizzontali, inclinati e i tipici affacci, come si trasformava i paesi minoritari.
Per terminare questo breve è bene ricordare che gli storici dell’architettura sono una cosa, quanti corrono per fotografare documenti sono altra cosa, comunque risultano essere più affidabili i primi, gli unici in grado di collocare adeguatamente nel progetto della storia, cosa e chi ha vissuto quella terra.
P.S. Se siete documentaristi ed esperti lettori della Regione storica arbëreshe, scrivete un libro basandovi su questa immagine: ma devono essere almeno mille pagine se siete veramente bravi.
L’immagine non sta in archivio ne in biblioteca e ne in un museo, la trovate in Via lëm letiri a Santa Sofia.
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