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LA SAPIENZA ASCOLTA, MISURA E RICORDA; LE MAGARE DANZANO E SCRIVONO SULLA CENERE

LA SAPIENZA ASCOLTA, MISURA E RICORDA; LE MAGARE DANZANO E SCRIVONO SULLA CENERE

Posted on 16 novembre 2020 by admin

CasaNAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) – L’Arbëreshë nasce agricoltore del suo sapere, moto perpetuo di sentimenti e consuetudini antiche, alimentato dalla natura attraverso il territorio circostante; riverbero ritmico di quanto posto a dimora in inverno e cultura in estate.

Esso provvede alle sue necessità vitali, per se e il gruppo a cui è parte, all’interno del suo giardino, dove innalza l’abitazione è dispone l’orto.

Il giardino è il labirinto per difendersi dai simili e difendere fisicamente la famiglia;

l’abitazione e il luogo dove vive, prolifera, difende le cose materiali, misura indispensabile nel confronto con gli eventi naturali;

l’orto è la farmacia, per cautelarsi i dai venti e da esseri  non  visibili,  per questo più pericolosi per la sua salute.

Il modello sheshi così composto, diventa il centro proto-industriale, dove si mira a rispondere agli accadimenti per la sostenibilità del modello di vita arbëreshë, basato per questo su fondamenta consuetudinarie mediterranee.

Il “luogo dei mestieri”, predisposti in accordo con l’ambiente naturale, essi diventano il teatro delle tradizioni, in cui la natura promuove il trittico alimentare e l’uomo organizza secondo i ritmi sostenibili dell’ambiente  che ne pesa e ne modifica la consistenza dell’ambiente nello scorrere del tempo.

Tra gli abitanti del bacino mediterraneo le terre dell’Italia meridionale ricadenti nel quadrilatero equipollente che si estende dalla Grecia più orientale. sino al Portogallo più occidentale tra i paralleli 37° al 43°, gli stessi che secondo il Grinvic della geografia che lo voleva anticamente a Napoli, vedono gli arbëreshë protagonisti dell’antichissima tradizione tramandata secondo i canoni esclusivamente idiomatici di convivere con la natura senza mai immaginare di sopraffarla.

Essi senza mai abbandonare le diplomatiche orali ereditate nell’antichità, seguono con i ritmi delle due stagioni l’antico protocollo di tutela, arte popolare come elemento non di arrochire se stessi, ma tutelare lo sheshi e l’ambiente circostante.

Per questo la misura è presa dalle flessibilità dell’ambiente naturale, utilizzando, realtà estrattive, poi additive, comunque senza incutere o predisporre ferite che la natura nel breve di una stagione non è in grado di risanare.

L’abitare in luogo coinvolge l’essenza dell’essere umano, questo occupa e vive l’ambiente intorno a sé, percependo a misurare lo spazio attraverso la percezione dei cinque sensi.

La vita umana per questo si svolge senza soluzione di continuità, nello spazio luogo, che il corpo umano con le sue interazioni riconosce e sanifica continuamente le sfumature a lui malevole.

L’essere umano misura la spazialità del luogo, lo caratterizza per quanto a lui necessario, inserendosi nelle trame, non per conquistarlo per distruggerlo o sottometterlo come fanno le malattie, per questo ne diviene parte e in comune convivenza, creano l’equilibrio antico, per la quale è stata accostata.

Si potrebbe a questo punto iniziare a trattare le origini e gli emblemi dei generi Arbëreshë in senso di luogo storia e arte in campo artistico, architettonico e urbanistico, ciò nonostante si vuole iniziare con la vestizione, visto che è diventata una emergenza.

L giorno d’oggi essendo diventata la vestizione  il biglietto da visita dell’intero indotto della regione storica, e l’uso comune che si adotta, richiede almeno di leggere almeno il sunto del manuale d’uso e manutenzione, non diversamente da come si fa quando si adottano prodotti  sconosciuti.

Oggi è opportuno, dopo circa tre secoli di uso, rilevare che quanti si esibiscono con l’emblema di solidità, unione e prole familiare, immaginando si scalare l’olimpo della visibilità diffusa, commette un grave errore, specie nei confronti di quanti conoscono e sanno leggere per questo prendono una grande pena per i messaggi comunemente inviati.

Evitate di esporvi, se ignorate il senso delle posture o dell’ alzare il padre, sconfinare gratuitamente nella fonte della prole o addirittura sopprimere il senso di reggenza della casa; quelle vesti, fuori dalle abitazioni entro cui venivano indossate, vanno garbatamente indossate, perché se solo immaginate il segnale che inviano utilizzando le mani o fermarle in maniera errata, vi vergognereste non solo di voi ma del genere che rappresentate.

Sul costume è bene porre l’accento, sul dato che si articola secondo i seguenti elementi e secondo la prima ricerca storica di antica matrice, rappresentano: la famiglia, il futuro di questa ……………………Continua.

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ABITAZIONI PRIVATE DELLA REGIONE STORICA MEDITERRANEA (Si Zùëmë e bëmh shëpij)

ABITAZIONI PRIVATE DELLA REGIONE STORICA MEDITERRANEA (Si Zùëmë e bëmh shëpij)

Posted on 06 novembre 2020 by admin

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NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – L’abitazione rappresenta l’artificio o involucro che l’uomo realizza per dare seguito alla permanenza in territori ritenuti a lui idonei, dove ritiene sia opportuno vivere.

In genere le terre dei luoghi di allocamento sono espressione del connubio tra natura e uomo, un legame generalmente vivo e pulsante che non ha soluzione di continuità, in cui entrambi danno e prendono secondo le necessità, mirate o indotte.

L’abitazione o involucro vernacolare, dopo la sua attuazione, protegge l’uomo da eventi climatici e di specie, non sempre in linea con le esigenze del genere umano.

Per questo, tutto quanto disposto e proposto dall’uomo in senso abitativo, inizia a caratterizzare l’ambiente naturale e, quando i ruoli s’invertono e la natura appare come se amplificasse le sue necessita, del suo andare delle più estreme manifestazioni.

L’abitazione nel corso dei secoli, assunto la funzione di memoria evolutiva, sia del luogo che dell’uomo, segnando il grado di geniali compromessi, tra natura che dispone e l’uomo che trasforma, sempre meno, in forma sostenibile.

I trattati su tali eventi sono trascritti dallo scorrere del tempo, si modificano continuamente, sia si tratti di vita nelle selve, sia in zone lacustri, di montagna, collinari o desertiche.

Tutti i modelli di microclima realizzati dall’uomo, comunque e dovunque perseguono il principio di creare un microclima rifinito, rispetto all’ambiente naturale che lo contiene; disponendo per questo forme atte a preservare la specie uomo, dalle insidie naturali, animali o di simili avversi.

Sin dalle costruzioni primitive la fattura strutturale e quella distributiva, rispondeva, in misura minima, alle esigenze locali, sia si trattasse di terreni coperti in strato d’acqua, sia collinari temperati o montuosi, creando una barriera sempre crescente verso ogni forma di accanimento esterno.

La caratteristica costruttiva quindi nasce nel palcoscenico, in cui i protagonisti, ambiente e uomo si misurano continuamente: tra natura, che propone e l’intelligenza dell’uomo, che trasforma.

Le case delle aree pianeggianti furono realizzate su impalcati di legno, perché questo comunemente era coperto dall’acqua, consentiva di liberarsi, alla meglio, dalle emanazioni febbrigene del suolo, Venezia stessa, fu costruita secondo tale direttiva anche se in epoca relativamente antica.

Così avvenne quando gli ambiti sono in altitudini e longitudini dissimili, pur garantendo una buona vivibilità, serviva tenere in serbo apparati idonei a garantire la vivibilità per l’uomo, non sempre in linea per la genesi naturale del luogo.

Nelle aree collinari, s’inizio con le forme estrattive, Matera e un solido esempio, seguita da quella additiva, con abitazioni innalzate di materiali locali; dal ghiaccio polare, ai rami, pietre, argilla delle zone collinari e montane mediterranee, ai pozzi delle aree desertiche.

Da semplici ricoveri amovibili nei primordi della civilizzazione, l’uomo, passa per transizioni a ricoveri più articolati e in linea con la vita in continua evoluzione.

Non è necessario risalire ai primi albori della civiltà umana per trovare l’uomo in abitazioni di fattura elementare, tutte accomunate da fonti d’acqua, elemento primario ed indispensabile da cui partire per caratterizzare il luogo e ambiente vissuto.

Le abitazioni, siano esse realizzate, in spianate lacustri, in valli, in fianchi di colline e o vette montuose, possedevano corsi o fonti, le stesse che oggi ritroviamo in tutte gli agglomerati piccoli, medi e grandi che hanno fatto la storia degli uomini.

Popolazioni più evolute come quelle mediterranee aggiunsero, altre alla porta d’ingresso dell’abitazione, anche la finestra, nel cui vuoto ricavato, modellavano pelli di vescica, per illuminare l’interno, senza disperdere calore o dare accesso a insidie in forma d’insetti.

Il progredire lento e continuo del Genius loci abitativo, inizia con l’addomesticare luoghi d’insediamento, e di pari passo fornire maggiore solidità alle strutture innalzate dell’uomo, per vivere ambiti identificabili come propri o laboratori per misurare la flessibilità della natura.

Tutto ciò, sulla scorta di un elenco di consuetudini di memoria, di tempo e di uomini, che consegue il raffinare sin anche il gusto artistico dell’opera muraria.

L’esperienza attraverso le dinamiche climatiche vissute dei popoli mediterranei, consentono il conseguimento di traguardi che divengono primato di alcuni uomini rispetto ad altri; abitazioni attraverso cui si possono identificare popoli, le  consuetudini che seguirono e le priorità sociali poste in essere.

I Greci non seguivano l’emblema dell’abitazione, in senso di casa, perché la famiglia si riconosceva nel tempio, quasi completamente pubblica, agitata da grande volubilità negli avvenimenti politici, orfani del sentimento più delicato del posto per la donna nella loro esistenza, per questo decorando con fina architettura le loro case, lasciando in secondo piano l’agiatezza interna.

I Romani, riconoscendosi negli ordinamenti civili, più stabili della loro politica di grandi dominatori, erano più legati dei Greci alla donna, alla famiglia, di conseguenza maggior culto per la casa.

Anche nelle sezioni naturali abitative delle rovine di Pompei si rileva, la grandiosità delle abitazioni e il lusso con cui se ne decoravano l’interno.

Pareti finemente affrescate e pavimenti arricchiti con mosaici; camere, colonnati ricoperte d’oro, di madreperla e adornate di pietre preziose.

Tutto finalizzato all’agiatezza e affienare costumi, manifestazioni di una ricchezza e potenza, sconfinata di un popolo conquistatore.

È presso i Romani, quando la capitale era Costantinopoli, che l’abitazione prese grande e splendido sviluppo, non solo per le classi sociali ai vertici del sistema imperiale, sin anche negli ambiti più reconditi, vennero avviate politiche abitative dove l’emblema familiare iniziò diffusamente ad apparire e prendere luogo specie nei confini dello sterminato impero, in forma allargata.

È grazie a greci e romani che prendono spunto i centri antichi detti minori specie quelli che abbracciano l’antico regno di Napoli da sud a nord, predisponendo centri abitati nei pressi agresti, così  come la capitale dell’impero si misurava con le sue colonie e in specie quelle più recondite.

 A tal modello urbanistico, fece seguito un intervallo di media curanza, specie nelle case del  popolo, che dopo aver definito volumetrie e funzioni interne utili all’uomo, venne trasformato, fu utilizzata come parte urbanistico difensivo, in sistema di sheshi (il labirinto), le cui abitazioni costruite in aderenza, servite da strette vie, con poca aria e luce variabile; divennero il contorno difensivo dei Castrum feudali.

L’era segna anche l’abitazione quale possedimento per la discendenza, anche per le classi meno abbienti e con l’accalcarsi dei moduli abitativi in aderenza si aggiunsero emergenze igieniche non trascurabili per le quali, la natura chiederà ripetutamente conto in varie epoche, oltre agli interessi maturati dai derivati dall’ambiente naturale violato, in diverse forme.

Resta comunque il dato secondo cui l’abitazione per la stabilità della vita politica ed economica, ebbe un ruolo fondamentale perché i modelli assunsero non solo il ruolo di rifugio per la notte, ma anche utile di giorno per la trasformazione e il confezionamento dei frutti dalla terra.

La classe operaia agreste a quei tempi, fondava la base della catena economica del mediterraneo, la casa la notte rifugio per rigenerarsi e di giorno coltivare l’essenza sociale nei periodi non lavorativi e come la terra anch’essi riposavano.

L’abitazione è anche stalla per i fedeli animali da soma e del latte mattutino è il luogo per conservare e affinare gli indispensabili attrezzi, per un più cospicuo ritorno economico.

La casa nelle ore di relativa libertà, continuava a essere anche il luogo per difendersi, delle colonie, ovvero, i territori agreste, mediamente distanti, posti generalmente a valle, quindi più esposti ai pericoli derivanti dal famigerato anofele.

Presso le nazioni che vivono affacciate sul bacino del mediterraneo, con il crescere accentramento, non migliorarono le dinamiche abitative, sia dal punto di vista strutturale che igienico, in quanto i moduli si espansero in altezza, questo nuovo modo di costruire, espose a nuovi rischi l’abitazione che in questo modo ingloba anche le ire di eventi tellurici, oltre al perenne insinuarsi, nei fessurati conseguenti rimasti scuciti, l’aria intrisa di vaiolo e  peste che diedro non poche pene al genere umano.

Sotto l’aspetto puramente abitativo nell’area che si estende dalla Turchia sino alle zone più recondite, del Portogallo, il modulo abitativo attinge comunemente dall’architettura romana, mentre da quella greca prende i caratteri distributivi urbanistici con gli sheshi che diventano l’emblema difensivo privo di barriere sia in forma di murazioni e sia di fossati.

Il modello, specie, nei centri identificati come castrum, casali, mote, terre, frazioni e comunque sistemi abitativi riferibili ai centri di residenza dei principi o locali, continua il suo lento evolversi sino al 1783.

Questa diventa una data fondamentale, in quanto, il conseguente terremoto fa crescere l’interesse delle classi dirigenziali non per mera la salute delle classi meno abbienti, ma per il declino economico a cui si va incontro se non si adoperano nuove strategie per la solidità delle abitazioni, il cui sistema aggregativo da forza al luogo dei cinque sensi, l’unica formula che da linfa nuova all’economia da quel tempo in avanti.

Nell’Italia meridionale per quanto attiene la salubrità dell’abitare si deve attendere il regolamento 6 settembre 1876, n. 2120 che sino ad allora, pur essendo stati vissuti molti patimenti in senso igienico, solo dopo l’alternarsi di pestilenze sività ed eventi tellurici, si pose attenzione allo stato della salubrità pubblica all’interno dei centri antichi, con la legge di sanità pubblica del 20 marzo 1868, nel di cui Capitolo primo, si stabiliscono i parametri di salubrità, delle abitazioni e dei  luoghi  abitati a cui non si può sottrarre, stabilendo che:

” Art. 44 La tutela della pubblica salute, per quanto concerne le abitazioni e i siti destinati soltanto ad uso dei privati, è affidata ai sindaci; i quali vi provvedono curando l’esatta osservanza dei regolamenti comunali di igiene pubblica, ed osservando da parte loro quelle prescrizioni, il cui adempimento è posto a carico dell’Amministrazione comunale.

” Art. 45 L’autorità dei sindaci in materia sanitaria si estende anche agli ospedali, luoghi di detenzione, istituti pubblici e stabilimenti sanitari, tutte le volte si tratti di un fomite qualunque di insalubrità, capace di estendere la sua azione anche al di fuori con danno al vicinato.

” Art. 46 I regolamenti d’igiene pubblica per ciò che concerne la salubrità delle  abitazioni  prescriveranno principalmente l’osservanza delle seguenti disposizioni:

” a) le case siano edificate in guisa misura e che non sia difetto di aria e di luce;

” b) siano provviste di latrine, le quali devono essere costruite in modo da non lasciar adito ad esalazioni danno::;e ad infiltramenti;

” c ) gli acquai e gli scaricatoi delle acque immonde e residue degli usi domestici siano costruiti in maniera da non pregiudicare e guastare i pozzi:

” d) le case, o parte di esse costrutte o restaurate, non possano essere abitate prima che siano dichiarate abitabili dalla Giunta comunale, sentito il parere, della Commissione municipale di sanità.

” Art. 47 I suddetti regolamenti potranno inoltre prescrivere, dove esistete un considerevole agglomeramento di abitazioni, possa essere proibito di tener stalle permanenti ad uso di interi armenti o pecore di capre o di altre specie di animali.

L’ultima legge sul risanamento e quella dei prestiti a miti interessi o di favore, con cui il Governo, facilitava molto le operazioni finanziarie dei Comuni, per spese tendenti a migliorare il proprio abitato, nonché l’istituzione di Commissioni di ingegneri e sanitari, addetti alla Direzione superiore del Regio o di quelle istituite nelle singole Prefetture delle provincie, per il fine di agevolare lo studio delle opere di risanamento a farsi dai Comuni stessi.

Esse varranno molto per ottenere una razionale riforma in questo settore, così essenziale del benessere della specie umana. 

Dalla nascita delle abitazioni, l’uomo si è evoluto, sino a raggiungere livelli apparenti di una vita migliore, non alla pari della sostenibilità dell’ambiente costruito e altera a dismisura l’equilibrio sostanziale tra natura e uomo, mutando lo stato delle cose, dove a soccombere in apparenza è la natura, ma chi coglie i frutti più malevoli è l’uomo.

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LA NOSTRA AQUILA (petriti Jonë)

LA NOSTRA AQUILA (petriti Jonë)

Posted on 06 novembre 2020 by admin

eagle with two headsNAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Nonostante siano stati educatamente informati, constatato  palesemente il grado d’immaturità, sin anche nel comprendere quale fosse il senso del verbo : “rilancio”.

Gli fu offerta una chiave di lettura per avere chiara ogni loro decisione, a fini di tutela e conservazione; rilevando, che la memoria storica, da decenni è posta nelle disponibilità di comuni apprendisti/e, che notoriamente, non avendo vissuto o formatisi a Napoli, come fecero le eccellenze della storia di Terra, non hanno maturità sufficiente e predispongono esperimenti malevoli che adombrano, con veli malevoli, ogni opportunità di rilancio.

Nulla è stato incamerato in memoria, da quella breve conversazione, dove vissero i famosi Olivetari, quelle poche, semplici e fondamentali parole, durarono nella memoria, solo per poco meno di 356 K/m, e giunti, dove il patrimonio è casa, i principi divennero foglie al vento.

Vero è che allo stato dei fatti, continuarono imperterriti a preferire figure di genere confuso, esiliando nel contempo, ai margini del dibattito sociale culturale, tangibile ed intangibile, la parte sana con titoli, meriti e memoria di garbo locale.

Dopo tante belle parole e garbati intendimenti futuri fu preferita “la continuità culturale malevola”; la stessa che immagina, dispone e progetta, bandiere per terra, compromessi senza senso, apparizioni, progetti, restauri, toponimi e ogni sorta di espressione allegorico-giullaresca, presentata come memoria genuina.

Se a questo si aggiunge il dato che socialmente non si raggiungono neanche i minimali requisiti di rispetto dei cinque sensi, è palese che non vi sia più nulla da aggiungere al pozzo nero della rinascita, colma in vero di pregiudizi.

Non abbiamo bisogno dei figli dei mandatari dell’eccidio del 1806, per conoscere,sapere, valutare, come e cosa ricordare della nostra storia locale “unica e irripetibile”.

A tal proposito è bene precisare che esistono e sono numerose le eccellenze locali; se per qualche banale motivo non avete capacità per distinguerle, perché privi di nobili principi, chiedete e sarete illuminati da quanti sanno parlare capire e proporre “rilancio”.

Il modello di famiglia più duratura e solida del vecchio continente, prevedeva nel suo disciplinare, di affidare per dirigere e coordinare la continuità storica e sociale del gruppo familiare, alla persona più “caparbia e lucida”, per la crescita perpetua del gruppo.

La persona più “caparbia e lucida”, predisponeva strategie e assegnava ruoli specifici ai generi, in funzione delle capacità che essi palesavano sin da giovani, senza alcuna prevaricazione, perché la meta da perseguire non mirava alla gloria del singolo, ma alla continuità identitaria, economica, sociale e storica della specie.

Questo semplice ed elementare principio, ha reso possibile il riverberarsi delle famiglie, dalla notte dei tempi sino a oggi; è lecito, quindi, chiedersi: perche del 2019 in avanti, ad assegnare i ruoli siano i meno “capaci”, che della “lucidità” mentale ne fanno un uso improprio immaginando che sia luce a uso e consumo della propria figura che pur se illuminata mostra solo ed esclusivamente la sua ombra.

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CONTRO LA PROPRIA RADICE

CONTRO LA PROPRIA RADICE

Posted on 29 ottobre 2020 by admin

CONTRO LA PROPRIA RADICENAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) – Quando l’eroe dei Balcani, riteneva importante appostarsi nelle strette vie che conducevano al campo di battaglia, per disorientare il nemico, incuneandosi nei loro fianchi secondo il principio che: “la migliore difesa è attaccare”, non immaginava che dopo qualche secolo i suoi diretti sottoposti, ne avrebbero fatto un uso improprio contro loro stessi.

Nulla di più coerente e solidamente comprovato si può cogliere vivo nelle consuetudini che caratterizzavano la regione storica, oltre che le terre lasciate al libero arbitrio del “cane d’oriente”.

Un principio che dalla morte dell’eroe, quando era finalmente Giorgio, ha invaso le terre che sarebbero dovute essere del suo popolo, mai unitosi in forma di regno o altra forma, se non diffusamente sparsi e disconnessi,  innescando così la deriva, figlia del senso più malevolo di quel  nobile atto di “tutela”.

L’affermato “la migliore difesa è attaccare” potrebbe apparire provocatoria, ma se analizziamo il senso, esso riassume tutto ciò che avviene o è avvenuto tra le genti che avrebbero dovuto “difendere” la regione storica e gli ambiti di provenienza della radice, dove l’atto di produrre attività “distrugge” ogni cosa.

Così è avvenuto; infatti, la minoranza meridionale, dopo essersi insediata, nelle terre ritrovate e i detti fratelli rimasti a casa, appropriandosi di ciò che restava, tutti assieme non hanno reso nulla per tutelare, difendere o lasciare intatto, quanto pervenuto dalle generazioni precedenti, se non attaccare per spogliare di ogni senso, grado e modo il protocollo ereditato.

Che questa non sia una provocazione, ma uno stato di fatto, si può riassume nell’immaginare, un candido lenzuolo bianco steso al sole imbibito di lacrime di lacrime di dolore.

Tutto quello che si può dire, guardando il candido velo: in ogni ora, latitudine e prospettiva, non cambia perché rimane sempre un lenzuolo bianco, “la resa”, steso sulla regione storica, in attesa si asciughino, le innumerevoli lacrime amare, consapevoli che nulla cambierà, perchè non e alto che un vessillo; “la resa” dopo “l’attacco”.

Ormai è semplice costatare che nel passaggio da padre in figlio, madre in figlia, discendenza laica, clericale e di ogni raggruppamento immaginato per “difendere” secondo principi immateriali, l’atto materiale conseguente ha poi terminato per “attaccare” e ferire mortalmente.

Se oggi noi volessimo analizzare una qualsiasi elemento dei pilastri della regione storica, ovvero: Idioma, Metrica, Consuetudine, costume e Religione, non c’è nulla che sia rimasto indelebile, non per l’evoluzione che ogni cosa del genere umano, ovviamente deve seguire, ma la strada intrapresa dai comunemente tutori, dell’irripetibile protocollo, che contemplava ogni tipo di attacco, proveniente da ogni dove, non considerando, gli  innaturali dall’interno.

I  fondamenti hanno subito ogni tipo di angheria e se solo immaginiamo le pene cui è stata sotto posta “la parlata madre”; questa che per sua nota natura, non avrebbe mai contratto matrimonio o firmato in forma scritta, con generi che non vivessero di promessa data, secondo la sua radice; ciò nonostante è stata “strasciniata” contro il suo volere, con tanto di testimoni dentro plessi, istituti, istituzioni, chiese e ogni presidi atto a maritare.

Una serie di attacchi senza precedenti, da parte di ogni genere di avventore, questi, credendo che il modello fosse in fondo al pari di una povera dona, sola e abbandonata, verso la quale si poteva incutere ogni genere di vessazione, compreso appellarla comunemente come persona, quando in realtà, è stata e sarà sempre, solo ed esclusivamente una divinità di altri tempi.

Questo è solo un accenno di cosa le sia capitato, in tempi che si presupponeva fossero più illuminati e se poi volessimo, addentraci negli ambiti di valori tangibili e intangibili, che la rendono unica e speciale, dovrebbero fare, mea culpa, di come generi, istituzione ed eventi la trattano.

Si dice che la natura degli uomini non conosce tempo e confini, questi gli uomini, appena nascono, iniziano la propri battaglia di sopravvivenza, ed è anche giusto, ma puntare subito e dare pene al seno che hanno ancora in bocca, si ritiene sia malvagio;  azione senza senso, ma forsse giusta per chi inizia a crescere sotto falsi principi, mode e vesti, che imperterriti, vanno in  tondo millantando di cercare il latte di seno perduto.

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LA MISURA DELLA LUCE ALL’INTERNO DELLA CHIESA QUANDO DIVENTA GRECO BIZANTINA

LA MISURA DELLA LUCE ALL’INTERNO DELLA CHIESA QUANDO DIVENTA GRECO BIZANTINA

Posted on 28 ottobre 2020 by admin

il cercatore arberesheNAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) – Quando l’opera compiuta dai caparbi dispensatori di fede, susseguitisi sino alla fine del secolo scorso, fu posta nelle disponibilità dei “Comunemente”, ogni cosa diviene teatro e terminò il senso del culto.

Un manufatto che sin dalla posa della sua prima pietra, alla fine del seicento, è stato illuminato secondo principi atti a indicare persino strutturalmente la via verso la fonte del Fiume Nilo, perché luogo della nascita di credenza storica.

Se da qualche decennio questa direttiva ha smarrito il senso, come fatto dal “Karloberg” e il suo seguito, di saltimbanchi miscredenti, urge, adoperarsi per eliminare gli impropri abbagli di devianza.

Rientrare sulla retta via oggi, e rendere viva la funzione del manufatto in senso di chiesa deve  promuovere attività manutentive, non prima di apporre l’ultima pietra: le schermature in alabastro e ricollocare, l’originario supporto luminoso tipo, in essenza di ulivo.

A tal fine, per rendere ogni aspetto, limpido e cristallino, è  il caso di spiegare, quale sia stata la volontà di una tradizione Ortodossa, che analizzata secondo metodiche di confronto, non sono proprio in linea con i fondamenti seguiti dalle popolazioni della Regione Storica, i di cui sacri perimetri religiosi, li preferisce illuminati senza eccessi e volumetrie circolari predominanti.

L’inopportuna innovazione, incuneatasi circa un decennio or sono ha fatto si che i corpi illuminanti e i relativi supporti in essenza di ulivo locale, ha ritenuto idoneo dimetterli .

Anche se vero, secondo il dire di incauti apprezzatori locali, che “peccassero” di solidità strutturale, sarebbe bastato “confessarli” sotto la guida di pazienti restauratori, per restituire il candore originario senza intaccare, estetica, luce e le prospettive che illuminavano con rispetto.

Gli apparati di luce bizantina erano opera dell’artigiano Gi. Di Benedetto, maestro di manualità antica,eccellenza in tutta la macro area, detta della Presila Arbëreshë.

La manualità del maestro fu anche modello di ispirazione per l’Archimandrita e il sapiente esecutore pittorico, della scuola cretese, che in paese seguiva i lavori per il trattamento delle superfici da affrescare e quanto della verticalità muraria da ricoprire con marmi perché troppo esposte a florescenze di risalita, perché a contatto del perimetro fondale.

La premessa fa da supporto a un dato storico inconfutabile, secondo cui l’illuminazione per una chiesa, specie se affrescata in tutto lo sviluppo delle superfici interne, deve rispettare parametri di luminosità solare e artificiale ben calibrati.

L’intensità solare deve essere filtrata con lastre in alabastro, mentre il sistema indotto con apparati illuminanti calibrati, i due sistemi, non devono violare la luce di credenza, unica fonte da cui alimentare la fiammella spirituale, guida fondamentale per il giusto orientamento.

Se questo è il principio sintetico secondo cui un sacro perimetro deve essere illuminato, non si comprende quali siano stati i presupposti religiosi per non seguirli, credendo che il luogo sia considerato al pari, di un teatro, una sala per riunioni laiche, o salotto di case nobiliari.

Questi ultimi sicuramente ambiti con esigenze diverse e per i quali l’eccedere in forme luminose trova una sua logica, diversamente da come deve essere nei luoghi di culto dove a porre in evidenza è la luce interiore che notoriamente brilla dentro di noi.

Alla “luce” di ciò va affermato che il messaggio pittorico ha bisogno solo di essere accompagnato, non servono distrazione pirotecniche, per raccogliere il senso della credenza, anche perché, così facendo si minimizza il senso del  luogo e si rende al pari di un salone in una comune abitazione con le opere di famiglia apposte alle pareti.

Luce eccessiva all’interno del sacro volume, sminuisce l’unicum divino, deteriorando i valori senza tempo, giunti sino a noi, grazie a piccole fiammelle in lume a olio.

Tuttavia, il prodotto finale del “volume Sacro”, deve mirare a creare prospettive atte ad agevolare l’apprendimento, la visione e il senso, delle icone di fede e credenza, senza esporre le opere pittoriche, con apparati generalmente malevoli alla vita stessa dell’opera, sin anche in senso materiale.

All’interno di una chiesa non deve essere compromesso, il messaggio rivolto ai devoti “la luce divina”  essa deve brillare per il suo significato di raffigurazione, le sacre immagini.

Il senso di “un’opera” da una “non opera” si distingue nel fatto che la prima contiene: soggetto, forme e contenuti, la seconda, si identifica solamente attraverso la formazione culturale di quanti ricevono mandato, per sostenerla, tutelarle e valorizzarla.

L’arte è, innanzi tutto, forma di comunicazione, secondo un punto di vista, essa diventa critica, quanti non sono in grado di leggerne i contenuti ritenendo più idoneo, cancellarli mira a sopprimere la memoria dell’artefice.

Il Croce parlava di “senso artistico” come “un’intuizione che si fa espressione”, in senso “non neutrale”, cioè che diventa posizione e il caparbio prete, assieme al suo fedele artista, avevano idee ben chiare.

La creazione, indubbiamente, una forma di linguaggio autonomo che interpreta il mondo, ponendosi lontano dall’idea di un’arte meramente decorativa, il genio esprime con la sua metrica un punto di vista, un insieme di significati che lui stesso rinviene nella realtà, comparandoli sapientemente ai canoni di credenza.

Anche quando l’arte è l’espressione religiosa di un determinato ambito, si parla di angolo privilegiato della ricerca estetica, questa, senza mediazioni logico-deduttive, si fa specchio del mondo o, comunque, di un universo, di un cosmo in cui l’artista è l’artefice di una visione originale che lo avvicina al lettore nel momento del osservazione senza penitenze.

Se così non fosse, non avrebbe luogo il fine dell’arte che è comunicare messaggi di credenze quel luogo e di tempo.

Accade purtroppo chi eredita l’opera per istituzione, il messaggio da diffondere, specie se comunemente tutelato, diventa una sorta di teatro dove si cerca di incunearsi, come falsi protagonisti, pur se privo di ogni genere di consapevolezza, in grado di rispetti la linea dell’artista primo, in altre parole: la via divina che appare discreta e senza abbagli.

L’atto del comune esperto o gruppi di appartenenza locali, risveglia, tensioni intellettuali, etiche e religiose, creando bagliori personali oltretutto pericolosi, perché allontanano il senso, dell’opera luogo, impedendo al seme del valore di fiorire.

Sostituire i corpi illuminanti di una chiesa senza consapevolezza storica alcuna finisce nell’abbagliare i luoghi di provenienza della nostra credenza religiosa.

È cosi diventa inutile e intitolare a Santi Alessandrini chiese, quando con luci accecanti e rotondità senza misura si impedisce di guardare verso i luoghi della sua provenienza, gli stessi dove ebbe inizio il predicato religioso.

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I CINQUE SENSI ARBËRESHË SONO DIVENTATI GRIGI, OGGI RESTA IL RICORDO DI QUEI COLORI.

I CINQUE SENSI ARBËRESHË SONO DIVENTATI GRIGI, OGGI RESTA IL RICORDO DI QUEI COLORI.

Posted on 25 ottobre 2020 by admin

I CINQUE SENSI ARBËRESHË SONO INGRIGITI,NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Ormai da diversi decenni gli Sheshi minoritari sono avvolti da ceneri di paglia, quest’ultima, notoriamente illumina nel corso della breve combustione e non aiuta la consuetudine di quanti vivono del calore dei cinque sensi arbëreshë.

Il fuoco è indispensabile per il passaggio generazionale, così viene compromesso e unire gli oltre cento Katundë, sotto bagliori di paglia turca, non fornisce la giusta energia al protocollo, di legna ardente sapientemente governata.

La continuità che univa e dava solidità alle consuetudini della minoranza, quanto non è stato più alimentato con essenze arboree tipiche dei territori paralleli ritrovati, (Kuzareth tronchi calibrati ed essiccati) gli unici in grado di assicurare il calore, anche durante l’esodo notturno, temperando l’ambito delle Kaljve, mentre si attendeva il sorgere del sole per dare continuare alla storica missione.

Ciò nonostante con il passare del tempo, si sono elevate generazioni, preferendo i lampi e i bagliori brevi dei fuochi di paglia turca, esponendo le nuove leve al grigiore delle ceneri volatili, filamenti di scarto del grano, supporto inutile dopo la maturazione che sosteneva al sole l’indispensabile frumento.

Gli sheshi da quel tempo iniziarono a perdere i colori tipici, oltre l’aspetto formale, per i brevi fuochi di paglia, gli stessi che in ogni manifestazione abbagliano e garantiscono episodi di calore che terminano prima che la luce muoia, tramandando per questo eredità in forma di ceneri, la fine del passaggio generazionale, perché  privo di forma orale e gestualità.

Il fuoco di paglia notoriamente non garantisce tempi lungi, davanti al camino, anzi una volta accesa costringe tutti ad allontanarsi per il forte calore e poi rimanere disorientati e infreddoliti ancor di più.

Il ricordo va alle nonne che con un tronco padre e tanti piccoli rami o parti di esso ricavati dal taglio con l’ascia (tòprà) alimentavano il “fuoco lento” ma efficace del camino, ritualità questa che avvicinava davanti ad esso e nel contempo garantiva il latte caldo al mattino, il pranzo di mezzodì e la cena della sera.

Un fuoco senza soluzione di continuità, sempre identico e solido come era anche, il passaggio da padre e figlio, e madre in figlia, pochi gesti ritmati con sapienza, senza mai perdere né la continuità della fiamma, né la quantità di calore.

La sera poi, si disponeva tutto in modo tale che al mattino avrebbe ancora continuato un frammento di carbonella, figlia della lenta combustione, quella sufficiente a garantire continuità al senso di fuoco e di casa sempre viva.

Il luogo del fuoco storico, all’interno delle case degli arbëreshë, rappresenta l’ambito delle consegne tra generazioni, l’unico in grado di riverberare favelle antiche e nello stesso tempo illuminare le case, le strade e i vichi (shëpij, huda e rruga), garantendo sin anche l’inviolabilità dello sheshi, anche di notte.

Quando oggi si torna nei luoghi delle consegne e troviamo altri apparati, realizzati dagli addetti locali, secondo i quali ogni tipo di calore e luce, in grado di genera presupposti di sostenibilità identici a quelle antiche, si comprende quanto sia devastante la deriva in atto.

Grazie ai ricordi, ancora vivi in numerosi e valorosi tutori, gli stessi che conoscono, sanno quale sia il senso di quel fuoco, solo essi, possono  rifugiarsi nel ricordo con mente lucida per ripristinare gestualità, cui quel luogo è stato addomesticato e attende di essere ripristinato, solo in questo modo potranno essere forniti gli strumenti idonei a dipingere  e risvegliare secondo antichi pigmenti gestualità che oggi sono indispensabili, per la continuità della minoranza.

Un abaco di colori caratteristico vivo all’interno di poche case, non violate, potrebbe innescare nuove scintille se le giuste figure depongono con “saggezza nel focolare madre, un tronco padre, per innescare gli arbusti figli” il resto, è  fiamma forte e duratura, quella capace di creare i presupposti antichi e trasmettere consuetudini in forma orale, alle nuove generazioni.

Sedere innanzi quella bocca di calore antico, si recuperano i sensi di un tempo non molto lontano, anche se le quinte dello sheshi sono state violate, il passaggio dei valori, secondo consuetudini rimane le stesse,  potrà dare vita agli scenari secondo la tavolozza di colori arbëreshë.

Anche se oggi, fuori dall’uscio di queste preziose case, la realtà dello sheshi  è invaso da strimpellatori c favelle che ormai seguono le mode di quanti, si sono distratti nell’ascoltare, le parole e il crepitio di quella fiamma lenta, preferendo cenere di paglia turca.

Oggi è bene avere consapevolezza che le parole ritmate dal fuoco lento dell’identità arbëreshë, sono le uniche da ascoltare, anche si preferiscono e sono più semplici da comprendere, il grigio facile, quello capace di uniformare le parlate locali, unificare le vesti delle spose, con posture inopportune e portamenti a dir poco inconsueti.

Come si può ritenere di essere eredi di un patrimonio orale mai ascoltato, se quando si divulga è cenere riversata con la metrica di quanti gli ambiti del fuoco arbëreshë non lo conoscono anzi, ignorano persino l’esistenza.

Come si può ritenete tutori o dispensatori di consuetudini, suonando chitarre, organetti e ogni tipo di strumento, immaginando che l’essere arbëreshë è solo una favole disconnesse dagli ambiti costruiti e quelli naturali.

Visto lo stato di fatto, si ritiene doveroso ripristinare l’antico fuoco, impegnando le risorse pubbliche, al fine di realizzare confronti attraverso piattaforme multimediali, tra chi conosce il fuoco arbëreshë  e quanti non sanno, oltre alla moltitudine che confonde cenere di paglia con quella del fuoco lente che faceva parte sin anche della catena alimentare.

Il fine vorrebbe rinvigorire l’originaria radice arbëreshë, coadiuvati, questa volta, da quanti hanno vissuto, visto e ascoltato saggezze, davanti al tepore di quelle antiche fiamme, per ricucire finalmente il senso delle persone, i loro abiti, le case e lo sheshi, ripristinando i cinque sensi Arbëreshë, senza adoperare più toni di grigio, ma gli ori e i colori tipici.

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NON È PIÙ TEMPO PER L’OMBRA DELLA PIETRA ANGOLARE ARBËRESHË

NON È PIÙ TEMPO PER L’OMBRA DELLA PIETRA ANGOLARE ARBËRESHË

Posted on 18 ottobre 2020 by admin

Pietra angolare

NAPOLI (Atanasio Pizzi Basile) – Lo studio della Regione storica Arbëreshë eseguita in chiave, materiale e immateriale nasce sulla base di un progetto che ha avuto spunto quando furono attuati i primi dibattiti, immaginati per valorizzare le minoranze ricadenti nelle pieghe della legge 482 del 99, diversamente rendendo ancor più povere di contenuti, specie quelle meridionali.

Era la prima decade del mese di Luglio 2003 e quanto riferito, dai comunemente noti, lasciavano perplessi quanti ascoltavano, parche, fuori dalla sede in cui si disquisiva liberamente, tutti vivevano “il luogo dei cinque sensi” secondo metriche immutate e ignote ai relatori.

Questo ha rappresentato, l’atto, per il quale si è ritenuto essere giunto il tempo di chiudere all’interno del recinto i portatori sani di matite rosso/blu e proteggere il patrimonio materiale ed immateriale, diventato il pascolo dove brucare liberamente.

Difendere quanto restava per le future generazioni arbëreshë, era una missione da non lasciare più al libero arbitrio, oltre a difendere il buon nome di “Zia Clementina” e di quanti come lei avevano preferito diventare muti e sordi per il grande dolore subito.

Se a questo si aggiunge che in occasione dello svolgimento dell’ottava storica si è giunti:

ritenere che l’estate arbëreshë, doveva appellarsi, “Valja di Sant’Atanasio;

le tipiche vesti femminili delle spose arbëreshë, allestite senza alcuna garbo;

un solco di semina, che non fosse di avena fatua, ma dimora di semi identitari non era più prorogabile .

Questa ha rappresentato la chiusura della stagione di cultura libera, immaginando ill danno che avrebbero prodotto le monotematiche figure con le tasche colme di ombre che celavano dannose alchimie.

Dare avvio alla fase definitiva del progetto, iniziato un trentennio prima per la valorizzazione dei cinque sensi Arbëreshë, è diventata una missione, in memoria di “Zia Clementina” che diceva sempre che l’acqua della fontana di fronte al suo uscio, sarebbe stata sempre amara, coprendo dal quel dì,  gli altri quattro sensi.

Il progetto a sua memoria, e di quanti come lei che avevano vissuto intensamente i sensi tipici della regione storica, ha avuto così inizio, peregrinando attraverso stati di fatto ritenuti complementari, rispetto al tema linguistico di una nonna muta.

È importante premettere che la pianificazione degli abitati storici, rurale e le relative reciprocità sono il teatro a cielo aperto dei luoghi notoriamente schiavistici, ragion per cui le implicazioni che tale questione comporta, diventando argomento fondamentale per leggere in forma puntuale l’evoluzione  insediativa.

La nascita di questi ambi costruiti e naturali, hanno una radice antica, le cui peculiarità vanno ricercate nella presenza della katundë-servizio, nati a seguito di infrastrutture stradali, che poi erano dei veri e propri tracciati avventurosi ma comunque indispensabili perche complementari alle vie di costa e quella interna.

Questi rientravano negli interessi dei pochi membri dell’aristocrazia che ne sfruttava le produzioni agricole intensiva, connessa all’innalzamento di luoghi costruiti per la conservazione e il conseguente trasporto dei prodotti ad opera dei poveri residenti.

La localizzazione di questa tipologia insediativa, associata principalmente alle specifiche produttive nascevano principalmente dall’analisi territoriale, scegliendo la più idonea posizione topografica, alla luce della disomogenea morfologia, avendo come riferimento tempi e regola di consegna del prodotto finito. 

La specifica territoriale, le produzioni agricole connesse si riflettono nella struttura degli ambienti stessa; infatti, esse hanno funzione di abitazione e “modelli proto industriale” per la trasformazione delle derrate alimentari.

La fertilità del suolo in queste zone permetteva l’innestarsi delle strutture rurali per la coltivazione della vite, della vite e nelle stagioni di riposo dei cereali, favorendo così l’impianto di strutture dedite alla lavorazione e alla conservazione dei prodotti e di derivati.

Oggi servirebbe produrre la fase esecutiva per valorizzare le pietre angolari dell’architettura e delle urbanistica ritenuta, “dai mono tematici”, di estrazione indigena, quando sarebbe bastato munirsi di una lampada ad olio per illuminare le menti buie di chi non è stato in grado di guardare oltre il proprio naso.

L’analisi ambientale, l’evoluzione dei territori, l’urbanistica, l’architettura, quest’ultima prima in forma estratti e poi additiva, sono gli argomenti che grazie ai riferiti cartografici, i trattati archivistici, editoriali e le notizie locali, hanno disegnato la prospettiva ideale che non teme confronto.

Tutto ciò è stato realizzato avendo piena consapevolezza delle parlate locali e per questo ricucire, con arte, lo strappo ormai secolare tra elementi tangibili, presenti sul territorio e quelli intangibili, della memoria di quanti ancora sono veri arbëreshë.

Si precisa altresì che ogni elemento studiato, ha avuto applicato disciplinari di ricerca comprovata, diversamente da quanti ritenendo sufficiente restringere gli ambiti alla sola parlata, hanno tralasciato, cosa e quanto fosse ancora intrisa di consuetudine, manualità, tipiche degli arbëreshë.

Soprattutto in sede locale per la verità di elementi, si sono realizzate ricerche, verso aspetti interlacciati tra le terre poste a est e a ovest, prospicienti il mare adriatico e lo jonio.

Le metodiche utilizzate non prendevano spunto dai comportamenti di quanti, riversano stanca­ti tesi enucleabili, sin anche imbibiti di contributi degli eruditi dei secoli passati, brandendo in ogni genere di occasione il volume, la ballata, o l’abito perfetto senza essere in grado di verificarne, il senso e il contenuto di tempo, luogo e società.

Inoltre il più delle volte i risultati, sono utilizzati in mere esigenze di un irrazionale campanilismo e a quelle di un cieco provincialismo, generando ostacolo, più che utilità ad una serena ed equilibrata ricostruzione degli eventi.

Si potrebbe apparire genericamente, ingenerosi se non si attribuisse agli ingegnosi locali, notizie e informazioni anche di interesse e d’impianto locale, generalmente assenti nei contributi più accreditati.

Tuttavia pur se presenti, restano solo elementi grafici cui non si da valore alcuno e ne si possono confrontare con quanto emerge dai fogli branditi al vento e accreditati come  fonti di saggezza o capitolo di storia.

In questo stato di gregge perenne è parso opportuno tenerne in osservazione, quanto prodotto da quanti vivono all’addiaccio, o meglio fuori dai presidi della cultura, scavando senza meta nelle buie notti, senza consapevolezza se si compiono atti di violazione.

Paradossalmente in questi buchi neri, sono inciampati proprio i nomi più affidabili della storia, inficiando notevolmente il continuo cammino verso una regolare andatura di fatti ed eventi in rispettosa successione.

Si ritiene comunque doveroso rilevare che le manchevolezze sono molteplici, esse hanno una radice antica, colme di inesperienze e poca dedizione alla ricerca, perché in capaci incrociare dei dati.

Valga di esempio la legge 482/99 che pur citasse, nella sua comune trattazione citasse testualmente, “le delimitazioni degli ambiti territoriali e sub comunali in cui si applicano le disposizioni di tutela delle minoranze linguistiche”, nei fatti non è stata, posta alcuna rilevanza all’aspetto territoriale costruito e non, quale fondamento per ogni trattazione.

Si è preferito inquadrare la minoranza come “il luogo”, dove i fenomeni di resilienza dovevano ritenersi incamerati nell’atto idiomatico di un luogo ideale, come se l’orografia e l’ambiente non avesse ne forma e ne colori.

Lasciando in questo modo, al ruolo di mera quinta colma di nebbia, l’ambiente costruito e quello naturale, pur se in origine sono state queste a essere cercati e modellati per comprendere se rispondevano alle metriche degli uomini che vi hanno vissuto.

Un Katundë o Kastrjonì, rimane comunque espressione degli uomini e le donne che l’hanno costruito, vissuto e sostenuto, sin anche, quando l’incoscienza e l’interesse degli uomini, lo esasperano al punto di chiudere Case, Chiese e Luoghi condivisi.

La scelta delocativa in genere ha come prassi storica l’incolumità, comunemente illustrata con la promessa di saper predisporre, nel breve di una stagione, un paese arbëreshë nuovo (?).

Quando tutti siamo ben consapevoli che la storia degli uomini non si compie in sunti catastali, scambiati per temi di gjitonia, illuminando l’immateriale degli uomini come si fa con i quartiere, i rione, o luogo comunemente vissuti di ogni genere, come se i paesi minoritari fossero luoghi del banco dei pegni dove imprestare, uova, lievito e vino.

Solo chi è sciocco può credere a ciò, a questi hanno preso impegno di fare ciò, sappiano che “l’architettura storica” non è come un villaggio turistico, un centro commerciale, un parco di divertimento, solo perché scimmiotta geometrie, diffusamente piane inclinate o arcuate in forma di carene rovesciate.

La storia non deve ridursi in sintesi volumetrica, privando i mal capitati abitanti del fattore tempo, quest’ultimo il regista naturale che dirige, i flussi dell’energia naturale per modellare gli elementi costruiti, di luogo e di uomini, secondo caratteristiche intrinseche ed estrinseche irripetibili.

Non si possono abbagliare le persone umiliando gruppi familiari di gruppi minori, a inchinarsi e disconoscere se stessi oltre la propria radice identitaria.

Alla luce di questi brevi accenni è indiscutibile che un Katundë o un Kastrjonì rimane sempre arbëreshë, assieme agli ambiti orografici, pur se questi sono considerati pericolosi e pronti a scivolare a valle; specie se dopo poco tempo, nonostante si continui ad ostinarsi a vietarne l’accesso negli ambiti dell’antico centro antico, a monte si allestiscono parchi eolici, che non certo confermano le teorie delocative imposte, per eventi non naturali certamente prossimi!

Per usare un eufemismo è bene sapere che pur se titolati, quanti ambiscono a inerpicarsi nei trascorsi storici di minoranza, deve avere il quadro completo di cosa voglia vedere, assaporare, toccare ascoltare e sentire; non può immaginare che uomini paesaggio tempo e natura, nel corso dei secoli si possano sintetizzare in una favola in una canzone o nei tratti desertici dell’Algeria.

Valga di esempio il Katundë di Ginestra degli Schiavoni in provincia di Benevento, i cui trascorsi ricordano che dopo essere stati fortemente caratterizzati dalle consuetudini arbëreshë, di matrice Greco Bizantina, innalzando l’agglomerato per secoli, anche a scuola religiosa e formare clerici sino alla fine del concilio di Trento.

Il Katundë di G.d.S. dopo essere stata spogliata della sua istituzione religiosa, ha smarrito sin anche l’espressione idiomatica, ciò nonostante dopo circa un secolo, il prete latino, cui era chiesto, da uno storico locale, se il paese avesse conservato elementi caratterizzanti la minoranza, faceva notare che non vi fosse rimasto nulla.

Tuttavia aggiungeva, che nonostante la popolazione usasse la lingua di macro area locale Beneventana e seguisse le ritualità latine, trovava strano, l’onorare i morti e altre ritualità, secondo consuetudini non contemplate dal calendario Latino.

Ginestra d.S. è stato luogo di studio nel 2017, per questo, attraverso le sue pietre angolari, rioni tipici, collocati come era consuetudine arbëreshë.

Infatti sono stati intercettati media collina dove è allocato il paese, la chiesa e il suo rione clericale, cui era accostato il rione detto promontorio, il labirinto e gli spazi di espansione facilmente identificabili come sheshi o luogo di confronto o movimento.

Ciò non lasci alcun dubbio sul dato che, pur se da oltre due secoli non si conservano valori identitari riferibili all’idioma, la radice urbana e il valore territoriale, secondo le fondamenta arbëreshë, continuano riverberarsi senza mai perdere la via maestra.

Gli esempi in tale orientamento sono molteplici e comunque servono a rilevare che un centro antico di radice arbëreshë, rimane sempre tale anche quanto l’identità idiomatica si smarrisce, per eventi sociali o religiosi imposti a seguito delle conclusioni di Trento.

Vero è che nonostante una moltitudine di Katundë, sia stata impoverita della matrice religiosa, lo parla ancore in un numero di Agglomerati pari al settantacinque per cento di un totale di circa 110 Katundë, il rimanente venti cinque percento segue le direttive religiose importate anche se trasformate in bizantine di lingua arbëreshë.

Tuttavia tutti i paesi, altri si potrebbero individuare con studi mirati, conservano l’impianto urbano e architettonico identicamente intatto, riconoscibile all’impianto e dall’orografia tipica a soddisfare le consuetudini di questa straordinaria minoranza.

Oggi è giunto il tempo di confrontarsi sulla legge 482 del 99, correggere gli errori, integrando nuove esigenze pervenute, ma più di ogni altra cosa, rilevare che la minoranza italiana, non è “Albanese” ma Arbëreshë.

Occorre produrre protocolli identitari senza protagonismi e ben comprendere che: ogni manifestazione, deve essere allestita coerentemente con quanto di storico ancora possediamo, compreso l’unico elemento artistico ereditato dalle generazioni passate; il costume arbëreshë, e terminare lo stillicidio di vestizione, che sarà a breve argomento di una pubblicazione, giacché solo nel vedere come è allestito, esposto o indossato, dire che lascia perplessi è un eufemismo.

Per questo occorre migliorare le disposizioni delle leggi regionali che non sono solide al punto di caratterizzare i centri arbëreshë, al fine che al viaggiatore errante possano apparire, credibili, unici e senza porte ventose medioevali che spazzano e rendo irriconoscibili gli ambiti della storia.

Disporre che l’appellativo dei centri minori qui trattati sono i “Kastrjonì o Katundë” non Borghi! quest’ultimo, in specie appartiene ad altri popoli, disposti più a nord e comunque non nei tempi e nei luoghi, secondo le esigenze culturali delle genti di radice, Arbanon, Arbëri e Arbëreshë.

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IL COSTUME E L’IMMUNITÀ DI GREGGE

IL COSTUME E L’IMMUNITÀ DI GREGGE

Posted on 06 ottobre 2020 by admin

AAAAAAAA1NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Di sovente quanti indossano o espongono il costume, arbëreshë, nelle manifestazioni di ogni ordine o grado, non sono, il più delle volte, consapevoli che non si tratta di una comune trattazione, ma sacri messaggi di buon auspicio su base pagana e religiosa per la famiglia che si va a formare.

In quelle vesti, che in diversi modi sono palesemente esposte o trattate a dir poco inopportunamente, è contenuto il disciplinare d’iniziazione e di augurio, di una nuova famiglia della minoranza storica Arbëreshë.

Parlare e trattare degli elementi che compongono le preziose vesti, non è un compito di facile attuazione, perché le vesti che sono giunte sino a oggi sono una sintesi moderna di quel disciplinare che in circa tre secoli di consegne generazionali ha smarrito grosse porzioni del protocollo di memoria.

Questo motivo ha indotto lo scrivente a disegnare una sorta di “esploso” di tutti gli elementi (il filo e l’ago compresi)che compongono il vestito matrimoniale, poi in seguito, con dovizia di particolari e perizia storica della memoria ereditata, è stato ricomposto il mosaico di elementi, secondo un ben identificato parallelismo di significati edificanti e mete da perseguire, secondo le basi delle vigili leggi consuetudinarie,  da  seguire  dai i due sposi per la continuità  e fornire nuova linfa alla specie.

 I contenuti e i messaggi che le vesti in senso di forma, colori  e diplomatiche, sono incaricate di riverberare, sono numerose, non certo in questo breve possono essere rievocate, quello che si può fare, sono accenni, cui poi i in altra sede, saranno forniti dettagliatamente come analisi.

La vestizione che poi è il prodotto finale di un’accurata composizione sartoriale è fatta di postura e quindi di un adeguato spessore di tacco, che dovranno produrre i giusti presupposti di portamento per coprire e avvolgere senza esternare le forme femminili dai fianchi sino a sfiorare la pinta delle scarpe sul davanti.

Dalla vita, è un susseguirsi di regole dove, dopo aver indossato il merletto “imbosato” sulla camicia bianca che si estende sino alle ginocchia,  posizionando “prima sutana e poi la zoga”, queste con le apposite bretelle, sovrapposte, devono essere calibrate con saggezza e arte sartoriale, per descrivere alla  base di entrambe, un piano perfettamente orizzontale.

Sia suttana che la zoga rappresentano figurativamente gli emblemi delle due figure maschili della sposa, secondo le rigide  regole Kanuniane.

La parte posteriore e i fianchi, la veste deve descrivere su tutto il semi arco posteriore, prima una semi curva a sbalzo affinché la linea perpendicolare verso terra, non interferisca con nessuna delle parti anatomiche femminili sino al piano orizzontale idealizzato in precedenza.

Dopo indossato le zoga e il merletto, calibrato il tutto, si passa alla vestizione del gjpuno, che deve avvolgere le spalle descrivendo la zoga, una linea sui fianchi, sino alla prossimità del seno per avvolgerli per meta e curvare oltre la linea baricentrica di questi, per poi risalire e girare attorno al collo, ripetendo lo stesso tragitto sull’altra “baffa del corpo”.

La testa della sposa è un emblema di significati materni, la cui origine fonda nella storia di Zeus riflesso nel cappello dei Dogi veneziani, ed emulato nel copricapo di Scanderbeg.

La Kesa per questo rappresenta l’emblema dorato di crescita, che copre le nudità dei capelli femminili raccolti a modo di fonte këshetë; per questo ogni elemento come quest’ultimo, sono caratteristiche figurative e subliminali, che attraverso la vestizione vantano un quadro augurante e bene augurante, il continuo della specie sotto quell’ombrello di inculturazione.

Questa  non deve essere intesa come un espediente unico di quella giornata, ma quanto indossato, rappresenta il totem della famiglia, “il libro mastro identitario” di quella specifica coppia; tutte le persone che lo vogliono generalizzare o banalmente indossare, quanto usano anche frammenti ricomposti con altri, se non adeguatamente calibrati, indossati ed esposti, sono irrispettosi, verso tutte le nostre madri, le ultime ad averle utilizzate con saggezza, eccetto un paio di eccezioni,  che con diligenza abnegazione e rispetto le hanno portate in dosso, al fine di inculturare, quanti in grado di percepirne il senso e il valore.

Il costume tipico arbëreshë delle fasce bizantine della Calabria citeriore e un libro non scritto, com’è consuetudine della minoranza; lo  legge solo chi ha percorso le tappe dell’inculturazione locale, diversamente da quanti s’inventato, lettori provetti.

Questo dato ormai alla deriva, più devastante, ha raggiunto il suo culmine proprio un anno addietro, quando i vantatori seriali essendo stati preferiti alle persone di cultura, si sono dilettati a dare spettacolo stendendo a terra il proprio gonfalone , disponendo donne in costume inginocchiate attorno.

Certamente le consuetudini di capitolare dei popoli, non saranno il nocciolo culturale di queste figure, ma se non si rendono conto di quello che hanno fatto, dopo un anno dall’accadimento, la tragedia finale è in atto; non per i pochi che sanno e tirano per rimediare, ma per le capre che credono che i prati verdi, sono per brucare, correre e belare.

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L’ORIZZONTE CON LA STELLA DEL GARBO E DEL SENSO

L’ORIZZONTE CON LA STELLA DEL GARBO E DEL SENSO

Posted on 24 settembre 2020 by admin

195NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Se tutte le cose hanno un’origine, uno svolgimento e un ricordo duraturo, nel corso dei secoli, anche per il costume tipico della Regione storica Arbëreshë, vale il principio.

Comunemente replicato nella macro area delle miniere e in quelle del pollino, esso ha la sua origine nel mandamento dei comuni di: Spezzano Albanese, Santa Sofia d’Epiro, San Demetrio Corone e Spezzano Albanese.

Ancora oggi giorno, un buon osservatore  può trovare questa radice, sia per il modo in cui viene indossato e sia con il garbo, la delicatezza oltre al buon gusto per il quale si dispongono, le vesti, per rendere merito a questa opera irripetibile.

Indossare un costume arbëreshë è un atto complicatissimo e riuscire nell’impresa non è una cosa da poco o alla portata di tutti, per questa ragione, negli ultimi venti anni non si commette errore nell’affermare che solo due ragazza sono state vestite esponendo il costume arbëreshë, nel rispetto dell’antico protocollo senza eccessi o restrizioni di sorta.

Questa non è la conclusione, scientemente realizzata seguendo con dovizia di particolari un numero elevatissimo di manifestazioni ed eventi posti in essere; quale architetto ricercatore, con esperienza cinquantennale, in quanto va considerato principalmente il dato di essere vissuto a fianco di mia madre, che per una consuetudine di natura genetica della sua famiglia, mi relegò al suo fianco per molto più del mio primo decennio di vita.

Lei, una delle ultime tutrici del protocollo di vestizione, e non lasciava mai nulla al caso, specie quando doveva vestire giovani ragazze, con il suo abito nuziale, non c’erano ragioni per dare atto alla vestizione, se non era positivo l’esame metrico a misura parallela e dei tre requisiti di riferimento.

Da questo breve accenno che è solo la base del principio di vestizione, è palese sostenere che negli ultimi venti anni solo due le ragazze, possono vantare di aver indossato ed esposto con garbo educazione e sostenibilità, il costume tipico della Regione storica Arbëreshë.

Generalmente, confermata l’altezza, piede, fianchi e spalla, comparata la corporatura si dava avvio alla vestizione e dove le rotondità fisiche mancavano si riparava depositando frammenti di stoffa o tovaglie sapientemente camuffate tra corpo e l’abito.

Diversamente avveniva se le dimensioni erano fuori misura o abbondava rispetto al vestito,  sia in altezza e sia nello sviluppo formale del corpo, in quel casi si riferiva che il costume era stato depositato da poco e non poteva essere rimosso.

Un espediente spesso adoperava per evitare una cattiva vestizione; negazione gentile per non essere irriverente verso quelle preziose stoffe ed esporre alla berlina la natura formale di quella ragazza e violentare stolitë.

Sono numerosi i casi in cui, ciò,purtroppo avviene comunemente, in numerosi eventi, a quel punto il ricordo va a  quelle “sagge vestitrici” che non approvavano in alcun modo queste false vestizioni e per evitarle arrivavano al punto di negare di possedere il costume.

Tornando alle due notizie buone, esse si possono rievocare rispettivamente: nel Caso Sofiota di Martina L. e  Spezzanese di Filomena N.;

  • la prima vestita dalla madre Mariella L., rifinita dalla Signora Mariuccia R. cresciuta sotto le direttive di una saggia Sofiota, questa vestizione ho avuto modo di possederla nel 2014 e la scelsi come prima slaid di una relazione tenutasi a Firenze; una sala rumorosa di vociferare disinteressato di chi mi aveva preceduto, improvvisamente appena proiettata la foto nel maxi schermo e il silenzio invase la sala e la narrazione della storia arbëreshë ebbe inizio;
  • la seconda vestita dalla madre Caterina P. la cui madre risulta essere una delle sarte più sagge di Spezzano, tra le pagine di Arberia Web Tv, nei giorni scorsi, ho trovato quest’altra immagine, esempio positivo di vestizione, portamento e garbo, in oltre considerato che viviamo nel 2020 il punto più buio della vestizione, l’esempio mi lascia ben sperare.

Da questi brevi accenni si può notare che le tradizioni consuetudinarie non sono un’invenzione, o qualcosa che si può predisporre sulla base di sentito dire o improvvisazioni prive dei minimali requisiti di senso; esse sono e devono essere il risultato di lasciti tra generazioni e non è un caso, che quando questo avviene, si può dire che tutti hanno fatto il proprio dovere nel corso della propria esistenza.

Comunemente quanti non sanno e non hanno consapevolezza di cosa si discuta e di cosa si voglia tutelare, preferiscono le vie di fatto, definendo quanti cercano di dare respiro alla consuetudine e alla storia degli arbëreshë, “devastanti”.

Certamente è preferibile essere ritenuti  “devastanti Arbëreshë con Laurea di Ragione” , che condannati comuni nel girone dantesco della vostra dell’Arbëria, dove da troppo tempo il fuoco distrugge e devasta ogni cosa.

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ALLA RICERCA DELLE IMPRONTE ARBËRESHË; IL POPOLO CHE NON USAVA SCRIVERE

ALLA RICERCA DELLE IMPRONTE ARBËRESHË; IL POPOLO CHE NON USAVA SCRIVERE

Posted on 03 settembre 2020 by admin

CatturaNAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Gli enunciati identitari comunemente diffusi all’indomani della pubblicazione in G.U della legge 482/99, prima durante e dopo le conferenze culturali con tema, Gjitonia, erano il seme dei trentatré alfabeti, citati da Norman Douglas, circa un secolo prima.

Fece seguito il sancito, secondo cui erano fuori dalla cultura identitaria quanti non avessero utilizzato uno degli alfabeti, per produrre componimenti di specie con tomi, volumi e tascabili, scritti in arbëreshë.

Lascia dir poco perplessi la teoria secondo la quale sono ritenute eccellenza solo gli scrittori; come se, chi si è distinto in discipline umanitarie, scientifiche, politiche, economiche e di ogni genere sia ritenuto al pari di un contadino capace di usano la zappa per far male ai piedi.

A tal proposito è più ragionevole sostenere tutto l’insieme delle figure distintesi all’interno del modello territoriale, denominata Regione storica diffusa Arbëreshë, senza discriminare quanti ritenevano opportuno solo parlare, l’antico idioma, e nel frattempo partecipare come eccellenza alla cultura e alle innovazioni in senso più generale.

Sono proprio queste figure a distinguersi, anzi raggiungere la vetta degli itinerari di formazione, in numerosi campi, rendendo merito con il loro lume, alla regione storica, specie nei salotti culturali più in voga di tutto il vecchio continente, dal settecento e sino ai giorni nostri; oltremodo condividendo i risultati, con quanti, della popolazione indigena intuirono la loro potenzialità.

Non si possano ritenere, eccellenza della regione storica, solo quanti si sono applicati comunemente a scrivere un antico codice identitario e ancora oggi dopo sei secoli di tentativi, nessun ritiene imitarli; nonostante, nella capitale del regno, più volte eccellenze più formate in campo della diffusione culturale, nel corso dell’ottocento, abbiano redarguito ragionevolmente, con la matita blu i provetti divulgatori.

Quanti hanno dato lustro alla regione storica, in senso di scienze, matematica, ingegneria, economia, musica, letteratura oltre ad aver tradotto antichi testi Greci e Latini, spargendo primati di miglioramento diffuso e comune convivenza, non sono stati certo quanti si dimenava a scrive un parlato antico senza mai raggiunger u traguardo plausibile.

I veri eroi della regione storica, del meridione italiano, sono proprio quanti sono riusciti a portare il proprio ingrgno, quale germoglio d’integrazione nella terra ritrovata, condividendo i risultati con i fratelli indigeni.

Risultati ottenuti non con mezzi di alta tecnologia o con apparati di elevata caratura, ma solo ed esclusivamente con la forza del loro sapere.

Le stesse che oggi mantengono primati e sono alla base di studi e ricerche, come la questione meridionale che sin dalla metà del sedicesimo secolo era argomento di studio, giacché luoghi depressi e senza un futuro, nonostante il territorio garantisse ottime possibilità di rilancio.

Se analizziamo gli eventi storici, dalla fine del seicento, quanto ormai i processi integrativi, prima di scontro e poi di confronto erano stati dissipati, vano rilevate le evoluzioni antecedenti, il decennio francese sino all’Unità d’Italia.

Sicuramente senza tralasciare gli elementi più rilevanti della riforma che miravano alla configurazione territoriale delle istituzioni amministrative, i cu processi governativi definitori delle élites, furono scossi assieme a quanto radicato come solida eredità iniziò a sgretolarsi.

Soprattutto per il Regno di Napoli, anche se, gli studiosi hanno comunemente rivolto la propria attenzione verso i meccanismi amministrativi della regione, trascurando in questo modo, cosa e come abbia caratterizzato la configurazione orografica, con l’applicazione delle ormai collaudate leggi francesi del ventotto, ventoso, anno VIII.

Che sino allora fossero state ritenute marginali i legami tra territorio, strade, in specie l’apporto che queste esercitavano sull’architettura, il paesaggio e la nascita oltre all’evoluzione degli insediamenti abitativi era un dato di fatto.

Solo di recente, anche nel campo degli studi meridionali, è emersa la necessità di occuparsi del territorio inteso come apporto fondamenta della trasformazione in atto, la cui orografia ha reso possibile sistemi e modelli di tutela e residenza; una nuova analisi, dove il lungo diventa capitolo introduttivo, maglia evolutiva del meridione.

Il nuovo stato di analisi e di ricerca si presenta come fioriera di grande novità, nel panorama degli studi meridionali, le ricerche finalmente aprono nuove riflessioni, radiografando gli insediamenti e gli eventi che hanno innescato l’evoluzione, riverberando aggregati urbani e sociali, solidarizzati nel rapporto dell’ambiente naturale in armonia con il costruito.

Per contribuir a rendere possibile questo nuovo modello di analisi ed evoluzione sociale, contribuirono in calabria citeriore le strategie partenopee messe in atto dal gruppo capeggiato da pasquale bassi di Mons. Bugliari, del Belusci seguite e poi fatte proprie nel decennio francese dal Masci, che al seguito di Murat poté mettersi in mostra.

Tutto ebbe inizio con i rapporti che il Baffi intrecciò con i massimi esponenti della cultura europea dalle quali scaturì il progetto di trasferire il collegio a Sant’Adriano per creare un polo di formazione solido in quel nocciolo duro delle aree depresse della Calabria citeriore, stimando con dovizia di particolari le possibilità che offrivano strategicamente quelle terre se idonea mente condotte da eleggibili del popolo liberi da pensieri élitari .

Un quadro geografico feudale da cui emergono strutture amministrative, nei primi decenni, del Seicento, della fiscalità dei casali e le richieste di autonomia in occasione delle disposizioni per la stesura dei catasti conciari.

Avendo come riferimento la legge del 14 dicembre 1789 in discussione, prima di stendere la maglia dipartimentale, visto la necessità di sostituire con istituzioni più solide le municipalità nate nel caos dei mesi precedenti la rivoluzionarie, fu determinato un limite demografico sotto il quale non si sarebbe potuto costituire il comune.

A tal fine furono indicati in 4 – 5 mila abitanti, i cui fine coltre che amministrativo sottraeva i piccoli insediamenti alla facile influenza della chiesa e della nobiltà locale.

Oltre a questo dato di rilievo, si cercava un sufficiente numero di cittadini, attivi e reclutabili, per l’amministrazione della comunità, un sufficiente numero di eleggibili induce la costituzione ad accorpare le comunità locali con una popolazione inferiore ai 5 mila.

Fanno parte di questa nuova strategia di accorpare le aree geografiche con simili consuetudini, le disposizioni di Carlo IV per lo studio dei costumi tipici nel 1783, da cui ha origine il costume tipico arbëreshë, lo stesso che ancora oggi è l’emblema della minoranza e contiene tutti i componimenti religiosi e consuetudinaria.

Mi riferisco al costume del pentagoni di Spezzano, Santa Sofia, San Demetrio, Macchia e Vaccarizzo, il solo costume rappresentativo della minoranza; ma questa è una storia più complessa e richiede una trattazione specifica e dettagliata, in tutti i suoi caratteristici originali e irripetibili, componimenti sartoriali.

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