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Protetto: LA CULTURA DELL’ARCHITETTURA

Posted on 05 dicembre 2014 by admin

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RELAZIONE ESPOSITIVA AL CONVEGNO INTERNAZIONALE SULLA DOCUMENTAZIONE, CONSERVAZIONE E RECUPERO DEL PATRIMONIO ARCHITETTONICO E SULLA TUTELA PAESAGGISTICA

Posted on 12 novembre 2014 by admin

Firenze611FIIRENZE (relatore Atanasio Pizzi) – La delocalizzazione è la soluzione più invasiva che una comunità è costretta a subire, in quanto, stravolge in maniera radicale la storia, i rapporti sociali e sin anche la psiche individuale, questi, già privati dei beni materiali, sono sottoposti anche alle scelte, con finalità di tutela (?), proposte in veste politica, religiosa e novità dell’ultima tendenza: di etnia; tutto ciò non fa altro che sottrarre i riferimenti immateriali ultimo baluardo rimasto nella memoria dei poveri malcapitati.

La casistica è molto vasta e abbraccia epoche diverse, tutte, indistintamente hanno prodotto inquietudini sociali irreversibili e in alcuni casi anche rivolte; tutto scaturisce da dinamismi non proprio naturali, poi sempre  associata a costumi tra i più disparati  con i quali  l’uomo li ha propinati.

L’atto della delocalizzazione perché si realizzi, deve coinvolge quasi tutta la comunità interessata e per questo invitata alla stipula di veri e propri atti d’impegno, materiale ed immateriale; la storia ricorda che sono stati utilizzati sempre singolari stratagemmi per attuare l’esodo senza che si potessero innescare furiosi dissensi; la casistica spazia dalla massoneria abbarbicata alla religione, per Filadelfia; sperimentazioni sociali per realizzare i sudditi ideali, per San Leucio, agro-politiche per La Martella e più recentemente etnico, con la “ Gjitonia” a Cavallerizzo.

L’abitato in esame è un caso emblematico, giacché ad essere sottoposti a questa metodica, sono stati dal 2007 i minoritari di origine albanofona, i cui oltre cinque secoli di storia gelosamente conservati sono stati  dismessi, anche se le istituzioni si ostinano a ritenere che sono stati riversati negli ambiti del nuovo agglomerato di carene.

È bene ricordare che gli insediamenti arbëreshë sono allocati nelle regioni del meridione e precisamente in Abruzzo, Molise, Campania, Lucania, Puglia, Sicilia e Calabria, quest’ultima, con la provincia di Cosenza capofila ha il numero più alto di parlanti.

Infatti, nella provincia citeriore si numerano circa sessantamila unità,  pari all’8% dell’intera regione calabrese, distribuiti in ventisette paesi, tutti adagiati in quella che geograficamente è identificata come la Cinta Sanseverinense, catena solidissima, realizzata nel XVI secolo, per proteggere e rilanciare i territori dei Principi di Bisignano.

Cavallerizzo, oltre ad essere un agglomerato della cinta è situato sulla linea di faglia; San Fili-San Marco Argentano, estesa, quest’ultima, per oltre 50Km. il che rende i paesi albanofoni, della cinta e quelli indigeni a essi adiacenti particolarmente vulnerabili dal punto di vista geologico sin dai tempi in cui vennero edificati.

Che gli albanofoni si siano insediati nel versante del monte Mula, proprio sulla linea di faglia dipende dal fatto che a quell’altitudine le famigerate zanzare anòfele, perdevano efficacia, in oltre era strategicamente la posizione migliore per usufruire delle eccellenze climatiche e territoriali parallele alle terre abbandonate in Albania, per la diaspora in corso.

Un territorio in lento movimento dalle caratteristiche di faglia che provoca spostamenti continui intorno a 1-2 cm/anno e la mattina del 7 Marzo 2005 gli fu attribuita la responsabilità  scatenante l’evento franoso; non ritenendo logico che l’innesco dello sciagurato movimento scaturiva dalla sommatoria delle prescrizioni per la buona gestione del territorio mai attuate.

Le note caratteristiche idrogeologiche, associate alle endemiche problematiche della condotta  Abate Marco, posta proprio a ridosso della corona di frana, notoriamente instabile e  che la saggia consuetudine arbhëreshë aveva appellato non a caso: Nxerta.

Quella mattina, l’incauto sviluppo edilizio, l’instabilità del versante, le perdite più volte annotate della condotta, sommate, alle precipitazioni invernali, innescarono un movimento franoso che cagionò gravi danni alle abitazioni realizzate nella zona di espansione su citata.

Il confronto della piovosità del 2005  e del 2009 indica che  fu molto più intensa alla fine del decennio, ma senza l’apporto dell’acquedotto Abate Marco prontamente deviato all’indomani dell’evento franoso, non si verificò alcuna modificazione in quell’ambito.

A oggi il piccolo centro antico non ha più subito alcun tipo di alterazione e sin anche gli edifici tutti compresi quanti in precario equilibrio dal 2005 rimangono  a dispetto di tutte le regola della scienza delle costruzioni e delle spogliature,  come li modificò la frana.

A fare da padrone invece sono l’incuria l’abbandono e il vandalismo, conseguenza naturale di una vetusta ordinanza, che oltre a ciò  conserva un fermo immagine della malsana gestione del territorio oltre alle caratteristiche idrogeologiche  pari a tutti i centri posti sulla faglia.

I toponimi dei rioni di Cavallerizzo, comparati con la storia degli albanesi delineano in maniera inequivocabile quale evoluzione urbana ha avuto il piccolo centro arbëreshë, Bregù, Sheshi, Katundi e Moticèlleth e nel secolo scorso Nxerta rappresentano la sintesi dello sviluppo urbanistico del centro antico dalla fine del XV secolo, espressione delle città policentriche  e dei principi di famiglia allargata albanofona.

Gli arbëreshë, unica minoranza Europea che tramanda il suo patrimonio attraverso la sola forma orale, la consuetudine e la religione Greco Bizantina, non ha mai avuto alcun testo scritto se non il passaggio da padre in figlio, divenendo così il popolo più enigmatico del continente; ancora oggi solo un arbëreshë può decifrare e tradurre adeguatamente quel patrimonio di gestualità e consuetudine.

All’indomani dell’evento franoso, pur se furono coinvolte solo 25 abitazioni su 260 pari all’11% dell’intero edificato, gli organi preposti, imposero la delocalizzazione come unico rimedio, attribuendo il dato relativo al movimento della faglia San Fili – San Marco Argentano; di esclusiva per il centro di Cavallerizzo, dando avvio al progetto irrispettosi della legge 482/99 a tutela del patrimonio materiale ed immateriale albanofono,  come prescritto dalla legge, di quel determinato ambito e non di altri in atto.

Sin dalle prime scelte urbanistiche e architettoniche appare quale piega inadeguata segue il progetto, l’inesistente relazione storica; ambiti mai visitati o interpretati divengono la caratteristica principale; se a queste si somma il fatto della errata traduzione dei valori ancora vivo nella popolazione di Cavallerizzo, ha illuminato la mente, al signore dei  miraggi algerini.

La sintesi architettonica mai sostenuta e fatta propria perché alloctona, dall’Associazione Cavallerizzo Vive, fu sottoposta al giudizio del Consiglio di Stato che pur non entrando nei meriti della produzione, ha identifico il nuovo insediamento abitativo: Abusivo, perché doveva essere sottoposto a V. I. A. (Valutazione di Impatto Ambientale); oggi con sforzi politico-burocratici si cerca di ottemperare a quanto richiesto dal TAR del Lazio.

Qualsiasi piega prenderà la disposizione di ottemperanza, l’opera realizzata non avrà mai i valori caratteristici di tutti i paesi che vivono di economia derivante da produzioni locali e di quel terziario che è la vera ricchezza dei paesi del meridione italiano, che ogni volta che viene raccontata affascina ogni tipo di ascoltatore.

Purtroppo le  valutazioni di ricerca su citate, hanno snaturato l’intera valle del Crati, dove sono state innalzate forme e schemi fuori da ogni regola, costringendo le genti arbëreshë a vivere come nelle periferie metropolitane, senza metropolitana e prive di ogni minimale servizio che i grandi centri offrono, trapiantando dinamiche sociali che rispecchiano le regole dei paralleli geografici, invece di quelli meridiani del mediterraneo.

Il progetto doveva avere come fine modelli urbanistici e architettonici trasmessi oralmente poiché appartenente a metodiche legate a processi proto industriali che solo un arbëreshë conosce, però gli antiquari  della piramide gerarchica hanno preferito omettere in fase di studio.

Non aver considerato fondamentale, nel nuovo insediamento, le innumerevoli produzioni di artigianato allocate nei Katoi, chiusa la chiesa e allestita l’area industriale(?) ha spogliato la popolazione dai legami inscindibili racchiusi nel concetto della tanto vituperata Gjitonia.

Aver ignorato il concetto di Cortile, Kaliva e Giardino nella loro dimensione metrica equivale a spogliare gli albanofoni del concetto di famiglia allargata fondamenta della consuetudine e del sociale arbëreshë.

Allo stato attuale, per recuperare il vecchio centro sarebbe necessaria l’immediata sospensione dell’ordinanza comunale, l’attivazione dei sottoservizi sospesi irresponsabilmente, la mitigazione dello stato dell’area della frana, la demolizione degli edifici danneggiati con il conseguente ripristino dello stato dei luoghi nel rione Nxerta, la restituzione delle abitazioni a tutti gli abitanti ancora legati agli ambiti dei quattro rioni storici, attivare le attività ecclesiali dismesse, al fine di far ripartire l’antica consuetudine minoritaria.

In seguito realizzare il progetto per la messa in opera della stazione di rilevamento che fornisca costantemente i valori di faglia dinamici e idrografici di tutta la valle del Crati, l’istituzione di un campus universitario, l’albergo diffuso e la messa a dimora di piantumazioni e attività agro-pastorali, al fine di chiudere il cerchio e dare dignità a quel territorio che per le sue caratteristiche intrinseche da sempre si prodiga per il benessere e la prosperità della provincia cosentina, al fine di realizzare un esempio turistico culturale per tutta la regione storica arbëreshë.

 

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“Il Fallimento di una delocalizzazione arbëreshë”

Posted on 09 novembre 2014 by admin

Firenze

 

“Il Fallimento di una delocalizzazione: l’abitato arbëreshë di Cavallerizzo”

(Comune di Cerzeto, Calabria, Italy)

 

“The failure of Relocation: the arbëreshë village of Cavallerizzo

 (City of Cerzeto, Calabria, Italy)

Atanasio Pizzi  Architect and editor of the site “Sheshi i Pasionatith”

Fabio Ietto  Geologyresearcher UNICAL, DiBEST

Antonio Madotto  Secretary of the “Cavallerizzo Vive-Kajverici Rron” organization

 

– Sommario

Cavallerizzo is a village of arbëreshë minority in the Province of Cosenza, established by the Sanseverino prince of Bisignano in the early XVI century by Albanian refugees who settled in the local mountains. The village is situated close to “San Fili-San Marco Argentano, which extends over fifty kilometers. In 2005 a landslide affected the southern outskirts of recent expansion of the village; the historic center was not affected by the landslide; however the entire village was declared unfit and abandoned along with its arbëreshë heritage. The project aims to create a living museum of typical activities of the Albanian minority, and restore its Balkan, Spanish and French architectural influences and urban planning, moreover add a geological survey for the western edge of the Valley of Crati.

 – Cenni storici

L’abitato di Cavallerizzo è una frazione del comune di Cerzeto, fa parte dei centri arbëri della provincia cosentina (Calabria Italia Meridionale) ubicato tra le colline del Monte Mula che scendono a Est verso il fiume Crati (Fig.1). Il suo nome deriva da un cavallerizzo dei principi Sanseverino noto come San Giorgio di San Marco. I territori sui quali si ubica il centro abitato, sono menzionati già dal 1065, con la loro donazione all’Abazia di La Matina. Nel 1462 furono acquistati da Luca  Sanseverino primo Principe di Bisignano. Questi mise in atto nella provincia fiorenti attività tali da far acquisire ai suoi possedimenti l’appellativo di granaio regio. L’indotto produttivo ben presto subì, purtroppo, gli effetti della carestia, della peste e dei terremoti che videro come scenario la Calabria di allora. I successori di Luca, Girolamo, Bernardino e Pietro Antonio per cercare di dare linfa economica ai loro territori accolsero nuove e operose genti di origine albanese. I quali dopo un iniziale ”nomadismo”che si dilungò sino alla metà del XVI secolo, s’insediarono definitivamente in casali disabitati, nei pressi di chiese o conventi. In seguito trascritti gli atti di sottomissione con le autorità locali agli esuli, fu concesso il diritto di edificare manufatti in muratura oltre ad avere i privilegi di trasferire alle discendenze quanto a loro disposizione. Ebbero così inizio quelli che oggi si riconoscono come agglomerati urbani diffusi arbëreshë, contenitori fisici di usi, costumi, consuetudini e religione che si tramandano oralmente da oltre cinque secoli. Dopo una parentesi di confronto e scontro etnico/religioso con le istituzioni locali, queste si attenuarono con l’istituzione del Collegio Corsini nel 1732. L’istituto eretto per formare clericali e laici, ha consentito in seno alla minoranza, che si formassero uomini di cultura in campo religioso, giuridico, letterario e scientifico, che divennero riferimento nelle regioni e nella capitale partenopea.

–  Analisi dei sistemi urbani albanofoni

Gli agglomerati diffusi arbëreshë nascono secondo regie disposizioni e grazie al modello di famiglia allargata, secondo quanto disposto nel Kanun. I rioni di Cavallerizzo, Katundì, Moticèlleth, Sheshi, Brègù e Nxertath (Fig.2), rappresentano il percorso evolutivo dell’abitato per restituirci l’attuale assetto planimetrico. Il processo di trasformazione dell’ambiente naturale in quello costruito è avvenuto secondo i parametri morfologici, floristici, orografici e climatici; fondamentali per gli esuli, giacché simili a quelli della terra d’origine. È in queste macro aree che le costanti dei sistemi urbani: il recinto, la casa e il giardino, hanno trovato l’ambiente ideale per restituire gli ambiti odierni; il recinto delimita il territorio, ove la famiglia allargata aveva il controllo assoluto; la casa, anch’essa circoscritta dal cortile era costituita da un unico ambiente in cui conservare le poche suppellettili e alimenti; il giardino è luogo della prima spogliatura, dimora dell’orto stagionale, la farmacia dei casa, l’indispensabile “orto botanico”. Nel periodo che va dal XV al XX secolo, gli esuli lentamente hanno riposto il modello familiare allargato per quello urbano e poi, in tempi più recenti vive quello della multimedialità. Quando la famiglia allargata inizia ad assumere la conformazione urbana si da inizio alla realizzazione dei primi isolati (manxane), secondo schemi articolati o lineari. Inoltre lo sviluppo degli agglomerati tendenzialmente accoglie le direttive dell’urbanistica greca che allocava gli accessi degli abituri sulle strette vie secondarie, ruhat. La gjitonia, (dove vedo e dove sento), sin dal XVI secolo ha resistito alla modernità diventando il luogo della ricerca dell’antico legame indispensabile per la consuetudine arbëreshë (Fig.4),. La Gjitonia ha origine dal tepore del focolare, si espande con cerchi concentrici, nella piazzetta sheshi e si estende lungo le ruhat, sino a giungere negli angoli più reconditi dei territori comunali e non solo. La Gjitonia è il luogo dei cinque sensi, punto d’incontro di materia, sentimenti e sensazioni. La gjitonia si avverte, si respira, si assapora, si vede, si tocca, senza mai poter essere tracciata. Gli agglomerati Albanofoni rappresentano il cardine che lega lingue, religioni e storie dissimili, in grado di produrre il modello d’integrazione più riuscito del mediterraneo. Il piccolo abituro, shpia, in origine realizzato con rami intrecciati poi con blocchi di terra mista a fango e paglia, (Fig.2), in seguito, è stato ottimizzato attraverso l’utilizzo di materiali autoctoni più idonei come: pietre, calce e arena. Dopo il terremoto del 1783 e la conseguente realizzazione della Giunta di Cassa Sacra, gli stessi ambiti urbani minoritari ebbero un nuovo sviluppo architettonico e gli agglomerati inizarono a svilupparsi verticalmente. Gli ambiti urbani calabresi assunsero una nuova veste distributiva che allocava i magazzini e le stalle al piano terra mentre le abitazioni erano al primo livello. I successivi frazionamenti, richiesero l’uso delle scale esterne, profferlo, in quanto, non tutti avevano la possibilità di costruire nuove abitazioni, modificando radicalmente in questo modo le prospettive all’interno dei borghi. Il ciclo di crescita si arricchisce ulteriormente dopo il decennio francese, con la costruzione dei nuovi palazzotti nobiliari, espressione di una classe sociale emergente. Ciò avviene solo per le classi più elevate perché quelle meno abbienti continuano a occupare i vecchi abituri e quella media esterna la nuova posizione sociale, imitando frammenti dei palazzi post napoleonici.

–  Inquadramento geografico e geologico

L’abitato di Cavallerizzo ricade lungo il margine occidentale del graben del Crati, delimitato da allineamenti tettonici normali orientati N-S., a cui appartiene la faglia San Fili-San Marco Argentano, che si sviluppa per oltre 50km, (IOVINE et al. 2006),su cui sono depositati diversi abitati e la stessa Cavallerizzo. Alla faglia è attribuito il sollevamento del complesso cristallino-metamorfico, caratterizzante l’intera Catena Costiera Calabrese, rispetto ai depositi tortoniano-quaternari di riempimento del bacino del Crati. I versanti a maggiore acclività, sono costituiti da terreni metamorfici con una buona circolazione idrica sotterranea. Tali litologie, soprattutto in prossimità del sistema tettonico orientato N-S, si presentano molto alterate con fenomeni di argillificazione diffusa e alterazione superficiale (IETTO 2010). La porzione verso valle è invece caratterizzata da depositi neogenici argillosi del bacino del Crati, caratterizzati da bassa permeabilità. La zona di contatto tettonico tra il complesso cristallino metamorfico a monte e i depositi impermeabili a valle, costituisce una zona di accumulo idrico e sorgivo. La morfologia, la litostratigrafia e il carattere idrogeologico della porzione di versante attorno a Cavallerizzo rappresentano, quindi, condizioni di chiara predisposizione a fenomeni franosi, prevalenti tra le isoipse 600 e 400m. La maggiore potenzialità al dissesto s’innesca soprattutto per le coperture detritiche eluviali, date le scadenti caratteristiche meccaniche e la frequente degradazione verso termini argilloso-plastici. La condizione si concentra alla periferia meridionale dell’abitato di Cavallerizzo, rimasta scarsamente edificata fino al 1970. La porzione settentrionale dell’abitato poggia, invece, su terreni più resistenti e non presenta evidenti fenomeni di scivolamento. Va in oltre rilevato che uguale assetto geomorfologico si ripete per tutti i centri abitati allineati lungo il medesimo asse tettonico S.Fili-S.Marco Argentano (Fig.1).

 

–  La frana e le conoscenze storiche

La notte del 7 marzo 2005 una frana lungo il margine meridionale dell’abitato (Fig.3), coinvolse il quartiere di recente espansione denominato Nxerta, costruito su una copertura detritica eluviale già interessata da fenomeni gravitativi già dal XVII secolo, come riportato nei relativi archivi storici, in cartografie del 1903 e nella carta geologica del 1960(IETTO 2010). La condizione d’instabilità del versante fu segnalata da IETTO (1978), a seguito della messa in opera della condotta idrica Abatemarco, interrata nello stesso versante; nonché da (GUERRICCHIO1998) per la verifica di un fabbricato lesionato. Entrambe le relazioni suggerivano possibili soluzioni d’intervento per la messa in sicurezza del versante, dei pochi edifici allora presenti e della condotta idrica soggetta a ripetuti disservizi. Interventi mai realizzati, né presi in considerazione durante il successivo sviluppo edilizio. A seguito dei fenomeni gravitativi, nella porzione meridionale dell’abitato di Cavallerizzo, furono condotte dal Comune due campagne d’indagine geognostica nel 1982 e nel 1998-99, a fronte di ciò l’istituto CNR-IRPI di Cosenza attivò un sistema di monitoraggio dell’area in frana. Il collasso del 2005 ebbe ad attivarsi dopo un periodo di elevate precipitazioni atmosferiche, come richiamato nella rete di monitoraggio CNR-IRPI, che provocarono condizioni di saturazione idrica del versante. Il cinematismo della frana fu di tipo rotazionale nella porzione alta per poi attivarsi in colata, interessando un’area già ampiamente instabile e posta in crisi dalla speculazione edilizia dal 1980. Elevata danni furono riscontrati solo nel quartiere periferico denominato Nxertath, interessando solo l’11,5% del costruito totale; mentre nessun danno si rinviene nella restante parte dell’abitato, intatto a tutt’oggi. Dal 2005, non risultano altri evidenti movimenti che interessi il centro storico e nessuna evoluzione è stata riscontrata nell’area frana. L’assenza di scivolamenti in atto fu riscontrata anche nel 2009, quando le precipitazioni atmosferiche invernali fecero registrare un valore cumulato maggiore rispetto a quello del 2005 (IETTO 2010). Pertanto non è da escludere che all’anomalo incremento piezometrico, riconosciuto come causa di attivazione della frana (RIZZO, 2005a; 2005b), abbia concorso la condotta idrica Abatemarco, prontamente deviata all’indomani dell’evento. A tutt’oggi in assenza di interventi, per la mitigazione delle condizioni di rischio, resta elevata la possibilità di coinvolgimento delle aree urbane limitrofe. Pertanto il dato inconfutabile risulta che, per aver frettolosamente valutato gli ambiti di frana, si è intrapreso un percorso storicamente fallimentare.

–  La delocalizzazione dell’abitato di Cavallerizzo

A seguito della frana del 2005 fu interdetto l’accesso all’intero centro urbano di Cavallerizzo, ordinanza ancora tutt’oggi in vigore e i cui motivi furono ufficialmente resi noti solamente nell’ottobre del 2009. Le su dette motivazioni, basate solo su un rilevamento geomorfologico di superficie, indicherebbero l’esistenza di una paleofrana coinvolgente l’intero abitato, integrato con indagini geognostiche eseguite negli anni novanta del secolo scorso (quindi prima dell’evento 2005), oltre ad uno studio di telerilevamento satellitare che indicherebbe una traslazione dell’abitato di circa 1 cm/anno. Tale movimento risulterebbe comunque diffuso lungo tutti i centri abitati, ubicati a Nord e a Sud di Cavallerizzo, con velocità di scivolamento variabili da 2 a oltre 6mm/anno, desumendo però una condizione di elevato rischio frana, in condizioni sismoindotte, per il solo borgo di Cavallerizzo. È opportuno rilevare che le condizioni di rischio potenziale, per frane sismoindotte, sono estendibili comunque a gran parte della Calabria Nord occidentale, compreso il nuovo insediamento per la delocalizzazione in località Pianette. Va inoltre rilevato che dopo la prima conferenza di servizi, tra maggio e giugno del 2006, si diede avvio alla fase di sottoscrizione degli atti cui la popolazione era obbligata a cedere la vecchia abitazione, sottoponendo a questo iter anche coloro che innanzi a questi atti non si sono mai presentati a sottoscriverli. Nel 2007 fu quindi definito il progetto esecutivo di ricostruzione e nel corso del 2008 illustrato lo stesso alla popolazione. Il 7 Marzo de 2008 fu deposta la prima pietra di quello che sarebbe dovuto essere un paese arbëreshë con le gjitonie.

 

–  Il Non Progetto

Quando gli organi decisionali, sancirono che era indispensabile garantire l’incolumità fisica unitamente alla tutela storica di Cavallerizzo, per la redazione e messa in atto del progetto, non fu indicato come prioritario la figura dello storico o dell’esperto d’ambito in grado di rispondere sulla secolare tradizione arbëreshë, ma in maniera molto discutibile si è dato avvio al progetto ritenendo che i minoritari arbëreshë si potessero paragonare a una qualsiasi popolazione dispersa negli ambiti del mediterraneo innescando scelte progettuali tali da scambiare la Gjitonia con i Quartieri e modificando radicalmente il rapporto tra costruito e non costruito (fig.4). Così anche per i sistemi viari,che nel progetto vengono riportati come aree mercatali. Questi esempi, assieme ad altri secondari, per questo non meno rilevanti, confermano quanto sia stato sottovalutato il modello arbëreshë. Un’analisi di quanto messo a dimora in località Pianette, indicherebbe un uso improprio di studi prodotto in ambiti mediterranei, poiché si sono paragonate le dinamiche urbanistiche e architettoniche dei paesi arbëreshë verosimilmente a quelli prossimi o nei dintorni dall’equatore, realizzando nella valle del Crati scenari in cui è difficile riversare i riti e la consuetudine dei minoritari (Fig.5-6).

–  Cavallerizzo Vive

A Cavallerizzo, il 28/07/2007, un gruppo di abitanti fondò l’associazione “Cavallerizzo Vive-Kajverici Rron”. Nel 2008 tale associazione presentò un ricorso al T A R Lazio. La censura in merito all’opposizione del trasferimento dal borgo storico fu respinta perché tardiva; mentre quelle basate sull’opposizione di de-localizzare l’abitato è stato accolto. Il 3/3/2010 il T A R del Lazio annullò il verbale della conferenza di servizi del 31/07/2007 approvante il progetto definitivo del nuovo paese per l’omessa attuazione della V I A e precisò che, la ricostruzione di un centro abitato rappresenta un’urgenza ma non rientra nelle condizioni di stato di emergenza, non sussistendo le condizioni di pericolosità in atto e quindi in grado di minacciare l’incolumità di beni e/o persone. La Protezione Civile, Prefettura di Cosenza e Comune di Cerzeto proposero appello che l’11/12/2013 il Consiglio di Stato respinse, riconfermando di fatto la sentenza già emessa dal T A R Lazio. Il Comune di Cerzeto, a seguito di ciò, invece di prendere atto del danno subito nel corso di un decennio, ostinatamente, presentò richiesta di annullamento della sentenza emessa nel 2013 che lo stesso Consiglio di Stato, in data 14 maggio 2014, dichiarò in via definitiva, abusiva. Di contro, l’abitato storico di Cavallerizzo, con i suoi oltre 550 anni di vita, ha sempre vissuto con fenomeni d’instabilità e dal 2005 ha dovuto rispondere in maniera autonoma anche a processi vandalici che si sono attivati in seguito all’incuria e all’abbandono. Oggi i risultati scaturiti da quest’affrettata operazione si possono elencare rispettivamente in: un nuovo insediamento abusivo, il vecchio paese dichiarato inagibile a seguito dell’ ordinanza comunale e la scissione della comunità di Cavallerizzo in due fazioni, che non sanno neanche dove festeggiare il santo protettore San. Giorgio.Tutto ciò sancisce il fallimento dell’intera gestione, attuata privando i residenti di ogni baluardo decisionale, producendo alla comunità frammentata e disadattata, successive distorsioni sociali, espressione del legame materiale e immateriale smarrito.

–  Conclusioni e Progetto

Alla luce di quanto emerso è palese la necessità di tutelare il centro storico di Cavallerizzo, perché la rara consuetudine minoritaria, inghisata in quegli ambiti, attende l’idoneo restauro che la collochi con rispetto nello scenario sociale, culturale e scientifico calabrese cosi come intergrato prima dell’evento franoso. L’abitato di Cavallerizzo nasce perché è il risultato dell’azione di una civiltà cui è parte indissolubile perché non il frutto dell’azione costruttiva di un singolo ma cerniera di culture e perciò va salvaguardato. Dopo gli avvenimenti succedutisi a circa dieci anni dall’evento franoso, alla luce delle sentenze, si dovrebbe giungere a un ragionevole esame e consentire la messa in sicurezza degli ambiti di frana. Il centro storico, attraverso opportuni interventi deve far rivivere il patrimonio storico costruito in 550 anni di vita arbëreshe. Il recupero dell’agglomerato deve avere come fine prioritario la ricollocazione della minoranza storica che va condivisa non solo con l’associazione Cavallerizzo Vive, ma da tutta la regione arbëreshë. Un progetto che ha come indicatore la storia albanofona, intrisa nelle ostinate murature che continuano a riverberare una lingua antichissima; innestando le consuetudini agro, silvicole e pastorali tipiche degli arbëreshë, in solida convivenza con il territorio comunale. Va realizzata attraverso una convenzione con il Comune di Cerzeto, l’UNICAL, la Provincia di Cosenza, la Regione Calabria e il CNR un centro multidisciplinare e controllo delle problematiche geologiche e geomorfologiche caratterizzanti l’intero versante che perimetra il bordo occidentale di valle Crati. Tutto ciò mira a rendere l’abitato in linea con il progetto di restauro e recupero funzionale, previo abbattimento di tutte le barriere architettoniche e di ogni tipo di superfetazione fuori dalle regole storiche dei quartieri Katundì, Moticèlleth, Sheshi e Brègù. Un esempio di valorizzazione attuato attraverso studi, ricerche d’archivio storicamente comprovate e supportate dall’ausilio di tecnologia per rendere Cavallerizzo un esempio per la regione storica arbëreshë. L’auspicio è quello di vedere protagonisti i fratelli della comunità di Cerzeto riappropriarsi di Cavallerizzo e renderla parte attiva della Regione Storica Arbëreshë (fig.7).

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Pinna B. 1999 “La forma dell’oggetto architettonico e artistico” in “Conoscenza ed educazione all’ambiente” di G. Nuvoli, Editore Angeli F.; p.p. 65-102;

Rizzo V. 2005a “Relazione del sopralluogo sul dissesto idrogeologico nel Comune di Cerzeto (Località Cavallerizzo)”– 1° Relazione del 25/03/2005, incarico del Dip. Prot. Civile, protocollo n° DPC/PRE/0013944

Rizzo V. 2005b  “Relazione del sopralluogo sul dissesto idrogeologico nel Comune di Cerzeto (Località Cavallerizzo)”-2° Relazione del 20/04/2005, incarico del Dip. Prot. Civile, protocollo n° DPC/PRE/0013944;

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STORIE SIMILI SASSI E ARBERIA

Posted on 18 settembre 2014 by admin

La storia si ripeteNapoli ( tratto da Conversazioni di A. e L. Sacco ) – Spesso, quando si parla di fatti dei quali si è particolarmente coinvolti, si ha la sensazione di non poter essere obiettivi o alterare la verità. Per liberarsi da questa preoccupazione basta tuttavia considerare che nel caso della progettazione e la realizzazione di un borgo rurale è frutto di un procedimento critico. Se poi questa critica sia stata impostata e condotta bene o male, se le conseguenze che se ne sono tratte siano giuste sbagliate, si potrà stabilire con un procedimento di analisi e di giudizio: il tentare un tale procedimento di giudizio da parte di chi ha partecipato all’azione, questo sì sarebbe vero amore. Volendo dunque riferire la genesi del villaggio, bisogna anzitutto distinguere due capitoli che a rigor di logica dovrebbero essere indivisibili e che invece la pratica contingente ha separato: la pianificazione e cioè la preparazione territoriale, economica e sociale del nuovo villaggio e la progettazione cioè lo studio specifico e la effettiva   stesura   urbanistica   e   architettonica   del   Villaggio. Naturalmente la distinzione è per forza di cose schematica e come tale è da assumere con una certa cautela: difficile infatti è il dire, per esempio, se la preparazione sociale sia tutta devoluta alla pianificazione o se in gran parte, come di fatto è avvenuto, essa appartenga alla fase di studio per la progettazione. All’atto pratico, in azioni così  complesse come è stata quella per la costruzione del Villaggio, molte cose non si farebbero mai se ognuno osservasse con rigore burocratico i limiti del campo d’azione che gli sono assegnati.  ln America, prima di dare inizio ai lavori per la sistemazione della  vallata del fiume Columbia, si sono spesi due anni laboriosi di ricerche sociali per stabilire se i nuovi insediamenti umani dovessero essere di tipo sparso o di tipo accentrato; e la conclusione, si noti bene, è stata favorevole all’insediamento accentrato opportunamente dimensionato e dislocato. In Italia invece non c’è bisogno di fare ricerche, in Italia si procede a “buon senso”, che val quanto dire a lume di naso. E’ evidente come le incertezze che ancora sussistono sulla sorte del Villaggio siano la conseguenza diretta del metodo inverso seguito dagli enti responsabili per il quale si è, in primo luogo, decisa la costruzione di un villaggio a sollievo della situazione edilizia, quindi si è scelta un’ubicazione per esso, poi si è collegata questa iniziativa con la riforma e finalmente la si è introdotta di sana pianta nel piano per il risanamento. In altri termini dal particolare si è risaliti via via al generale mentre, come ognuno sa, la logica consiglia di fare esattamente il contrario. Ma spesso, soprattutto nel nostro Paese, la logica non è il solo fattore di cui si deve tener conto; perché, come si è detto, se lo si lascia dominare, si è condannati a restare a sedere senza far nulla di buono. Perciò, malgrado tutto, il villaggio è un risultato notevole di pianificazione da additare forse non soltanto all’Italia. In un paese, dove gli urbanisti, per fortuna senza alcun seguito, pretendono di fare gli agrari e dove gli agrari purtroppo non si fanno scrupolo di sostituirsi agli urbanisti, in un paese dove ognuno sa tutto ed al tempo stesso ognuno fa quello che non sa fare, in un paese che sta diventando inopinatamente una terra di pianificatori che tuttavia ignora di fatto a tutt’oggi l’esistenza della sociologia, in una corte dei miracoli di questo genere insomma, l’episodio  merita d’essere segnato a dito come un esempio. Poichè, grazie all’assistenza  assidua e intelligente della Commissione  di  Studio, patrocinata dall’Istituto Nazionale di Urbanistica che ha lavorato sul posto fin dall’inizio, il villaggio è pensato e fatto per i contadini che lo abitano e per le loro esigenze; perché, sia costato quel che è costato di fatica è frutto dell’intervento coordinato di più enti; poiché infine è la prima iniziativa edilizia del dopoguerra che ha affrontato il problema della casa insieme a quello del lavoro e dell’educazione sociale. Premessa questa breve precisazione sugli aspetti positivi e negativi della pianificazione del nuovo insediamento, che in un certo senso rappresentano i fattori estrinsechi al progetto vero e proprio, si può passare ad un discorso assai più sottile e di carattere autobiografico. In primo luogo occorre dichiarare che il borgo non è un fatto estetico di rilievo. Per dir meglio, chi volesse considerare questo villaggio in termini di eleganza formale, molto probabilmente resterebbe deluso e certo sarebbe fuori strada; chi volesse ricercare uno stile, potrebbe solo farlo se attribuisse a questa parola un significato estensivo. Nel progetto del borgo si è cercato di scarnire il linguaggio architettonico da ogni frase retorica, da ogni arbitrio, preconcetto, prefabbricato e convenzionale. E questo, non col proposito di arrivare alla lirica pura, al gioiello nello scrigno, all’oggetto posto sul prato; questo invece semplicemente per dare  a  quei contadini  che avrebbero portato con sè un bagaglio di storia di migliaia d‘anni, un ambiente “pulito”, pulito da assurdi belletti intellettuali, da effimere verniciature di gusto, assolutamente frivole nei confronti della serietà dello scopo; questo soltanto per  preparare  un ambiente adatto ad accogliere quegli uomini, un ambiente che non fosse arido e indifferente al punto di distruggere la loro coerenza e la loro solidità interiore. Se il villaggio potesse anche soltanto in parte essere considerato come un “osso di seppia”, le intenzioni di chi ci ha lavorato attorno, sarebbero ingloriosamente e rovinosamente fallite. Di fronte a questo atteggiamento di lavoro non mancherà chi voglia definire un tale impegno di rispetto verso la personalità dei futuri abitanti, protagonisti del nuovo insediamento, come una posizione “tradizionalista”. E la definizione, come accade in genere per tutte le aggettivazioni, potrebbe essere estremamente sommaria e sbagliata  o potrebbe invece cogliere nel punto giusto: si tratta solo di intendersi sul senso della  parola tradizionale. Esso è uno degli agglomerati urbani più originali e più  complessi del nostro territorio nazionale. Questo fatto ormai lo sanno e lo ripetono tutti. Tuttavia per poterne apprezzare il senso occorre aver assimilata una certa  esperienza. Chiunque si avvicina per la prima volta a questa realtà urbana, lo faccia o no con l’organica futilità del turista di dozzina, prova due specie di emozioni fondamentalmente diverse. Anzitutto fisico, mentre è inconfondibile il disagio di una pessima camera d’albergo e di una cucina di ristorante sottilmente disgustosa. In secondo luogo, meno cosciente ma ben più tenace, l’impressione stupefacente della vita in questi ambiti, una specie di sensazione di sottofondo, un interrogativo che dura e disorienta. Lì per lì non ci si domanda nemmeno se ci sia un nesso tra l’una sensazione e l’altra e, infastiditi , si finisce con l’accomunare i due fatti in un generico senso di repulsa e di riprovazione verso questo immondo peccato di irriverenza nei riguardi della civiltà: “Che città incredibile, si pensa, che assurda e inqualificabile aggregazione di ricoveri umani!”. Invece il binomio di sensazioni sussiste e, alla luce di una nuova esperienza, si accentua e prende significato e assume quasi sapore di parabola: da un lato la nostra impressione, la reazione della nostra mentalità, questa specie di oggetto sbagliato che non sappiamo giustificare perché non rientra nei nostri paradigmi. Si torna nell’antico borgo e si impara a conoscerlo meglio e ci si accorge che la conoscenza di questo mondo ci aiuta a raggiungere una più chiara consapevolezza delle nostre impressioni fino al punto che la nostra stessa materia interiore ne è impegnata ne risulta ampiamente arricchita. E’ così: si torna e si scende ancora per gli scoscesi vicoli e quello che era sembrato un disordine inumano, impenetrabile alla nostra comprensione come l’intrico di una vegetazione selvaggia, si rivela un ordine umanissimo che aveva la sola peculiarità di essere diverso dal nostro. Quanti urbanisti e quanti sociologi cercano invano la pietra filosofale dell’unità di vicinato, cioè di quell’ideale nucleo di più famiglie che l’affiatamento sociale, oltre che il destino della convivenza, tiene in sesto; e questo fanno con lo scopo finale di ricostruire nei nuclei urbani quel tessuto connettivo che la nostra civiltà con un grave processo di auto necrosi ha inesorabilmente distrutto. Allora ci si accorge che la vita in quel luogo ameno, esempio raro, è organizzata secondo una fitta struttura di legami primari, socialmente e topograficamente individuati e circoscritti, che la suddividono in tante unità di vicinato, esattamente come un tessuto organico è diviso e al tempo stesso costruito in cellule e precisamente come gli urbanisti e sociologi vorrebbero cementate le loro città. Di questa organizzazione esistono e sono esistite a memoria d’uomo prove vitali. La crapiata ne è un esempio, la festa del cibo azimo e vegetariano, una specie di celebrazione di sapore pagano che ogni vicinato celebra a solenne convegno sullo spazio antistante le grotte delle sue famiglie. Il sistema della cottura colletti va del pane, un altro esempio, per il quale ciascuna famiglia, impastato il proprio pane in casa, lo porta per la cottura ad un forno comune a servizio di più famiglie o addirittura di più vicinati ; e gli affiliati ad un de termina to forno sono sempre gli stessi e distinguono i loro pani col timbro di un sigillo in legno d’olivo depositato preso il “gestore” del forno. Con queste e con altre confidenze, a chi la voglia conoscere onestamente questa schiva città scopre poco a poco il suo volto umano; e quello ch’era sembrato un disordine inetto, un disfatto abbandono, si manifesta come un altro ordine, un ordine diverso dal nostro e tuttavia civile. E chi se n’era andato la prima volta scandalizzato da tanta primordiale trasandatezza, capisce tornandoci che tale sentimento altro non era che la stizza boriosa di un uomo a tal punto abbottonato e incravattato in vesti ben educate, da non sentire e da non intendere più nulla al di fuori del proprio sussiego. Ecco il punto; così aveva decretato questa sciocca mentalità, essa era un’eccezione, un’abominevole eccezione che la nostra grammatica razionale, euforica, porcellanata, non poteva tollerare e quindi doveva eliminare. “Eliminare” era la parola, eliminare una città! Come se una città fosse divisibile in due parti del tutto indipendenti; da un lato un insieme di pietre diversamente assestate e dall’altro un certo numero di uomini. Come se di una città si potessero distruggere le cose e trasferire gli uomini senz’altro danno che la spesa non fruttifera di nuove costruzioni. Ecco in che modo alla luce della nuova esperienza ci si accostava al problema  con  altri  occhi  e  con  altra  coscienza. Distruggere una città perché le sue case erano sordide e malsane e dare un asilo più isicuro agli uomini: ora i rimaneva perplessi di fronte a questa formula brutale. Poiché si sapeva dallo studio di questa città che la coerenza tra gli uomini e le cose era un fatto reale, vivo e presente nella vita di ogni individuo; era la storia di ognuno e di tutti insieme, era la sostanza sentimentale e morale che cementava quella comunità; era in altre parole proprio quella ricchezza che genericamente si designa con la parola “tradizione”; e si intuiva che era impossibile praticare un taglio crudo senza grave danno. I biologi (ed oggi anche i sociologi), grazie allo studio dell’ambiente di vita degli animali e delle piante che chiamano ecologia, sanno che la distruzione dell’ambiente spesso uccide la specie. Per gli uomini la conseguenza non è così esiziale ma è altrettanto definitiva e dannosa. Distrutto lo ambiente, spezzata la tradizione, gli uomini non muoiono, ma si sfaldano e perdono la loro ossatura morale: centinaia di borgate popolari moderne sono la prova dolorosa di questa realtà. Con questa esperienza si è affrontato il problema del villaggio, con la coscienza precisa che l’ambiente dovesse ad ogni costo essere salvato e trasferito con gli uomini, si è confrontata ogni funzione del villaggio progettato con le abitudini dei contadini fino al punto di proporre ai più intelligenti di essi una serie di soluzioni del tipo di casa e di lasciare ad essi, con la discussione dei pregi e dei difetti, la scelta dello schema più adatto, sino al punto di ristudiare l’intero progetto per inserirvi il sistema del forno collettivo. La storia della genesi del nuovo villaggio in fondo non è che questa. La parabola è semplice: nell’architettura, come in ogni forma di linguaggio, ci sono due vie, quella che dà un pretesto per esprimere sé stessi e quella che offre il mezzo per accostarsi agli altri. In certo senso la tradizione, almeno nell’accezione comune che le si da nella storia dell’arte, dall’epoca del Rinascimento, dà ragione a quelli che hanno scelto la prima via. E in tal senso non si può davvero dire che il nuovo villaggio con la sua volontaria ignoranza di voli pindarici, rientri nella tradizione. Ma se alla tradizione si dà il significato di storia, di quella storia che, povera di episodi gloriosi ed epici, nessuno scrive e che pure accomuna la nostra persona a quella degli altri, il nuovo villaggio è tradizione: poiché chi lo ha pensato, anche se possa non aver raggiunto la meta, ha seguito la seconda via.

P.S.

La lettura è dedicata a  chi ha subito  violenza  gratuita, per colpa di coloro che, immaginando di essere stati illuminati, hanno assunto ruoli attraverso i quali sono stati calpestati i diritti  dei cittadini, art. 6 della costituzione .

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Protetto: LE KALIVE

Posted on 25 agosto 2014 by admin

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LA GRANDE FABBRICA DEI PAESI ARBËRESHË

Posted on 19 agosto 2014 by admin

LA GRANDE FABBRICANAPOLI (di Atanasio Pizzi) – Le stratificazioni nei paesi Italo Albanesi rispettano i limiti degli insediamenti originari perché i perimetri sono da secoli, pressoché gli stessi. Ad oggi le alterazioni  all’interno dei centri storici, non hanno intaccato le caratteristiche architettoniche e l’impianto urbanistico originario. I palazzi padronali, per ciò, divengono espressione dell’operosità dei minori; essi vanno letti, prima di tutto, attraverso le restituzioni grafiche, degli elevati e delle planimetrie delle antiche insule, dove il volume edilizio, maggiore, contiene e avvolge i precedenti, che rappresentano la traccia del percorso evolutivo degli arbëri. Riscontri oggettivi, analisi e confronti dei modelli edilizi, consentono di tracciare il percorso edificatorio intrapreso dai gruppi familiari allargati, nei territori del meridione. Il primo volume edilizio storico, la Kaliva, realizzato nella sua configurazione primordiale con legno, rami intrecciati e fango, fu rinnovato dopo gli atti di sottomissione, con materiali più duraturi a iniziare dal 15**-.., preservando le originarie metodologie di aggregazione, dettate dai legami consolidati della famiglia allargata; quest’ultima, nello stesso periodo inizia un lento processo di scissione in quanto l’assegnazione dei terreni, che sino ad allora avveniva in maniera frammentaria e puntiforme, dal 15** segue una metodologia dettata da nuovi assetti economici e sociali. In linea con le rinnovate disposizioni oltre l’utilizzo dei materiali più idonei a edificare, si marca in maniera indelebile il territori definendo univocamente le insule che da ora in avanti chiameremo; agglomerati policentrici costruiti; essi inglobano spazi adibiti a orto con Kalive a un livello, (nel territorio dal 14**, le abitazioni che avevano pressoché le caratteristiche di tuguri, si come  erano realizzate con materiali deperibili, non lasciarono certezza sulla originaria sistemazione pervenutaci solo come località). Dopo aver avuto liberta di costruire le prime case in pietra e arena, gli albanesi, a seguito delle emanazioni regie del 156**, furono costretti a delimitare gli agglomerati urbani con mura di cinta. La necessità di risparmiare materiali e la difficoltà di reperirli  spinse gli esuli a  utilizzare uno dei paramenti murari delle loro abitazioni a tale scopo, chiaramente per  quelle abitazioni innalzate nei confini del costruito urbano. L’altezza del paramento per la funzione di cinta muraria consentiva di avere dei vantaggi, in quanto così facendo si otteneva un volume maggiore della Kaliva stessa. Il paramento murario posto a confine, assunse quindi la funzione di colmo della copertura, in questo modo la maggiore altezza all’interno dell’abitazione, nella parte più interna consentiva di predisporre un rudimentale ammezzato, aumentando, di fatto, il calpestabile all’interno del nuovo volume edilizio. Esistono ancora evidenti tracce di quanto descritto prima, in molti paesi albanofoni, leggere oggi il perimetro è molto difficile, ma in alcuni casi, dove la memoria storica è ancora lucida e priva di personalismi, si possono facilmente identificare i frammenti murari, o le abitazioni predisposte allo scopo, per tracciare quella linea di confino imposto dalla regia disposizione. I terremoti, le carestie, la peste, misero a dura prova le genti minoritarie nel XVII secolo e non consentirono di adempiere in maniera completa all’imposizione regia, per cui le cinte murarie furono costruite in maniera frammentaria senza aver mai assolto la funzione di confino. Nella disanima dei processi evolutivi dei palazzi storici, questo intervallo dura sino alla fine del XVII secolo e rappresenta una tappa importante nella definizione del volume edilizio di rappresentanza. Il danno prodotto dagli eventi naturali, offriva la possibilità ai superstiti di acquisire i moduli confinanti e avviare quel processo di aggregazione che ha dato origine alle case delle famiglie più abbienti, individuabile come: secondo volume edilizio storico. Questi ultimi sono caratterizzati da una cortina che può essere lineare o articolata, caratteristica che dipende dal luogo in cui l’originario gruppo familiare s’insediò. La residenza, cambia anche la sua disposizione interna che si articola nel modo seguente: a piano terra, aggrega due o più moduli adibiti a zona giorno, depositi e la stalla, il primo di questi è munito di soppalco, che diviene la zona notte, il cui utilizzo è garantito da una scala a pioli asportabile. La nascita del regno dei Borbone e le successive leggi emanate dal sovrano, consentono la formazione di classi emergenti e per questi ultimi, la possibilità economica di realizzare abitazioni più rappresentative; esse si suddividono predisponendo a piano terra depositi, magazzini e la cucina, mentre il primo livello è adibito a luogo di rappresentanza e zona notte, l’intero complesso che ora ha un livello vero e proprio distaccato dal terreno, sormontato dalla lamia di copertura da cui e isolata dal sottotetto Kanicari.. Per avere una regola ancora più definita architettonica e urbanistica bisogna attendere la fine del XVIII secolo quando le nuove leggi ridimensionano i privilegi degli ecclesiasti, le direttive di carattere sociale, infrastrutturali e strutturali a seguito del terremoto del 17**, ci restituiscono nuovi scenari all’interno degli agglomerati urbani. Alle abitazioni sono associati i profferli, per consentire il frazionamento dei volumi di proprietà, in oltre nuovi moduli (Katoi) sono acquisiti dai proprietari limitrofi disegnando la messa in atto di quelle proprietà che poi saranno inglobate negli involucri identificati come padronali. L’abitazione delle famiglie abbienti ha bisogno di assumere sempre più valore rappresentativo, si sviluppa in verticale, appaiono i primi rinforzi in mattoni e ogni tipo di apertura è sormontata da architravature in mattoni che assieme a quella in legno garantiscono più solidità al paramento murario.  Una caratteristica fondamentale che valorizza il volume di nuova acquisizione, diviene la porta di rappresentanza, realizzato interamente in mattoni, compresa la soglia su cui si elevano i piedritti, sormontati da un arco a tutto sesto, in oltre le abitazioni poste in posizione strategica, sono arricchite dai  miniati, che danno al manufatto un valore aggiunto di rappresentanzaLe murature che identificano la proprietà acquisiscono le tipiche rotondità negli angoli esterni per ricordare e confermare dell’antica pertinenza territoriale. E’ in questo intervallo storico che l’elemento caratterizzante di ogni abitazione, escluse quelle meno abbienti relegate nei Katoi, diviene il profferlo; una gradinata che conduce sul ballatoio, dove è posto l’ingresso dell’abitazione, che ora è al primo livello mentre a piano terra sono allocate la cantina e la stalla, collegati con la residenza dalla vecchia scala a pioli dall’interno attraverso Gadaràtin. Il profferlo diviene l’elemento caratterizzante nelle Rùhat, e gli Sheshi, i materiali con cui sono realizzati divengono l’espressione economica di ogni famiglia, pietre calcaree per la messa in opera dei gradini e la pavimentazione del passetto, a servizio dell’ingresso, sono quanto di meglio si possa predisporre per confermare la solidità economica. A fine secolo la rivoluzione del ‘99 ferma la crescita e per vedere nuove espressioni edilizie bisogna attendere gli effetti delle leggi emanate dal governo napoleonico  il 18**, che giunsero in maniera diffusa sul territorio solo dopo il 18**, e consentirono la messa in atto delle grandi fabbriche nobiliari; ma questa è un altro capitolo.

P.S.

Si Vieta L’Uso di quanto riportato per qualsiasi fine editoriale, in quanto esclusiva  dello scrivente,  per questo non viene allegata alcuna Bibliografia, che in caso di giudizio sarà fornita agli organi competenti.

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Protetto: GLI ARBËRESHË E I MODELLI DI RICERCA

Posted on 19 giugno 2014 by admin

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ANALISI DEI SISTEMI URBANI ARBËRESHË

Posted on 24 maggio 2014 by admin

Analisi dei sistemi urbaniNAPOLI (di Atanasio Pizzi) – Gli agglomerati urbani diffusi dei paesi albanofoni nascono secondo le disposizioni regie di Filippo II, amalgamate alle regole consuetudinarie nel modello sociale di famiglia allargato riportata nei dodici capitoli del Kanun.

Città policentriche, nate secondo le esigenze secolari della famiglia albanese, ognuna delle quali diversamente da quelle che oggi conosciamo, era composta di due o più famiglie, mutuamente coese, in genere due fratelli con mogli, le relative proli e i genitori; un numero di elementi che non superava la quindicina, infatti, oltre questa soglia si dipartiva e davano origine a un nuovo insediamento.

Tutte insieme, avendo la stessa origine, un medesimo sangue, lo stesso idioma, simili usi, costumi e per questo formavano quella grande famiglia che rimane tutt’oggi identificabile nella regione storica d’arberia.

Quando gli arbëreshë, così organizzati, giunsero nelle colline della sibaritide, si disposero nei pressi di chiese pievi o icone, perché legati da tre elementi caratterizzanti: la lingua, la consuetudine e la religione di rito greco bizantino.

Questi aspetti generali della vita degli albanofoni li ritroviamo in tutti i centri, nati, sopra i resti di antichi borghi, tra la fine del XV e la metà del XVI secolo.

Un esempio di quanto affermato sono i quartieri, identificati con toponomi, tramandati oralmente, che racchiudono quanto esposto e sono in  grado di fornire traccia evolutiva di tutti i centri nati nello stesso intervallo temporale.

Va in oltre affermato che una caratteristica che accomuna tutti i paesi albanofoni sono le feste di primavera che rappresenta il fulcro di coesione con le genti indigene; giornata della promessa (Besa), per ricordare i propri cari e quelli altrui, tumulati negli ambiti ora abitati dagli arbëreshë. Il processo di trasformazione dell’ambiente naturale in costruito per opera albanofona è avvenuto in funzione di elementi oggettivi e ambientali, quali: la morfologia, la flora, l’orografia e il clima; aspetti fondamentali per gli esuli, perché simili a quelli della terra d’origine, per questo capaci di mettere in atto le proprie attività di sussistenza con i pochi mezzi senza accusare dissintonie ambientali.

Le costanti che hanno dato avvio ai sistemi urbani arbëreshë sono: il recinto, la casa e il giardino, caratteristica urbanistica ed architettonica di tutti gli ambiti d’etnia; il recinto segna il territorio, in cui la famiglia ha controllo assoluto, limite invalicabile per gli estranei, difeso e onorato anche a costo della propria vita; la casa, in origine un unico  ambiente realizzata  a  ridosso  di  anfratti  e  completata con  tronchi,  rami intrecciati, foglie e argilla, il rifugio dove conservare e proteggere se stessi e le cose più indispensabili; il giardino è utilizzato come luogo della spogliatura, dimora di alberi da frutta e del gelso oltre che dell’orto stagionale.

L’arbëreshë si muove nel territorio in mutua convivenza e rispettoso dell’ambiente, si coordina secondo le locali norme naturali per la valorizzazione del territorio.

Nel periodo che va dal XV al XX secolo, l’affinamento socio culturale degli esuli si adegua al modello urbano, abbandonando quello della famiglia allargata per affinarsi in seguito verosimilmente quello metropolitano.

Gli antichi legami parentali, disgregati in cinque secoli di convivenza, hanno continuato a essere vivi nella mutua collaborazione della produzione, raccolta, spogliatura dei prodotti che il territorio forniva, e oggi nel ricordo parentale di chi vive ancora gli ambiti o attraverso i multimedia per chi si è recato in altre regioni o continenti.

In età moderna, la famiglia arbëreshë che ha assunto le sembianze tipiche metropolitane sente ancora il bisogno di ricercare l’antico legame di sangue.

La gjitonia, “dove vedo e dove sento”, sin dal XVI secolo diviene il luogo della ricerca dell’antico legame familiare smarrito per colpa delle nuove dinamiche sociali, si evolve in  uno  spazio  ideale  di sensi  e  sentimenti,  luogo  non toponomato, giacché rappresenta l’ambito in cui si accomunano indissolubilmente i sensi.

La gjitonia non è riconducibile ad ambiti materici, ma esclusivamente a  rapporti personali e interpersonali di leale e solida convivenza non asogettabili ad uno spazio fisico.

La gjitonia ha origine dal tepore del focolare e si amplifica con cerchi concentrici, come una goccia nell’acqua, sino al lembo estremo dell’ambito urbano; entità effimera che pulsa si avverte si respira si assapora si vede si tocca, senza mai essere tracciata con limiti fisici.

Studiare i borghi albanofoni è utile per comprendere quali siano state le dinamiche che hanno consentito all’idioma e alla tradizione consuetudinaria più enigmatica della storia del mediterraneo, di proporsi incontaminata senza soluzione di continuità sino a oggi.

I piccoli agglomerati urbani sono la traccia indelebile del percorso che ha unito popoli diversi, che pur avendo lingua, religione e storie dissimili, sono state  capaci  di  trovare  le  convergenze ideale per  attuare,  uno  dei  primi  modelli  d’integrazione, rimanendo tutti solidamente legato ai propri valori.

Le disposizioni regie impartite da Filippo II, le dinamiche consuetudinarie del concetto di famiglia allargata, la conformazione orografica e l’economia produssero i primi isolati (manxane), o gruppi di case, secondo schemi che sono riconducibili di tipo articolato o lineare. Il piccolo abituro, shpia (casa), in origine realizzato con rami intrecciati paglia e fango, o blocchi di terra mista a fango e paglia (kalivja), dopo la sottoscrizione delle capitolazioni, fu realizzato in pietra e arena negli elevati, mentre le coperte furono sostituite da una lamia di coppi a falda unica sostenuta da un doppio ordine di elementi lignei, la di cui pendenza riversava il displuvio innanzi all’ingresso dell’abituro.

La disposizione di tali moduli elementari, è fondamentale per la ricerca evolutiva degli agglomerati diffusi arbëreshë, in quanto, il modo in cui furono aggregati forniscono la regola secondo la quale nascono gli isolati urbani, (manxane) che rimarranno identici per oltre due secoli. In seguito al modulo abitativo elementare che misura circa 20 mq., fu associato un altro di uguale dimensione, non a diretto contatto con il fronte strada, usufruendo della porzione di territorio ancora non edificata.

I confini particellari identificabili con le tipiche rotondità, che sino ad oggi erano lette come espedienti logistici o statici per gli edifici, sono il modo indelebile per segnare un antico confine territoriale.

Da ciò si deduce che l’isolato, occupata tutta la porzione di terreno disponibile per cui ai piccoli agglomerati non rimane che svilupparsi in verticale, collocando al piano terra i depositi e al primo livello, di nuova costruzione la residenza, i due livelli sovrapposti rimasero ancora collegati da una scala interna a pioli, mentre la copertura del modulo a due livelli continua ad avere la stessa forma, salvo realizzare uno spazio tecnico e termico, sottotetto (kanicàri).

I frazionamenti successivi, di questi nuovi volumi edilizi,  richiesero  l’utilizzo  dei  profferli, caratteristica adottata, a partire dal XVIII secolo, questi ultimi modificarono sostanzialmente  la prospettiva delle strette strade (ruhat) che non sempre consentivano, in maniera uniforme, l’aggiunta del nuovo manufatto esterno, per questo motivo l’alternarsi dei nuovi accessi ci fornisce un tessuto urbano oltremodo articolato.

Il ciclo dei manufatti abitativi delle comunità albanofone si arricchisce ulteriormente dopo il decennio francese con la costruzione diffusa dei palazzotti nobiliari, un disegno che si ripete sia nei centri abitati sia nelle pertinenze rurali, assumendo connotazioni formali ben definite, rappresentativi di una classe sociale emergente, balconi, aggetti, portali e finestre sono coronate da materiali lapidee che danno ai prospetti, delle nuove fabbriche, una regola metrica definita.

È chiaro che questo avviene solo per le classi sociali più elevate mentre quelle più abbienti continuano a occupare i vecchi katoi e nella migliore delle ipotesi, inglobare i profferli con nuovi e modesti volumi, che cercano di imitare almeno nel prospetto principale e l’ambito interno dell’ingresso dei palazzi post napoleonici.

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UN MANUALE PER COMPRENDERE I PAESI ARBËRESHË

Posted on 22 aprile 2014 by admin

L'albaneseNAPOLI (di Atanasio Pizzi) – Qualora vi dovesse capitare di operare in ambiti minoritari di etnia albanofona la ricerca cui vi dovete affidare per giungere a certezze storicamente comprovate, non va eseguita attraverso le figure mitiche quali, ad esempio: lo scriba, il medico condotto e il traduttore, perché la comunità albanese d’Italia (arbëreshë) fonda la propria cultura nella consuetudine e nella sola forma orale, che può essere compresa e tradotta adeguatamente, dai natii d’ambito.

Non fate mai uso improprio di sostantivi, quali: Arbëreshë, Gjitonja, Katundi, Sheshi, Ruha, Uhda, Shpia perché altrimenti sarete sottoposti alla luce dei riflettori di coloro che in questi ambiti hanno fatto studi appropriati, mentre sicuramente non avrete alcun problema dagli stati generali, che preferiscono cullarsi negli allori; sappiate, essere formiche e non cicale.

Trattate con equilibrio e rispetto quando dovete inquadrare all’interno degli ambiti urbani, senza travalicare nel seminato dell’avena fatua e scambiarla per grano, la Gjitonia; che non è!!!: un quartiere composto da tre quattro case, abitate da famiglie, che affacciano in una piazzetta.

L’enunciato sociale tradotto in lingua italiana,  darebbe altrimenti un’interpretazione distorta e inesatta; una tesi secondo la quale all’interno dei sistemi urbani essa si materializzi in uno o più manufatti, ma purtroppo, così non è in quanto, il suo enunciato fonda le radici in principi immateriali e neanche di esclusiva arbëreshë.

Certo è, che, la gjitonia non deve essere identificata in un quartiere o in qualsiasi elemento materico; giacché, in essa gli arbëreshë, diversamente dagli altri popoli mediterranei, hanno depositato i valori della BESA (promessa) e della famiglia allargata , come depositato nel Kanun.

A quanto sopra enunciato va aggiunto che: la Gjitonia non è associabile a un toponimo, in quanto, entità immateriale.

Appare evidente che avviare l’analisi, utilizzando l’enunciato con le considerazioni improprie largamente utilizzate per la  conoscenza della comunità Arbëreshë non è un di buon auspicio per un corretto inquadramento della storia urbanistica dei minori; non oso immaginare a quali conclusioni si possa giungere quando si dovranno valutare e interpretare aspetti più intimi, come quelli architettonici, di cui voglio trattare, qui di seguito e per grandi linee  i  processi.

Evitate di trasformare sistemi urbani complessi, in modelli lineari, cercando di rendere carrabili i percorsi o trasformare i moduli abitativi, sviluppandoli in direzione verticale perché così facendo si modifica in maniera radicale il senso sociale dell’abitare.

Improprio diviene l’utilizzo del profferlo, quando esso è disseminato irrispettosamente lungo le quinte edilizie, perché esso rappresenta una caratteristica tipica di tutto il bacino del mediterraneo, adottato per frazionare le abitazioni a due livelli e utilizzato dalla metà del 1700, e per oltre un secolo, delle comunità albanofone, prima di essere inglobato nelle tipologie nate dopo il decennio francese.

I sheshi (piccole piazze), così anche le tipiche cortine edilizie delle shpìt (case) interrotte dalle rughè (i vicoli), sono gli ingredienti fondamentali che generano gli isolati, fruibili ed abitabili, per la loro tipica conformazione articolata, sia in inverno che in estate.

Le lavine, (lavinai) unico elemento viario in andamento pressoché rettilineo, si può cogliere negli impianti urbani minoritari in quanto fungeva come naturale sistema differenziato dei riciclo dei rifiuti urbani nei periodi piovosi,   affidti alla vorticosità dell’acqua, mentre erano utilizzate come strade per collegare i quartieri alle vie principali di costa, una volta in secca.

Le insule storiche del paese minoritario, preso in esame, sono Quattro, rispettivamente denominate: (in arbëreshë) Katundi, Sheshi, Moticèlleth, Brègù; contraddistinte da segni distintivi negli elevati murari, che non devono essere considerati come apparati strutturali o logistici.

I moduli abitativi, espressione evolutiva dai Catoj, le Kalive e Moticelle, (tipici abituri di architettura minore), sono il modello di studio, in quanto, espressione tipica delle abitazioni dei paesi arbëreshë; cosi vale anche per la loro aggregazione modulare, che diviene funzione complessa delle dinamiche storiche, sociali ed economiche non riconducibili a mere riproduzioni digitalmente estruse, in quanto la quarta dimensione del principio di A. Einstein, non può essere riprodotta.

I toponimi dei quartieri vanno trascritti in arbëreshë e non in Italiano, perché altrimenti si diventa irrispettosi verso gli sforzi, che i dipartimenti di Albanologia delle Università di Cosenza, Napoli, Roma, Palermo e Bari compiono per dare certezze, alla affannata  forma scritta arbëreshë.

Contravvenendo a queste disposizioni innalzerete, un prodotto indelebile per gli annali dell’architettura, in cui l’agglomerato urbano, potrebbe diventare un esempio per, come non fare un paese, in  ambito minoritari solidamente coeso con le caratteristiche sociali, linguistiche e religiose  consolidate dalla  consuetudine.

È chiaro che a quel punto l’antico centro continuerà a conservare ancora intatte le radicate nozioni, mentre dall’alto del solido promontorio (Breggù), il vecchio borgo, osserva con tenerezza il nuovo già sofferente, inadatto e inabile, perché contenitore d’inesattezze e contraddizioni storiche.

Personalmente mi auguro, che eventi di questo genere non abbiano più luogo, ma la natura dell’uomo è abituata a distrarsi e quanto detto, dovesse presentarsi tra le attività future della Protezione Civile, vorrei suggerire che nel glorioso disciplinare di soccorso, che la fa distinguere in tutto il mondo, sia inserita a pieno titolo, anche la figura dello Storico Esperto D’ambito, che dovrebbe operare in sintonia con i tecnici, al fine di interpretare e portare in auge integralmente, anche il patrimonio immateriale, di coloro che spogliati, delle ricchezze materiali, possano almeno ritrovare i propri ideali in cui identificarsi per mutuamente vivere  quei territori.

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UN MILIONE DI EURO A SAN DEMETRIO CORONE

Posted on 17 aprile 2014 by admin

San Demetrio notizieSAN DEMETRIO CORONE (di Adriano Mazziotti) – Poco meno di un milione di euro  per  portare a compimento un megaprogetto:  tre opere destinate  alla  riqualificazione dell’ambiente urbano. A erogarlo, lo scorso anno,  è stata la Giunta regionale,  che ha approvato la  graduatoria definitiva e la concessione del finanziamento per tre progetti presentati   dall’Amministrazione comunale: Parco urbano, Centro commerciale naturale  e il Museo di arte contemporanea. Si tratta dei Pisl (Progetti integrati di sviluppo locale) del Por Calabria,  Fers  2007-201 , Burc del 12.08.2011. La giunta Marini, in questi giorni, ha espletato le procedure di aggiudicazione degli appalti per il Parco urbano, mentre  l’iter per gli altri due progetti è in corso di definizione.Il progetto Parco urbano (240.000 gli euro stanziati) prevede la sistemazione a verde attrezzato dell’area, estesa circa 6000 mq, adiacente il complesso monumentale del collegio Italo-Albanese e della Chiesa di Sant’Adriano; quello del Centro commerciale naturale (367.181 gli euro finanziati) riguarda la riqualificazione urbana dell’area denominata “ Fosso Caterina “ e  la realizzazione di un’area attrezzata fruibile come centro commerciale all’aperto, collegata sia  alla viabilità interna, partendo da piazza Monumento,  sia con via Caminona, previa le opere di canalizzazione delle acque. Il terzo progetto, il Museo di arte contemporanea, attiene al  recupero-restauro dell’ex casa del rettore del Collegio (primi anni del ‘900), e alla ricostruzione dei locali  un tempo adibiti alla abitazione  del custode del Collegio Italo-Albanese, da destinare a sede permanente del Museo di arte contemporanea. La struttura, una volta recuperata (360.000 gli euro erogati) ospiterà le manifestazioni culturali di rilievo, come la Biennale d’Arte contemporanea, la kermesse artistica organizzata dall’Amministrazione Comunale che di anno in anno ha raggiunto una rilevanza e un interesse nazionali.

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