NAPOLI (di Atanasio Pizzi) – L’indole dei popoli balcanici che preferirono abbandonare le terre di origine per stabilirsi in altri sistemi orografici paralleli, sicuramente conteneva il principio di non voler mettere in dubbio la propria identità.
Anche dopo circa quattro secoli, quando ormai i nuovi equilibri erano stati ottimizzati, non ritrovando l’adeguata dimensione economica che la politica unitaria offriva al nuovo meridione d’Italia, si videro costretti a emigrare verso le città dell’Italia settentrionale e d’Europa.
Qui l’economia basata sui modelli industriali accoglieva tutti coloro che avevano grande lena nel lavoro e come tornaconto gli assicurava una buona retribuzione.
In questo caso, la migrazione assunse un aspetto diverso rispetto a quelli che erano stati i travagli del 1470 basati sui valori religiosi, le cronache di allora raccontano dei ricchi bauli trasportati dai Balcani e contenenti i preziosissimi costumi (?).
Come allora, quattro secoli dopo ma per necessità, i lavoratori minoritari raggiunsero le nuove sedi dove svolgere le loto attività, il segno rappresentativo di questa migrazione divenne la valigia di cartone stretta con lacci di canapa e contenente pochi e umili capi di abbigliamento.
Mentre, le donne, gli adolescenti e gli anziani, rimasero a far guardia dei valori morali e materiali, l’antico focolare della famiglia allargata veniva ancora una volta acceso.
Gli uomini in età lavorativa partono, ma ad attenderli non sono le terre della valle del Crati, nè quelle della Mula, nè del Pollino o della rigogliosa terra presilana, ma presidi industriali e pastorali ben più distanti.
Il rapporto tra la casa natia e il posto di lavoro, non è più cadenzato dal tramonto e dal sorgere del sole a dorso di molo, ma seduti su moderni treni a vapore e solamente per tre volte l’anno.
Le nuove e sicure retribuzioni economiche, consentono alle famiglie dei migranti, di riattare le vecchie dimore, offrendo l’opportunità alle generazioni nate in questo nuovo modello, di frequentare le Università del centro e del nord dell’Italia.
Due nuovi processi caratterizzano anche i centri storici minori del meridione, manomissioni diffuse e incontrollate del patrimonio e nello stesso momento avviene lo svuotamento endemico dei piccoli centri, che di anno in anno alzano l’età media della popolazione.
Il processo di urbanizzazione che ha inizio negli anni sessanta, coinvolge anche i minoritari che all’isolamento dei centri collinari meridionali preferiscono il fragore e le luminarie delle metropoli.
Dopo tre decenni però il processo si inverte e nuovi presupposti del vivere in una dimensione più a misura d’uomo interessano prima i centri prossimi alle metropoli e da qualche decennio anche quelli minori.
La voglia di fare presto e seguire la moda del momento, induce molti amministratori locali a non munirsi di linea guida o progetti mirati indispensabili alla valorizzazione e la difesa dei centri storici ancora intatti.
Idee di rilancio, che non mettano in discussione i modelli, con i quali dopo ancora quasi sei secoli, le genti autoctone del meridione s’identificano e si riconoscono.
Negli agglomerati delle colline del sud Italia vivono nicchie architettoniche perfettamente conservate, basta insinuarsi attraverso gli stretti vicoli e affacciandosi oltre le piccole finestre caratteristica dei Catoj, e ritrovarsi di fronte a intervalli dell’antica vita quotidiana: dimore arredate con tutte le suppellettili di un tempo, depositate ancora in quel modo, avvolte dalla polvere come a proteggere un fotogramma che attende il naturale proseguo.
È giusto auspicare che il fotogramma successivo sia più prossimo a quello appena fissato, poiché una sequenza moderna troppo dissimile potrebbe rendere tutti i minoritari, più orfani di quei valori in cui s’identificano.
La pagina di vita quotidiana fissata dalla polvere è in uno stato, di stallo, pronto per essere ripresentato o spazzato via dal vento e scomparire per sempre.
È indispensabile a questo punto attraverso la storia, il rilievo strutturale, architettonico e materico, dare continuità a quella traccia o sequenza che da troppo tempo attende di essere recuperata.
L’opportunità però non va ricercata attraverso il sinonimo del fallimento o importando modelli diversi, questi ultimi, teoremi da non perseguire assolutamente, perché darebbero avvio a incontrollate manomissioni, utili solamente a cancellare gli antichi e preziosi frammenti.
La necessità di mediare in modo incontrollato o passivo l’affidamento di manufatti edilizi dismessi, innesca i parametri tipici della globalizzazione, che se da un lato garantisce la crescita e il rilancio del sito ad ogni costo, poi la realtà disegna skyline in cui nessuno riesce più a identificarsi.
Diversamente, esistono percorsi capaci di rigenerare vecchi agglomerati disabitati, o gradevoli poggi, senza stravolgerli o penalizzarli nella loro valenza architettonica o urbana.
La pianificazione e la realizzazione dell’albergo diffuso o della vacanza all’interno dei nuclei familiari, è l’alternativa da adottare, anche perché, i valori dell’accoglienza che gli albanofoni tengono depositato sia nei centri storici che nel DNA è una eccellenza innata che tutti gli riconoscono.
Bisogna stare vigili anche perché la necessità economica, innesca processi che un giorno si potrebbero pagare a caro prezzo, un’etnia che nella propria identità deposita la propria forza, non mi sembra plausibile che per ridare vitalità ai centri storici, sia disposta a metterli nelle mani di figure estranee, innescando il processo simile ai centri commerciale a tema o quelli ancora più degradanti delle residenze dormitorio.
Affidando l’etnia minore a coloro che non la conoscono, non gli aggrada e non sanno neanche cosa rappresenta, perché non la comprendono, è ipotizzabile che stiamo scrivendo la parola “fine”.
Se poi proprio affare deve essere, sarebbe più giusto invogliare investitori che credono in progetti alla cui guida, vi siano, lucide e dinamiche figure autoctone, molto motivate e storicamente preparate; il cui fine sia quello di tenere alti i principi, i valori, la cultura e la diversità etnica, che oltre ad avere una crescita del capitale sociale, promuova a pieno titolo le eccellenze arbëreshë.
Ad oggi si fa riferimento a tante episodi isolati ma in nessun caso è messo in risalto l’utilizzo delle antiche dimore minori o la concertazione di percorsi che mettano in evidenza aree predefinite, i centri abitati spesso nel loro interno racchiudono frammenti di storia difficilmente leggibile, ma unificando in progetti diffusi extra Comunali, potrebbero tracciare vicende suggestive della storia arbëreshë.