NAPOLI (di Atanasio Pizzi) – Gli ambiti naturali paralleli e i sistemi urbani diffusi, ricercati prima per essere poi edificati dagli esuli albanesi nelle colline dell’Italia meridionale, sono espressione del Genius Loci Arbëreshë.
La disamina degli ambiti attraversati segnati e vissuti dagli arbëreshë, non deve prescindere da aspetti fondamentali, senza i quali non è possibile fornire alcun tipo di certezza .
Per questo è bene ribadire che, oltre ad avere titoli ed esperienza adeguata ventennale, bisogna essere nati all’interno dei paesi albanofoni, cresciuti avendo come idioma primario l’arbëreshë e conoscere il consuetudinario ad esso riferibile negli aspetti più intimi e radicali.
Altrimenti, il ruolo cui si può ambire diventa marginale o complementare, inteso come contributo di mera segreteria, atta a recuperare materiale di archivi o bibliografico, senza avere consapevolezza del ruolo o la collocazione dell’essenza fornita.
Un altro aspetto fondamentale è conoscere il concetto di agglomerati diffuso o policentrico e i due termini, che con molta facilità sono usati in maniera inappropriata: il significato di“rione” e di “quartiere”; essi appartengono a scenari distinti che identificano rispettivamente: ambiti urbani, quindi aree che assumono configurazione diversa nel corso del tempo, mentre il secondo indica generalmente presidi militari rigidi, con i confini ermeticamente definiti.
In funzione di ciò il “rione” rientra negli assetti urbanistici dei modelli urbani diffusi, mentre il “quartiere” è da ritenere estraneo ai sistemi storici del costruito arbëreshë.
Gli aspetti tecnici sono un elemento imprescindibile nell’analisi urbana dei componimenti nati a seguito delle migrazioni del XV secolo, allo scopo, occorre avere ben chiaro ogni piccolo aspetto che si va ad analizzare, evitando di associarli o ritenerli simili a quelli nati durante il medio evo o di altre epoche più remote.
Gli agglomerati urbani espressione del consuetudinario arbëreshë, realizzati sul territorio della provincia citeriore calabrese, sono depositati lungo una fascia, identificata come: “Isoglossa Sanseverinense”.
Essa è il risultato cui si è giunto sovrapponendo un insieme di layer cartografici, con l’ausilio di planimetrie storiche, uso del suolo, individuazione degli agglomerati urbani, percorsi viari, percorsi fluviali, traccia delle aree di salubrità ambientale.
Gli elementi opportunamente messi a confronto, consentono di ottenere certezze per le quali i siti d’insediamento furono individuati seguendo un rigido disciplinare, il cui risultato garantiva parametri abitativi e strategici; connubio ideale tra uomo, ambiti naturali e clima.
Caratteristiche che si ritrovano anche nelle note storiche delle cartografie Aragonesi, risalenti al VX secolo, nelle quali esiste un’approfondita descrizione per la definizione degli ambiti costruiti e non costruiti.
Il tracciato ideale trova conferma nelle abitudini storiche delle genti che vissero le terre bagnate dall’Adriatico, identificate come preferite anche nel libro settimo di Aristotele.
Queste notizie sono molto utili per comprendere quali siano state le scelte per le quali i paesi di origine albanofona, hanno avuto modo per svilupparsi senza nulla rilevare dagli elevati contigui più antichi e abitati dagli indigeni.
Dopo un periodo di nomadismo protrattosi oltre mezzo secolo, (1470-1535) i miseri esuli, non avevano riconosciuto alcun privilegio, ma a seguito della stipula di regolari atti di sottomissione, s’impegnarono a ripopolare casali disabitati e rassodare i territori di pertinenza.
Gli atti sottoscritti erano fondamentali per i casati calabresi, i quali nelle vendite dei possedimenti per il valore aggiunto, garantito con la presenza degli esuli, faceva lievitare il costo, questo creò una grande speculazione, che i principi di Bisignano misero in atto visto l’indebitamento nei confronti di finanziatori ispanici, offrendo assieme al possedimento anche l’acquisizione de l titolo nobiliare riferibile a quel territorio, il che rappresentava anche un lasciapassare per accedere a pieno titolo agli appuntamenti della corte Napoletana.
Tutto quanto anzidetto per i poveri esuli si traduceva nel essere sottoposti a insostenibili gabelle che dovevano sostenere la filiera burocratica dell’epoca rinunciando così a ogni benessere, pur se era riconosciuta la possibilità di edificare manufatti in muratura oltre ad avere i privilegi di trasferire alle discendenze quanto di materiale nella loro disposizione.
Il dato produce un duplice effetto all’interno degli ambiti urbani costituiti da albanofoni; da una parte una ribellione diffusa che porta alle regie diffide del 1562 e dall’altra la scissione dei gruppi familiari allargati i quali sono costretti a lavorare presso gli assegnatari di grossi possedimenti.
È così che si crea un nuovo modello sociale che segue due binari paralleli; uno che ricalca gli aspetti economici delle genti autoctone, e l’altro sociale che rimanere abbarbicato alle consuetudini, barricato e difeso dal modello linguistico, consuetudinario e religioso.
È in questo periodo che il modello sociale, importato dalla terra di origine, denominato, Ligjia assume una nuova connotazione, che impropriamente tradotto da esperimenti a dir poco approssimati, frettolosi, acerbi e discutibili, riassunsero nel Vicinato.
Esso impropriamente tradotto in Gjitonia, “dove vedo e dove sento”, assume un significato molto più ampio rispetto al semplice modello materico e di scambio, assegnatogli, in fatti (ku shohg e ku ndienj) se compreso in arbëreshë assume un significato a largo spettro, molto più intimo, perché avvolge dentro di se la magica espansione dei cinque sensi.
Non focalizzata la fondamentale definizione, si è giunto a una rappresentazione impropria del modello social/consuetudinario, legando la gjitonia a una strada o a una piazza, al pari del “vicinato” dei centri abitati indigeni, che in Calabria come in tutto il bacino del mediterraneo è largamente attuato, dalle classi meno abbienti.
La gjitonia assume una valenza sociale che se analizzata con le dovute conoscenze percorrendo un itinerario dissimile dal concetto di vicinato dei paesi indigeni, questi ultimi nascono come punti di unione eterogenea del territorio regionale, attraverso il quale, attivava protocolli di mutua convivenza e soccorso, uno stato di fatto, riconducibile a tutto il bacino del mediterraneo.
Per i profughi albanesi giunti nel meridione italiano dal 1471 al 1534, il processo segue un percorso molto diverso in quanto gli agglomerati urbani diffusi si attuano con l’insediamento di gruppo familiari allargati, fortemente coesi, quindi il processo attua secondo una percorso trasversale o addirittura contrario.
Per circa un secolo, gli albanofoni vivono e si confrontano con le realtà contigue sviluppando i loro centri secondo le città policentriche, avendo come unità abitativa le Kalive, a esclusione di una ristretta cerchia di addetti, perché proprietari di mulini e trappeti che vivevano un modello abitativo più evoluto e a due livelli, ma che avevano già perso il riferimento familiare allargato.
La caratteristica fondamentale degli agglomerati Albanofoni, diversamente da quelli indigeni mediterranei, si distingue proprio per la caratteristica ricerca parentale dall’antico nucleo della famiglia allargata, tendenzialmente accolgono le direttive dell’urbanistica grecanica, identificabile nell’allocare gli accessi delle abitazioni sulle strette vie secondarie, Ruhat e con molta diffidenza nel tardo periodo in quelle principali Uhdat.
Per quanto riferibile al concetto di famiglia, nel periodo che va dal XVII sino al XXI secolo, gli esuli lentamente si dissociano dal modello allargato, per quello urbano e in seguito, in tempi più recenti, vive il modello della multimedialità.