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GHË KATUND ARBËRESHË (e para pies e ghë çìk)

Posted on 04 luglio 2015 by admin

SAMSUNG CAMERA PICTURESNAPOLI (di eledA elisaB) – Il paese arbëreshë di cui voglio parlare in questo breve trattato, nasce alla fine del IX secolo nelle colline della Sila Greca, a cavallo del promontorio scavato, tra le isoipse 620 e 520 s.l.m., dai torrenti del Duca e del Galatrella; il sito, insieme ai casali di Acci, Alimusti e San Benedetto è stato da sempre considerato uno solido riferimento del confine tra le diocesi di Bisignano e quella di Rossano, per questo i suoi abituri ha avuto attenzioni dalle autorità religiose e laiche bisignanese.

Il nucleo abitato rientrava tra quelli inclusi nella vendita del 26 marzo del 1462 quando Luca Sanseverino primo Principe di Bisignano acquistò il feudo dal Re di Napoli per la somma di 20.000 ducati,.

Con l’acquisizione del feudo il principe Sanseverino mirava a ottenere grandi profitti, ma l’indotto produttivo e le attività  realizzate dal principe dopo un brillante avvio ben presto dovettero misurarsi con gli effetti della carestia, della peste e dei terremoti che videro come scenario la Calabria citeriore.

I successori di Luca rispettivamente; Girolamo, Bernardino e Pietro Antonio per cercare di rinvigorire le sorti dei loro possedimenti, si adoperarono per accogliere nuove e operose genti di origine albanese.

Gli arbëreshë dopo un iniziale ”nomadismo”che si dilungò sino agli inizi del XVI secolo s’insediarono definitivamente in casali disabitati e nei luoghi di confine delle diocesi.

Con la caduta di Corone, dalla Morea giunsero altri gruppi albanofoni; lo stesso periodo in oltre segna un’altra tappa importante riguardo l’economia del sud, infatti le terre non erano più assegnae in maniera frammentate, ma date in concessione grossi appezzamenti a referenziati, che non potevano più sfuggire agli esattori delle gabelle.

A seguito di ciò trascritti gli atti di sottomissione tra le autorità locali e agli esuli, venne concesso agli arbëreshë il diritto di edificare manufatti in muratura oltre ad avere i privilegi di trasferire alle discendenze quanto a loro disposizione, le nuove disposizioni chiaramente miravano ad aggiungere valore ai possedimenti del principato.

Ebbero così inizio quelli che oggi si riconoscono come agglomerati urbani diffusi arbëreshë, le cui direttive affonda nelle disposizioni regie del governo centrale spagnolo affinate dagli esuli con il modello di famiglia allargata, secondo quanto disposto nel Kanun.

Gli albanesi giunti nel casale denominato Terra, presumibilmente il sette di settembre del 1471, inviarono messaggi della loro presenza realizzando fuochi per ribadire che quei territori da allora in avanti non sarebbero stati più disadorni e incolti, disponendosi per fare ciò in maniera strategica tra l’antico rione Terra ove sorgeva l’antica chiesa ad impronta greca e Pedalati.

Superata la fase di nomadismo,  innescata dai principi di Bisignano, gli esuli dei due agglomerati, si unirono dopo le sottoscrizione dei capitoli del 1535 nell’area circoscritta dai rioni denominati: Kisha vieter (L’area adiacente alla chiesa costruita alla fine del IX secolo), Huda Made ( la strada di costa che collegava le diocesi di Bisignano e Rossano), Karkareleth (Il luogo dove erano allocate le vasche per lo spegnimento della calce), Sheshi kuarvonit ( Il loogo dove si fermaroni gli esuli quando giunsero nel casale Terra), Lemi litirith (l’aia che apparteneva agli aggregati del 1535), Huda kasanes ( Rappresenta il luogo delle correnti ascensionali e utilizzato come discarica), Stangoi( era la fontana che segnava la congiunzione con la strada grande della bretella dei periodi di secca), Shigata ( parete piana a vista da cui il toponimo Terra che caratterizza il borgo), tutti gravitanti attorno alla Trapëza ( luogo paludoso e instabile geologicamente; unità di misura per la pesa dell’oro, per cui il luogo dove reperire frammenti di cibo dalla mensa arcivescovile); Essi rappresentano i rioni storici distintivi di ogni famiglia allargata, rispettivamente identificate nei: Marchiano, Baffa, Becci, Elmo, Masci, Miracco, Bugliari e ancora Baffa.

Le vicende che accompagnarono lo sviluppo dell’insediamento cosi circoscritto sono tipiche di tutti i paesi albanofoni, anche se in questo caso appaiono molto più evidenti che in altri ambiti.

Come accennato prima una volta sottoscritte le capitolazioni, gli albanofoni, che da ora chiameremo “arbëreshë”, iniziarono a patire e subire gli eventi storici che caratterizzarono le province di tutto il Regno Napoli nel seicento, mi riferisco alla ricerca di un equilibrio economico che alla fine divenne un miraggio, viste anche le difficoltà che scaturivano non solo dal sistema feudale, mai rimosso, ma anche da eventi tellurici, igienici e meteorologici che non favoriscono la risalita economica.

Tutto il milleseicento fu un susseguirsi di difficoltà che imbruttirono le popolazioni albanofone,  oltretutto, essendo fortemente radicate a una ritualità sociale e religiosa propria, se aggiunto il dato  che non vi fossero nuove generazioni di Clerici preparati a impartire un solido credo religioso, diventava sempre più arduo trovare punti di coesione con le genti autoctone.

Bisogna attendere l’istituzione del Collegio Corsini, voluto dal papa Clemente XII, per intercessione dei Rodotà, i quali avendo ben chiaro il quadro si adoperarono affinché si formassero nuovi Clerici che potessero impartire la parola di Dio a una minoranza che rimanevano fortemente legate al rito bizantino, alla consuetudine e all’idioma della terra d’origine.

L’istituto ha rappresentato la piattaforma ideale per ricostruire la propria identità arbëreshë, una finestra aperta in occidente ma che guarda verso le radici nell’oriente abbandonato nel 1470, grazie agli antichi insegnamenti che gli albanofoni riacquisirono ebbero l’occasione di poter frequentare gli ambienti universitari nella capitale partenopea e inserirsi all’interno della vita sociale, politica, scientifica e religiosa del Regno, divenendo esempio di integrazione e fratellanza tra popoli con principi e caratteristiche sociali dissimili.

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All’interno del perimetro denominato Terra dal 1535 venne adottata una nuova metodica di edificazione, utilizzando calce e arena, con questi materiali sostituirono rami e fango con cui venivano edificate le antiche abitazioni elementari denominate Kalive, parola greca, che ha il significato di copricapo, cappello, ombrello.

La disposizione e l’aggregazione dei moduli abitativi elementari avveniva secondo regole radicate nella consuetudine albanofona, secondo quando disposto dal Kanun.

In oltre l’orografia del terreno e l’orientamento consentivano di posizionare al meglio il rituale modulo da edificazione.

Rioni ben delineati e distanti dall’asse viario principale, da cui si dipartivano le strade secondarie su cui affacciavano gli ingressi delle abitazioni.

La porta, la finestrella e il seggio oltre la copertura a falda unica, che riversava le indispensabili piogge meteoriche sul vico, caratterizzava i moduli abitativi.

La kaliva per gli esuli albanofoni diventa un elemento fondamentale, non solo come luogo di ricovero fisico, ma anche il contenitore dei beni intangibili, entro cui riversare le attività che hanno consentito il riverbero degli elementi di un modello consuetudinario, riferito nella sola forma orale, capace di difendersi e sopravvivere sino ai giorni nostri.

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