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ANNOTAZIONI PITTORICHE IN CONFUSIONE DI QUANTI DOVREBBERO TUTELARE LA STORIA

ANNOTAZIONI PITTORICHE IN CONFUSIONE DI QUANTI DOVREBBERO TUTELARE LA STORIA

Posted on 18 settembre 2022 by admin

BaffiNAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Le cose e gli elementi caratteristici che uniscono luogo e i suoi abitanti, non vanno raffigurati sugli edificati storici e non, scambiati come mera pubblicità corrente o diffusa, addirittura, attraverso i media senza alcun fine di tutela di luogo o consuetudini di radice.

Le cose e il ricordo dell’identità culturale, se sono veramente parte di quanti vivono e promuovono, un ben identificato territorio, devono avere un posto in prima fila, nei cinque sensi di quanti sentono il dovere di rispettarli; promuove e divulgare le cose del passato senza l’ausilio di apparati e  manifestazioni correlate, si termina nell’atto di infangare i preziosi costumi  del luogo senza nulla ottenere.

I personaggi della nostra storia, ci appaiono nelle prospettive, della cultura vera, come indicatori in luce solo dove la storia ha avuto luogo e non come di solito avviene, in ambiti che non possono contenerla, facendola riverberare o riflettere come fastidioso abbaglio rivolto al viandante, che li accoglie come fastidiosa distrazione e nulla più.

Un grande condottiero raffigurato sul suo storico destriero con gli emblemi di Zeus e non quelli dell’ordine cui era legato e garantirono la prosecuzione della sua specie è un errore storico a cui non vi è misura di vergogna.

Certo che facendo apparire lo storico destriero, a modo di mulo, in procinto di trasportare sul basto, espedienti di luce naturale in forma di finestre e lucernari, tatuato con toponomastica di Santi moderni e avere briglie di cavi elettrici, non è certo un bel vedere, per promuovere storia e territorio di un’ipotetica fratellanza con il terminale di sostantivo in “ria”, noto nel linguaggio non scritto, come espressione dispregiativa di refluo, di cose e persone, non contribuisce positivamente a tramandare la storia non scritta.

Non si possono più tollerare figure curricolari, che dicono di sapere cose e finiscono per parlare di altro, ne titolati che dopo il traguardo di non sacrifici, si inventano a casa i titoli immaturi, ingannando sin anche i propri parenti, di essere quello che non si è, e no lo sarà mai, per la ristrettezza o la totale mancanza dei cinque sensi.

Ormai dilagano suonatori seriali in tamburiate che non sanno dell’esistenza di Vincenzo Torelli, storico critico musicare di origine Arbër e della differenza che passa tra canto musica e  ballo, ignorando addirittura gli appellativi storici scambiati per insalata di cose senza condimenti.

E come non si può essere d’accorso con Pasquale Baffi quando nel 1787 scriveva e dopo in uno dei  “Prestiti  del 1807”  ripetevano:

“L’esame dei costumi fa conoscere l’uomo; la somiglianza dei barbari, la differenza dei popoli colti, i lenti progressi del sapere umano,l’influenza della indole sulla morale e sulla politica, la facilitazione o l’ostacolo dei costumi alla cultura e al benessere di un paese, questi sono gli oggetti più grandi che possa avere in mira il sensato filosofo.

Un Paese una Nazione quanto famosa altrettanto poco conosciuta, che per secoli e secoli non ha alterato, né la sua indole, né i suoi costumi e sempre in mezzo ai popoli colti ha ritenute e tuttavia ritiene le usanze barbariche, merita certamente l’attenzione dell’uomo di lettere”.

P.S. l’ironica sintesi in immagine, non è altro che la realtà dei fatti e delle cose accadute, motivo di ricerca, di quanti non si fanno raggirare dal noto gioco delle tre carte; pur se a quel tempo la stazione di Napoli, era ancora una palude da bonificare

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LE ORIGINI

LE ORIGINI

Posted on 31 agosto 2022 by admin

IL CODICE DEGLI ARBËRESHË CREDENTINAPOLI – (di Atanasio Pizzi Basile) – Santa Sofia d’Epiro è un centro abitato della provincia di Cosenza, quest’ultima un tempo identificata come Calabria citeriore.

Il Katundë di origini Arbër, nasce tra le colline della Sila Greca, che guardano lo Jonio, coronato dalla storica piana della Sibaritide.

La fondazione del piccolo agglomerato urbano è largamente anteriore alla venuta degli Albanesi o a quella ancor prima, della schiera di soldati greci di fede bizantina insediatisi nell’869.

A tal proposito va rilevato la vara origine del sito, risalente alla fine del VI secolo a.C., in rapida successione alla nascita di Sibari e del relativo sistema difensivo/produttivo, infatti la piana prospiciente il mare, dove Sibari venne  edificata, era coronata verso  l’entroterra, da una strategica cerchia di castelli a guardia dei valichi fluviali, che sfociavano prima alle spalle del sito della Magna Grecia e poi a mare.

Tuttavia e nonostante ciò si far risalire il centro abitato, quale opera di un gruppi di soldati disposti a difesa della linea del fiume Crati, insediatisi lungo le colline  dalla linea Rossano, Bisignano e Cosenza, per contrapposti ai Longobardi.

I soldati bizantini, trovavano sicurezza allocando i loro stati maggiore più verso monte, per non essere facilmente esposti agli avversari  sul fronte più a valle e  subire gli effetti dalle Anofele, che nella media e lunga permanenza diventavano letali.

Il Centro abitato in origine  composto dalla chiesa e rudimentali abitazioni, nominato Santa Sofia, a memoria della chiesa madre di Costantinopoli da cui partivano gli impulsi di credenza.

Dopo un iniziale sviluppo e accrescimento demografico, la piccola comunità subì le pestilenze e i travagli dell’epoca, di cui le cronache della Calabria citeriore del XIV sc. riferiscono numerosi  dettagli ancora  leggibili in loco.

I territori rimasero sottoposti a un rilevante calo demografico e conseguentemente economico, innescarono processi negativi  per le casse dei nobili locali, che dovevano rispondere al governo centrale.

L’alternativa per porre rimedio a questo stato di povertà territoriale diffusa, la fornirono le migrazioni dai Balcani e le vicende della nascente diaspora arbanon, che dal 1468, questa popolazione per seguire la vedova di Giorgio Castriota, a frotte, sbarcarono nelle coste del regno di Napoli e di più nella Sibaritide.

Il Mons. Giovanni Frangipani, vescovo di Bisignano, favorì per questo l’insediamento di profughi provenienti dall’Epi­ro, noti per essere fedeli lavoranti e luminari nell’arte di predisporre il noto e famoso trittico, alimentare mediterraneo.

La storia del Katundë Sofiota, è costernata da atti, attività, cose e figure la cui meta principale mirava alla tutela e la valorizzazione della lingua, le consuetudini, i costumi e il rito Greco/Bizantino, per i quali e con i quali, Santa Sofia d’Epiro si è meritato l’appellativo di “Scuola”.

I primi adempimenti dei suoi residenti, in poco tempo integratisi con le genti indigene, hanno definito gli spazi dei quattro rioni tipici, il riconoscimento dei gruppi familiari allargati e la definizione del loco dei cinque sensi: la Gjitonia, elevando così il costruito dell’originario “centro antico” come quello della terra di origine.

Per giungere a ciò, non sono mancate le avvertita sia naturali e sia innescate dall’uomo, tuttavia, la caparbia e la tenacia che distingue questo popolo, ha fatto si che dal XVII al XVIII  secolo, poterono intraprendere la via della cultura e della formazione, grazie al prelato Giuseppe Bugliaro, che per le sue attività religiose all’interno della Real Macedone nella Napoli Onciaria, accolse le menti più eccelse, suoi conterranei, per avviare il percorso culturale, che la storia definisce senza eguali.

Sono sempre figure Sofiote a innalzare il valore culturale dello storico collegio Corsini, deponendolo contro numerosi avversari, nella sede più strategica a san Demetrio corone nel Collegio di Sant’Adriano.

È sempre Giuseppe Bugliari, ma questa volta un Vescovo di altra epoca, dopo oltre un secolo, ovvero alla fine del XIX, ad evitare, grazia alla sua sapienza, che tutte le attività e le conquiste ottenute dagli arbër  andassero smarrite, senza poter avere una via di proseguimento.

Il centro storico del paese arbër, oggi segna lo scorrere del tempo lungo e del tempo corto, tramandando numerose tradizioni, civili e religiose; come ad esempio la grande festa dedicata a Sant’Atanasio il Grande, patrono del Katundë Arbër, i cui festeggiamenti, iniziano il 23 aprile e raggiungono il culmine, il due di Maggio, terminano la seconda domenica di maggio, con uno degli eventi più emblematici della coesione tra civiltà dell’era moderna, ovvero: la primavera Italo Albanese.

Momento di unione degli Arbër con gli indigeni locali, tutto legato a messaggi di buon auspicio e fraterna condivisione, cui Sofioti vicini e lontani credono, ricordano e partecipano  con devote convinzione di cuore e mente.

Tutti uniti in processione, l’accorata filiera identitaria, la stessa dagli anni sessanta del secolo scorso, ad oggi non trova confini, segnando avvenimenti con i coloratissimo palloni aerostatici, gli stessi che ogni sofista, nel periodo di festa, sia esso vicino o lontano aiutato dalla memoria storica rivive gli epici momenti di unione cristiana e sociale, cantando coralmente: Dita Jote.

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SANTA SOFIA D’EPIRO 18 AGOSTO 1806

SANTA SOFIA D’EPIRO 18 AGOSTO 1806

Posted on 19 agosto 2022 by admin

Mazziotti (Tratto da: Immigrazioni Albanesi in Calabria nel XV secolo, Innocenzo Mazziotti) – All’improvviso crepitare di fucili il ter­rore aveva invaso l’animo degli abitanti, specie dei benestanti e dei filo-francesi; si fuggiva verso la campagna, verso i boschi, nei più impensati nascondigli. Nella gran confusione il Vescovo, che in quel momento si trovava nella casa dei parenti Masci e si avviava a ritornare nella sua dimora, fu fatto entrare da una popolana, Elisabetta Miracco, nella propria vicina casetta e nascosto in un magazzino interrato.

Mentre re Coremme con i suoi compiva le sue vendette mettendo a sacco e fuoco le case dei giacobini, prima di tutte quella del Ferriolo, Gianmarcello Lopes con i suoi sette sgherri era solo occupato a cercare il Vescovo; e su indicazione di una sua ex conterranea e donna di corrotti costumi, chiamata Bertina, riuscì a scoprire il nascondiglio del Vescovo e penetrare nel magazzino: «senza dar tempo a scrupoli religiosi, gridando “morte ai giacobini!”, GianMarcello, solo, egli solo, furibondo lo trafìg­ge con replicati colpi di pugnale e lo lascia esamine».

Dopo il delitto re Coremme con la sua banda, compresi Gian Marcel­lo Lopes e i suoi sgherri, trascinandosi dietro il vecchio fratello del ve­scovo, Domenico Antonio Bugliari, raggiunsero Acri, dove il povero ve­gliardo fu ucciso e bruciato, come risulta dai registri parrocchiali della chiesa di Santa Maria di Acri (R. Capalbo, o. c. doc. XII).

Approfittando della vicinanza della massa dei briganti, i realisti di San Demetrio, evidentemente sobillati dai Lopes, saccheggiarono per la seconda volta il Collegio greco di Sant’Adriano, per loro “covo di giacobini

La tragica fine del vescovo F. Bugliari ebbe risonanza per tutto il regno di Napoli; fu menzionata, scrive il suo biografo, dal “Corriere di Napoli” (30 agosto 1806), dal “Monitore di Napoli” (2 settembre 1806) e lo storico cosentino Luigi Maria Greco nel primo volume dei suoi “Annali di Calabria Citeriore” riporta l’avvenimento e esplicitamente ne indicava i responsabili: «…Non la massa forestiera ma Albanesi di S. Demetrio mandatari di taluni dei Lopes, realisti dello stesso paese, Stefano G. Battista Chinigò con quattro altri concittadini, scoprendolo, uccidono crudamente il santo pastore […]. Grave perdita perché d’uomo religioso senza impostura e di alta mente; di uomo cui i profughi d’Epiro della Calabria dovevano lunghi anni di amore provvido e caldo.. .» (Greco, In annali I, pag. 27).

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TRATTO DA: IL TEATRO CALABRESE

TRATTO DA: IL TEATRO CALABRESE

Posted on 12 maggio 2022 by admin

Maschera calabreseNAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Nel leggere il volume su citato, colmo di spunti e fornire ragione a quanto prodotto inutilmente, per delineare un itinerario storico logico delle regioni minoritarie.

Le mille difficoltà che s’incontrano quotidianamente, ritenute un’avversità verso persone specifiche, non cambia  il peso della delusione, tuttavia,  nel leggere questo breve episodio fa comprendere che lo stato delle cose, conserva tutta l’identica radice locale, immaginabile da quanti sentono e vivono le cose a distanza riguardevole, ragion per la quale, qui di seguito viene riportato il” testo integrale” di questa antica esperienza riportata nell’edizione del 1973:

Immigrazione  calabrese

La metà del cinquecento vede una Calabria polo di attrazione della cultura rinascimentale. L’essere la Calabria nel Vice­reame equiparata ad una provincia di Spagna con tutti i diritti e conseguentemente con tutti i doveri determina un flusso immigratorio delle più qualificate correnti culturali del tempo.

Da Firenze arriva a Cosenza Tideo Acciarino. È un letterato di chiara fama e porta in questo estremo lembo della penisola l’eleganza letteraria toscana che si incontra con la con­cezione virile della vita di una gente che innesta a questo filone la raffinatezza di una Magna Grecia perennemente viva nelle azioni della pratica quotidiana. Si affina così uno spirito rina­scimentale che ricerca il bello e che considera la bellezza il canone di una vita protesa verso le più raffinate posizioni spiri­tuali Tideo Acciarino, amico del Poliziano, fonda a Cosenza una scuola che polarizza subito l’attenzione dei ceti culturalmente più sensibili. La scuola di Acciarino conta discepoli illustri quali, tanto per fare un esempio, il Parrasio che nel 1511 fonda, quale diramazione della Pontaniana di Napoli, la Accademia Cosentina, il sodalizio che vedrà le glorie di Bernardino Telesio, il primo degli uomini nuovi.

Il caso di Bisignano

Acciarino viene in Calabria su invito del Principe di Bisi­gnano. Ma Bisignano non è la Calabria. Bisignano — la Bisignano del tempo con il Principe — è la mortificazione ed è la vergo­gna della Calabria.

La ragione? In una Calabria equiparata alla provincia spagnola con tanto di diritto e tanto di dovere, in una Calabria dove la dignità spirituale è sinonimo di sana concezione della vita, in una Calabria rimasta indipendente persino allo strapotere della Spagna in virtù della saggia opera di una classe nobiliare in linea con le esigenze e con i bisogni del popolo, in questa Calabria caratterizzata ancora dalla intelligente fattività di una classe dirigente tutta protesa alla soluzione dei problemi più urgenti, il Principato di Bisignano non fa riscontro.

È un governo autoritario e meschino cui la mancanza di una classe di nobili imprime un carattere feudatario e comunque negatore delle individuali e generali libertà.

Ci si indugia a parlare di Bisignano non per l’importanza che riveste nella storia calabrese — importanza che del resto non ha — ma per la eccezionalità, ovviamente negativa, di un governo che fonda la sua effìmera potenza su un popolo inetto e vagabondo soddisfatto da una manciata di pasta e fagioli.

La mancanza di nobiltà — qui si parla della classe sociale — offre al Principe di Bisignano la possibilità di uno strapotere che arriva alle cime più assurde. È una mortificazione ed è di più la vergogna della Calabria.

Tideo Acciarino nella bella villa fiorentina confortato dalla amicizia del Poliziano pensa che Bisignano è la Calabria. Orribile illusione! Si mette in viaggio ed arriva in quella brut­tura di aggregato inurbano in una notte di tempesta. È questo Bisignano? Chiede alla sua delusione l’Acciarino.

Rispondono positivamente le galere zeppe di galeotti, le cantine fumose piene di signorotti che trascorrono il tempo ad insidiare le serve, i contadini macilenti, le botteghe scure e vuote.

Risponde positivamente lo strapotere di un Principe che esercita con mano di ferro la dittatura e la tirannia su una gente che non ha esigenza e bisogno di indipendenza. È uno squallore; uno spettacolo penoso,

Tideo Acciarino non si lascia scoraggiare.

Monta su un cavallo e varcata la valle del Crati raggiunge il giorno seguente Cosenza.

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IL CASALE TERRA DA BIZANTINO A GRANCIA SI VESTE IN ARBËR PER SBOCCIAR LATINA

IL CASALE TERRA DA BIZANTINO A GRANCIA SI VESTE IN ARBËR PER SBOCCIAR LATINA

Posted on 12 maggio 2022 by admin

SEcolo XV

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MINORANZE STORICHE NELLA PENISOLA MEDITERRANEA

MINORANZE STORICHE NELLA PENISOLA MEDITERRANEA

Posted on 01 maggio 2022 by admin

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Il tema che ha in argomento le minoranze storiche italiane non si può aprire e terminare esclusivamente in forma linguistica, racchiudendo un insieme raffinato e articolato, al mero rivolgersi in lingua altra.

Oggi nonostante numerose attività di studio, siano volte verso questa disciplina di studio, della storia Italiana, si preferisce illustrarle, senza dubbio alcuno, come esercizio monotematico.

Lo scrivente come ricercatore e discendente della minoranza approdata nel meridione italiano nel XV secolo,  “gli arbanon” a cui per spirito di appartenenza, dopo decenni di studio, supportato da titoli e titolati, in specifici ambiti di studio, suddivide le minoranze storiche, quelle resilienti, in Arbanon; della Magna Grecia e l‘Occitana, le quali  storicamente ligie a non sovrapporsi territorialmente nel corso dei secoli.

Non si fa errore alcuno nel concentrare lo studio alla sola Calabria e  rendere l’analisi riferibile a tutte le province storiche del meridione, dove si possono intercettare con facilità gli identici modelli urbani  architettonici e territoriali  della terra di provenienza.

A tal proposito per affrontare un discorso univoco e senza alcuna discriminazione, è opportuno precisare che le minoranze storiche calabresi, sono rispettivamente: i Grecofoni, gli Arbër e gli Occitani, esse rappresentano il contributo del progredire comune con gli indigeni; per la Calabria in particolare si suddivisero senza mai sovrapporsi secondo le seguenti aree geografiche: ultra ulteriore o “Gran ducato di Calabria” per i Grecofoni e citeriore, ulteriore per Arbër e Occitani.

Come citava Pasquale Baffi nel suo discorso del 1775: Gli Albanesi, che ora esistono nel Regno, e  ven­nero in diverse riprese nella fine del XV secolo, non bisogna confonderli coi Greci, eli da tempo antichissimo trovansi situati nelle nostre provincie della Calabria Ulteriore, e ne abbondano; siccome non mi ho proposto «di par­lare che delle Colonie Albanesi, così fo ammetto di en­trare in discorso de’Greci che per la loro remota anti­chità possono benissimo chiamarsi indigeni di questo suolo meridionale.

Questo breve accenno storico a ben vedere, è la base si partenza delle analisi territoriali d’insediamento; esso segna un confine invalicabile, rispetto dei luoghi dove fornirono contributo di sostenibilità economica in forma produttiva e lavorativa.

In conformità a questa premessa, va rilevato che: la Grecofona approda e resiste in quella parte della Calabria storicamente noto come  il gran ducato o il thema di Reggio Calabria; la minoranza Arbanon, si insedia nelle terre cella Calabria Citeriore e ulteriore, prevalentemente segnate dalle emergenze del credo bizantino, che guarda verso lo Jonio; gli Occitani si insediano entro la linea che fu dominio di longobardi e Normanni, verso il Tirreno.

Tutte queste per le vicende storiche in atto, nel breve periodo si diressero tutti sulla media collina, oltre i 350 m. sul livello del mare, perché erano le aree, dove le anofele perdevano la  mortale efficacia.

Lo studio tuttavia, oltre ad aver appurato i sistemi paralleli abitativi della terra di origine si è preoccupato di avere come indicatore non solo quanto sancito dalla legge 482/99, ma si è seguito l’indicatore definito dall’articolo nove della Costituzione Italiana, ovvero, i beni materiali, quelli immateriali, l’ambiente naturale e il costruito dei minori.

In definitiva, l’intero sistema di vita della minoranza, dalle metriche della consuetudine, importate dalla terra di origine, queste ultime,  dopo il breve periodo di scontro e di confronto con gli indigeni,  germogliarono in terra parallela, grazie alle attività di genius loci, secondo il modello delle città della Grecia e le tipologia Arbanon secondo i dettami della famiglia allargata Kanuniana.

Per questo il tema prodotto non ha avuto come indicatore solo, l’idioma, caratteristica non testimoniata dalla forma scritta.

La lettura è stata eseguita sulle architetture il veicolo principale della memoria; le consuetudini agricole, silvicole e pastorali per il sostentamento, secondo il vigile rispetto dal credo religioso bizantino, rigidamente dettato dal calendario che segnare la stagione del tempo lungo, “l’estate” e del tempo corto, “l’inverno”.

Partendo da questi presupposti di base sono stati indagati gli elevati abitativi, confrontandoli con  le documentazione degli atti di sottomissione depositati negli archivi.

La lettura dei documenti posti a confronto con la rispondenza in loco, di elevati e memorie storiche locali, ha definito quale sia stato il periodo dell’architettura estrattiva o del nomadismo rispetto la più sicura additiva dello stazionamento definitivo.

Con questi hanno consentito di risalire alle epoche in cui furono definiti i rudimentali ”moduli abitativi primari mono cellula” l’epoca in cui furono articolati in forma lineare e in elevato.

In Calabria numera circa cinquanta centri antichi realizzati o riadattati dalle genti di minoranza Grecanica, Arbër e Occitana, tutti riconducibili a precisi rioni, la cui toponomastica originaria utilizza il valore linguistico di appartenenza in senso di agglomerato urbano: Hòrë, Katundë e Castrum.

Momenti della storia condivisa con gli indigeni di quello che è stato l’antico regno di Napoli o delle due Sicilie, dal XV secolo, oggi nazione Italiana.

Questi primi dati hanno delineato il percorso di Indagine verso cui proseguire e segnare la storia in comune convivenza con le genti indigene.

A queste ultime senza nulla togliere è stato aggiunto una schiera di figure in eccellenza verso attività sociali, economiche, politiche, delle scienze e della cultura in senso generale.

Una vera e propria storia irripetibile d’integrazione, che definire a buon termine potrebbe apparire riduttivo in quanto, è un modello che si ripropone ciclicamente da sei secoli in ogni centro antico minoritario e solo a pochi non sfugge.

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LE MINORANZE STORICHE MERIDIONALI DESCRITTE COME INSIEMI ACRÒLITI

LE MINORANZE STORICHE MERIDIONALI DESCRITTE COME INSIEMI ACRÒLITI

Posted on 27 aprile 2022 by admin

AcrolitoNAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – L’accolito è un modo per realizzare statue economiche dai tempi dell’antica Grecia, il sostantivo è composto da: ἀκρόλιθος, akròlithos, “dalle estremità di pietra”, da àkros, ” cima, alto, estremo” e lithos, “pietra”.

I Romani, più parsimoniosi dei predecessori, realizzavano la testa, le mani e i piedi, utilizzando pietra, marmo o  altri materiali pregiati, completando il manufatto, con materiale meno pregiato e deperibile o addirittura mancanti e l’asciati all’immaginario collettivo, rivestita nelle parti mancanti con panneggi variegati; continua mutazione in linea con le esigenze delle epoche e il tempo che passava.

La trattazione nella sua radice più semplice porta ad immaginare il diffondersi delle caratteristiche tipiche di una qualsiasi minoranza del vecchio continente.

Specie quelle delle regioni che s’incuneano nel mediterraneo; queste  pur avendo propria testa, mani e braccia, di alto valore, sono poi completate, con panneggi globalizzati per l’uso e il  consumo di quanti si trovano su scanni a illustrare cose  non di pregio, o meglio le culle vuote, tradotti in linguaggio santifico, le strutture che per radice matematica non sono alla portata di tutti.

Se una minoranza storica si rigenera, ormai da sei secoli, e di questa si riconosca di pregnante solo l’idioma, il canto,  le consuetudini, sostenute dal credo religioso, non si fa altro, che seguire l’esempio parsimonioso dei romani in  acrolito con testa, piedi e mani sostenuta da una struttura, su cui poi, allestire panneggi gratuiti o imprestati dagli indigeni locali.

Nulla di più errato è stato prodotto dalla storia nell’inquadrare le minoranze storiche, immaginando che esse siano il componimento di tre numeri; il quattro, l’otto e il due, mentre tutto il resto fatto di matematica o scienza esatta,  utile a tracciare linee ignote sulla lavagna lasciata vuota.

Una statua è pregiata perché unica, tutto il suo sviluppo esprime un modello e racconta una storia, essa non è mutabile o deperibile, perché di materiali solidi.

Il suo valore irripetibile, non muta nel tempo; certamente quanti non sono in grado di leggere ogni piega, ogni scalfittura realizzata dell’artista compositore, li immaginano come incertezza.

Leggere un componimento di tale fattura è complicatissimo, tuttavia, se sino a oggi è stata lasciata nelle competenze dei “mono formati”, oggi vista la complessità delle cose in campo sociale e culturale è il tempo che a salire sullo scanno a trattare con completezza, siano quanto hanno visione tecnica a largo spettro e si consultano continuamente con il territorio, le cose e quanti possono riferire su temi specifici.

La Regione storica  non è un acrolito esperimento idiomatico, essa è un componimento artistico fatto di architettonici, urbanistica e uomini che condividono l’ambiente naturale, quest’ultimo dopo essere stato curato in forme solide, fornisce il ponte sicuro per essere attraversato e dare la via al modello mediterraneo detto  dell’integrazione.

In tutto un manufatto in figura tridimensionale capace di consentire il volgere lo sguardo, le mani e aprire la via ai cromatismi dal sole mediterraneo, quando appare e illumina il percorso che va da oriente verso occidente, senza diffondere perplessità e incertezze.

Tuttavia a Napoli esiste una strada di nobili “figure in pietre pregiate”, ciò nonostante nella medesima, ha anche germogliato a margine di piramide rovesciata, un’ e acrolito; fatto di testa ambigua, mani affilate e piedi per  apparire………….il di cui corpo è ancora ignoto.

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UN MAGISTRATO ARBËRE SENZA OMBRE: ROSARIO GIURA DA MASCHITO (Ngà vith hësth mendë itija)

UN MAGISTRATO ARBËRE SENZA OMBRE: ROSARIO GIURA DA MASCHITO (Ngà vith hësth mendë itija)

Posted on 21 aprile 2022 by admin

Rosario Giura1NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Nell’angusto e breve  corso dedicato alla “Famiglia Giura in Maschito”, sulla facciata dell’ antica dimora, una sbiadita lapide, dettata da Giustino Fortunato ricorda:

i cittadini di Maschito vollero scolpiti i nomi de’ fratelli Rosario e Luigi Giura nati nello scorcio del secolo XVIIII di Francesco Saverio e Vittoria Pascale, il primo valoroso giureconsulto e integro magistrato deputato nel 1848 al parlamento napoletano, morto esule a Nizza 1854; il secondo ingegnere scrittore insegnante per ogni aspetto singolarissimo ministro de’ lavori pubblici nel 1864; perché fossero di civile esempio e di nobile ammaestramento alla terra natale sempre memore delle prime genti qui scampate per amor di libertà dall’oppresso regno d’Albani

XXIII settembre MCMXII

Francesco Saverio Giura, (dottore in utroque, con riferimento a chi professa con laureati in legge la giurisprudenza), unito in matrimonio con la Nobl Donna Vittoria Pascale  nel 1801 diede alla luce Rosario.

Rosario frequentò le « Pie Scuole  di Calasanzio», le quali dettero argine al primo tipo di scuola popolare in Europa, i corsi gratuiti, frequentato da ragazzi di tutti i ceti, ebbe il suo battesimo nel 1597 a Roma, ideata dal grande educatore Giuseppe Calasanzio, canonizzato da Clemente XIII nel 1767, che procurò unanime plauso ed aiuto ad altri religiosi, propagandandosi in quasi tutte le regioni italiane ed all’estero

Il Giura giovanissimo si addotto in giurisprudenza, seguendo la sua vocazione e concorse con brillante esito nella Magistratura raggiungendo i più alti incarichi fino a Procuratore Generale.

Intese il suo ufficio di Magistrato nella pienezza della sovranità e si scrisse di Lui di aver avuto carattere d’acciaio al servizio di un’idea che non lo fece mai piegare.

Chiamato alla Procura generale di Napoli constatò che imperavano per mal costume, soprusi, prepotenze ereditate da chi lo aveva preceduto, impose la giustizia.

Per avere misura dello stato delle cose lasciate da altri procuratori che lo avevano preceduto, bisogna leggere la pregevole pubblicazione del Cotugno, “Tra Reazioni e Rivoluzioni”.

Rosario Giura Magistrato da Maschito, partecipò alla storia dei Borbone di Napoli, esponendone la capitale come la città dove imperava, la non giustizia in un regime di vero terrore, dove vigeva i  l’imprigionare il condannare, secondo una vera e propria tormenta in offesa ad ogni legge umana, contro  il fior fiore dell’intelligenza.

Una delle cure più gravi ed assidue del Governo fu quella di piegare ai suoi voleri la Magistratura e pertanto istituiva nell’ottobre 1849, col pretesto di purgarla da elementi sovversivi, una organizzazione delle Corti Speciali, per l’epurazione dei magistrati, indagando sulla loro condotta politica e morale.

Si era così creato un ambiente chiuso non suscettibile, per le correnti fucinate dal conterraneo del Rosario Giura, come Mario Pagano e da tanti altri.

E ben disse il Croce che quel dissidio tra monarchia e cultura fu la causa fondamentale del crollo del regime borbonico.

Contribuirono ancora a quanto appariva inaccettabile, le famose lettere del valente uomo di Stato della Gran Bretagna, Guglielmo Gladstone, spedite a un suo amico, dopo il soggiorno di quattro mesi a Napoli.

Le lettere che svelavano gli errori che si commettevano dal governo Borbone, con la frase famosa ripetuta in tutta Europa: “a  Napoli la negazione di Dio eretta a sistema di Governo”, aprendo in questo nuovo modo di affrontare le cose, le vie dell’esilio e le galere si schiudevano ai nomi più illustri del Regno.

In un elenco, di mirabile eloquenza dei tempi, fra le vittime inizia ad annoverarsi la figura del Magistrato Rosario Giura, per aver opposto delle osservazioni ad un rescritto del Re, che contro legge, ordinava che un accusato fosse dispensato di costituirsi in carcere.

L’energico atto fu accolto come una sfida alla Maestà di Ferdinando II e costo al Giura l’immediato trasferimento in Calabria.

Lo screzio all’uomo dalla toga incontaminata suscitò non pochi fremiti d’indigna­zione e disprezzo del popolo, che apprezzando la sua fermezza e rettitudine lo mando al Parlamento.

Il Parlamento Borbonico poggiava su tre malfermi cardini: ignoranza delle masse, il tiranneggiare della nobiltà ed un esercito in funzione di polizia

Ogni deputato evitava di esporsi in Parlamento, per timore di rappresaglie, ma il Giura, tempra Arbër approdata in Lucania, terminò il suo mandato, con un discorso pieno di fermezza e indignazione, pensiero che gli apri le porte delle carceri e che per fortuna eluse, trovando scampo in esilio, e dopo aver viaggiato in vari stati dell’Europa si fermò a Nizza Marittima.

Dalle “Memorie del Duca Sandonato” si evince che nell’albergo “le ville in Genova” dove fu realizzato il famoso banchetto, servito a tutti i profughi napoletani, organizzato dal Deputato e giureconsulto Giardino di Aquila, ove, una schiera dei più eletti nomi sedettero a pianificare cose nuove, come: Giovanni Nicotera, P. E. Imbriani, Raffaele Corti, Girolamo Ulloa, Salvatore Tommasi, Giacomo Coppola e tanti altri, leggonsi anche i nomi dei nostri illustri lucani: del Deputato Nicola D’Errico, di Pasquale Scura, integerrimo magistrato in Basilicata, che dovette esulare in occasione del processo del famigerato Canonico Peluso, per l’assassinio del Carducci, colon­nello della Guardia Nazionale, trucidato dalla reazione capitanata dal Peluso e del nostro Rosario Giura.

Di questa rara natura d’uomo, spiccata personalità, inconcepibile oggi, spe­sero i suoi contemporanei, le frasi più acconce per sublimarne la figura morale non disgiunta dalle grandi doti d’animo.

Siamo portati ad ammirare questi luminari esaminandoli e seguendoli nel loro aspro cammino, crescendo la nostra ammirazione secondo la varietà delle circostanze e del modo come si dipartirono.

La verità il più delle volte è frutto di dispiaceri, di patiboli, di strazi.

La verità ci viene dall’apoteosi del Golgota e ben l’apostolo Paolo impresse: “ Sine sanguinis effusio non sit remissio”.

La fortezza d’animo, la rassegnazione cristiana con la quale il Giura affrontò le avversità in terra straniera ingigantisce la figura e ci sollecita a dire l’Imbriani : Uomo sempre incorrotto ed incorruttibile.

Il Giura spese le sue tristi giornate d’esilio col preparare dotte pubblicazioni; Scritti politici e sociali e Saggi di filosofia del diritto.

Da Nizza, divenuta francese, nel 1360 il fratello Luigi si premurò di far trasportare la salma nel camposanto di Napoli, ove s’erge un monumento nel recinto degli uomini illustri con l’iscrizione dettata da Filippo Abignente:

QUI RIPOSA IL FRALE DI

ROSARIO GIURA IL CUI SPIRITO MANDATO DA DIO IN MASCHITO

DI BASILICATA IL 1 ANNO DEL SECOLO

RICCO DI MERITI DEL MAGISTRATO DEL LEGISLATORE,

DELL’ESULE RITORNÒ A LUI IL III SETTEMBRE MDCCCLIII

IN NIZZA DIVENUTA FRANCESE

IL MDCCCLX FREMEVANO AMOR DI PATRIA QUESTE OSSA

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ARCHITETTURA: INDICATORE STORICO DIFFUSO DELLA GUERRA

ARCHITETTURA: INDICATORE STORICO DIFFUSO DELLA GUERRA

Posted on 20 aprile 2022 by admin

MuroNAPOLI (dia Atanasio Pizzi Basile) – Ogni qual volta si vuole diffondere l’inizio, lo svolgimento e la fine di una guerra, non sono le ragioni o i principi per i quali essa nasce, ma le immagini filmiche, fotografiche e pittoriche che la ricordano, incutendo preoccupazione a quanti inermi, subiscono mentre altri giubilano per la conquista incassata.

Quello che più di sovente appare non sono le crude immagini d’individui che in diversa misura sono coinvolte, ma le architetture devastate, ferite e brutalmente, le uniche a fornire la misura del danno pubblico, quale scenografia di pena per gli invasi per opera d’invasori in giubilo.

Sin dall’antichità, l’efficacia della guerra è raffigurata con le opere dell’architettura devastate e ancora fumati; allora come oggi, quelle immagini attraverso la raffigurazione del tempo, in mura pericolanti e oggi degli elevati ancora fumanti, restituiscono frammenti indelebili di vita quotidiana interrotta, fornendo con particolare violenza, la misura di quanto accade.

Case, palazzi, ponti, strade, luoghi di unione, di spettacolo raccontano di architettura, uomini e macchine per la distruzione in continua evoluzione, al fine di giungere alla peggiore delle efficace, onde evitare il confronto corpo a corpo tra uomini come un tempo avveniva.

La brutalità appare, lascia ancor di più perplessi, perché non è mai presente un antagonista fisico che colpisce il rivale, ma una entità non presente che vilmente, da lontano e senza apparire, colpisce un bersaglio architettonico, entro cui non si ha idea o misura di cosa, chi e quante vite umani vi trovano rifugio di vita.

Non è più il soldato a sopraffare l’antagonista simile, per poi distrugge, gli emblemi dell’architettura più rappresentativi come avveniva un tempo, ma una macchina che ha solo uno dei sensi umani, ovvero quello di vedere un bersaglio da lontano, senza mai avvertire durante il tempo della sua efficacia se ad essere soppresso è grande, piccolo, anziano o addirittura inerme il nemico; ignorando un dato fondamentale, ovvero, se quanti predestinati siano ostili o dediti al vivere quotidiano, all’interno della propria casa per vita.

Quindi è l’architettura che misura le forze avverse, per produrre il danno e se oggi vediamo, solo quanto è devastato non viene fornita alcuna misura del numero di designati, che seguono la corrente, si oppongono o periscono per sempre.

Tutto ciò per riferire che esiste anche un’architettura sotterranea, quella che non appare e svolge un ruolo fondamentale; quanto di essa sia realmente devastato, compromesso o bruciato, solo in pochi lo sanno perché conoscono il valore di questa misura non ufficiale.

Ragion per la quale, il linguaggio dell’architettura per essere compreso in tutta la sua forma, deve apparire in tutto il suo insieme, ovvero: pensiero, progetto, forma fisica di fondazione ed elevato, oltre gli uomini che la fanno, altrimenti si perde il senso completo delle cose.

Solo in questo modo i vincitori preposti a scrivere daranno conto a vinti e ai posteri, in forma completa per quanto devastato; altrimenti tutto diventa prospettiva di comodo scenografico.

L’architettura è un’arte antica, essa non ha eguali, solo quanti la conoscono possono descrivere lo stato delle cose tangibili e intangibili, gli altri, si ferma davanti a quanto appare nell’immagine offerta dai madia, ad uso e consumo delle parti in causa, come preparate dai progettisti di studio e di cantiere, in conformità al desiderio del mandatario pagante.

Esistono casi, dove l’architettura non deve apparire, perché a trionfare, deve essere il senso delle cose, in definitiva prospettive in forma di codice, ma questa è una storia di popoli che non contemplano le forme grammaticali, essi fanno parte di storie minori, quelle che restano all’ombra a riposarsi perché stanche del nulla fare.

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ARCHIVI ARBËR IN PATINA DI CALCE, SULLA FUMIGINE DEI KATOJ DEL TEMPO CORTO (Këlkera te shëpiat me kamënua dimëri)

ARCHIVI ARBËR IN PATINA DI CALCE, SULLA FUMIGINE DEI KATOJ DEL TEMPO CORTO (Këlkera te shëpiat me kamënua dimëri)

Posted on 16 aprile 2022 by admin

Cenere

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Il rapporto tra ambiente naturale e quello costruito denota le emergenze evidenti, nell’accostarsi alle pietre angolari degli elevati murari, è qui che subito si colgono elementi fondamentali, della storia della minoranza Arbër a ovest del fiume Adriatico.

La rappresentazione dei piani orizzontali, verticali e inclinati, sono gli elementi finiti in grado di restituire quando realizzato nel confronto idiomatico locale, specie per quanti cercano un rapporto paritario con la natura degli ambiti paralleli dei paesi arbër.

Questi momenti di ascolto sono uniti dal comune confronto in lingua non scritta, piano razionale di “oggetti” e rappresentazione delle cose, le uniche in grado di fornire sul piano interpretativo, un linguaggio non scritto, tramandato oralmente dalle generazioni, perché genio locale.

Il risultato finale è il frutto di una serie di estratti intimi, riferiti a precisi macrosistemi connessi, diventando traccia maggioritaria o archivio a cielo aperto per le informazioni contenute.

La rimanente parte, la minoritaria, di solito riferisce di mere informazioni catastali, estratti del grande serbatoio, il costruito, questo, conservandole saldamente, evita fuoriuscite, in forma liquida o di vapori labili, che potrebbero contaminare l’ambiente urbano.

Pertanto la rappresentazione grafica dei dati ricavati, l’analisi tipologica e morfologica, concorre, a formulare il racconto dei rapporti esistenti tra il vuoto urbano e la rappresentazione formale del costruito.

La cultura storia di quest’ultimo, consente di indagare oltre i fatti tecnici come prospetti, sezioni, planimetrie, che interessano, relativamente quanti non sono tecnici e non si occupano di definire categorie culturali collettive, non generiche, ma fatti empirici senza legame con il territorio, la natura e gli uomini.

Questo modo di procedere indagando le cose tecniche riesce, a tradurre anche il silenzioso linguaggio della tessitura in pietra, mattoni, archi, vuoti, modanature e portali, nel processo di trasformazio­ne dell’architettura dei paesi della regione storica, dal primo insediamento estrattivo al successivo arrivato sino a oggi in forma additiva.

Luoghi silenziosi che non sono mai stati ascoltati, pur se fortemente disturbati dalle variabili tecnologiche, le stesse, che specie dal dopo guerra a oggi, le hanno stravolte, lasciando al muto destino, solo quanto conservato come reperto archeologico o forme violate da depositate in museo.

Di fronte a questi piccoli manufatti della storia, si coglie un silenzio ancora più austero, nei piccoli e stretti vicoli articolati della storia degli uomini arbër, che non hanno lasciato spazio al veicolare rumoroso, gli stessi che terminando per collegare frettolosamente, un posto a un altro senza storia sociale in aggiunta.

Da tutto ciò, il bisogno di sviluppare un lavoro sistematico sull’abitazione dei paesi di radice arbër, grazie anche a una carriera professionale dedita al rilievo, sia di edifici storici e sia di quelli minori, per catalogare ambiti e adibirli ad uso pubblico e privato, nelle regioni di Campania, Calabria, Puglia Basilicata, Lazio  e Molise.

L’operato eseguito con tale metrica, è stato portato avanti con la memoria sempre presente delle origini dello scrivente, impegno morale preso con un noto dirigente dipartimentale della Sapienza di Roma, il quale la sera del 17 Gennaio del 1977, augurava ogni bene per il percorso universitario in architettura intrapreso, aggiungendo: finalmente avremo chi potrà raccontarci anche di architettura in Arbër.

Da allora, l’esperienza acquisita nel definire la rappresentazione grafica dei fabbricati, la ricerca tipologica dei moduli abitativi e le conseguenze mutazioni di crescita e la conseguenza organizzativa degli isolati, ha avuto come mira finale, la promessa fatta nella piazza storica del mio paese.

Un “voluminoso patrimonio formativo fatto di pietre e di vuoti”, in altre parole, architettura fatta di sensi, evoluzione urbana, che prende forma non nel tempo di una stagione, ma dal XIV al XVIII secolo, disponendosi lungo gli articolati vicoli, degli sheshi, dove i primi attori restano sempre: le pietre, i vuoti e la toponomastica identificativa, in tutto il luogo dei cinque sensi che ti riporta nella casa dei tuoi familiari.

Analizzare i rioni storici e confrontare le cellule di base, i Katoj, del centro antico, hanno consentito di determinare un adeguato traccia­to evolutivo dell’originario modulo abitativo.

Questa prima parte, nei luoghi della storia e della memoria, ha fornito elementi univoci per definire “le forme dello spazio dettate dal genio locale” poi l’esperienza e la dovizia di particolari, ha consentito di rilevare e trasportare su piani bidimensionali il rappresentato.

È chiaro che tutto questo non è avvenuto per una mera presa visione fotografica e metrica dei luoghi, ma ha avuto inizio, secondo un protocollo rigido dove a essere protagonista di prima linea, non è stata la sola esperienza del saper rilevare, ma la conoscenza dell’idioma, delle consuetudini e l’essere abituato ad avvertire quando un luogo libera “le sensazioni dei cinque sensi degli Arbër” cosi come qui di seguito si farà accenno.

Quando nei paesi Arbër iniziava l’estate, le regine del fuoco e della casa imbiancavano con la calce l’interno dei Katoj, specie quelli rimasti ancora modesti, per coprire il fumo prodotto dal camino dell’inverno appena terminato.

Le regine, davanti al proprio uscio, si adoperavano a miscelare acqua e calce, a seguito di ciò, con la scopa, fatta di rami di erica coprivano il grigiore dell’inverno appiccicato sulle pareti e le superfici di copertura dell’intero ambiente casa.

A rituale terminato, tutto diventava bianco, garantendo più luce, ai compiti e le attività intense dell’estate e lente dell’inverno.

Se entrate in una di queste case, rimaste ancora intatte, potreste cogliere il senso delle cose dei trascorsi locali, estrapolando un frammento di superficie, fatto di strati di fumigine e calce, le pagine e i veli delle stagioni arbën trascorse.

È chiaro che a sfogliarle e leggere è una sensazione che solo chi conosce le consuetudini vissute e svoltesi all’interno della casa, (Shëpia) può avvertire, specie se nati e cresciuti, in quello di rilievo o altri equipollenti.

Ascoltare il riecheggiare delle vicende che hanno accompagnato la regina del fuoco e i suoi familiari per progredire, lo si trova nel fotografare la cenere la polvere depositata in tutti quegli attrezzi dell’epoca, proto industriale, quando le fabbriche non esistevano e i prodotti conservieri si facevano in casa con poche cose.

Sono ancora numerose le abitazioni rimaste come se il tempo non sia trascorso dal dì in cui furono abbandonate e pur se malconce, se vi capitasse di dovervi entrare, potrete avvertire le cose del tempo che nessuno conosce e solo voi potrete rievocare, se sapete come si facevano.

Queste in genere sono abitazioni poste a piano terra, monocellulari, o a due livelli, comunque la parte che suggella un preciso periodo della storia dei centri antichi arbër.

L’involucro abitativo traccia un periodo storico ben definito e solo chi vi è cresciuto, può comprendere le cose passate, di come sono diventate nel presente e quanto serve per prevenire i fatti e le cose nel futuro.

Oggi la rincorsa al Toson d’Oro per curare ogni mancanza di memoria e dare continuità storica a eventi che non hanno senso, è il mestiere di tutti perché frutto di favole senza senso, utili a forviare i sogni e la realtà delle nuove generazioni.

È facile ritrovarsi e parla in numeri di migrazioni, come facevano gli scolaretti impreparati, il giorno dell’interrogazione, segnando gli appunti sui palmi delle mani e siccome, sistematicamente erano cancellati dal sudore, non sapendo che riferire nel momento del bisogno, si articolavano le dita contandole e fare colpo sulla platea scolastica ignara, aggiungendo I° – II° – III° – IV° – V° – VI° –  ecc., ecc., ecc.,  più il sostantivo, “migrazioni”.

A tal proposito è bene precisare che la migrazione storica, che ha definito l’insediarsi degli arbër, secondo quando sancito e inciso su pietra Arbër, è una sola.

Essa va dal 1469 e termina nel 1502, le altre sono episodi alternativi, finalizzati, per altre cose, o progetti che non hanno nulla a che fare con la storia dei cento Katundë della Regione storica diffusa Arbër,

Quest’ultima nel corso della storia ha perso il senso in alcune macro aree, lasciando per questo isolato un solo centro abitato in forma di frazione o Katundë, come nel tarantino, in Campania e in altre province dell’antico Regno di Napoli.

Per quanto attiene agli enunciati disparati di migrazione e di difesa della radice arbër, è tutto da rifare; lo si potrebbe eseguire nel tempo di una “stagione lunga”, tuttavia quanti per decenni hanno confuso l’impegno materno di Irina Castriota con quella della solida madre Arianiti Comneno, non vogliono sentir ragioni.

In oltre dopo aver fissare le linee guida delle 482 senza l’ausilio dell’art. “Nove”  non sono disposti a partecipare, visti gli innumerevoli enunciati fuori metrica, in forma di costruito e di molto altro ancora, specie dove un tempo correva l’antico acquitrino di reflui nel casale di Terra, oggi divenuta la vergogna culturale di quella capitale, che diede i natali all’indirizzo della storia arbër.

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