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UN ALTRO GEMELLAGGIO INTERNAZIONALE PER IL LICEO CLASSICO DI SAN DEMETRIO CORONE.

Posted on 07 aprile 2014 by admin

Scuola SandemetrioSAN DEMETRIO CORONE – CS – ( di Adriano Mazziotti) – Dopo l’accordo collaborativo  con il Liceo di Struga (Macedonia), in atto dal 2010, l’Istituto superiore sandemetrese ha ufficializzato il gemellaggio con il “52 Liceum of Athens”, la Scuola  partner nel progetto eTwinning (gemellaggio elettronico)  “Cultural bridges among South Italy and Balkan Peninsula“, realizzato con il Liceo “G.Familiari” di Melito Porto Salvo (RC) e il “Lyceum Malaxa” di Zarnesti, Romania dal  febbraio 2012 al dicembre 2013. Si tratta di una esperienza di collaborazione didattica a distanza tra scuole europee che conseguono risultati qualitativamente significativi nelle attività di un progetto on line elaborato di comune accordo, utilizzando le lingue straniere, soprattutto l’inglese.  Il progetto è valso alle quattro scuole partner l’assegnazione del Certificato di qualità  2013 rilasciato dalle Unità eTwinning di ciascuna nazione per le attività svolte, che hanno rimarcato le tante affinità linguistiche e culturali che intercorrono tra la Grecia e molte comunità italo-albanesi del cosentino. L’incontro tra gli studenti sandemetresi e greci è avvenuto ad Atene nel corso di un viaggio di istruzione di cinque giorni che ha toccato i luoghi  più significativi della Grecia classica. Il preside della scuola ospite, Koltsidas Velissarios, nel dare il benvenuto agli studenti italiani ha  espresso il personale compiacimento per l’iniziativa, mentre la dirigente del Liceo, Concetta Smeriglio, oltre a sottolineare i forti e antichi vincoli che legano la Calabria alla Grecia, in particolare S. Demetrio, la cui specificazione trae origine dalla città greca di Koroni, ha lanciato la proposta di istituire borse di studio per  i giovani greci intenzionati a studiare nel Liceo sandemetrese. Canti e danze in greco e in albanese hanno completato la visita conclusasi con un  buffet a base di prodotti tipici del posto.

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Protetto: TEK MERR E NËNG VË NËNG QUËNDRON FAREJË

Posted on 06 aprile 2014 by admin

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Protetto: SHESHI DÌ ZIA CLEMENTINA È QUELLO CHE PORTA ANCORA I SEGNI DELLE SUE LACRIME.

Posted on 31 marzo 2014 by admin

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Protetto: IL PROGETTO ARCHITETTONICO

Posted on 22 marzo 2014 by admin

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LE CARENE DI PIANETTE

Posted on 01 marzo 2014 by admin

ARBERIA MADENAPOLI (di Atanasio Pizzi) – Dovessi trarre le conclusioni e depositare un briciolo di certezze sugli arbëreshë secondo le teorie degli eminenti cultori, il risultato più ovvio cui  addivenire sarebbe che i minori non sono mai esistiti, anche se in consistenti macchie del territorio del sud Italia, una lingua alloctona pur si parla.

La spasmodica ricerca di un filone nobiliare, l’irrequietezza di dover cercare il documento archivistico e bibliografico dove sia testualmente trattato ogni tipo di argomentazione ha reso la storia dei minori, fragile, labile e ordinata secondo il vento che soffia.

Una comunità che si è affidata esclusivamente nella “sola” forma orale, quali verità può aver conservato nei meandri degli archivi o nei trattati della storia se non un personale punto di vista dello scrivano di turno, che non faceva certo gli interessi dei poveri e ignari esuli analfabeti.

Un popolo chiuso all’interno dei propri ambiti di famiglia allargata, non sapeva né leggere e né scrivere, cosa può aver lasciato nei grandi testi archivistici se non le capitolazioni unilaterali, che di conseguenza non sono state mai rispettate perché non comprese.

È chiaro che fare ricerca in maniera errata e per opera d’inesperti raccoglitori ha prodotto tante imprecisioni, che non si allineano neanche agli eventi più elementari della storia italiana.

Un esercito fatto di Agricoltori, Manovali, Farmacisti, Pensionati, Prelati, Calciatori, Barbieri, Ortolani, Pescatori, Carpentieri, Precari, rappresenta una scolaresca disomogenea che solamente la guida di un buon maestro poteva rendere proficua attraverso la formazione di gruppi di lavoro, ma la caratteristica egocentrica dei minori, non ha mai lasciato spazio a utopie simili.

Purtroppo il modo di operare nell’ombra immaginando di produrre chissà cosa ha reso ancor più buia la genuinità delle gesta minoritarie.

Il patrimonio culturale arbëreshë è depositato all’interno del perimetro dei piccoli paesi, è li che va ricercato, i katùndi contengono ogni piccolo frammento, per questo devono essere protetti e tenuti vivi in quanto archivi-librerie a cielo aperto, pagine di storia che si materializzano nelle strade, nelle piazze, nelle case, nelle chiese e in ogni piccolo frammento leggibile, purtroppo,  solo per esperti e titolati ricercatori.

Sono stati molti gli avventurieri che hanno provato a cimentarsi in questa difficilissima disciplina producendo gravi danni, perché hanno divulgato materiale scrittografico che è stato introdotto nei circuiti della diffusione libraria, senza avere scrupolo delle ferite che essi e gli amministratori avrebbero inflitto al patrimonio materiale e immateriale manomesso.

Questo è un danno biologico che tutta la comunità arbëreshë ha subito, se non si pone rimedio all’inadeguatezza storica, urbana, architettonica, religiosa, consuetudinaria e folcloristica degli ambiti albanofoni, avremo un decadimento che conduce inesorabilmente all’estinzione entro il decennio in corso.

Quanto detto, trova conferme nelle manifestazioni, negli appuntamenti storici della tradizione minoritaria e in maniera più clamorosa nella realizzazione della meglio identificabile Carene di Pianette .

Non è concepibile che con tanta facilità si possa vendere per minoritario albanofono la realizzazione di un intero paese di chiara matrice algerina (Vedere Touggourt Oase) o indagare negli ambiti del versante calabrese della mula, accompagnati da figure mitiche egiziane (lo scriba, il traduttore e il medico condotto), questo modo di produrre architettura arbëreshë, offende la cultura dell’etnia che fonda le sue radici nella sola  forma oral-consuetudinaria.

Ritengo che personaggi alloctoni non possano dare lezione di gjitonia, immaginando che ponendola come titolo di un progetto, possa addormentare le nostre menti; che fino a prova contraria, sono tra le più preposte a ricordare e produrre modelli che vivono in Italia dal XV secolo e che appartengono al patrimoni genetico delle genti di matrice balcanica.

La gjitonia, “dove vedo e dove sento”, intesa dagli alloctoni come il luogo dove vedo e dove sento, è stato interpretato, a torto, come un luogo fisico riconducibile a una piazza a una strada o  spazio toponomizzato, nulla di più errato poteva avere interpretazione, giacché, la gjitonia è il luogo dei cinque sensi e di solidissimi sentimenti; essi non sono riconducibili a un luogo fisico ma solamente ai valori personali e interpersonali: è spontaneo chiedersi che cosa volevano inventare i progettisti delle Carene di Pianette, depositando all’interno del manufatto urbano le Gjitonie?

Queste inesattezze, comunque, vanno anche ricercate tra le pieghe della legge 482 del 1999, che invece di favorire la ricerca dei veri elementi attribuibili ai minoritari, ha innescato il movimento delle grandi masse migratorie verso gli archivi e le biblioteche dove l’attività principale si è rivelata essere stata quella di setacciare i fiumi di documenti alla ricerca della pepita perfetta da brandire, dissociandoli così dal territorio.

È opportuno che si ponga rimedio a tutto ciò al fine di non ricadere nell’incauta esperienze dove si è cercato di mercanteggiare un prezioso cameo, con uno nuovo, fatto di materiali sintetici, che sottoposto all’esposizione degli eventi naturali, non darà il benessere atteso.

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Commemorazione dei defunti 2014

Posted on 22 febbraio 2014 by admin

BENEDIZIONE DEL GRANO ALL'APERTO 2014SANDEMETRIO CORONE (di Adriano Mazziotti) – Commemorazione dei defunti all’insegna della tradizione e del rinnovamento. Nei rioni via Termopili e Croci la benedizione del grano bollito in suffragio dei defunti da parte del parroco è avvenuta per la prima volta all’aperto. Oltre a preparare il tradizionale desco imbandito dei simboli sacramentali propri della suggestiva cerimonia, quali la bottiglia di vino,  due pani  e i collivi, i residenti dei  due rioni  hanno amorevolmente esposto le foto dei propri cari scomparsi di recente e molti anni or sono. Una benedizione collettiva. Molto sentita, velata da profonda tristezza e palpabile commozione nel ricordo delle  tante persone che hanno lasciato questo mondo per sempre. Un vortice di emozioni per  i pochi residenti rimasti e per chi è cresciuto nel microcosmo della gjitonia di una volta, fatto di forte socialità e condivisione, saldi vincoli amichevoli e di solidarietà reciproca.     

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KAIVERICI I VJETER UNA LEZIONE DI GJITONIA

Posted on 02 febbraio 2014 by admin

KAIVERICI UNA LEZIONE DI GJITONIA NAPOLI (di Atanasio Pizzi) – L’enciclopedia Treccani descrive gli Stati Generali come l’assemblea dei rappresentanti dei 3 ordini o Stati (clero, nobiltà e ‘terzo Stato’, ossia la borghesia), prima della Rivoluzione nel Regno francese.

Volendo accumunare questi sostantivi agli albanofoni odierni, sarebbe identificabile rispettivamente nel clero, nei letterati e nei cultori.

Tutti uniti dal legame di sangue albanese, per esaltare i propri diritti della Legge del 15 Dicembre 1999, n. 482,che ha moltiplicato come per miracolo storico il numero dei grecanici a scapito degli albanofoni, così anche quando si promuove il ricordo di luminari o  la realizzazione di sagre ed eventi tra i più disparati; in questi casi  pronti a dare battaglia sotto la bandiera bicipite, in favore dei valori caratteristici della minoranza.

Purtroppo lo stesso entusiasmo e gli stessi principi, con molto dispiacere, nei giorni scorsi  non li ho riscontrati nel leggere le relazioni della conferenza di servizi che ha riunito i vertici della regione Calabria, della Provincia di Cosenza e del Comune per la delocalizzazione del centro albanofono di Kaiverici i vjeter.

Dalla diffusione della notizia dell’evento franoso, alla realizzazione del progetto, sono trascorsi oltre otto anni, nessuno degli Stati Generali, Associazioni, Proloco o liberi movimenti atti alla valorizzazione delle pertinenze albanofone, ha sprecato una parola, nonostante gli organi di informazione e i prodotti messi a stampa ci informavano che c’èra la volontà di costruire un intero paese albanofono, delocalizzandolo dal suo vecchio sito, depositando al suo interno la Gjitonia (?) e non una ma, addirittura, cinque (?).

A questo punto due sono le domande che è legittimo porsi; o nessuno ha consapevolezza di che cosa sia la gjitonia; oppure la volontà di difesa e valorizzazione delle pertinenze è solo un sentimento platonico.

Vero è che tanti arbëreshë, quanto si contano nelle dita di una mano, sono stati costretti, nonostante minoranza linguistica, ad addossarsi la croce sostenendosi esclusivamente negli ideali arbëri, depositati nel loro piccolo agglomerato da cui erano stati allontanati.

Oggi nonostante una sentenza abbia dato a loro ragione, i perseguitati albanofoni, rimangono ancora da soli e nessuno supporta le loro ragioni che affondano le radici in quei dettami identici a quelli di tanti paesi minoritari della Calabria, della Sicilia, del Molise della Puglia e di Lucania, che potrebbero vivere lo stesso trauma sociale.

Da nessuna di queste regioni i discendenti del Kanun o dei Koronei ha soffiato un alito di vento a sostegno dei valorosi abitanti di Kaiverici i vjeter.

Questi ultimi rappresentano l’esempio moderno della vera arberia, armati di una grande forza di volontà hanno difeso la storia di noi tutti (per coloro che non lo sanno, questa è l’originario significato della gjitonia), salvaguardando il modello sub urbano arbëreshë e non solo.

I valori di appartenenza sono gli stessi che nel quattrocento indussero il Kastriota alla guida del piccolo esercito di Albanesi a impartire dure lezioni a chi metteva a rischio gli stessi principi della fratellanza albanofona.

http://www.amatelarchitettura.com/2014/01/cavallerizzo-la-legge-e-legge-ma-solo-se-ce-la-deroga/comment-page-1/#comment-5672

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QUALE RECUPERO DELLA TRADIZIONE?

Posted on 25 gennaio 2014 by admin

ConseguenzaNAPOLI (di Atanasio Pizzi) – Conseguentemente ai palesi, ma non ancora del tutto redenti, errori nell’utilizzare in modo improprio il patrimonio minoritario, si cerca di rime­diare ripiegando l’interesse verso proposte all’insegna del recupero della tradizione.

Due termini antitetici di cui a ben vedere: il Recuperare, esprime le gesta del rivitalizzare, rimettere in funzione o semplicemente rispolverare ciò che è stato dismesso; la Tradizione invece è il filo ininterrotto che unisce le conoscenze al passato, senza soluzioni di continuità.

Come si può recuperare la continuità storica, se coloro che la devono salvaguardare, non sanno riconoscere le azioni delle esperienze tramandate dissociandole dalle aliene contaminazioni?

Il recupero, segna il cambio di tendenza e di gusto individuabili nel:

–          Determinarsi di una nuova etnia che è interessata non più a sé stessa, ma al fenomeno;

–          Deter­minarsi di un nuovo concetto di storia distaccata dal passato e che traccia il trapasso da storia-racconto a storia-problema;

–          svilupparsi dei nuovi processi sociali legati alle innovazioni tecnologiche.

Ora, mentre l’ultimo punto è senz’altro chiaro, molti più dettagli occorrono per comprendere gli altri due.

Il termine tradizione deriva dal latino e significa consegna di una cosa ad altri, e quindi anche trasmissione attraverso il tempo di nozio­ni e ricordi, in forma raccontata e vissuta, come avviene per le minoranze nel meridione.

La consegna di un’eredità consuetudinaria, come nel caso degli arbëreshë, implica, la contemporanea pre­senza di chi riceve e chi da; il racconto orale, non può avveni­re altrimenti, che con la partecipazione all’azione vivendola e raccogliendone tutti gli aspetti caratterizzanti.

Chi narra è sullo stesso piano di chi ascolta: entrambi usano lo stesso linguaggio, entrambi partecipano al fatto, entrambi possono provare e riprovare ciò che hanno appreso perché i mezzi, le gesta e il fine a loro disposizione è comune.

Questo indica palesemente quali siano stati i precursori principali, del secolo scorso, che hanno dato avvio al processo di degrado del modello sociale legato alla consuetudine.

La tradizione, allora, implica contatto diretto tra chi tramanda e chi apprende il processo, affinché vada a buon fine, richiede che le due sfere coinvolte appartengano all’etnia, parlino la stessa lingua e abbiano cognizione dei dettami di patrimonio.

La tradizione non è altro che la trasmissione dell’espe­rienza, vincolata a regole ferree, per cui l’attendibilità del messag­gio e regolata dall’appartenenza del comunicatore e dell’ascoltatore, il buon fine delle consegne da tramandare, avviene se il maestro che trasmette il messaggio e l’allievo che ascolta si prefiggono comuni intenti.

Appare evidente che il sapere ha una diffusione lineare, da padre in figlio, senza intromissioni o ricerche di conferme è cosa ben diversa lo sperimentare, che per aver valore, ha bisogno di essere condivisa perché non è attendibile.

Stando a queste inconfutabili interpretazioni, la tradizione ha avuto una prima aggressione proprio dalla diffusa sperimentazione, legato, poi, al discorso della divulgazione che è racchiuso nella seconda affermazione; il passaggio da storia-racconto a storia-problema.

Il passaggio dell’esperienza all’esperimento implica anche un largo coinvolgimento di soggetti ammessi a parteci­pare alla narrazione attraverso il racconto scritto, in cui tutti possono prendere parte al  evento di sperimentazione, non come attori, ma come spettatori e quindi l’idea moderna di storia basata sull’oggettività del fatto.

E per rag­giungere tale livello di obiettività è necessario presupporre un distacco dall’evento descritto, una non partecipazione a esso.

La trasmissione di questi saperi sono per lo storico come dei fenomeni, con la nuova idea di storia, non interessano la cose, ma gli effetti.

La storia continua a esser fatta di racconti, ma l’oggetto della narrazione non è più l’evento vissuto in prima persona, piuttosto è il fatto, il documento.

La storia è la forma scientifica di memo­ria collettiva, ciò vuol dire, che una cosa è il dato materiale, un’altra è il racconto che scien­tificamente è redatto per produrre testimonianza imperitura.

Va oltremodo affermato che il passaggio di consegne da una generazione a quella successiva avviene sia per gli ambiti materiali che per quelli immateriali, due aspetti inscindibili e univocamente commessi gli uni dagli altri.

Stando a questo dato fondamentale, infatti, non avrebbe più senso parlare di conservazione del manufatto in senso generale o salvaguardarne il dato documentale o narrativo; tutela fisica del manufatto, ma anche adoperarsi a proteggere il dato, documentale.

Purtroppo riguardo queste condizione si cerca di ottenere molte notizie e riempire gli archivi, le biblioteche, con monumenti di carta, fotografie e incomprensibili prodotti scrittografici, prestando in questo modo il fianco ai restauri moder­ni utilizzando in maniera incauta, metodiche non in linea con le abitudini locali.

A che serve allora conservare il dato narrativo se poi il monumento, la strada o l’anfratto, sono oggetto delle più clamorose e anomale manomissioni?

Basti pensare ai restauri condotti durante tutti gli anni Ottanta con la sostituzione di parti degradate di edifici, con materiali seriali di produzione industriale, impiegati come panacea a qualunque tipo di causa ammalorante, producendo in questo modo la perdita di una moltitudine di soluzioni storiche e quindi anche della perdita del significato materico, architettonico  e strutturale.

Un esempio per tutti, che poi è quello più appariscente, s’individua nell’utilizzo dei nuovi intonaci derivati da sintesi industriale.

La diffusa pratica, ogni volta che si è intervenuto su di un manufatto, ha prodotto lo scarnificare degli strati d’into­naco a calce esistente, sostituiti con intonaci cementizi, con la relativa stesura superiore di tinte al quarzo o ai sili­cati, provocando danni irreparabili alla stessa statica degli edifici, in quanto l’alieno strato di intonaco non ha permesso alla muratura sottostante l’idonea traspirazione, di conseguenza, l’umidità in esso contenuta ha dato avvio al processo di ammaloramento del nuovo intonaco e il distacco della pellicola di pigmento.

Gli esempi messi a frutto negli ultimi decenni sono tanti e molte volte hanno messo a rischio la statica degli stessi edifici che in apparenza possono sembrare in ottimo stato, ma nelle parti più intime della statica e del loro valore storico sono stati gravemente compromessi.

La tendenza delle istituzioni e specialmente nel meridione, cerca di imporre modelli di nuova concezione che diano almeno conforto alla statica degli edifici storici, ma la piaga prodotta è troppo devastante, per cui si preferisce sottacere, augurandosi che non accada mai quello che hanno visto protagoniste le murature d’Abruzzo, nell’evento sismico del 2009 quando le nudità murarie orizzontali e verticali ha messo in evidenza quanta e quale incoscienza era stata operata in quegli ambiti.

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CI HA LASCIATO LO SPECIALISTA DELLA STORIA DELLE STRADE CHE MISE IN LUCE IL VALORE DELL’INGEGNERE ARBËRESHË LUIGI GIURA.

Posted on 20 gennaio 2014 by admin

Aldo Di BiasioNAPOLI (di Atanasio Pizzi) – Il prof.Aldo Di Biasio ha pubblicato la prima parte del poderoso articolo sull’ultimo numero di “Storie di posta” con il concetto che: La rete stradale resta vincolata alle necessità e alle esigenze dei singoli Stati, ma l’inizio del Risorgimento, che data nel secondo Settecento, pone il problema dell’Unità italiana anche nella cartografia, benché per la verità gli atlanti abbiano sempre presentato l’Italia nei suoi confini naturali, purtroppo lo studio raffinato condotto in maniera esemplare rimarrà incompleto, poiché l’autore è scomparso prematuramente.

Specialista delle dinamiche sociali politiche e di rilancio economico che ha interessato la storia del meridione, con entusiasmo e puntigliosa professionalità, conosceva ogni piccolo dettaglio bibliografico e archivistico delle sue ricerche.

Da poco tempo in pensione, lavorava ininterrottamente al proseguimento, della storia dell’Ottocento, attraverso la questione meridionale, essendo un ottimo conoscitore del periodo napoleonico, studiava e approfondiva, attraverso l’utilizzo del territorio, la realizzazione e la fruibilità delle strade, gli aspetti politici e sociali che questi percorsi producevano allo sviluppo economico dell’Italia.

Orgoglioso di vivere a pochi passi dall’antica via Appia e dalla stazione di posta del Garigliano, oggi è l’area dove il primo il ponte a catenarie continua a collegare l’antico regno di Napoli con in resto dell’Italia e di cui il professore conosceva ogni piccolo dettaglio sia del ponte sia delle zone agricole ad esso adiacenti.

Autore di molti libri e pubblicazioni che riferiscono della storia del Mezzogiorno, attraverso la comunicazione, l’economia, l’amministrazione, l’agricoltura oltre alle dinamiche politiche che portarono alla realizzazione di strade e ferrovie.

In termini di crescita del nostro sapere, restano fondamentali per noi i numerosi riferimenti bibliografici che ci ha lasciato in eredità, un raffinato studioso, capace nei suoi interventi pubblici di ricordare i titoli e gli autori le pagine dei libri da cui elaborava le sue conclusioni, che arricchiva con innumerevoli e inediti aneddoti.

Sapeva essere severo al momento giusto, ma ciò che più lo caratterizzava era la sua innata capacità di analisi e di leale confronto che doveva camminare solamente nella strada della lealtà e del rispetto, sempre pronto ad aiutare e collaborare per la ricerca della verità storica di questa nostra nazione.

Professore associato di Storia moderna nella Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Napoli L’Orientale ha insegnato Storia d’Europa presso la Seconda Università Partenopea.

Gli studi da me condotti sul Luigi Giura mi hanno dato l’opportunità di conoscerlo nel giugno del 2010, da allora questo luminare senza eguali, mi ha dato la possibilità di reperire e confrontare materiale indispensabile per la storia della comunità albanofona.

Nato a Latina il 29 luglio 1947, ci ha lasciato materialmente la sera del due di gennaio, ma il suo sorriso, l’entusiasmo e la sua passione illumineranno sempre le strade dello sviluppo e della conoscenza, sicuri di averlo sempre al nostro fianco.

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Protetto: L’ARBERIA OGGI: DISCORSO SULLA SOSTENIBILITÀ ETNICA (nëng qëndroi faregjë)

Posted on 12 gennaio 2014 by admin

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