Posted on 06 gennaio 2014 by admin
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Posted on 29 dicembre 2013 by admin
NAPOLI (di Atanasio Pizzi) – L’arberia fonda la propria esistenza su due elementi che la rendono particolarmente affascinante; il reale, riconducibile a tutto quello che appare, attraverso le innumerevoli manifestazioni viziate atte a dilapidare certezze; l’altro aspetto irreale, rappresenta l’essenza pura difficile da interpretare, quindi di non facile manomissione, riconducibile nei tanti gesti, riti, e consuetudini della millenaria storia arbëreshë.
Due aspetti che coabitano e mantengono in vita la minoranza; facce della stessa medaglia, che portano, incise le diffuse favole della sua storia, da una parte e dall’altra, la matrice che con garbo tramanda solidi valori.
Arberia, trattato di vita, regola, teorema, funzione dell’anno solare; respirati, avvertiti e vissuti solo da chi conosce l’essenza di questo popolo.
Aspetti della metrica del canto, che da un lato consuma le cose materiali e dall’altra difende le cose immateriali.
Sono stati tanti quelli che, a vario titolo, hanno cercato di riassumere per grandi linee o con veri e propri trattati, la storia degli albanofoni ma senza mai venirne a capo in maniera decente, come pure è vastissimo lo scenario di chi ha copiato e divulgato frammenti di storia senza alcun ragionevole confronto con le realtà contigue.
Vero è che a oggi le uniche informazioni che possano ritenersi tali e fungere come riferimento per le caratteristiche sociali e abitudinarie della comunità arbëreshë sono: Il Discorso Sugli Albanesi pubblicato nel 1807, i di cui manoscritti sono stati realizzati dal 1765 al 1799 e conservati nello studio di via San Sebastiano in quelle che si individuavano come le case dei Correale; le emergenze architettoniche ancora in vita; e Il Kanun, che in forma scritta, lo si trova per la prima volta nel XV secolo, formatosi sull’iniziativa di Leke Dukagjini;.
Questi sono trattati di largo spessore per l’etnia perché forniscono la condizione degli arbëreshë sparsi nei territori del regno partenopeo e quella degli albanesi in terra d’origine.
Leggendoli con attenzione, si possono cogliere le tappe sociali e lo stato in cui vissero gli albanesi, da queste si possono trarre le certezze su quale sia stato il percorso che ha reso possibile la permanenza, l’integrazione, e la salvaguardia dell’idioma degli arbëreshë nei territori ritrovati.
L’Arberia è da ritenersi una regione che fonda la propria diversità nella linguistica, nella religione e nel consuetudinario nonostante il continuo confrontarsi con le realtà indigene e quelle dominanti.
Tutto ha inizio con l’instabilità politica sociale e religiosa dei territori di origine, individuati come il crocevia delle diaspore dell’est Europa, questa costrinse gli albanesi a continue migrazioni, prima negli ambiti della stessa Albania e poi in approdi extra territoriali.
Alla fine del XV secolo, la politica, identificabile nei buoni rapporti di Giorgio Kastriota con i regnanti partenopei; la religione, di rito Greco-Bizantina, radicata nel meridionale bizantino riconducibile ai presidi del rossanese; il parallelismo orografico dei territori collinari, furono i motivi trainanti della scelta di abbandonare le terre natie e dirigersi verso il meridione d’Italia.
Gli Arbëreshë approdati nelle rive della sibaritide si avviarono verso le zone collinari dell’interno, nei territori dai Principi Sanseverino di Bisignano e s’impegnarono con tutte le risorse che li rendevano unici nel rapporto mutualistico con il territorio e simili a quelli Albanesi.
I compiti loro assegnati nelle prime capitolazioni, di cui rimangono rare tracce, secondo regie disposizioni miravano innanzitutto a segnare il territorio, con il fine di inviare un segnale netto ai pirati che incrociavano lungo le coste dello Jonio.
In questa prima fase, gli arbëreshë, si adoperarono anche a bonificare un territorio impervio, privo di strade, devastato dagli innumerevoli corsi fluviali, paludoso nelle aree estensive e per una moltitudine di calamità naturali, reso improduttivo, in fine misero a dimora produzioni intensive.
Il periodo in cui gli albanofoni assunsero l’onere di assolvere queste due emergenze, viene erroneamente ricordato come la fuga dalle gabelle, della delimitazione urbana, del basto e delle intercessioni della figlia del Kastriota con il governo partenopeo.
In questo intervallo storico i Sanseverino di Bisignano ristabilirono il controllo del territorio dalle incursioni e nello stesso tempo venne instaurato l’ideale mutualistico rapporto di cooperazione con gli ambiti intensivi che vennero messi in produzione.
Richiesto e ottenuto, attorno al 1538 l’integrazione di nuove capitolazioni, il permesso di costruire case in pietra, gli arbëreshë innalzando le modeste dimore all’interno dei loro presidi recintati, dando inizio d’ora in avanti, allo sgretolamento della solida cellula familiare allargata, in quello spazio che l’aveva sempre protetta; sheshi.
A metà del secolo XVI, quando i principi Sanseverino di Bisignano avviarono il processo di rilancio dei loro territori, dopo la carestia e la peste, i terremoti che avevano sterminato gran parte della popolazione, nei paesi che diverranno i luoghi albanofoni, si contavano non più di una casa in muratura per ogni casale e non superando neanche la cinquantina, i casali minoritari, il territorio sicuramente appariva naturale e incontaminato.
Più che luoghi costruiti essi rappresentavano luoghi di aggregazione, in cui il riferimento edilizio era rappresentata dall’unica Kaliva in muratura, dalla chiesa e dalle capanne in paglia, vista l’estensione del territorio di riferimento si può facilmente dedurre l’irrilevante presenza del costruito rispetto al paesaggio naturale .
La caratteristica dei nuovi abituri di origine albanofona era rappresentata dal gruppo famigliare allargato che costruiva e modificava il territorio in maniera diffusa, insediandosi secondo schemi prestabiliti, nei tre ambiti della Calabria citeriore e precisamente quelli collinari della Sila Greca, del Pollino e della Mula che abbracciavano le valli dell’Esaro e del Crati.
Il visitatore odierno, di quel grande vuoto edilizio non può certo avere percezione, anche perché per cinquecento anni, sino al rilancio economico degli anni, sessanta, in queste aree si sono evoluti, modelli abitativi funzionali all’economia del territorio e nella più assoluta conformità di materiali, tecniche e tipologie edilizie.
Il rilancio del modello industriale e la differenziale capacità economica tra il nord e il sud dell’Italia sono diventati la spia di una crisi più generale del rapporto tra le comunità e il loro spazio di vita.
Un processo così capillare da apparire inarrestabile, verso il quale nessuna istituzione pone rimedio, ormai, così diffuso e radicato da costituire una grande metafora della crisi più generale e complessiva della Calabria interna.
A fronte di ciò, gli ultimi censimenti ci raccontano di un vero diluvio di case, questa volta nuove, per lo più grandi, isolate e disperse nelle periferie dei villaggi, quanto le vecchie erano accentrate e compatte, estranee per forma e sostanza costruttiva al loro contesto, tanto quanto le precedenti erano pensate e costruite sulla misura locale.
Assistiamo così al paradosso storico di paesi minoritari che crescono mentre si svuotano, che aggiungono case a case, occupando gli orti periurbani mentre la gente se ne va.
Il recinto e lo spazio vuoto tendono a contrarsi a vantaggio del pieno rappresentato dalla cellula edilizia.
Lo spostarsi dell’equilibrio dalla proto-industria all’industria determina distinzioni più nette tra spazio della produzione e luoghi della trasformazione e del consumo domestico.
Le attività direttamente produttive non abitano in questi territori, né chi siede a capo delle comunità, è in grado di produrre progetti solidi, mirati ad avere un senso compiuto.
Un giorno si decide, irresponsabilmente, di svendere i propri ambiti, poi si rubano idee a coloro che di questa etnia hanno una lucida visione conservativa e allora si decide di realizzare: gli alberghi diffusi, rilanciandoli privi di progetti che abbiano solida applicazione e in linea con la storia d’ambito.
Rendere noti e fruibili i propri contesti, attraverso elementi che hanno fatto la storia dei minoritari come ad esempio, il recinto, in cui emerge la cellula abitativa, la casa come fabbricato, in cui far rivivere frammenti di vita, farebbe rivivere le essenze più intime d’arberia.
Il momento storico che viviamo va vissuto utilizzando al meglio tutte le risorse della diversità culturale a nostra disposizione, nulla può essere attuato senza progetti, essi non devono contenere chissà quali caratteristiche speciali, infatti, l’importante che abbiano quei piccoli segni della tradizione albanofona.
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Posted on 19 dicembre 2013 by admin
BARILE (di Lorenzo Zolfo) – L’associazione nazionale Europassione per l’Italia è stata ricevuta in udienza da Papa Francesco lo scorso 18 dicembre alle 10,30 in una piazza San Pietro gremita da migliaia e migliaia di persone. L’associazione nazionale Europassione per l’Italia, nata nel 2005, raccoglie oltre 30 associazioni su tutto il territorio nazionale che mettono in scena la Passione di Cristo con lo scopo di divulgare il messaggio di Gesù e far meglio conoscere le pagine più significative del Vangelo. E’ un’associazione senza fini di lucro e coordina le iniziative dei suoi membri per meglio rappresentare la forte tradizione italiana della sacra rappresentazione in ambiente europeo, aderendo a sua volta all’Europassione internazionale. La via Crucis di Barile e’ socio fondatore di questa organizzazione nazionale che sta presentando anche la propria candidatura per il riconoscimento della Passione di Cristo come buona pratica di salvaguardia per il prestigioso riconoscimento Unesco. La comunita’ barilese da oltre 400 anni mette in scena la passione di Cristo, considerata la più antica del Sud Italia era presente a Roma con una folta delegazione ( accompagnata dal parroco don Tommy, dal presidente della Sacra Rappresentazione della Via Crucis, Angioletta D’Andrea e dal socio, Francesco Di Tolve che ha svolto l’importante compito di recuperare i biglietti di ingresso a S.Pietro) per testimoniare a distanza di trenta anni dalla rappresentazione in piazza San Pietro della nostra passione davanti a Papa Giovanni Paolo II,l’attaccamento che i barilesi hanno alla propria passione e l’autentico valore di fede che questa rappresenta. In quell’occasione Papa Woytila si complimentò: “carissimi, mi compiaccio per la vostra tradizione ed auspico di cuore che la meditazione della Passione di Cristo sia invito a corrispondere generosamente alla grazia divina e a vivere con coerenza la vocazione cristiana”.Dalla Basilicata era presente anche la delegazione di Oppido Lucano che ogni due anni mette in scena la Passione di Cristo e che fa parte anch’essa di Europassione per l’Italia. “E’ stato un momento di grande commozione e partecipazione per tutti- riferisce Gianluca Paternoster, vicario e responsabile ufficio stampa di Europassione-per quello che rappresenta per ciascuno di noi Papa Francesco per il suo messaggio semplice,autentico e diretto al cuore come quello che Cristo ha mandato attraverso la sua Passione. Ancora una volta la tradizione popolare e la fede si uniscono nel rappresentare in modo semplice il piu’ bel messaggio che Cristo ci ha lasciato. Grazie Papa Francesco per aver dato voce a chi come noi crede che la rappresentazione della Passione di Cristo sia un autentico valore di fede”. Tra i presenti del gruppo di Barile, molti rappresenteranno personaggi biblici nella prossima Via Crucis 2014.Tra questi, Emilio D’Andrea, scrittore e giornalista, che probabilmente vestirà i panni di Pilato nella prossima Via Crucis: “Siamo partiti in piena notte con a bordo personaggi, organizzatori, famiglie e bambini: tutti uniti dalla fede in Cristo e dalla gioia di salutare l’amato Francesco, il Papa di tutti. Una mite giornata di sole, anche se nelle prime ore caratterizzata da un freddo pungente, che non ha smorzato l’entusiasmo nè voglia di partecipazione. Siamo una comunità devota alla Chiesa e ai valori Cristiani, oltre all’orgoglio delle proprie radici e delle proprie tradizioni, fra cui la significativa ed importante Sacra Rappresentazione del Venerdì Santo, che da oltre quattrocento anni si svolge a Barile nel periodo pasquale con i suoi circa cento venti personaggi viventi”.
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Posted on 16 dicembre 2013 by admin
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Posted on 12 dicembre 2013 by admin
NAPOLI (di Atanasio Pizzi) – Ritengo che ottimizzare il titolo suddetto, basterebbe aggiungere la sostenibilità ambientale e materica, per realizzare il quadro di un’isola, in cui gli elementi del costruito e del non costruito seguono un percorso storico affine alle tradizioni e il gioco è fatto.
Ambiti conservati e valorizzati, secondo i dettami del buon restauro consentirebbero di possedere in maniera chiara e indelebile il percorso del patrimonio linguistica-consuetudinaria dell’etnia distribuito in maniera morigerata sul territorio.
Progetti messi in atto su basi certe e storicamente verificate, inseriti negli ambiti identificabili della minoranza, avrebbero potuto e dovuto rendere gli agglomerati, quelle isole felici che oggi si millanta di aver realizzato.
Purtroppo l’inadeguatezza politica, formatasi in questi anfratti collinari, l’incapacità di usare le tecnologie e la poca formazione storica dei tecnici, che hanno operato in questi ambiti, ha trasformato la sostenibilità di questi gioielli di architettura minore in cumuli e spianate architettoniche al pari dei presidi commerciali, con la differenza sostanziale del ritorno economico, che per i minoritari è un miraggio.
Invece di valorizzare e incoraggiare il turismo attraverso la diversità linguistica, storica e il modello consuetudinario, si volge lo sguardo verso politiche razziali o di edilizia fallimentare, senza tenere in conto l’economia sociale, il fine indispensabile cui giungere attraverso il rilancio delle tante eccellenze irresponsabilmente dissociate negli ambiti della regione minoritaria.
Oggi chi si reca in questi ambiti, alternativa dei paesi indigeni, quali e quante cose potrebbero attrarre la sua attenzione per indurlo a fermarsi? Personalmente ritengo che siano pari allo zero.
Nulla appare perché valorizzato o messo in evidenza con garbo, quello che apparteneva una volta a tutta la comunità ed era visibile, adesso è prerogativa di pochi, questi ultimi, avvolti dalla nebbia dell’ignoranza e del personalismo, si adoperano ad accumulare, conservare e fare propria ogni cosa, senza rendersi conto che estrapolare dai contesti ogni manufatto perde sia il senso che il valore.
Negli ultimi decenni l’abitudine di depauperare gl’irripetibili anfratti, associato al danno provocato dalle opere pubbliche che invece di sopperire a questa manchevolezza, ha ulteriormente degradato gli ambiti, ha fatto in modo che la soglia della devastazione sia stata esageratamente superata.
Un detto tipico della dice: tek merr e nëng vë nëng quëndron faregjë; dove prendi e non metti non rimarrà più niente, oggi siamo arrivati a questo dato di fatto.
Purtroppo ormai da troppo tempo si prende senza depositare mai nulla di concreto che possa ritenersi in linea con la storia, le abitudini e il vivere dei minori, la tendenza è di attingere distruggere, senza ripristinare gli antichissimi dettami secondo una logica storica comprovata.
Niente è legato coerentemente a un filo di storia, unico riferimento certo sono solo le annotazioni dei viaggiatori che dal settecento in poi hanno visitato in lungo e in largo questi borghi del sud; illustri, nobili e signori, tutti attratti dalle vicende storiche, venivano a documentare e rilevare le caratteristiche autoctone di questi ambiti che furono anche i luoghi natii di famosi letterati e scienziati dell’epoca.
Oggi non è più concepibile né ci possiamo permettere a inventare arcipelaghi minoritari, per poi sprecare le risorse affidandosi a inappropriati tecnici; magari bravi ad arredare la casa della signora Cuccurullo, tirare le somme di un computo metrico o tracciare le linee irrigue di un orto.
Non servono queste competenze se poi delle vicende minoritarie, attenendoci a quanto esposto, non lasciano alcun dubbio sulla inadeguatezza nello svolgere i temi di progetto giacché culturalmente impreparati.
Non si possono confondere le gjitonie con piazze collocate in altri ambiti, né ritenere che “la riqualificazione, caratteristica d’ambito va recuperata” o immaginare che la difesa del patrimonio storico sartoriale, incautamente e imprudentemente accumulato in locali inadatti, si possa attuare progettando banalissime vetrine, il cui utilizzo, a breve sarà quello di essere adoperate quali contenitori per portare tutto in discarica.
Progetti che si accaniscono infilzando anonimi corpi illuminanti su quella che un tempo era la strada più antica del centro minore, cui per l’inadeguatezza culturale, dei preposti, è stato sostituito incautamente il toponimo, (il personale auspicio è quello che al più presto sia ripristinato).
Ritenere che gli spazi d’ambito detti Gjitonie, si presentano di forma irregolare e andrebbero regolarizzate è una forzatura storica a cui è giunto il tempo di dare un freno, già in occasione della tragedia che interessò un intero paese fu messa in atto tale vergognosa linea di attuazione progettuale che definire demenziale è dire poco, continuare a fare uso di questo linguaggio mettendo in opera lo stesso principio sarebbe come commettere un crimine.
Il mio augurio è quello che a lavori iniziati sia richiesta una variante in corso d’opera e possano essere invitati a partecipare nel gruppo di lavoro chi è in grado di illuminare i bui progetti sino a oggi attuati, evitando con la prassi di correzione, di rendere ancor più povera quella regione, che tutti affermano, a parole, di voler proteggere, ma che i fatti raccontano ben altro.
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Posted on 27 novembre 2013 by admin
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Posted on 26 novembre 2013 by admin
NAPOLI (di Atanasio Pizzi) – Enrico Cuccia nacque a Roma il 24 novembre 1907 da Pietro Beniamino e da Aurea Ragusa, il nonno paterno, Simone, era un noto avvocato siciliano di origini arbëreshë di Mezzojuso in provincia di Palermo, eletto in Parlamento dal 1882 per quattro successive legislature.
Il padre Beniamino, su consiglio e con l’appoggio influente di Guido Jung, agli inizi del secolo si trasferì a Roma, dove fu assunto al ministero delle Finanze.
Esperto di questioni fiscali e amministrative collaborò anche con, Il Messaggero, noto giornale romano allora controllato dall’Ansaldo dei fratelli Perrone.
Come la sorella, Enrico frequentò le scuole della capitale e terminato il liceo al Tasso e si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza, laureandosi col massimo dei voti nell’anno accademico 1929-30 sotto la guida di Cesare Vivanti con una tesi sui listini di Borsa e la speculazione.
È stato un banchiere italiano e rappresenta una delle figure di spicco della storia economico-finanziaria italiana del XX secolo.
Fu sposato con Idea Nuova Socialista Beneduce, figlia di Alberto, da cui ebbe tre figli, Beniamino, Auretta Noemi e Silvia Lucia.
Alla fine degli anni Venti la sua carriera iniziò con un triennio di tirocinio come cronista presso il Messaggero, che gli valse l’iscrizione all’albo dei giornalisti professionisti.
Nel 1930 fu assunto a Parigi nella Banca Sud-Ameris, nel 1931 era passato in Banca d’Italia, presso la rappresentanza di Londra; nel 1934 era stato chiamato all’IRI alla cui testa vi erano due personalità formidabili come Alberto Beneduce e Donato Menichella; nel 1936, fu inviato dal sottosegretariato per gli scambi e per le valute in Africa orientale italiana con l’incarico di creare le delegazioni del sottosegretariato e con quello informale di stroncare un traffico clandestino di valute.
Enrico Cuccia lavorò in Africa orientale italiana insieme al suo collega Giuseppe Ferlesch sotto le direttive di Alberto D’Agostino, capo della direzione generale delle valute e sottosegretariato, al vertice del quale c’era Felice Guarneri.
Il suo lavoro fu accolto favorevolmente in Italia e il 1 luglio 1937, ritornato in patria per qualche giorno, fu ricevuto insieme a Guarneri da Benito Mussolini, quell’incontro venne evidenziato da un articolo apparso sul Corriere della Sera , nel quale si leggeva che: Il Duce elogiava il dottor Cuccia per il lavoro compiuto in circostanze particolarmente difficili.
Si trattava di un segnale, sottinteso ma chiaro, destinato a chi premeditava di attentare all’incolumità di Cuccia e diretto al viceré d’Etiopia Rodolfo Graziani e al suo entourage che non avevano gradito le intromissioni del giovane funzionario in una gestione amministrativa che Cuccia sospettava fosse caratterizzata da gravi irregolarità finanziarie e da un’interessata tolleranza nei confronti dei trafficanti di valuta.
Nonostante la situazione disagiata e pericolosa nella quale visse durante il periodo di permanenza in Africa orientale, nonostante le difficoltà e gli ostacoli, Cuccia operò con grande serietà e severità, stilando relazioni tecniche precise ed esaustive che puntualmente inviava a D’Agostino, ricevendone indicazioni e incoraggiamenti continui.
Le sue capacità innate a questo tipo di lavoro lo portarono ad essere chiamato anche nelle fila, della Comit diretta da Raffaele Mattioli.
Durante la seconda guerra mondiale si recò spesso in Svizzera allo scopo di sostenere la Resistenza, per la quale operò anche da staffetta con la copertura fornitagli dal fatto di essere un funzionario di banca di alto livello.
Fino dal 1944, Enrico Cuccia seguì la vicenda di Mediobanca, quando Mattioli propose un “ente specializzato per i cosiddetti finanziamenti a medio termine, in sostanza, un modo per superare la legge bancaria del 1936.
In un convegno tenutosi nel 1986 Enrico Cuccia descrisse con precisione le difficoltà incontrate nella realizzazione del progetto, che aveva richiesto oltre 18 mesi di laboriose trattative, sia per trovare dei partner che accettassero di entrare nel capitale del nuovo istituto sia per superare le obiezioni di chi, come il governatore della Banca d’Italia Luigi Einaudi, temeva che dietro questo progetto vi fosse di fatto il ritorno della Comit alla struttura della banca mista: ecco perché Cuccia organizzò il lavoro dell’istituto che gli venne affidato da un lato senza fare a meno delle Bin azioniste, ma dall’altro lato tenendo le medesime largamente all’oscuro delle decisioni che la banca stava per prendere, apprendendole generalmente a cose fatte.
Il 3 novembre 1944 fece parte della delegazione italiana, composta tra gli altri da Egidio Ortona e Raffaele Mattioli, che si recò a Washington con l’obiettivo di richiedere al governo statunitense aiuti per la ricostruzione post-bellica italiana.
Nell’aprile 1946, Cuccia divenne il direttore generale della nuova società Mediobanca, posseduta da Credito Italiano, Comit e Banco di Roma. Nel 1949 diviene anche amministratore delegato.
Mediobanca fu costituita il 10 aprile del 1946. Il capitale di 1 miliardo di lire fu sottoscritto per il 35% dalla Banca Commerciale Italiana e dal Credito Italiano e per il restante 30% dal Banco di Roma, divenne in breve tempo il centro del mondo finanziario e politico italiano. Il caso più importante, tra le numerose grandi transazioni economico-finanziarie gestite da Cuccia e da Mediobanca, fu sicuramente la scalata alla Montedison di Giorgio Valerio da parte dell’ENI di Eugeni Cefis.
L’istituto costituì il perno di un sistema di alleanze, che attraverso partecipazioni incrociate e patti parasociali garantiva stabilità degli assetti proprietari dei maggiori gruppi industriali.
Un altro aspetto importante dell’azione di Cuccia fu l’apertura internazionale che avvenne nel 1955.
Nel suo viaggio statunitense del 1965 Antonio Maccanico ebbe modo di apprezzare la considerazione che si avesse a Wall Street per Enrico Cuccia, il cui nome era all’epoca in Italia quasi del tutto sconosciuto al di fuori della ristretta cerchia degli addetti ai lavori.
Nell’84, raggiunta l’età di 75 anni, l’IRI ne impose le dimissioni dalle cariche in Mediobanca. Ma dall’’88, dopo la privatizzazione dell’Istituto, fu nominato Presidente onorario e nel lungo periodo che va dal 1984 alla sua scomparsa, avvenuta a Milano il 23 giugno del 2000, Cuccia ebbe la fortuna di poter contare su due collaboratori straordinari, Salteri prima e poi Vincenzo Maranghi che erano cresciuti con lui e ne avevano assorbito gli insegnamenti, per cui, pur cessando dalla cura quotidiana di Mediobanca rimase pienamente inserito, fino alla sua morte, nei meccanismi decisionali della banca che aveva modellato con assoluta determinazione e di cui aveva fatto uno perno centrale nella vita economica italiana.
Per quanto riuscì a realizzare ottenne le seguenti onorificenze, il 2 giugno 1957 Grande ufficiale dell’Ordine e il 15 settembre 1966 Cavaliere di gran croce dell’Ordine al merito, entrambe, dalla Repubblica Italiana
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Posted on 23 novembre 2013 by admin
NAPOLI (di Atanasio Pizzi) – Ha avuto luogo nei giorni scorsi, nella Sala Consiliare della Provincia di Napoli, nel Complesso monumentale di Santa Maria La Nova, una tavola rotonda cui hanno partecipato amministratori Partenopei e Catalani della città di Barcellona, affiancati da eminenti architetti.
Il dibattito verteva sulle esperienze per la valorizzazione del territorio metropolitano, in particolar modo, quello della capitale Catalana che negli ultimi decenni è stata protagonista di uno sviluppo architettonico e urbanistico riconosciuto dalle istituzioni di tutta Europa.
Durante il dibattito, l’analisi fatta da un noto architetto partenopeo, ha messo in luce gli aspetti che hanno contribuito a ottenere risultati così brillanti.
Sono, gli stessi modelli a cui si potrebbe ipotizzare di adottare negli ambiti di quella che s’individua come la regione storica d’arberia, con il fine di dare solidità alle labili scelte che ormai da troppo tempo non offrono più riferimenti agli agglomerati urbani dalla minoranza.
I risultati ottenuti dai tecnici e dagli amministratori barcellonesi, fondano le proprie radici sul presupposto che non esistono ambiti di maggiore o minore interesse e che il progetto non è prerogativa di una sola parte della popolazione, giacché, solamente se essa viene da tutti condivisa attraverso manifestazioni ed eventi nel corso dell’iter dall’idea, al progetto, sino alla sua messa in opera, verrà accolta e farà parte dell’intero sistema sociale.
Quando in fine l’opera in senso lato è realizzata, non diventa un elemento ignoto con cui nessuno sa riconoscersi, infatti, le manifestazioni e gli eventi durante il corso della messa in atto servono a convivere e fare in modo l’evento diventa il momento dell’accoglienza.
Diversamente nei territori della regione d’arberia, non aleggia nemmeno la teoria idiota secondo cui esiste solo l’ambiente, naturale, che almeno avrebbe prodotto inconsapevolmente conservazione, ma si promuovono programmi e progetti egocentrici che producono danni irreparabili, affievolendo l’immenso patrimonio linguistico consuetudinario caratteristica della minoranza.
L’unica cosa che tutta la popolazione minoritaria condivide è la vergogna del personalismo politico clientelare, volontà perversa che ha come riferimento prioritario “l’idiota capacità storica circoscritta” nel mettere in atto manifestazioni, eventi e progetti senza alcun rapporto e condivisione con i fruitori, innescando il processo che confonde le memorie storiche rimescolando inconsapevolmente quelli che una volta erano ritenuti solidi riferimenti.
La città di Barcellona e la sua provincia hanno raggiunto risultati in pochi decenni che nessuna città europea ha avuto eguali, si è giunto a tale risultato nonostante la Spagna intera per decenni ha vissuto un regime che non gli consentiva di poter emerger in alcuna disciplina, ma i Catalani, un popolo caparbio, questa rinascita l’ha preparata in silenzio e con tanta dignità mandando i propri figli a frequentare le Università più rinomate di tutta Europa e quando il regime ha avuto il suo corso naturale, i Catalani non hanno dovuto fare altro che mettere a frutto le capacità acquisite dai propri figli.
Queste considerazioni raccontate dal presidente della provincia della Catalogna mi hanno fatto molto riflettere e immaginarle riversate negli ambiti in cui ho avuto i miei natali.
Personalmente mi auspicio che la prossima estate anche per il piccolo paese della Sila Greca, possa ripetersi quella svolta che ha portato i catalani a essere ritenuta l’etnia più moderna d’Europa, non solo per i risultati acquisiti nella vivibilità dei propri ambiti, ma anche per la capacità di valorizzare la propria identità.
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Posted on 10 novembre 2013 by admin
Commenti disabilitati su Protetto: UNA LIBRERIA INCASTONATA TRA I PERSONAGGI IN TERRACOTTA A VIA SAN GREGORIO ARMENO 4
Posted on 27 ottobre 2013 by admin
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