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“L’abitato arbëreshë di Cavallerizzo”

Posted on 03 agosto 2014 by admin

Cavallerizzo faiNapoli (di Atanasio Pizzi) – L’abitato di Cavallerizzo è una frazione del comune di Cerzeto, esso fa parte dei centri arbëreshë della provincia cosentina (Calabria Italia Meridionale) ubicato tra le colline del Monte Mula che un tempo fungeva da spalla occidentale alla lingua di mare che copriva i territori calabresi sino a Pian del Lago. Il suo nome deriva da un cavallerizzo dei principi Sanseverino noto come San Giorgio di San Marco. I territori sui quali si ubica l’abitato Arbëreshë, sono menzionati già dal 1065, con la loro donazione all’Abazia di La Matina. Nel 1462 il territorio rientrava tra quelli acquistati da Luca Sanseverino primo Principe di Bisignano. Quest’ultimo si attivò personalmente e mise in atto nella provincia citeriore, fiorenti attività agricole, silvicole e pastorali, tali da far acquisire ai suoi possedimenti l’appellativo di granaio regio. La macchina produttiva e il suo indotto ben presto subirono, purtroppo, gli effetti della carestia, della peste e dei terremoti che ebbero come scenari la Calabria e tutto il meridione. I successori di Luca, rispettivamente: Girolamo, Bernardino e Pietro Antonio per cercare di dare linfa economica ai loro territori, accolsero nuove e operose genti di origine albanese. I quali, dopo un iniziale ”nomadismo”durato fino alla metà del XVI secolo, s’insediarono definitivamente in casali disabitati, nei pressi di chiese o conventi. La successiva stipula dei rispettivi atti di sottomissione, tra gli esuli e le autorità locali, rappresenta un punto di svolta fondamentale, in quanto sancisce il diritto di edificare manufatti in muratura oltre ad avere i privilegi di trasferire alle discendenze quanto a loro disposizione. I piccoli insediamenti urbani che si consolidano a seguito delle dette capitolazioni sono allocati prevalentemente a ridosso degli assi di comunicazione secondaria o lungo i confini territoriali delle diocesi, accumunati dalla giusta distanza dalle zone fluviali e costiere, per l’imperversare delle famigerate, anofele. Ebbero così inizio quelli che oggi si riconoscono come agglomerati urbani diffusi arbëreshë, contenitori fisici di costumi, consuetudini, lingua e religione,  tramandati oralmente grazie al modello di famiglia allargata, secondo quanto disposto nel Kanun. I quartieri di Cavallerizzo, Katundì, Moticèlleth, Sheshi, Brègù e Nxertath, rappresentano il percorso evolutivo che l’abitato ha seguito per restituirci l’attuale assetto planimetrico. Il processo di trasformazione dell’ambiente naturale in quello costruito è avvenuto secondo i parametri morfologici, floristici, orografici e climatici; fondamentali per gli esuli, giacché simili a quelli della terra d’origine. È in queste macro aree che le costanti dei sistemi urbani: il recinto, la casa e il giardino, hanno trovato i parallelismi d’ambito ideale per consentire agli albanofoni proporre agli antichi assetti urbani; il recinto delimita il territorio, ove la famiglia allargata aveva il controllo assoluto; la casa, anch’essa circoscritta dal cortile consisteva in un unico ambiente in cui conservare le poche suppellettili e alimenti; il giardino è luogo della prima spogliatura, dimora dell’orto stagionale. Nel periodo che va dal XV al XX secolo, gli esuli lentamente hanno riposto il modello familiare allargato per quello urbano e poi, in tempi più recenti vive quello metropolitano o della multimedialità. Quando la famiglia allargata inizia ad assumere la connotazione urbana, da avvio alla composizione dei primi isolati (manxane), secondo aggregazioni modulari di tipo articolato e lineare. Lo sviluppo degli agglomerati tendenzialmente accoglie le direttive dell’urbanistica greca che allocava gli accessi degli abituri sulle strette vie secondarie, Ruhat. Il centro non è costituito da un unico punto-luogo simbolico; la centralità si frantuma in più simboli e luoghi: il centro e la centralità religiosa si dissociano il che da avvio alla policentrica tipica degli agglomerati. La gjitonia, (dove vedo e dove sento), racchiude e racconta ciò; essa dal XVI secolo resiste agli assalti della modernità diventando il luogo della ricerca dell’antico legame, fattore indispensabile della consuetudine arbëreshë ancora viva in questi ambiti. La gjitonia ha origine dal tepore del focolare, si espande con cerchi concentrici, nella piazzetta Sheshi e si estende lungo le Ruhat, sino a giungere negli angoli più reconditi dei territori comunali Kushet. La gjitonia per ogni arbëreshë si avverte, si respira, si assapora, si vede, si tocca, senza mai poter essere tracciata. Per questo gli agglomerati Albanofoni rappresentano il cardine che lega lingue, religioni e storie dissimili, in grado di produrre il modello d’integrazione più riuscito del mediterraneo. Il piccolo abituro, Shpia, in origine realizzato con rami intrecciati poi con blocchi di terra mista a fango e paglia, Matunazeth, in seguito, è stato ottimizzato attraverso l’utilizzo di materiali autoctoni più idonei come: pietre, calce, arena e legno. Dopo il terremoto del 1783 e la conseguente realizzazione della Giunta di Cassa Sacra, gli stessi ambiti urbani minoritari ebbero un nuovo sviluppo architettonico e gli agglomerati iniziarono a svilupparsi prevalentemente in direzione verticale. È da questo periodo che negli ambiti urbani calabresi le dimore assunsero una nuova veste distributiva. Essa allocava i magazzini e le stalle al piano terra mentre le abitazioni furono realizzate al primo livello. I successivi frazionamenti, utilizzarono l’uso delle scale esterne, profferlo, modificando radicalmente, in questo modo, le prospettive all’interno dei borghi. Il ciclo di crescita dei modelli edilizi  minoritari si arricchisce ulteriormente dopo il decennio francese, con la costruzione dei nuovi palazzotti nobiliari, espressione di una classe sociale emergente. Ciò avviene solo per le classi più elevate naturalmente, perché quelle meno abbienti continuano a occupare i vecchi abituri, mentre quella media brandisce la nuova posizione sociale, utilizzando frammenti costruttivi dei palazzi post napoleonici. La storia del borgo di Cavallerizzo acquisisce dal XIX secolo le vicende della crescita edilizia in maniera incontrollata e diffusa, come avvenne per tutti i borghi e le città italiane. La notte del 7 marzo 2005 una frana lungo il margine meridionale dell’abitato, coinvolse il quartiere di recente espansione denominato Nxertath, (castagne innestate) realizzato su una copertura detritica eluviale già interessata da fenomeni gravitativi già dal XVII secolo, come riportato nei relativi archivi storici, in cartografie del 1903 e nella carta geologica del 1960. La condizione d’instabilità di quel versante nonostante fosse stata segnalata da Ietto nel 1978, a seguito della messa in opera della condotta idrica Abatemarco, interrata nello stesso versante e da Guerricchio nel 1998 per la verifica di un fabbricato lesionato. Entrambe le relazioni suggerivano possibili soluzioni d’intervento per la messa in sicurezza del versante, dei pochi edifici allora presenti e della condotta idrica soggetta a ripetuti disservizi. Gli interventi non furono mai realizzati, né presi in considerazione nonostante la continua crescita edilizia di quel quartiere. A seguito dei fenomeni gravitativi, nella porzione meridionale dell’abitato di Cavallerizzo, furono condotte dal Comune due campagne d’indagine geognostica nel 1982 e nel 1998-99, a fronte di ciò l’istituto CNR-IRPI di Cosenza attivò un sistema di monitoraggio dell’area in frana. Il collasso del 2005 ebbe ad attivarsi dopo un periodo di elevate precipitazioni atmosferiche, come richiamato nella rete di monitoraggio CNR-IRPI, che provocarono condizioni di saturazione idrica del versante. Il cinematismo della frana fu di tipo rotazionale nella porzione alta per poi attivarsi in colata, interessando un’area già ampiamente instabile e posta in crisi dalla speculazione edilizia dal 1980. Elevati danni furono riscontrati solo nel quartiere periferico denominato Nxertath, interessando solo l’11,5% del costruito totale; mentre nessun danno si rinviene nella restante parte dell’abitato, intatto a tutt’oggi. Dal 2005, non risultano esserci stati altri evidenti movimenti che interessi il centro storico e nessuna evoluzione è stata riscontrata nell’area frana. L’assenza di scivolamenti in atto fu riscontrata anche nel 2009, quando le precipitazioni atmosferiche invernali fecero registrare un valore cumulato maggiore rispetto a quello del 2005. Pertanto non è da escludere che all’anomalo incremento piezometrico, riconosciuto come causa di attivazione della frana, abbia concorso la condotta idrica Abatemarco, prontamente deviata all’indomani dell’evento. È chiaro che in assenza d’interventi per la mitigazione delle condizioni di rischio, resta elevata la possibilità di coinvolgimento delle aree urbane limitrofe. Pertanto il dato inconfutabile risulta che, per aver frettolosamente valutato gli ambiti di frana, si è intrapreso un percorso storicamente fallimentare. A tal proposito va rilevato che a seguito della frana del 2005 fu interdetto l’accesso all’intero centro urbano di Cavallerizzo, ordinanza ancora oggi in vigore e i cui motivi furono ufficialmente resi noti solamente nell’ottobre del 2009, basate solo su un rilevamento geomorfologico di superficie, che indicherebbero l’esistenza di una paleo-frana coinvolgente l’intero abitato, integrato con indagini geognostiche eseguite negli anni novanta del secolo scorso (quindi prima dell’evento 2005), oltre ad uno studio di telerilevamento satellitare che indicherebbe una traslazione dell’abitato di circa 1 cm/anno. Il dato fornito, coinvolge ed è diffuso a tutti i centri abitati, ubicati a Nord e a Sud di Cavallerizzo, con velocità di scivolamento variabili da 2 a oltre 6mm/anno, desumendo però una condizione di elevato rischio frana, in condizioni sismo-indotte, per il solo borgo di Cavallerizzo. È opportuno rilevare che le condizioni di rischio potenziale, per frane sismoindotte, sono estendibili comunque a gran parte della Calabria Nord occidentale, compreso il nuovo insediamento scelto per la delocalizzazione. Va inoltre rilevato che dopo la prima conferenza di servizi, tra maggio e giugno del 2006, si diede avvio alla fase di sottoscrizione degli atti, cui la popolazione era obbligata a cedere la vecchia abitazione, in cambio di una che avrebbe avuto gli stessi valori storico-sociali in ambito di Gjitonia(?), sottoponendo a questo iter anche coloro che innanzi a queste capitolazioni moderne non si sono mai presentati a sottoscrivere. Nel 2007 fu quindi definito il progetto esecutivo di delocalizzazione e nel corso del 2008 fu illustrato alla popolazione il nuovo paese arbëreshë con all’interno le gjitonie.È pur vero che durante la pubblicazione messa in stampa, eminenti cattedratici in maniera educata e perentoria misero in guardia i progettisti dell’errore cui andavano incontro, ciò nonostante il 7 Marzo de 2008 fu deposta la prima pietra di quello che sarebbe dovuto essere un paese, arbëreshë, con le gjitonie. Purtroppo gli organi decisionali garantirono, a detta loro, l’incolumità fisica e la tutela storica materiale e immateriale di Cavallerizzo, ma per la redazione del progetto non indicarono come prioritario la figura dell’esperto d’ambito arbëreshë, e avviarono in maniera anomala il progetto ritenendo che i minoritari arbëreshë si potevano paragonare a una qualsiasi popolazione disseminata negli ambiti del mediterraneo. Ciò ha prodotto equivoci paradossali che rivelano il poco rispetto volto nei confronti della regione storica albanofona, a tal punto da scambiata la Gjitonia con i Quartieri e per questo modificando in maniera radicalmente il rapporto tra costruito e non costruito. La stessa sorte ha coinvolto anche i sistemi viari, che nell’eseguito vengono riproposte con dimensioni simili alle aree mercatali. Questi pochi accenni, assieme ad altri non citati, ma per questo non meno rilevanti, confermano quanto sia stato sottovalutato il modello arbëreshë. Un’analisi eseguita a ritroso dallo scrivente indicherebbe che quanto “messo a dimora in località Pianette”, è il frutto di ambiti verosimilmente prossimi dell’equatore che purtroppo nella valle del Crati vanifica ogni sforzo che i minoritari albanofoni compiono per riversare riti e la consuetudine all’interno di un contenitore anomalo. L’unica nota positiva all’interno di questo curioso intervallo della storia albanofona, è rappresentato da un gruppo di abitanti di Cavallerizzo, che nel 2007 fondarono l’associazione “Cavallerizzo Vive-Kajverici Rron” e l’anno successivo presentarono ricorso al T.A.R. del Lazio che annullo il verbale della conferenza di servizi del 31/07/2007 c, quest’ultima aveva legittimato  il progetto definitivo del nuovo paese che in data 14 maggio 2014, fu dichiarato in via definitiva abusivo. Il 2 luglio 2014 il T.A.R. del Lazio ha accolto il ricorso per l’ottemperanza della sentenza del Consiglio di Stato ed ha accertato la colpevole inerzia delle Amministrazioni, condannandole a riavviare il procedimento abilitativo del nuovo abitato entro trenta giorni, previa acquisizione della valutazione d’impatto ambientale con tutti i limiti del caso.  Il tribunale ha inoltre già statuito che qualora l’amministrazione preposta non ottemperi “entro il termine indicato”, se ne occuperà un commissario ad acta già individuato nella persona del Ministro dell’Ambiente o “un dirigente da lui delegato”, con termine perentorio di altri trenta giorni. In tutti questi anni, comunque siano andate le cose, l’abitato storico di Cavallerizzo, con i suoi oltre 550 anni di vita, oltre ad aver convissuto con fenomeni d’instabilità, dal 2005 ha dovuto rispondere in maniera autonoma anche a processi vandalici oltre a quelli dell’incuria e all’abbandono che sono i peggiori. I processi avviati da quest’affrettata operazione si possono rispettivamente elencare in un nuovo insediamento privo degli atti amministrativi; il vecchio paese dichiarato inagibile e la scissione della comunità in due fazioni, che non riconoscono neanche il perimetro religioso a cui fare riferimento per festeggiare il protettore San. Giorgio, poiché, la Diocesi rimasta il baluardo di unione della popolazione ha preferito disconoscere l’antico e solidissimo perimetro di culto, per officiare la ricorrenza in un anonimo e non meglio identificato abituro. Tutto ciò sancisce ancora una volta il fallimento di una metodica che ha sempre portato squilibri nelle popolazioni de localizzate, processo violento che strappa in maniera indiscriminata le radici, ignorando quanto sia rimasto ancora innestato nel territorio. Ciò ha prodotto alla comunità frammentata e disadattata, distorsioni sociali, espressione del legame materiale e immateriale smarrito cui nessuno potrà mai porre rimedio visto il dilatarsi dei tempi. Alla luce di quanto emerso è palese la necessità di tutelare il centro storico di Cavallerizzo, perché la rara consuetudine minoritaria, inghisata in quegli ambiti, attendono di essere risvegliata e collocata con rispetto nello scenario sociale, culturale e scientifico calabrese così come integrato prima dell’evento franoso. L’abitato di Cavallerizzo nasce perché è il risultato dell’azione di una civiltà cui è parte indissolubile, non frutto dell’azione costruttiva di un singolo ma il luogo che rappresenta la cerniera di culture e per questo non più riproducibile. Dopo gli avvenimenti succedutisi a circa dieci anni dall’evento franoso, alla luce delle sentenze, si dovrebbe giungere a un ragionevole esame e consentire la messa in sicurezza degli ambiti di frana. Il centro storico, ancora intatto, attende attraverso opportuni interventi per rivitalizzare il patrimonio storico costruito in 550 anni di vita arbëreshe. Il recupero dell’agglomerato deve avere come fine prioritario la ricollocazione della minoranza storica condivisa con l’associazione Cavallerizzo Vive, e da tutta la regione arbëreshë. Un progetto che ha come indicatore la storia albanofona, intrisa nelle ostinate murature che continuano a riverberare antichissime vicissitudini innestate nelle consuetudini arbëreshë, in solida convivenza con il territorio  Kushe. La realizzazione di un albergo diffuso in sintonia con le attività tipiche  adoperando come residenze gli abituri arbëreshë. Utilizzare l’edilizia storica  al fine di utilizzarli come istituti o centri per il controllo della valle Crati e monitorare, gli aspetti idrografici, climatici e sismici. È chiaro che per mettere in atto progetti di tale portata è indispensabile la partecipazione concertata del Comune di Cerzeto, l’UNICAL, la Provincia di Cosenza, la Regione Calabria e il CNR. Il fine è di produrre un esempio di tecnologia, arte, restauro attingendo nelle consuetudini arbëreshë, creare non solo un osservatorio delle dinamiche intrinseche del territorio ma anche il fulcro di eccellenze e  ricchezze. L’auspicio prossimo è quello di vedere come primi attori di questa vicenda, la comunità di Cerzeto e San Giacomo che unita ai fratelli di Cavallerizzo restituiscano il piccolo borgo alla Regione Storica Arbëreshë, rievocando l’antico rito del 4 Giugno 1667, quanto a seguito della perdita di possesso dei vecchi proprietari del borgo arbëreshë di Kajverici, la Marchesa di Santa Caterina, Ippolita Belveris in esecuzione a quanto disposto dal tribunale si sottopose, alla presenza dei rappresentanti, Sindaco, Eletti dell’Università e di un nutrito numero di testimoni, che assistevano al rigido formulario, che qui di seguito viene esposto nelle sue diverse fasi: La baronessa, doveva compiere davanti a tutti i testimoni di cui sopra una serie di atti, come quello di spezzare un ramo, riempirsi il pugno di terra e lanciarla per aria, passeggiare a piedi o a cavallo, muoversi a suo piacimento e fare ogni cosa che gli venisse in mente, tutto ciò confermava l’effettiva presa di possesso del bene e Kajverici Rroi.

 

Bibliografia:

Fabio Ietto (2010)

Geologyresearcher UNICAL, DiBEST

Antonio Madotto

 Editor of the site “Cavallerizzo Vive-Kajverici Rron”

Atanasio Pizzi  (1987-2014) Scritti inediti

Architect and editor of the site “Sheshi i Pasionatith”

 

 

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Protetto: COMUNICATO STAMPA SULLA SENTENZA DEL T.A.R. LAZIO SU RICORSO D’OTTEMPERANZA.

Posted on 05 luglio 2014 by admin

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Protetto: GLI ARBËRESHË E I MODELLI DI RICERCA

Posted on 19 giugno 2014 by admin

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Protetto: ELEZIONI AMMINISTRATIVE DEL 25 MAGGIO 2014

Posted on 29 maggio 2014 by admin

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AAA FRATERNITÀ CERCASI

Posted on 27 maggio 2014 by admin

FratellanzaROMA (di Paolo Borgia) – Cuore, il romanzo di De Amicis, lo lessi nel 1953, da diligente alunno appena immigrato a Torino. Era ambientato in una città che mi pareva di vedere nelle strade in cui giocavo e nella casa in cui abitavo a cinquanta metri dal primo parlamento italiano. Ancora la città non era divisa in quartieri catalogati per ceti sociali. I palazzi al pianterreno avevano botteghe ed nei cortili officine, il piano ammezzato era abitato dagli stessi negozianti e artigiani. Seguiva il primo piano “nobile”, dai grandi balconi ed alti soffitti. Nei piani sovrastanti, s’entrava in casa dal balcone interno comune, in fondo al quale c’era una latrina alla turca, anch’essa comune. Più su, sotto il tetto spiovente, le soffitte: piccole camere per i più poveri, fredde d’inverno, veri forni d’estate. Ogni scala era un mondo, in cui conviveva tutta la società: ricchi e poveri. Un vicinato urbano verticale come la “gjitonìa” (buon vicinato) orizzontale del paese nativo. Quando penso alla fraternità la ricordo così: una società in cui non s’era svilupppata «una visione economica di stampo puramente capitalistico che concepisce il lavoro come “merce” e il fine dell’impresa nel mero “profitto”». Oggi non si parla più di fraternità ma si avverte l’urgenza di «ripensare al lavoro e al mercato come luoghi di mutua assistenza e di fioritura umana». Qualche volta si parla di crescita resa impossibile dalla crisi strutturale dell’economia che ha mostrato un sistema bancario succube della speculazione (banche d’affari) e incapace di sostenere l’economia reale, quell’usare i soldi depositati per finanziare le famiglie e la produzione (banche commerciali). Si preferisce «investire in patrimoni e in capitali» perché «rende di più che investire nelle imprese. Con questa finanza dominante e speculativa, si riporta il capitalismo ad un livello feudale dove la rendita diviene il centro del sistema che schiaccia lavoro e imprenditori ». Occorrerebbe ripartire dall’amicizia dall’amore per ricreare i legami lacerati “dalla guerra armata e quella quotidiana” − causa dell’assenza delle leggi, che non si scrivono e, se scritte, non si rispettano. Come è lontana la fratellanza e il “credito etico”! In alternativa c’è una radice relazionale a cui attinge un profondo pensiero comune politico messo in luce, che attiene non solo alla sfera politica ma ad un umanesimo completo: ricostruire la città non è soltanto affare di politica ristretta ma libera decisione di appartenere alla società, in cui creare legami tra i gruppi meno abbienti e quelli più abbienti, rendendendo disponibili beni per soccorrere i più poveri, ottenendo una uguaglianza attraverso la fraternità. Questi 3 elementi insieme: libertà, uguaglianza, fraternità sono le precondizioni per la vita politica. La fraternità è stata accantonata se non dimenticata. A parlare oggi di fraternità c’è il rischio di essere fraintesi se non derisi. La continua ostilità tra i gruppi ci mostra la profonda crisi che sta vivendo la politica. Essa insegue le inclinazioni degli elettori anziché proporre programmi seri e  lungimiranti, trasforma i problemi politici in questioni di polizia e ordine pubblico, preferisce affidersi alle armi piuttosto che affrontare le vere cause dell’ingiustizia interna ed internazionale, si rende disponibile ad interessi economici giganteschi che sfuggono ad ogni controllo. E tutto ciò è deviazione dalla politica, a cui ciascuno non è più disposto a posporre il proprio interesse privato “particulare”, per conseguire quei beni che si possono raggiungere soltanto con una azione solidale con gli altri. Si tratta di stabilire una relazione di amicizia basata sull’utile, quando questo è il bene di tutti, realizzabile razionalmente e che rende buona la città. Città, in cui vivere nella fiducia con un lavoro onesto, nella sicurezza personale, nel riconoscimento dei propri meriti, in cui l’essere umano è cittadino sovrano non suddito. Si tratta di conciliare, in un contesto di avversione dominante, l’interesse privato e il bene di tutti, proprio quando a prevalere è l’insensibilità alla sofferenza e ad ogni istante sorge nuova rassegnazione ed odio, le due forme di guerra: contro se stessi o contro gli altri. Come ci raccontano le cronache dei giorni nostri. Abbiamo bisogno del rispetto del singolo uomo, di creare un progetto comune, di una legge uguale per tutti e che ristabilisca la giustizia, di una equa distribuzione delle risorse. Abbiamo bisogno che si crei lo spazio per permettere alle nuove generazioni che vogliono formarsi una famiglia di poter disporre di una casa e un lavoro, permettere a chi vuole studiare di poter disporre di libri e scuole e a tutti strade e ferrovie e regole certe, in modo che ognuno possa liberamente realizzare la propria vocazione, con la collaborazione corale della società, recuperando la fiducia gli uni negli altri.

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ANALISI DEI SISTEMI URBANI ARBËRESHË

Posted on 24 maggio 2014 by admin

Analisi dei sistemi urbaniNAPOLI (di Atanasio Pizzi) – Gli agglomerati urbani diffusi dei paesi albanofoni nascono secondo le disposizioni regie di Filippo II, amalgamate alle regole consuetudinarie nel modello sociale di famiglia allargato riportata nei dodici capitoli del Kanun.

Città policentriche, nate secondo le esigenze secolari della famiglia albanese, ognuna delle quali diversamente da quelle che oggi conosciamo, era composta di due o più famiglie, mutuamente coese, in genere due fratelli con mogli, le relative proli e i genitori; un numero di elementi che non superava la quindicina, infatti, oltre questa soglia si dipartiva e davano origine a un nuovo insediamento.

Tutte insieme, avendo la stessa origine, un medesimo sangue, lo stesso idioma, simili usi, costumi e per questo formavano quella grande famiglia che rimane tutt’oggi identificabile nella regione storica d’arberia.

Quando gli arbëreshë, così organizzati, giunsero nelle colline della sibaritide, si disposero nei pressi di chiese pievi o icone, perché legati da tre elementi caratterizzanti: la lingua, la consuetudine e la religione di rito greco bizantino.

Questi aspetti generali della vita degli albanofoni li ritroviamo in tutti i centri, nati, sopra i resti di antichi borghi, tra la fine del XV e la metà del XVI secolo.

Un esempio di quanto affermato sono i quartieri, identificati con toponomi, tramandati oralmente, che racchiudono quanto esposto e sono in  grado di fornire traccia evolutiva di tutti i centri nati nello stesso intervallo temporale.

Va in oltre affermato che una caratteristica che accomuna tutti i paesi albanofoni sono le feste di primavera che rappresenta il fulcro di coesione con le genti indigene; giornata della promessa (Besa), per ricordare i propri cari e quelli altrui, tumulati negli ambiti ora abitati dagli arbëreshë. Il processo di trasformazione dell’ambiente naturale in costruito per opera albanofona è avvenuto in funzione di elementi oggettivi e ambientali, quali: la morfologia, la flora, l’orografia e il clima; aspetti fondamentali per gli esuli, perché simili a quelli della terra d’origine, per questo capaci di mettere in atto le proprie attività di sussistenza con i pochi mezzi senza accusare dissintonie ambientali.

Le costanti che hanno dato avvio ai sistemi urbani arbëreshë sono: il recinto, la casa e il giardino, caratteristica urbanistica ed architettonica di tutti gli ambiti d’etnia; il recinto segna il territorio, in cui la famiglia ha controllo assoluto, limite invalicabile per gli estranei, difeso e onorato anche a costo della propria vita; la casa, in origine un unico  ambiente realizzata  a  ridosso  di  anfratti  e  completata con  tronchi,  rami intrecciati, foglie e argilla, il rifugio dove conservare e proteggere se stessi e le cose più indispensabili; il giardino è utilizzato come luogo della spogliatura, dimora di alberi da frutta e del gelso oltre che dell’orto stagionale.

L’arbëreshë si muove nel territorio in mutua convivenza e rispettoso dell’ambiente, si coordina secondo le locali norme naturali per la valorizzazione del territorio.

Nel periodo che va dal XV al XX secolo, l’affinamento socio culturale degli esuli si adegua al modello urbano, abbandonando quello della famiglia allargata per affinarsi in seguito verosimilmente quello metropolitano.

Gli antichi legami parentali, disgregati in cinque secoli di convivenza, hanno continuato a essere vivi nella mutua collaborazione della produzione, raccolta, spogliatura dei prodotti che il territorio forniva, e oggi nel ricordo parentale di chi vive ancora gli ambiti o attraverso i multimedia per chi si è recato in altre regioni o continenti.

In età moderna, la famiglia arbëreshë che ha assunto le sembianze tipiche metropolitane sente ancora il bisogno di ricercare l’antico legame di sangue.

La gjitonia, “dove vedo e dove sento”, sin dal XVI secolo diviene il luogo della ricerca dell’antico legame familiare smarrito per colpa delle nuove dinamiche sociali, si evolve in  uno  spazio  ideale  di sensi  e  sentimenti,  luogo  non toponomato, giacché rappresenta l’ambito in cui si accomunano indissolubilmente i sensi.

La gjitonia non è riconducibile ad ambiti materici, ma esclusivamente a  rapporti personali e interpersonali di leale e solida convivenza non asogettabili ad uno spazio fisico.

La gjitonia ha origine dal tepore del focolare e si amplifica con cerchi concentrici, come una goccia nell’acqua, sino al lembo estremo dell’ambito urbano; entità effimera che pulsa si avverte si respira si assapora si vede si tocca, senza mai essere tracciata con limiti fisici.

Studiare i borghi albanofoni è utile per comprendere quali siano state le dinamiche che hanno consentito all’idioma e alla tradizione consuetudinaria più enigmatica della storia del mediterraneo, di proporsi incontaminata senza soluzione di continuità sino a oggi.

I piccoli agglomerati urbani sono la traccia indelebile del percorso che ha unito popoli diversi, che pur avendo lingua, religione e storie dissimili, sono state  capaci  di  trovare  le  convergenze ideale per  attuare,  uno  dei  primi  modelli  d’integrazione, rimanendo tutti solidamente legato ai propri valori.

Le disposizioni regie impartite da Filippo II, le dinamiche consuetudinarie del concetto di famiglia allargata, la conformazione orografica e l’economia produssero i primi isolati (manxane), o gruppi di case, secondo schemi che sono riconducibili di tipo articolato o lineare. Il piccolo abituro, shpia (casa), in origine realizzato con rami intrecciati paglia e fango, o blocchi di terra mista a fango e paglia (kalivja), dopo la sottoscrizione delle capitolazioni, fu realizzato in pietra e arena negli elevati, mentre le coperte furono sostituite da una lamia di coppi a falda unica sostenuta da un doppio ordine di elementi lignei, la di cui pendenza riversava il displuvio innanzi all’ingresso dell’abituro.

La disposizione di tali moduli elementari, è fondamentale per la ricerca evolutiva degli agglomerati diffusi arbëreshë, in quanto, il modo in cui furono aggregati forniscono la regola secondo la quale nascono gli isolati urbani, (manxane) che rimarranno identici per oltre due secoli. In seguito al modulo abitativo elementare che misura circa 20 mq., fu associato un altro di uguale dimensione, non a diretto contatto con il fronte strada, usufruendo della porzione di territorio ancora non edificata.

I confini particellari identificabili con le tipiche rotondità, che sino ad oggi erano lette come espedienti logistici o statici per gli edifici, sono il modo indelebile per segnare un antico confine territoriale.

Da ciò si deduce che l’isolato, occupata tutta la porzione di terreno disponibile per cui ai piccoli agglomerati non rimane che svilupparsi in verticale, collocando al piano terra i depositi e al primo livello, di nuova costruzione la residenza, i due livelli sovrapposti rimasero ancora collegati da una scala interna a pioli, mentre la copertura del modulo a due livelli continua ad avere la stessa forma, salvo realizzare uno spazio tecnico e termico, sottotetto (kanicàri).

I frazionamenti successivi, di questi nuovi volumi edilizi,  richiesero  l’utilizzo  dei  profferli, caratteristica adottata, a partire dal XVIII secolo, questi ultimi modificarono sostanzialmente  la prospettiva delle strette strade (ruhat) che non sempre consentivano, in maniera uniforme, l’aggiunta del nuovo manufatto esterno, per questo motivo l’alternarsi dei nuovi accessi ci fornisce un tessuto urbano oltremodo articolato.

Il ciclo dei manufatti abitativi delle comunità albanofone si arricchisce ulteriormente dopo il decennio francese con la costruzione diffusa dei palazzotti nobiliari, un disegno che si ripete sia nei centri abitati sia nelle pertinenze rurali, assumendo connotazioni formali ben definite, rappresentativi di una classe sociale emergente, balconi, aggetti, portali e finestre sono coronate da materiali lapidee che danno ai prospetti, delle nuove fabbriche, una regola metrica definita.

È chiaro che questo avviene solo per le classi sociali più elevate mentre quelle più abbienti continuano a occupare i vecchi katoi e nella migliore delle ipotesi, inglobare i profferli con nuovi e modesti volumi, che cercano di imitare almeno nel prospetto principale e l’ambito interno dell’ingresso dei palazzi post napoleonici.

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UN MANUALE PER COMPRENDERE I PAESI ARBËRESHË

Posted on 22 aprile 2014 by admin

L'albaneseNAPOLI (di Atanasio Pizzi) – Qualora vi dovesse capitare di operare in ambiti minoritari di etnia albanofona la ricerca cui vi dovete affidare per giungere a certezze storicamente comprovate, non va eseguita attraverso le figure mitiche quali, ad esempio: lo scriba, il medico condotto e il traduttore, perché la comunità albanese d’Italia (arbëreshë) fonda la propria cultura nella consuetudine e nella sola forma orale, che può essere compresa e tradotta adeguatamente, dai natii d’ambito.

Non fate mai uso improprio di sostantivi, quali: Arbëreshë, Gjitonja, Katundi, Sheshi, Ruha, Uhda, Shpia perché altrimenti sarete sottoposti alla luce dei riflettori di coloro che in questi ambiti hanno fatto studi appropriati, mentre sicuramente non avrete alcun problema dagli stati generali, che preferiscono cullarsi negli allori; sappiate, essere formiche e non cicale.

Trattate con equilibrio e rispetto quando dovete inquadrare all’interno degli ambiti urbani, senza travalicare nel seminato dell’avena fatua e scambiarla per grano, la Gjitonia; che non è!!!: un quartiere composto da tre quattro case, abitate da famiglie, che affacciano in una piazzetta.

L’enunciato sociale tradotto in lingua italiana,  darebbe altrimenti un’interpretazione distorta e inesatta; una tesi secondo la quale all’interno dei sistemi urbani essa si materializzi in uno o più manufatti, ma purtroppo, così non è in quanto, il suo enunciato fonda le radici in principi immateriali e neanche di esclusiva arbëreshë.

Certo è, che, la gjitonia non deve essere identificata in un quartiere o in qualsiasi elemento materico; giacché, in essa gli arbëreshë, diversamente dagli altri popoli mediterranei, hanno depositato i valori della BESA (promessa) e della famiglia allargata , come depositato nel Kanun.

A quanto sopra enunciato va aggiunto che: la Gjitonia non è associabile a un toponimo, in quanto, entità immateriale.

Appare evidente che avviare l’analisi, utilizzando l’enunciato con le considerazioni improprie largamente utilizzate per la  conoscenza della comunità Arbëreshë non è un di buon auspicio per un corretto inquadramento della storia urbanistica dei minori; non oso immaginare a quali conclusioni si possa giungere quando si dovranno valutare e interpretare aspetti più intimi, come quelli architettonici, di cui voglio trattare, qui di seguito e per grandi linee  i  processi.

Evitate di trasformare sistemi urbani complessi, in modelli lineari, cercando di rendere carrabili i percorsi o trasformare i moduli abitativi, sviluppandoli in direzione verticale perché così facendo si modifica in maniera radicale il senso sociale dell’abitare.

Improprio diviene l’utilizzo del profferlo, quando esso è disseminato irrispettosamente lungo le quinte edilizie, perché esso rappresenta una caratteristica tipica di tutto il bacino del mediterraneo, adottato per frazionare le abitazioni a due livelli e utilizzato dalla metà del 1700, e per oltre un secolo, delle comunità albanofone, prima di essere inglobato nelle tipologie nate dopo il decennio francese.

I sheshi (piccole piazze), così anche le tipiche cortine edilizie delle shpìt (case) interrotte dalle rughè (i vicoli), sono gli ingredienti fondamentali che generano gli isolati, fruibili ed abitabili, per la loro tipica conformazione articolata, sia in inverno che in estate.

Le lavine, (lavinai) unico elemento viario in andamento pressoché rettilineo, si può cogliere negli impianti urbani minoritari in quanto fungeva come naturale sistema differenziato dei riciclo dei rifiuti urbani nei periodi piovosi,   affidti alla vorticosità dell’acqua, mentre erano utilizzate come strade per collegare i quartieri alle vie principali di costa, una volta in secca.

Le insule storiche del paese minoritario, preso in esame, sono Quattro, rispettivamente denominate: (in arbëreshë) Katundi, Sheshi, Moticèlleth, Brègù; contraddistinte da segni distintivi negli elevati murari, che non devono essere considerati come apparati strutturali o logistici.

I moduli abitativi, espressione evolutiva dai Catoj, le Kalive e Moticelle, (tipici abituri di architettura minore), sono il modello di studio, in quanto, espressione tipica delle abitazioni dei paesi arbëreshë; cosi vale anche per la loro aggregazione modulare, che diviene funzione complessa delle dinamiche storiche, sociali ed economiche non riconducibili a mere riproduzioni digitalmente estruse, in quanto la quarta dimensione del principio di A. Einstein, non può essere riprodotta.

I toponimi dei quartieri vanno trascritti in arbëreshë e non in Italiano, perché altrimenti si diventa irrispettosi verso gli sforzi, che i dipartimenti di Albanologia delle Università di Cosenza, Napoli, Roma, Palermo e Bari compiono per dare certezze, alla affannata  forma scritta arbëreshë.

Contravvenendo a queste disposizioni innalzerete, un prodotto indelebile per gli annali dell’architettura, in cui l’agglomerato urbano, potrebbe diventare un esempio per, come non fare un paese, in  ambito minoritari solidamente coeso con le caratteristiche sociali, linguistiche e religiose  consolidate dalla  consuetudine.

È chiaro che a quel punto l’antico centro continuerà a conservare ancora intatte le radicate nozioni, mentre dall’alto del solido promontorio (Breggù), il vecchio borgo, osserva con tenerezza il nuovo già sofferente, inadatto e inabile, perché contenitore d’inesattezze e contraddizioni storiche.

Personalmente mi auguro, che eventi di questo genere non abbiano più luogo, ma la natura dell’uomo è abituata a distrarsi e quanto detto, dovesse presentarsi tra le attività future della Protezione Civile, vorrei suggerire che nel glorioso disciplinare di soccorso, che la fa distinguere in tutto il mondo, sia inserita a pieno titolo, anche la figura dello Storico Esperto D’ambito, che dovrebbe operare in sintonia con i tecnici, al fine di interpretare e portare in auge integralmente, anche il patrimonio immateriale, di coloro che spogliati, delle ricchezze materiali, possano almeno ritrovare i propri ideali in cui identificarsi per mutuamente vivere  quei territori.

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UN MILIONE DI EURO A SAN DEMETRIO CORONE

Posted on 17 aprile 2014 by admin

San Demetrio notizieSAN DEMETRIO CORONE (di Adriano Mazziotti) – Poco meno di un milione di euro  per  portare a compimento un megaprogetto:  tre opere destinate  alla  riqualificazione dell’ambiente urbano. A erogarlo, lo scorso anno,  è stata la Giunta regionale,  che ha approvato la  graduatoria definitiva e la concessione del finanziamento per tre progetti presentati   dall’Amministrazione comunale: Parco urbano, Centro commerciale naturale  e il Museo di arte contemporanea. Si tratta dei Pisl (Progetti integrati di sviluppo locale) del Por Calabria,  Fers  2007-201 , Burc del 12.08.2011. La giunta Marini, in questi giorni, ha espletato le procedure di aggiudicazione degli appalti per il Parco urbano, mentre  l’iter per gli altri due progetti è in corso di definizione.Il progetto Parco urbano (240.000 gli euro stanziati) prevede la sistemazione a verde attrezzato dell’area, estesa circa 6000 mq, adiacente il complesso monumentale del collegio Italo-Albanese e della Chiesa di Sant’Adriano; quello del Centro commerciale naturale (367.181 gli euro finanziati) riguarda la riqualificazione urbana dell’area denominata “ Fosso Caterina “ e  la realizzazione di un’area attrezzata fruibile come centro commerciale all’aperto, collegata sia  alla viabilità interna, partendo da piazza Monumento,  sia con via Caminona, previa le opere di canalizzazione delle acque. Il terzo progetto, il Museo di arte contemporanea, attiene al  recupero-restauro dell’ex casa del rettore del Collegio (primi anni del ‘900), e alla ricostruzione dei locali  un tempo adibiti alla abitazione  del custode del Collegio Italo-Albanese, da destinare a sede permanente del Museo di arte contemporanea. La struttura, una volta recuperata (360.000 gli euro erogati) ospiterà le manifestazioni culturali di rilievo, come la Biennale d’Arte contemporanea, la kermesse artistica organizzata dall’Amministrazione Comunale che di anno in anno ha raggiunto una rilevanza e un interesse nazionali.

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2014 LA PASSIONE DI CRISTO RIEVOCATA NEL CENTRO ARBËRESHË DI BARILE

Posted on 15 aprile 2014 by admin

Pacqua 2014BARILE ( di Lorenzo Zolfo) – La Sacra rappresentazione con personaggi viventi del Venerdì Santo di Barile (Potenza) è una delle più antiche della Basilicata e probabilmente del Sud Italia. Le sue origini risalgono al 1600. In questo giorno, fede, tradizione e storia si tengono per mano. E’ una giornata in cui il paese rivive la sua vicenda umana con orgoglio e passione, conservando una tradizione che custodisce la storia naturale di questo popolo, custode geloso della propria civiltà. Le vie strette del centro storico attraverso le quali si snoda il corteo dei personaggi, divisi in 25 gruppi, per un totale di 116 figuranti di ogni età, rendono suggestiva la Sacra Rappresentazione e trasformano Barile in una “Gerusalemme”.Il centro “arbëreshë” entra nel clima del Venerdì Santo dal 19 marzo di ogni anno, giorno di San Giuseppe, quando i giovani che si vestono da “Centurioni a cavallo” ed iniziano a girare per le strade in cui si snoderà la processione ma soprattutto per i quartieri del paese dove si accendono i falò di San Giuseppe, ad opera dei  giovani degli stessi quartieri. Uno dei “Centurioni” è munito di tromba e la suona stazionando sotto le abitazioni di chi impersonerà il “Cristo con la croce” e la “Madonna”. Il suono della tromba, i falò, i canti popolari e le preghiere indicano chiaramente che lo staff della Via Crucis di Barile (presieduto da Angela D’Andrea) è già al lavoro. Sono presenti nel corteo tre figure del Cristo: quella con la croce e due con la canna e la colonna. Queste ultime due ricordano i momenti in cui a Gesù fu data una canna (“Ecce homo”) come scettro e quando fu legato ad una colonna per essere fustigato. In origine le tre figure del Cristo sfilavano coperte da un sudario bianco che impediva il riconoscimento degli interpreti. Dagli anni ’40, il “Cristo con la Croce” sfila scoperto: cammina scalzo per l’intero percorso (circa 5km), trasporta una pesante croce e trascina, legata al piede, una catena di ferro. Sono tuttora incappucciati il “Cristo con la canna” e quello con la “Colonna”. Tra sacro e profano, in questo evento di Barile, spicca la Zingara nel suo abito ricoperto di gioielli raccolti, casa per casa, nei mesi che precedono la processione. Un passaggio determinante, considerando che ogni pezzo donato dalle famiglie viene attaccato sui corpetti della donna e della Zingarella, la bimba che l’accompagna, per essere restituito subito dopo la manifestazione. Figura decisamente pagana, assume su di sé la ricchezza del paese, ma anche la negatività insita nella ragione del suo esistere poiché è lei che fabbrica i chiodi utilizzati per la Crocifissione di Gesù. Spiccano, inoltre, nel corteo il Moro ed il Moretto dal volto scuro e gli abiti decorati con coralli presi in prestito dalle famiglie di Barile. Sono la testimonianza dell’origine del Comune lucano da una colonia albanese e la loro presenza riconduce, in particolare, al momento storico in cui gli albanesi stessi furono assaliti dai turchi. Da ricordare che questa Via Crucis nel maggio del 1983 è stata riproposta in piazza San Pietro in occasione dell’Anno Santo della Redenzione alla presenza di Papa Giovanni Paolo II che a fine corteo ha riferito: “mi compiaccio per la vostra tradizione ed auspico di cuore che la meditazione della Passione di Cristo sia invito a corrispondere generosamente alla grazia divina e a vivere con coerenza la vocazione cristiana”. Arrivi previsti da ogni parte d’Italia, nei pressi del campo sportivo, un ampio parcheggio.

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PREMIO “CANGRANDE AI BENEMERITI DELLA VITICOLTURA” PER L’AZIENDA AGRICOLA LALUCE.

Posted on 11 aprile 2014 by admin

Ginestra LaluceGINESTRA (di Lorenzo Zolfo) – Il Premio “Cangrande ai benemeriti della Viticoltura”, assegnato annualmente dalla Regione Basilicata agli operatori vitivinicoli che si distinguono per l’impegno, la tradizione e lo sviluppo del comparto, è stato assegnato all’imprenditore agricolo Michele Laluce di Ginestra ( nei giorni scorsi presente al Vinitaly di Verona), da sempre impegnato nel campo agricolo. Ha un’azienda sulla strada provinciale Ginestra-Venosa, proveniente da una famiglia che si occupa da sempre di agricoltura ( funzione fondamentale la funge la figlia Maddalena, agonomo), conduce un’azienda vitivinicola familiare di sette ettari, in particolare di vitigno Aglianico del Vulture coltivato a spalliera forma di allevamento a guyot negli agri di Ginestra e Venosa. Circa 40mila le bottiglie di vino prodotte all’anno, con 4 etichette di cui tre rossi (Aglianico del Vulture) e una bianco (Moscato e Malvasia), destinati a mercati regionali, italiani ed esteri come Stati uniti, Inghilterra, Svizzera, e in futuro si intende andare anche verso quelli asiatici. “E’ stata una grande soddisfazione ricevere un simile riconoscimento dalla Regione – ha affermato il titolare, Michele Laluce – ci gratifica dei sacrifici e incoraggia a continuare a fare impresa. L’Aglianico del Vulture Doc è oramai un vino apprezzato sui mercati internazionali che occorre far conoscere sempre di più, così come il territorio lucano. E in questo tutti devono impegnarsi. Anche noi imprenditori, che dobbiamo superare le divisioni per fare massa critica sui mercati”.

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