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LE FIGURE DELLA SOSTENIBILITÀ POLITICA, CULTURALE, SOCIALE E RELIGIOSA DEL MIO PAESE

LE FIGURE DELLA SOSTENIBILITÀ POLITICA, CULTURALE, SOCIALE E RELIGIOSA DEL MIO PAESE

Posted on 12 dicembre 2021 by admin

Banda65

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Nel rievocare le vicende storiche di un ben identificato paese, (Katundë), generalmente si fa riferimento agli amministratori per definire epoche, fatti salienti, avvenuti tra le pieghe dei vicoli del centro antico, dove azioni e fatti hanno avuto luogo a germogliare.

In questo breve, per questo, non si faranno elenchi di primi cittadini, come di sovente avviene, in quanto, per gli argomenti e atti trattati non tratteremo di delibere, atti pretori e avvenimenti politici, ma riferiremo del consuetudinario storico e le certezze popolari per la sostenibilità dell’identità locale.

Alla luce della premessa fatta, renderemo note le gesta e l’impegno di comuni cittadini, i quali senza la necessità di essere eletti, si sono impegnati, o meglio, caparbiamente proposti per le loro attitudini, senza secondi fini e per questo  la memoria è andata smarrita, nonostante abbiano lasciato elementi identificativi indelebili per l’essenza di appartenenza locale valorizzandone i momenti salienti di sostenibilità culturale, quando le videro deteriorarsi.

Figure che per la loro convinta abnegazione ha reso possibile il riverberarsi secondo antiche consuetudini l’essere Arbër e non finire scambiati per indigeni o comunità arbëreshë confinante.

Di queste figure notoriamente esistono tre tipologie, che non vanno confuse o classificate unitamente, in un solo elenco, esse si possono classificare così come segue:

  • I Manovratori, sociali falsi tutori culturali, mirano a distruggere figure terze; i cattivi.
  • Gli Ingordi che appaiono non come fedeli, ma vili figure striscianti e velenose; gli ignoranti.
  • I Giusti, cresciuti vicino al focolare materno e per questo sono memoria storica pura; la radice.

La prima categoria: i cattivi o”irriducibili”, la più dannosa, genera sin anche la seconda, gli ignorati, ”giullari ” i quali creano veli invisibili utili a coprire le malefatte dei primi.

Malefatte prodotte alla luce del sole, in pubblica piazza, queste generalmente appaiono come vangelizzatori  esperti, si camuffano nella voce dell’olimpo locale, nonostante sia palese la loro falsità, in quanto attingono il liquido del sapere dalla radice senza avere educazione, formazione culturale per riverberarle con adeguata misura e utilità, in altre parole attingono fango.

Poi sono, quanti cresciuti attorno al focolare, gestito dalla regina della casa, in altre parole la memoria storica vivente, gli eredi delle cose buone, l’essenza del passato, in definitiva, tutto quello che non può essere compreso dai comunemente con il solo udito, perché serve l’armonia dei cinque sensi, che non fa parte della loro natura.

Della prima e la seconda categoria, tutti dediti all’ignorare i cinque sensi, non prendono consapevolezza del fatto che non saliranno mai sul palco della storia, per cogliere l’essenza dell’armonia che crea fratellanza e fini comuni, la forza del buon mutuo soccorso culturale, radice sempre pronta a germogliare della cultura Arbëreshë.

Diversamente dai pochi che fanno parte della terza categoria: le solide fondamenta delle azioni messe in atto dal quarto decennio del secolo scorso; i primi, che del male e del personalismo a tutti i costi, ne fanno una regola di vita,  un breve accenno va fatto:

  • Se da giovincello tradisci il tuo migliore amico e invece di scusarti preferisci per cinque anni, percorrere fianco a fianco la stessa strada della scolarizzazione, ogni mattina e ogni pomeriggio, per ben dieci chilometri a piedi, rimanendo sempre fedele al tuo tradimento, cosa può dare da grande un individuo simile, quando capita di gestire il bene comune, continuando caparbiamente ad essere lo stesso scolaretto arrogante e inutilmente intelligente.
  • Se si cresce sotto la guida del cattivo, innalzi presidi della cultura e del ricordo, non per unire figure per il confronto, ma solo per trovare risorse da quelle cose che gli ignari donano e da ignorante tieni tutti nel circoscritto della detta corona.

Dovendoli prima o poi, porre all’attenzione delle nuove generazioni, i citati seguono percorsi trasversali utili alla cultura, traducendosi in pura ignoranza, la stessa che circola tinta di vergogna, ma e da vita, al cuore e alla mente, di queste figure ignobili; venditori pubblici per profitto privato, coperto dai veli di penosi manufatti in filati, stesi di notte ad asciugare per vergogna e di giorno coprire , le male fatte prodotte a nome e per conto della comunità.

A questo punto è giunto il momento elevare le figure sane, cresciute vicino al focolare materno, lo stesso che per natura, non genera il male, in quanto per la solidità culturale genera  bene comune, fatto di memoria ed essenze buone quelle che si raccolgono nell’orto botanico di casa propria, posto appena fuori di casa ma non lontano dal camino.

Per riferire dei “buoni” della storia del piccolo paese è bene ricordare che ristabiliti gli equilibri e rimarginate le ferite del secondo conflitto mondiale, inizia la nuova stagione di eventi forte e solidale, oggi poco rievocata nei meriti e le figure protagoniste in prima linea, le stesse  che posero in essere, sulle orme della memorie del passato quanto di meglio il centro storico e le contrade posseggono ancora.

A ridosso del quarto decennio del secolo scorso, ebbe inizio, la campagna identitaria dei luoghi Italiano, traducendo sin anche la denominazione ”Touring Club Italiano (TCI)” in “Consociazione Turistica Italiana (CTI)”, ebbe avvio la stagione delle attività, con finalità di sviluppo turistico del Sud, anche il piccolo centro antico facente parte della regione storica diffusa arbëreshë pianificò attività della radice locale affiancandole al nuovo in evoluzione.

Tra queste va ricordata la memoria toponomastica, per rendere merito alle genti del passato, costruite strade, servizi primari, quali acquedotto sistema fognari ed elettrificazione pubblica e privata, in oltre si adoperarono per intervenire nelle contrade e portare l’energia elettrica e innalzare chiese,  contestualizzare costumi, religione e persone del passato, istituendo feste secondo il calendario bizantino, furono istituiti il Gruppo Folcloristico e la Banda Musicale.

Pur se questi emblemi della consuetudine odierna ancora in atto, sono pochi a ricordare o rievocare le gesta, sin anche nell’assoggettarle a un evento o una opera da essi finalizzata, nonostante siano state l’esempio indelebile dell’identità locale ancora viva.

Nomi come R. Baffa, G. Baffa Caccuri, P.Caruso, G. Capparelli, T. Miracco, A. Bugliari, i Ceramella, D. Baffa Trasci, M. Decaro, P. Miracco, G.Pizzi, A. Trotta, F. e A. Filippelli, E. Azinnari, D. Preite, O. Colistro, R. Baldini, sono figure di un fiorente periodo, colmo di aneddoti perché pietre miliari del valore storico locale, impegno personale, camice sudate, scelte fondamentali, caparbia convinzione, sono gli ingredienti, il cui fine conduceva esclusivamente al bene fatto di memoria solidale del paese.

Un vero e proprio romanzo che ha avuto come scenario le quinte del centro antico, lo stesso che in altro tema, sarà resa più chiaro la storia, visto lo stato delle cose e gli avvenimenti attuati, per la tutela e la valorizzazione locale, onde evitare di essere confusi con i litirë.

Oggi sono troppi a non conoscere quali siano i figli di quel focolare antico che le sapienti madri, anche se non in vita, continuano ad amministrare fermando i tempi tenendo quel fuoco acceso che si traduce n memorie dei caparbi figli.

(*) I Paesi arbëreshë storicamente si identificano come Katundë, letteralmente luogo + movimento, confronto, cooperazione,  è inopportuno indicarli come Borghi o altro appellativo “Fuori Luogo”, sia dal punto di vista Storico, di tempo e di luogo, sia perché inizio dei centri abitati nati senza murazioni o confini e impedimenti di altro genere.

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GJITONIA: IL LUOGO DEI CINQUE SENSI (Gjitonia: ku shogh e ku gjiegjgnë)

GJITONIA: IL LUOGO DEI CINQUE SENSI (Gjitonia: ku shogh e ku gjiegjgnë)

Posted on 30 ottobre 2021 by admin

SCACCIAMO LA VOLPE ARBËRESHË3NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – “Gjitonia” modello consuetudinario e sociale della minoranza Arbéreshè, rappresenta per essi, il luogo dei cinque sensi, una barriera immateriale, priva di porte, elevati o fossati; essa vive grazie al patto di mutuo soccorso in favore dell’idioma, le consuetudini e le credenze, tutte da tutelare.

Simulazione di parentado, stringe rapporti di collaborazione materiale e immateriale, nella continua ricerca di un remoto legame di sangue, risalente ai tempi della famiglia allargata Kanuniana (si dice Gijtoni è come un Parente).

Essa rappresenta il fuoco domestico condiviso, il cui calore vuole unire idealmente,  propagandosi attraverso l’uscio di casa, poi lungo gli incroci e i vicoli sino a giungere nei palcoscenici di confronto, scontro per terminare nel mutuo soccorso dell’operatività agro silvo pastorali.

Un percorso ideale che riverbera patto, lungo e confini indefiniti dei “Rioni”, dove ripete più volte, allargandosi e restringendosi come un cuore che pulsa, colmando e svuotando valori gesta e attività mai stipulate in forma scritta preventiva, in quanto promessa .

Gjitonia non è mero vicinato indigeno, è la radice di una cultura antica, come un fiume che trasporta senza consumare le cose nel tempo.

Riconoscerla  non è semplice, in quanto, bisogna viverla avendo padronanza di tutti gli ingredienti basilari, essa non non ha tempo, ma segna le attività attuate nel confronto con altri simili, il tutto, se opportunamente predisposte è  avvertito e vissuto anche nei tempi  brevi del turismo di massa, specie quando è fatto con criterio raffinatezza e garbo storico in accoglienza.

Gjitonia non sono le strade, le porte prospicienti la cosa pubblica, le piazze o le strade, giacché è l’insieme ambiente naturale, costruito e uomo a rendere possibile questo fenomeno così denominato in Arbéreshè.

Oggi, all’interno dei Katundë di minoranza storica, si potrebbe vivere identicamente, questa favola sociale, nonostante la globalità e la modernizzazione, che si dice che l’abbiano spenta o addirittura terminata.

Vero è che non è la dimensione del luogo, o le forme delle porte, le pieghe urbanistiche o le epoche a fare Gjitonia, in quanto, essa rappresenta la via maestra per la convivenza sostenibile, tra generi e culture dissimili.

Lo “Sheshi” del futuro ha cambiato le dimensioni, accorciato le distanze con i media sempre più presenti;  tuttavia il fenomeno sociale non è mutato, ha bisogno solo di essere applicato secondo le antiche metodiche, ovvero, l’uso del patto di mutuo soccorso, che  in tutte le latitudini si concretizza e diventa “ Integrazione”.

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GIACULATORIA INNALZATA! ( per gli Arbëreshë ghe vieshëe e shëluer)

GIACULATORIA INNALZATA! ( per gli Arbëreshë ghe vieshëe e shëluer)

Posted on 19 settembre 2021 by admin

Miracco ii

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – La chiamano l’Athena della cultura minoritaria e qui, come accadeva nell’antica Grecia, fattori di genere, abilità fisiche, condizioni economiche, qualità culturali rendevano concreto “l’esposizione”, ampiamente accettata e contemplata per secoli.

Oggi accade che le figure più in vista, sono scelte secondo una strana  “giaculatoria” innalzando  valori di culturali, frutto di studi altrui, come si faceva tra scolaretti quando si copiava il compito del compagno di banco, per poi nel cortile, a missione compiuta gridare:

NE HO FATTO FUORI UN ALTRO!

La premessa serve a individuare lo stato di fatto del luogo dell’inadeguatezza storica, ove senza soluzione di continuità, si carpiscono i concetti e le scoperte culturali di quanti sono cresciuti e formati a Napoli, come  successo nel decennio francese e invece di elevarli per rendergli merito, si buttano a terra volgarmente come una Vieshë buttata li per disonorare .

Sono sempre i comunemente a dominare la scena, con falsità, tenendo ben stretto a denti stretti, il filo che lega bugie su bugie,  una trama labile e perversa; essa da un momento collasserà, per il troppo carico di bugie, falsità e tradimenti;  nessuna intercessione celeste si produrrà per sostenere, quel luogo di pena infernale, castello di carta in salsa di favola e tradimenti.

Se un paese è appellato, capitale di cultura, similmente alla capitale della Grecia antica, le eccellenze che vi nacquero, andrebbero sostenute e poste in prima fila, non abbandonate per poi avvicinarle con lo scopo di creare canali di favore ed esporre i maltolti culturali agli ignari di turno, perché miseri formati, i quali per incompetenza storica preferiscono atto poco nobili, il cui risvolto  termina con il lascito del tempo che trovano.

Una carovana di saltimbanchi dei corridoi degli archivi pronti ad allargare la deriva; la cui meta si finalizza nell’atto di fare scena irreale, pesci da circo fuori d’acqua,  si agitano sventolano le pinne a modo di fazzoletti al vento, aooariscono muti senza nenia, un elevato inutile che subito dopo precipita a jàcere.

Se il luogo della “giaculatoria” è inteso come porto sicuro, per gli instancabili pescatori di storia, questi dovrebbero essere protetti, non perennemente buttati a mare e come se non bastasse, nel momento del massimo confronto culture, preferirli alla povertà di contenuti, alla ricchezza culturale ereditata.

Da quando l’uomo è diventato civile, a trionfare non è stato la “giaculatoria” del buttare, perché la forza del contro canto innalzato con sentimento e credenza è più pregante e vince perché sostenuta cose con senso e radice:

VERGOGNA! VERGOGNA! VERGOGNA!

( Turpë! Turpë! Turpë!)

Si potrebbe ipotizzare che fare errori è umano, ma quando la deriva della non cultura, persiste da oltre un millennio, si potrebbe ipotizzare che  luogo, l’aria, il vento, il sole o l’acqua che sono malevoli, ma una buona dose di colpa senza ombra di dubbio spetta al genere umano che risiede.

Chi vi soggiorna è una comunità abbandonata a se stessa, nonostante abbia avuto innumerevoli possibilità per emergere non è stata mai in grado di attingere cose buone, preferendo  sempre il faceto e volgere lo sguardo dove tira il vento e la sabbia fine imperterrita da fastidio alla vista e con la sua consistenza appiattisce la prospettiva culturale.

  • Se oggi il luogo è noto sin anche per viltà  germana, non ha consapevolezza del perché il re preferì reclutare a meta settecento, un prete locale,  eccellenza di fedeltà cristiana e sociale a cui affidare la credenza e le anime di quanti componevano l’esercito noto come Real Macedone;
  • Se nel vasto Regno di Napoli nel 1798, in questo luogo, nessuno ha avuto il coraggio di innalzare l’albero della pace, nonostante un suo figli era ministro di quel governo, che doveva essere unico e indivisibile;
  • Anzi va aggiunto che quando quel governo terminò la sua breve parabola e il figlio“esposto, fini per essere cattivamente afforcato”, preferirono ignorare l’accaduto, rievocandolo addirittura solo un secolo dopo la disfatta, rimanendo nel contempo a vivere come topi nelle proprie dimore estrattive;
  • Se per cinque giorni, pochi anni dopo lo scorrere di quel secolo, ignorarono il Vescovo, per essere terminato rimanendo tutti fermi vigili e nascosti, dopo essere stato spogliato di ogni bene, in quelle cinque vergognose giornate che non terminano mai;
  • Se non si ha memoria del prete, che per la sua morale religiosa e civile fu nominato Vescovo di rito Bizantino nel tempo in cui il sole traccia un giorno, perché serviva elencare cosa fosse ancora indenne dell’istituzione fiore all’occhiello del bizantinismo meridionale e deciderne le sorti;
  • Se non si ha consapevolezza di segnare, marcare o circoscrivere dove è avvenuto il primo delitto istituzionale del meridione in età moderna;
  • Se ancora oggi non si ha alcuna consapevolezza di cosa rappresenti e denoti la vestizione tipica femminile arbëreshë, giornaliera, di festa e di matrimonio, unico componimento artistico non scritto, perché consuetudine ereditata oralmente;
  • Se non si ha consapevolezza delle cose da preservare per evitare questo stato di cose che non avrà mai fine cosa si puù mettere in campo di costruttivo senza aver preso provvedimenti relativamente a tutto ciò?

Tutte queste citazioni assieme a tante altre che rimarranno ignote, per la troppa fiducia i verso proponimenti di seggiola jàcere; allo scopo servirebbe cambiare totalmente registro e aprire la scena  a quanti la ricerca sono in grado di confrontarla con il territorio, essi sono gli unici capaci a farlo perché hanno seguito percorsi accademici e curriculum specifici, quelli indispensabili a leggere forme di progetto storico di natura e uomo.

Per terminare e rendere merito a un “figlio alto” che pochi conoscono ma molto ha fatto, , si vorrebbe rilevare il valore di questa figura locale del secolo scorso; egli dopo aver costruito il focolare  per la madre Carmela, si sedeva con lei  e annotava ogni cosa per confrontarla con i lucidi anziani che lui spesso si recava a trovare.

Il fine di questo antico modo di tutelare era quello di comprendere in maniera razionale, come realizzare i solchi dove depositare i semi della cultura identitaria locale, nel giardino, dell’INA Casa,  e pochi anni dopo la sua dipartita quei germogli sono diventati,  quello di cui disponiamo oggi  e senza misura disperdiamo; lui si chiamava “T. Miracco”.

Di lui non c’è via, non c’è luogo, non è stata predisposta la ben che minimale manifestazione, evento o nota in suo ricordo, nonostante oggi, la consuetudine locale vive  delle sue regole, nella festa padronale e a tante altre manifestazioni durano per  l’impegno profuso quando si applicare alle cose arbëreshë.

La sua opera, avremo modo di approfondirla, con più particolari, in quanto era una vera forza naturale e trainante della consuetudine arbëreshë; va accennato che segnò la nascita e il proseguo della Banda Musicale, del Gruppo Folcloristico, le regole che seguivano prima, durante e dopo il matrimonio, i festeggiamenti religiosi locali, la pronunzia, senza mai tralasciare ogni piccola ricorrenza, indispensabile allo svolgersi delle stagioni arbëreshë.

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LE CASE, LE CHIESE, IL BOSCO, IL CIELO, LA METRICA, LA STORIA E LE ARTI ARBËRESHË

Protetto: LE CASE, LE CHIESE, IL BOSCO, IL CIELO, LA METRICA, LA STORIA E LE ARTI ARBËRESHË

Posted on 13 settembre 2021 by admin

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NOTE SU GRECI - INVIATE COME LETTERA AL DIRETTORE DEL MATTINO-

NOTE SU GRECI – INVIATE COME LETTERA AL DIRETTORE DEL MATTINO-

Posted on 04 settembre 2021 by admin

GreciGRECI (AV) (di Antonio Sasso) – Un aneddoto che tanti Arbëreshë ricordano e ripetono spesso, è quello relativo a Scanderbeg in punto di morte. Si fece portare un mazzo di rametti ed invitò i presenti a spezzarlo. Nessuno ci riuscì. Chiese quindi ad un giovane di provare e gli suggerì il sistema migliore. Ruppe i singoli rametti e quindi il mazzetto si sfaldò. “Con questo gesto, io, vi volevo dimostrare che se restate uniti nessuno potrà mai spezzarvi, ma dividendovi anche un solo bambino potrà condurvi alla morte”. Detto questo spirò. Credo che questo sintetizzi in pieno l’animo della gente di Greci. Dopo sei secoli sta ancora lì, conserva la lingua, oralmente trasmessa, tradizioni e cultura ed una gran voglia di continuare a lottare per non interrompere questo affascinante amarcord. Più il rischio spopolamento diventa reale, più lo sforzo si moltiplica. Più la generazione avanti negli anni diminuisce, più le nuove ritornano a dare linfa vitale, anche se per periodi sempre più brevi. Il legame con la terra dei propri avi, le consolidate radici, la forza interiore, lo spirito bellicoso che contraddistingue i Grecesi, i forti contrasti che caratterizzano i rapporti interni- a volte gli uni contro gli altri armati – i dissolvono nel momento in cui qualcuno osa chiedere dov’è Greci. Quando si parla di Katundi un unico sentire, un unico ardore, una grande complicità! Da questi impulsi nascono conseguenzialmente, alcune considerazioni. Ognuno nel proprio ambito, sfruttando al meglio le conoscenze e le amicizie, ha cercato rapporti che potessero dare visibilità alla Comunità Arbëreshë. Così si spiega la cortese disponibilità dell’Ambasciatore- prof. Neritan Ceka-a fare la prefazione ad un mio libro e mi piace riportare un brano: “ leggendo il racconto è come vedere quasi un film il passato di Katundi, che somiglia ai paesi albanesi della mia infanzia. Sono innamorato di Katundi sin dalla prima visita nell’agosto del 2014”- e ancora “abbiamo dimenticato le sofferenze e le privazioni e abbiamo conservato gli odori e i colori di una vita semplice e diretta”. Le Istituzioni, in occasione della visita del Presidente d’Albania dott. Ilir  Meta , coincisa con l’inaugurazione del busto di Giorgio Castriota Scanderbeg sono state molto attente e la popolazione tutta ne ha preso atto. E’ stata una festa di popolo! La visita graditissima del Console generale di Albania, il 25 u.s., festa di S. Bartolomeo, Dott. Gentiana Mburimi è un’ulteriore conferma dell’impegno generale. Personalmente ho rapporti cordiali su Facebook con il Ministro della Cultura Albanese Prof. Elva Margariti. A suo merito, mi piace ricordare la presenza dell’Albania all’ultima Biennale di Venezia e i tanti siti recuperati. Questo poi è un anno particolare in quanto ricorre il trentennale dello sbarco della nave “Vlora”. La popolazione di Greci è stata in prima fila ad offrire solidarietà ed ospitalità. Immediatamente si è messa a disposizione al grido di “gjàku i shprishur su hàrrùa” ed ancora oggi sono presenti famiglie, perfettamente integrate, di quel momento storico. Non ultimo è d’uopo ricordare il comune sforzo profuso dalle Acli regionali e dall’arch. Pizzi – anche lui arbëreshë di Napoli – per perorare l’intitolazione di una strada e della relativa targa in via S.Chiara a ricordo degli anni vissuti a Napoli dalla Regina albanese Andronica Arianiti Comneno – vedova di Scaderbeg. Su interessamento del Sindaco De Magistris, la Commissione toponomastica partenopea ha espresso parere favorevole ed una delegazione composta dal Comune di Napoli, dalle Acli e dall’arch. Pizzi, è stata ospite del Comune di Greci il 21 luglio 2021. “Oggi il Paese è bello, sempre più ameno e dolcissimo da gustare: ma quanto è vuoto ahimè! Lo spopolamento sistematico lo sta riducendo ad uno stato di quiescenza che l’anima sola può far rivivere!”  

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IL COSTUME, DELLA MEDIA VALLE CRATI UN PONTE CHE UNISCE LA CASA E  LA CHIESA ARBËRESHË

IL COSTUME, DELLA MEDIA VALLE CRATI UN PONTE CHE UNISCE LA CASA E LA CHIESA ARBËRESHË

Posted on 19 luglio 2021 by admin

Senza titolo-1NAPOLI (di Atanasio Pizzi  Basile) – Dopo anni di costruttive interpretazioni comparando e letto le cose che compongono il costume, arbëreshë della media valle Crati (lato preSila), con scritti del bizantini, Alessandrini, si continua a predisporre manifestazioni, orfane dei più minimali principi di vestizione, quali il senso di civile coabitazione urbana, connessa ai valori religiosi della comunità arbëreshë, in tutto il ponte ideale che unisce cosa di casa e credenze di chiesa.

Gli archi e le linee che uniscono, credenze religiose e attività della consuetudine arbëreshë,  riferire del costume tipico la vestizione, l’uso e il portamento, diventa complicato e non di facile attuazione.

Predisporre come come iniziare a indossarlo, serve a terminare con agli elementi utilizzati, sia si tratti, di giovane ragazza, sposa promessa,  la settimana a seguire il matrimonio, e nel resto della vita prima in sposa e poi madre, il vestito giornaliero e terminare con l’allestimento per visite o accoglienza, non sono temi che possono essere trattati senza adeguata formazione .

Le vestizioni, comunemente confuse e di sovente tessute tra di loro, fanno emergere lacune a dir poco paradossali, il cui traguardo conduce irreparabilmente a rendere poco credibili le vesti. 

E’ per questo che senza soluzione di continuità, smarriscono ogni valore in forma di senso o motivo per il quale sono state realizzate dai maestri sarti, alla fine del XVIII secolo, sotto la vigile guida dei saggi lettori, greci bizantini.

Nello svolgimento degli avvenimenti moderni, bisogna stare attenti, quando s’indossano le vesti, in quanto esse richiedono una conoscenza di base, qui di seguito sintetizzata: definire la distanza dal suolo del gallone che non deve salire oltre la pinta delle scarpe; l’aderenza che deve rispettare, avvolgere senza farle apparire le forme anatomiche e mascherare di forma leggibile; gli elementi di rifinitura utilizzati, siano essi veli dorati o di porpora, ori, collane, orecchini o fasce in stoffa, più o meno, colorata hanno un tempo un luogo e una misura per essere esposte.

Del costume esistono diverse trattazioni, unirle tutte e renderle coerenti non è impresa facile, specie se poi a cimentarsi in questo complicato protocollo, sono giovani leve, che non conoscono nulla e non sanno neanche i rudimenti del protocollo; in alcuni casi, nel passato, è stata sfiorata la decenza, a tal proposito  non andate oltre, invitando per questo, figure di ogni ordine e grado, di riflettere, studiare per poi confrontarsi prima di apparire,  come generi fuori da ogni regola di senso.

Il costume arbëreshë della media valle del Crati, (lato presilano) è un trattato consuetudinario, religioso, linguistico, metrico, tramandato oralmente, quanti hanno avuto la fortuna di crescere a fianco o abbarbicati tra queste vesti materne, possono riconoscere il senso del protocollo e ogni piccola diplomatica di riferimento.

Cercare di sovvertire le regole o elevarsi a tutori, valorizzatori o rifinitori di questo protocollo, solo perché di fresca laurea o perché si è in grado di usare una macchina da cucire, al suono di strumenti anomali, fanno male alla regione storica arbëreshë e alla storia di  vestizione.

Quando s’indossa un costume della tradizione arbëreshë, della media valle del Crati, (lato presilano), serve essere lucidi, portatori sani di una tradizione, la cui radice affonda in tradizioni greco bizantine antichissime e non posso essere lasciati alla misura e i tagli dei comunemente che non avendo consapevolezza le cercano altrove e nell’attesa di trovare il bandolo della matassa, inventano.

La parte bassa del gallone pieghettato della zoga, deve mantenersi regolare su un piano orizzontale ideale, le pieghe terminare in vita, senza lasciare ombra, per intercettare o ipotizzare le parti anatomiche femminili, sia dei fianchi che dei glutei.

Il merletto debitamente inamidato, deve aderire alla giacca, quest’ultima a sua volta deve mantenersi aderente alle spalle ai fianchi e lungo la mezzeria dei seni per svoltare attorno alla base del collo.

Questi e molti altri, sono i minimali adempimenti che ogni indossatrice dovrebbe rispettare prima di esporsi in pubblica festività.

Senza dimenticare che il velo dorato ha un significato, diverso da quello porporato e ogni accessoriò di conseguenza completa il senso della vestizione.

Per questo non vanno intesi esclusivamente come mero arricchimento di bellezza o esibizione per carpire consensi, ma messaggio unico e indivisibile di una tradizione antica, che non deve e non può essere assolutamente smarrita per colpa dei noti comunemente.

Certamente non è in questo breve, che si può esporre quanto di sacro e profano è racchiuso in ogni elemento o atto che si compie prima e dopo la vestizione, ma avere un minimo di regola, serve almeno a non lasciare che il tempo intorbidisca ogni cosa.

Come accaduto per le architetture e dell’urbanistica o rimasto ben poco della credenza di Gjitonia, scambiata per quartiere, rione o vicinato, ragion per la quale, il costume sotto l’aspetto materiale è un componimento ancora intatto, difendiamo e divulghiamo, l’immateriale di memoria e il suo valore identitario.

Ritenere che esiste un costume moderno motivando la sua radice nella “llivera”, non è corretto dato che nessuna sposa andava vestita il giorno delle nozze come accadeva nell’aia, quando si separava il grano dalle impurità delle spighe.

Nessuna sposa andava in chiesa a maritarsi, portando il nastro nero apposto al collo, perché quello era un espediente, di gravidanza, che si utilizzava, almeno due settimane dopo, la sera delle nozze.

Questi e tanti altre regole di vestizione, complementari e fondamentali; o si conoscono compiutamente o si lasciano divulgare da quanti né anno consapevolezza, sia del significato storico, sia di quello civile e sia religioso, altrimenti si peccato e si dissipa la consuetudine di radice, se non addirittura si sfocia negli acquitrini del volgare che infanga e sommerge ogni cosa.

Altra cosa fondamentale, da non sottovalutare, è lasciare al libero arbitrio, di giovani operatori, stilisti o disegnatori, o generi diversi, la riproposizione moderna del tema costume, giacché, per il  valore storico è opera complessa, tutto si può fare ed è lecito applicarsi liberamente in questa disciplina, ma almeno cerchiamo di non farlo nelle manifestazioni di tutela e prima di tracciare linee o spalmare colori, si faccia ricerca storica, così ogni figura avrà consapevolezza di cosa inizia a violare con matita e senza alcuna misura di sorta.

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COME RIPETERE L' ESTATE TURBATA

COME RIPETERE L’ ESTATE TURBATA

Posted on 13 luglio 2021 by admin

Firma1NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Avere vicino chi fa finta di stenderti la mano, senza coerenza, perché abituato a saltare da un pensiero a un desiderio, senza pace, porta la mente a un evento antico proposto con le stesse cadenze di agosto; ritrarre la mano onde evitare legami, è il minimo dovuto verso quanti si apprestano ad esporsi in altare.

Poi se tutto termina proprio li dove il vile avvenimento ebbe luogo è il segno che essersi allontanato da quei luogo, è stato un gesto saggio e distingue “uno”, rispetto i tanti parenti di quella vergognosa pagina di storia.

Cercare un posto lontano, è il gesto più coerente da attuare, per elevarsi rispetto a questi eterni pendolari della cultura religiosa e di consuetudine civile scambiata per llitirë.

Regione storica di artificiosi paradisi, palloni che non volano e nel silenzio, ovunque vanno scuotono le anime e producono rovine peggio di come il Vesuvio fece in Pompei.

Palloni gonfiati silenziosi, mossi da sibillini rumori orizzontali, colmi da insoddisfazioni perenni a cui si sommano personali turbamenti e vestizioni  di genere senza garbo e senso.

Fuggire dal mondo prodotto da questi esseri colmi di falsa boria, abbarbicati ai valori dell’ignoranza, per questo pura finzione disperata, è il gesto più nobile che possono fare le persone normali e di buon senso, che di agosto prendono le distanze.

Come in un gioco perverso, sono gli stessi comunemente che subiscono il fascino del profano scambiato per sacro, spargendosi, sin anche la testa di cenere per diventar poeti e confonde il tragico dal genuino della barbarie più cruda.

Sono gli stessi che imperterriti, senza mai avere consapevolezza dei loro gesti e teoremi divulgati, valgono meno di una posa di avanspettacolo, parabola di gesti mai attuati dalla storia; tutti accolgono di buon grado, tanto alla fine si prepara la tavola imbandita, dove si moltiplicano pani e ogni sorta di manicaretto vegetariano, animale e idoneo comunque per spartire.

Così facendo conquistano il palcoscenico pieno di luci sublimi, inconsapevolezza, di un nulla prodotto, se la meta di poter  spartire le cose ingorde, di vite mediocri, meschine e non certo di estrazione nobile.

Essi vivono sotto vuoto e in perenne stato d’assedio, combattono nemici spietati, generati nella perfidia figlia dell’ignoranza, dalla noia e dai legittimi derivati della loro mente.

Hanno voglia di salire sempre più in alto, per urlare e mostrare i falsi battiti del cuore e la perversa mentalità, il cui fine mira esclusivamente al vergognoso luogo di provenienza dove primeggia, l’ignoranza allo stato puro.

Chi vuole salvarsi da questa cattiva perfidia deve, per forza emigrare, salire più in alto che può, con il suo irripetibile bagaglio di cultura; solo così la parabola del corvo e dell’aquila ha modo di attuarsi, quando si raggiungono i confini dei comuni volatili, è allora che finalmente il corvo cade e nell’impattare a terra, mostra i limiti e vergogne di nudità, millantate per illibate.

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PER QUESTO DELOCARONO IL COLLEGIO CORSINI (1792)

PER QUESTO DELOCARONO IL COLLEGIO CORSINI (1792)

Posted on 25 maggio 2021 by admin

NAPOLI (di Atanasio Pizzi  Basile) – La minoranza che vive gli ambiti culinari del meridione dell’Italia, nota come arbëreshë, comunemente è posta alla ribalta quale fenomeno immateriale linguistico, senza alcun flebile atto di forma materiale se si escludono le eccezioni sartoriali oltre le attività di rito greco, alessandrino.

Non si fa menzione del genius loci e  del costruito, né della metrica canora quale sorgente fondamentale dell’atto idiomatico, pur non avendo storicamente alcuna forma scritta.

Da questi brevi accenni e inconfutabile, il dato che la confusione vegeta e si auto rigenera sovrana; giacche pochissimi sono in grado di intraprendere una rotta coerente, in grado di fornire elementi utili e senso al passato, al presente in solida coerenza per un futuro sostenibile.

Ritenere che la minoranza storica si tale, perché, parla diverso, sminuisce e traduce secoli di storia in un fenomeno da baraccone che si esibisce senza traccia.

Per questo è il caso di invitare quanti si occupa della trattazione degli ambiti della regione storica, di avere adeguata professionalità e particolare dedizione, nel trattare gli argomenti senza errori, rispettando la scaletta qui di seguito riportata:

  • Realizzare un vocabolario Italiano Arbëreshë, che riporta il corpo umano e gli elementi prossimi a consentire la sua sostenibilità.
  • Indagare il modello urbanistico diffuso, tipico delle città aperte, sulla base dei quattro rioni fondativi che uniscono gli oltre 110 centri antichi, di simili origini, allocati nel meridione italiano.
  • Estrapolare il tipo abitativo, che ha risposto e contiene il riverbero e le necessità storiche degli arbëreshë.
  • Produrre il postulato unitario per il modello sociale noto come Gjitonia.
  • Tracciare le alternanze religiose, poste in essere nel corso dei secoli, oltre tutte le inquietudini imposte, per giungere alla quiete della credenza.

Non è più tempo di vagare, alla ricerca di vicende storiche, protocolli o eventi sociali, negli archivi; è il tempo di studiare i luoghi, attraversati, bonificati, per essere vissuti e valorizzati secondo il modello kanuniano arbëreshë.

Smettere di andare a Barcellona, Madrid, Vienna ,Venezia e ogni altro capitale europea o americana per cercare atti di ambiti costruiti arbëreshë, la storia si cerca scavando con pala e piccone, li dove è stata resa sterile per inadempienze culturali di tutela.

Chi sa fare ricerca, la faccia a casa propria prima di tutto, non in casa di altri, tanto più lontano si va a cercare e meno si sa della propria radice.

Il costume arbëreshë, quello originario della macro area della media valle del Crati, è stato scritto secondo il lume del Collegio Corsini, prima e appena trasferito nel 1794, per comprenderlo serve solo sfogliarlo, leggerlo e riportarlo con garbo, perché non è trascritto in nessun loco, il vestito stesso è il trattato.

Quest’ultimo punto non perché meno importante, è stato elencato per ultimo, proprio perché argomento di questo breve secondo l’itinerario qui di seguito riportato..

Quando il collegio Corsini fu istituito, aveva quale fine la formazione del clero per accompagnare nel corso della vita terrena gli arbëreshë, avendo come fine le attività in senso prettamente culturale.

Tuttavia trascorsi circa due ventenni, chi sedeva a capo dell’istituzione, si rese conto che quanto predisposto in origine era grossolano e non avrebbe condotta verso i risultati attesi di completa identificazione sociale e religiosa.

Infatti, serviva formare anche fuori dal perimetro religioso, attività secondo canoni identitari che potessero trovare conferma, nelle attività clericali.

Quale migliore momento di unione tra chiesa e ambiti laici potevano essere inglobati, se non nell’atto dell’unione matrimoniale e il suo protocollo, prima, durante e dopo l’avvenuto rito.

Il matrimonio più di ogni altra cosa rendeva solida la chiesa e lo scorrere del tempo nelle attività sociali, il costume a questo punto doveva essere il trattato religioso e civile, in cui tutti, senza distinzioni di sorta, dovevano riconoscersi e rendersi partecipi al vivere comune.

Attività consuetudinarie emblemi identificativi, colori, momenti di unione e ogni sorta di struttura in forma di arte sartoriale, racchiudevano la credenza dei generi, nel vivere civile e nel momento di riconoscimento religioso.

Il Collegio Corsini dal 1792 diventa un emblema non solo religioso ma un’identità locale attraverso cui riconoscersi e identificarsi in colori gesta e simbolismi, che finalmente univano gli arbëreshë sotto la stessa luce, divina e solare.

In conformità a queste considerazioni storiche, è palese la ricostruzione che è stata fatta del costume arbëreshë, i cui emblemi le virtù della donna, la trama per diventare donna, la figura maschile primaria, ovvero il padre primo guardiano delle diplomatiche della purezza, lo sposo marito e le diplomatiche della inviolabilità, il confine tra generare ed allevare, la ramificazione della fonte, la chioma regina, tutti avvolti e segnati da trame dorate, temi sartoriali bene auguranti di un fuoco familiare che non si deve spegnere mai.

Sono tutti elementi che quanti si dovessero trovare al cospetto della sposa  arbëreshë, sono di facile lettura, ed è inutile ipotizzare che le risposte di questo manufatto, unico nel suo genere, possano esse trascritte nel documento notarile prodotto nelle aule del Corsini, depositato a Barcellona, quando magri a gestire quei territori era Parigi Capitale.

Il costume arbëreshë della macro area della media valle del Crati, non è un componimento sartoriale nato solo ed esclusivamente da consuetudini sociali e religiose.

Esso rappresenta è un componimento ragionato tra i più sopraffini del mediterraneo, è un tema, anzi una diplomatica storica di radici antiche senza eguali,.

Quanti hanno capacità di osservarli perché conoscono la storia, riescono brillantemente apprezzarne il valore, gli altri, i comunemente, alla vista di una tale opera senza eguali, sanno solo umiliarla indossandola male o consumarne i confini senza alcuna cognizione, perché non sanno cosa dicono e non hanno null’altro da fare.

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LA FAVILLA MADRE, NELL’ALTARE DELLA KALIVA ARBËRESHË

LA FAVILLA MADRE, NELL’ALTARE DELLA KALIVA ARBËRESHË

Posted on 19 maggio 2021 by admin

Annetta1NAPOLI (di Atanasio Pizzi  Basile) – Il monte Olimpo con le sue figure più rappresentative ha ispirato storicamente le vicende e le consuetudini degli arbëreshë nel corso della storia sin anche gli aspetti più reconditi della tipica consuetudine.

Prima di attingere e presentare come mitico personaggio Giorgio Castriota, raffigurato nelle gesta e gli emblemi di difesa, è opportuno delineare cosa abbia caratterizzato la definizione, durante lo scorrere del XVIII secolo, degli elementi caratteristici e caratterizzanti il costume della pre-Sila, in media valle del Crati.

In questo breve si vuole rilevare cosa rappresenta, il panno in porpora(Panj), che la signora Annina F. da Santa Sofia, (in figura), porta avvolto sul braccio sinistro, storico messaggio di consuetudine per ogni moglie e madre, regina del fuoco domestico.

Premesso che il costume della media valle del Crati rappresenta la radice, in forma di arte sartoriale, o meglio, atti di credenza civile è religiosa, arbëreshë; è un identificativo completo della sposa, moglie e madre, rispettivamente arco di tempo a seguito del quale  all’interno del perimetro costruito, dove vive la famiglia, diverrà  il luogo dove la donna, sposa e poi madre assumerà il ruolo di regina del focolare .

Lei come, Hestia, la prima figlia di Cronos e Rhea, per non sottrarre il trono al fratello minore Zeus, assume il ruolo, in tutte le dimore degli uomini, identificandosi, dea del focolare domestico acceso.

Per questo essa è la dea della casa, degli affetti e dell’ospitalità, perché nel centro della casa, trova luogo il focolare, il suo storico altare.

È qui che ricevere ogni bene, assumendo il ruolo di forza trainante della casa, sacro diventa così il focolare, amministrato senza soluzione di continuità; qui trovano asilo i supplici, qui si sacrifica la sposa, essa non è onorata solo al centro delle singole case, ma contemporaneamente nel focolare comune che le comunità accendono quando si riuniscono in pubblica piazza.

Solo attraverso il fuoco possono costituirsi e fiorire nuove famiglie, esso rimane indistinto nel mondo figurativo perché rappresenta la fiamma in continuo mutamento.

Il fuoco è il fulcro, centro, di ogni casa, nell’antichità quando una parte dei suoi figli partiva per insediarsi in nuove terre parallele, si affidava una favilla di fuoco, da poetare nella mano sinistra, al fine di accendere nuovi focolai e potersi ritrovare a casa attorno a quel luogo, che grazie a una favilla della madre casa continuava legittimamente a progredire.

La sposa arbëreshë quando diventa moglie porta sempre il suo panno color porpora nel suo braccio sinistro, specie nei giorni di festa, quando deve ricordare alla sua famiglia che anche quando e festa, che il fuoco della sua casa e sempre vivo.

Il costume arbëreshë della pre-Sila, in media valle del Crati è uno elemento caratterizzante che non trova eguali in nessuna macro area della regione storica.

Spetta alla posa, poi moglie e in seguito madre, ogni volta che indossa quelle vesti, inviare messaggi di continuità storica, spetta alle nuove generazioni comprenderne il valore e il senso di quei messaggi.

Sono questi che una volta fatti propri, in lingua madre nell’atto della vestizione, è opportuno saperli esporre in forma di vestizione e messaggi, con modestia, garbo e buon senso, come dicevano le nostre madri;  magari rimanendo in silenzio, per consentire alla “favilla madre” di illuminare ogni cosa, esposta agli osservatori incuriositi.

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L’ABITO DA SPOSA ARBËRESHË  (Stolithë i Nusesh Arbëreshë)

L’ABITO DA SPOSA ARBËRESHË (Stolithë i Nusesh Arbëreshë)

Posted on 13 maggio 2021 by admin

gjakNAPOLI (di Atanasio Pizzi  Basile) –

Nota in Anteprima-

Il componimento sartoriale che porta la donna a diventare moglie, è un insieme di messaggi, bene auguranti, che la donna sposa e il marito sposo hanno come prima dote; esso diffonde il giorno delle nozze e nei tempi a seguire ogni volta, indossate o quando sono depositate negli appositi contenitori, i temi di attività condivise, per il proseguimento della specie in senso tangibile ed intangibile.

A tal fine, chi indossa quelle vesti, è opportuno che abbia consapevolezza, dei messaggi e del significato di ogni atteggiamento, postura o elemento indossato di rifinitura, che è esposta.

Agghindarsi con quelle vesti, immaginando che sia puro folclore, sminuisce il valore dell’atto, terminando per essere inopportuni, incoerenti per terminare nel seminato dell’inopportuno, specie se ad essere esposti imprudentemente tratta minori.

L’abito nuziale rappresenta un manuale rigido e chiuso, una fortezza di messaggi, composto da strati in vestizione; insieme di oggetti per confermare l’evoluzione della coppia, dopo l’atto legale e religioso di unione.

Il disciplinare è eseguito da persone adulte, quanti conoscono il senso di quegli oggetti e di quelle vesti,  sono molto cauti e informano l’indossatrice di turno, gli altri cadono in errore e quando non hanno argomenti per difendersi dal volgarmente esposto, considerano le note cquale disprezzo personale.

L’abito nuziale rappresenta un manuale di atteggiamento composto da strati di vestizione, oggetti per confermare lo l’evoluzione della coppia dopo l’atto legale e religioso di unione, eseguito da persone adulte, quanti conoscono il disciplinare sono sempre molto cauti  e informano l’indossatrice di turno, gli altri cadono in errore e quando non sanno come difendersi dal volgarmente diffuso, considerano le note come disprezzo.

Premessa-

Il tema che segue vuole dare lustro e significato al prodotto sartoriale che identifica il matrimonio arbëreshë, forma artistica, realizzata seguendo l’itinerario storico disciplinare consuetudinario, contenuto in ogni dettaglio che da forma al costume nuziale quando è indossato nelle varie fasi della vita della donna.

Si mira, in oltre, a mettere in luce il valore di ogni elemento o facente parte la vestizione, associandolo al matrimonio, espressione del sistema famiglia, portato con orgoglio dalle donne arbëreshë e per questo sintesi della loro vita , prima durante e dopo il matrimonio.

Seguendo per questo la rotta che collega consuetudini di vita quotidiana illuminate dalla luce di credenza diffusa Greco Bizantina.

Prima di dare inizio alla trattazione, è doveroso ringraziare: Caterina e Carmela da Frascineto, Lucia da Santa Sofia, Anna Maria da Vaccarizzo, Gabriella da San Benedetto Ullano, Fortuna Vicchio da Lungro, Anna Rita da Falconara, Adriana di San Demetrio, in quanto espressione contemporanea per come si indossa, si espone il costume e si esegue  la vestizione correttamente.

Va in oltre rilevato che esse hanno contribuito a esprimere pareri e sensazioni di vestizione cogliendo oggi giorno quegli attimi della vestizione di oltre due secoli or sono.

Un’occasione sprecata da un numero considerevole di addette, che ritenendo esse sufficientemente formate, hanno preferito la via fatua del sentito dire, protagoniste in forma illusoria di favole per restare al cospetto della vestizione per caso.

Questi ultimi, in specie, continuano imperterriti a vivere orfani dei principi fondamentali dell’identità arbëreshë, imbibendosi della stessa teoria malevola dei volgari, che invece di unire separano i minoritari, verso mete prive di trascorsi del componimento sartoriale.

Introduzione- 

Di sovente si racconta o si espongono i costumi arbëreshë, elencando cosa lo componga, secondo la mera sequenza in fredde, nel frattempo, colorate vesti; enunciazioni locali, ben distanti dal loro reale significato storico rispettoso del disciplinare generazionale da madre a figlia.

Il più delle volte, infatti, la consegna orale, del prezioso manuale del matrimonio, non avviene come la storia vuole, ma per sentito dire, terminando la consegna nell’esprimere pare su un’ipotetica vestizione, coronando il tutto con errori a dir poco paradossali, amalgamando addirittura arte sartoriale, con attività non proprio di radice e trama tessile.

Un’altra metodica che ormai è diventata regola certificata, consiste nel proporre il tema della vestizione nuziale,  divagando liberamente in tesi di laurea o esperimenti editoriali, i cui docenti o esperti/e di riferimento, non essendo titolati/e in tal senso, finiscono per approvare, invece di correggere, quanto portato inventato dagli improvvisati stilisti della storia.

Questi comuni atteggiamenti, producono un duplice danno verso quanto dovrebbe essere sostenuto e valorizzato del prezioso modello, arbëreshë; il primo consiste nel avere un prodotto di tutela certificato da istituti, che non posseggono alcuna capacita culturale in tale area; il secondo ancor più pericoloso, in quanto lascia variegati componimenti scritti che primo poi sarà adottato come originale, traducendo tutto in una perdita della tradizione più intima della minoranza.

In questi componimenti che poi non sono altro che riversamento malevolo di concetti senza alcuna attinenza, con il protocollo quadrangolare chiuso arbëreshë, si fa grande sfoggio nel citare l’appartenenza in forma della tipica parlata, senza avere alcuna consapevolezza del significato dell’oggetto esposto o misura, sia dal punto di vista pagano o religioso.

Questo è il motivo che ha determinato la deriva, senza precedenti, mina vagante, del significato della vestizione in sposa; le cui parti, da quando le università e l’editoria hanno ritenuto tutelare e promuovere ben distanti dai temi della ricerca, aspettando seduti nelle cattedre che gli elementi sfilassero al loro cospetto senza alcun metro di misura, ricerca storica o titolo.

Tutto ciò ha condotto l’unico elemento artistico della regine storica confondere persino il tema di cinque sensi, liberando nelle disponibilità di quanti non avevano e ne hanno olfatto, tatto, lungimiranza, gusto e orecchio.

Premessa al discorso della vestizione-

Il matrimonio rappresenta l’unione fisica, morale e legale dell’uomo (il marito) e della donna (la moglie) in completa comunità di comuni intenti e vita, al fine, di fondare “la famiglia e perpetuare la specie”.

Il termine matrimonio come genericamente lo intendiamo, non collima con gli usi delle popolazioni del passato, in cui le unioni coniugali hanno avuto forme svariatissime per innumerevoli atti complessi, sin anche riferibili alla durata del rapporto in senso di tempo e di fatti.

Pochi sono i popoli che concepiscono il vincolo coniugale come indissolubile e nella maggior parte degli altri, la separazione, sotto forma di abbandono, di ripudio, di divorzio, largamente praticati, spesso per la sola volontà del  marito; meno spesso per il deliberato proposito della donna, che generalmente persegue la meta del tetto maritale.

Dalla disposizione che mostrano i popoli a contrarli, con persone della famiglia, della parentela o della tribù; o con  persone estranee al  proprio gruppo,  i  rapporti  matrimoniali si chiamano endogamici o esogamici.

Una forma estrema di endogamia è il matrimonio tra fratello e sorella, che si è osservato in vari luoghi, sebbene  per lo più, entro l’ambito delle classi sociali più  elevate.

Fra le norme che regolano l’endogamia, non va dimenticata quella in cui il fratello può sposare la sorella, ma non la maggiore di età.

Partecipano del principio endogeno le unioni obbligatorie entro le caste o le classi, nati allo scopo di mantenere integra la purezza del sangue o delle tradizioni genealogiche. 

L’orrore del sangue, cioè dei rapporti sessuali fra consanguinei, è alla base delle unioni esogamiche, le quali sono  variamente stabilite, secondo che l’interdizione o tabù riguarda il gruppo intero o il sottogruppo. 

Presso molte genti la proibizione ha un campo più ristretto specie le popolazioni riunite in clan o le fratrie, a queste ultime, se differenti è permesso il legame coniugale. 

Questo perché le fratrie sono divise in più clan, che formano dei veri e propri aggruppamenti esogamici, la caratteristica del clan totemico, per la mitica genealogia che affratella tutti i suoi membri.

Ordinariamente, in rapporto col sistema di parentela adottato o seguito dai differenti  nuclei  etnici, secondo che la genealogia segue la linea femminile o maschile, il matrimonio è vietato nella parentela maternale ammesso in quella del padre, o viceversa.

Gli atti che nella vita popolare dei primitivi intervengono a formare o a sanzionare le unioni coniugali, possono rappresentare o il contrasto delle parti, per il possesso forzato o violento della donna; o l’accordo delle stesse, per la  cessione della  sposa.

Da qui i due principali tipi di connubio, che portano i nomi di matrimonio per ratto e per compra-vendita della donna, queste divengono il manifesto dei rapporti sociali o regime di convivenza tra popoli:

  • il primo caratterizza la vita dei nomadi sfruttatori del suolo, e cacciatori sin anche della figura femminile.
  • il secondo caratterizza la vita dei sedentari, pastori, agricoltori, per i quali la donna, diventa o costituisce un valore aggiunto, al pari di tanti altri oggetti che  rappresentano la  proprietà.

È chiaro che se questi erano i presupposti antichi nel corso delle varie epoche, i principi si sono uniformati verso altre forme più rispettose specie nei confronti della donna, ciò non toglie che nelle consuetudini non troppo lontane, dalle nostre ere, il rito che precede e segue, l’atto del matrimonio celi nelle pieghe ritualità che attingono a da questi estremi modelli di porre in essere l’atto della procreazione riconosciuta.

Se a questi brevi accenni sono allocati all’interno del percorso, evoluivo/consuetudinario arbëreshë, danno la misura e rendono più chiaro ancor la linea seguita nelle tappe del matrimonio riferibile al popolo arbanon.

Sicuramente rappresenta l’evoluzione da modello endogeno a esogeno per giungere alle ritualità di unione,espresse sino agli inizio del secolo scorso, sia in forma materiale se sia in espressioni immateriali.

Certamente avendo ben chiare tutte le ritualità che si adopera nel matrimonio arbëreshë, si possono intercettare, quanto sia il valore dello sposo e della sposa rispetto e la parità degli sposi e cosa è rimasto ancora presente come atteggiamento in forma di emulazione rituale.

Di tutti i piccoli segni subliminali, valga il detto che: lo sposo deve non appartenere alla medesima gjitonia, “il luogo di ricerca della radice familiare, attraverso l’esame sensoriale dei cinque sensi”.

Il ratto figurato o simbolico, in età moderna, si risolve in una serie di formalità che le parti compiono dopo l’intesa o dopo la stipulazione dei patti, per la consegna della sposa .

Tali formalità possono assumere, talvolta, la forma di veri e propri giochi, secondo l’usanza esogamica, che porta il  fidanzato dopo  aver condotto a termine  le trattative con la famiglia  della donna, si  reca nel giorno  stabilito a rilevare la sposa, seguito  dai parenti e dagli amici, ai quali è affidato il compito di trarre in inganno la fanciulla e di per condurla  nell’abitazione maritale. 

La compravendita e il ratto della moglie vanno insieme, il contratto segue il ratto, come il baratto dopo il furto.

E che la compravendita sia la forma più recente di matrimonio si rileva dal fatto che il matrimonio si concretizza attraverso un ben noto protocollo, non scritto, secondo il quale all’interno della nuova unione, ogni facente parte depone la sua dote sia in forma di mestieri o arti e sia in forma di solidità economica con mobili immobili e ori. 

La fusione della consistenza economica nuziale, relativa alle disponibilità che si attribuisce alla donna richiesta dall’uomo richiedente, determina anche la raffinatezza di tutti gli elementi che compongono l’abito della sposa e rappresenterà l’emblema della famiglia anche dopo il matrimonio, svolgendo ance nel proseguo della vità l’emblema rappresentativo in ogni occasione pubblica sia religiosa e sia civile.

In  un primo momento le offerte hanno il valore di compensi; in un momento successivo, l’idea  del compenso  è mascherata  da quella del dono;  onde,  nel primo caso, il matrimonio  per compravendita  reale; e, nel secondo, per compravendita  simulata  o simbolica.

Il Costume e la sua radice.

Gli elementi più rilevanti della riforma amministrativa promossa nell’Italia rivoluzionaria e napoleonica, generalmente sono identificati nei meccanismi che governarono le istituzioni e i conseguenti processi storici definitori dei referenti.

Soprattutto per il Regno di Napoli, gli studiosi hanno rivolto la propria attenzione ai meccanismi amministrativi, trascurandola configurazione territoriale e nello specifico delle macro aree locali.

Questo modo di indagare ha adombrato i legami con la più generale strutturazione del territorio e con l’importanza che strade, architettura, arte e paesaggio incisero sull’evoluzione in forma tangibile e intangibile.

Solo di recente, anche, nel campo degli studi meridionali è emersa la necessità di occuparsi degli sviluppi che hanno prodotto la configurazione territoriale e i confini tra comuni e comunità.

Essi rappresentano foriere di grande novità, nel panorama degli studi meridionali, per questo, le ricerche danno frutti, di fondamentale importanza che in molti casi ribaltano la sequenza degli accadimenti, rappresentando una vera e propria radiografia degli insediamenti.

La nuova metodica, d’indagare del territorio in età moderna, apre nuove prospettive per leggere meglio, il rapporto tra abitato e campagna, un quadro della geografia feudale, lasciato in cantina perche difficile da interpretare.

L’emergere di nuove strutture amministrative autonome, fanno perno nei primi decenni del Seicento, sulla fiscalità dei casali e sulla loro richiesta di autonomia in occasione dell’avvio di analisi per il catasto conciario.

La discussione preparatoria della legge del 14 dicembre 1789, che anticipa lo stesso ritaglio della maglia dipartimentale per l’evidente necessità di sostituire con istituzioni più solide le municipalità rivoluzionarie, nate nel caos dei mesi precedenti, prospetta l’opportunità di porre un limite demografico al di sotto del quale non si sarebbe potuto costituire il comune, indicandolo in 4-5 mila abitanti, con l’evidente disegno di sottrarre i piccoli insediamenti alla più facile influenza della chiesa e della nobiltà, ma anche per la non meno evidente carenza di un sufficiente numero di cittadini attivi, reclutabili per l’amministrazione della comunità.

In Italia il problema dell’adeguamento della maglia amministrativa si pone definitivamente con la nascita della Repubblica Cisalpina e, poi, con la Repubblica Italiana e con il Regno d’Italia per la Lombardia, il Veneto e gli altri territori di riferimento.

Per quel che attiene il Mezzogiorno, la legislazione d’impianto della riforma amministrativa e della configurazione territoriale relativa alle istituzioni locali arriva all’ombra delle armate dell’aquila imperiale durante il regno di Giuseppe.

Nel periodo precedente gli studiosi ricordano due tentativi recenti, il primo al tempo della Repubblica Napoletana del 1799, che attraversa come una cometa, il firmamento dell’universo politico italiano del tempo e l’altro durante la prima Restaurazione Borbone che per la verità in qualche modo richiama il progetto del 1767, relativo anche a un articolato piano di gerarchizzazione del territorio.

Con i nuovi provvedimenti sono finalmente riempiti di contenuti e attività amministrativa e giu­diziaria, ma quello che più conta e dalla prima nota territoriale al nostro discorso la divisione di compartimenti territoriali cui faranno parte da ora e sino all’unità d’Italia le macro aree della regione storica arbëreshë e in particolare i mandamenti territoriali di Calabria citeriore.

Esaminando con dovizia di particolari i paesi che sono la fucina di studio del nostro discorso, sotto l’aspetto amministrativo, sociale e religioso, si rileva che i paesi contenenti la quasi totalità degli elementi caratteristici del costume tipico da sposa, fanno parte dello stesso mandamento e sono sotto la giurisdizione religiosa di radice, Greco Bizantina, e per questo caratterizzato, indelebilmente il territorio.

Questo conferma un dato inconfutabile, in altre parole, dalla fine del 1767 in avanti, il voler identificare con radice, meno appariscente all’interno del presidio religioso più incisivo, la caratterizzazione religiosa non più forgiabile si caratterizza con le attività di unione matrimoniale, attraverso, il tipico costume arbëreshë che ne contiene fondamenta, radice di prosecuzione, crescita e guida.

Le consuetudini nella settimana prima della domenica di vestizione-

La rotta storica che andremo a percorrere mira a focalizzare non la mera esposizione delle vestizione o la elencazione sterile  degli elementi che compongono il costume tipico, cuore pulsante della consuetudine arbëreshë, ne tantomeno realizzeremo illustrazioni o apparizioni comunemente interpretate con sceneggiate di vestizioni, appartenute ad altre donne, con evidenti differenti anatomie, per questo senza  avere consapevolezza di cosa si va a compiere o si finisce di rappresentare il profano e non il sacro vincolo.

Per questo ogni cosa esposta o raffigurata, mira a rendere noto il significato che nel matrimoni assume quel determinato capo di abbigliamento, sia esso intimo, intermedio o visibile, tratteremo i temi di ognuno di essi e cosa rappresentano, a partire da ogni piccolo dettaglio in forma figurata o di pigmentazione.

Un discorso di continuità generazionale raccontato, cui si da ruolo e senso alle vesti, compreso il significato che hanno le eventuali movenze e posture che inconsciamente si assumono nel corso della vestizione

Quella vestizione che in molti inopportuni sceneggiati viene attuata da persone improvvisate, ma quello che più duole senza alcuna grazia conoscenza del rito, si elevano a saggi di atti che per questo si traducono in atteggiamnti a dir poco volgari per una sposa.

La vestizione della sposa il giorno del matrimonio, segue un protocollo antico e si compone di adempimenti, disposti nell’arco temporale della settimana che precede la domenica del matrimonio, generalmente nell’arco temporale dell’estate arbëreshë.

Tutti gli adempimenti di conoscenti, nëdrikùla, familiari, sposi e shëniagnëth svolgevano nell’ora e il giorno stabilito per adempiendo i doveri di credenza e di consuetudine.

I più salienti erano l’allestimento del letto nuziale il giovedì precedente il matrimonio e la mattina di domenica quando la sposa veniva vestita, con quelle sacre e rappresentative vesti.

Le Vesti della Sposa da nuda-

Scutina: Una fascia di cotone che si avvolgeva tra le parti intime a modo di mutando.

Petilia:  Una fascia di seta rettangolare che conteneva i seni nella parte anteriore, legata alle spalle con quattro lacetti di cotone che erano fissati nei quattro angoli del rettangolo,una sorta di reggiseno a fascia senza i tiranti superiori

Linjè-a: Camicia di cotone bianco a contorno del collo e l’unione dei seni dal Merletto (Mèrlletin) di tulle ricamato a mano e rigidamente impostato sino alla vita; questo rappresenta il limite di appartenenza, dalla vita sino ai polpacci come luogo per generare e dalla vita sino al collo come il luogo per allevare, uno rappresenta la semina, e il secondo la fonte per la prole.

Petilè-a: Striscia di stoffa rettangolare in seta con legacci in cotone annodati alle spalle, sul davanti contiene il seno e interrope all’altessa superiore del seno l’ampia scollatura che scende dal collo;

Sutanin-i: Sottoveste bianca ricamata alla base finemente con allegorie delle virtù della sposa, fissata in corrispondenza della vita, in corrispondenza di Linjè, si estende verso il basso sino nella parte delle gambe tra polpacci e caviglie;

Sutanin-i verd: Sottoveste a trame, (Pieghe) perpendicolari, pigmentate secondo le priorità di credenza familiare, tessuto in raso, con rinforzo nella parte della vita, questo serve ad avvolgere uniformemente le caratteristiche anatomiche dalla vita in giù della sposa, oltre ad assumere il significato allegorico di confine o frontiera invalicabile del suo primo tutore maschio: il padre.

Sutanè-a razi: Sottogonna in raso pieghettata con un bordino d’oro, essa rappresenta la dote e quindi la figura paterna, simbolo di rispetto e solidità morale della giovane; il padre perche nelle consuetudini antiche rappresentava il primo tutore maschio della giovane figlia; le pieghe rappresentano la barriera esoterica e religiosa dell’inviolabilità della donna a cui si affida il padre tutore che sarà sempre il riferimento ultimo per la difesa,

Cohè-a Gonna pieghettata di raso in seta e oro, così denominata, perche rappresentano il marito e la casa che assieme andranno a costruire; duecentoquaranta pieghe rappresentano la barriera esoterica e religiosa dell’inviolabilità della donna affidata dal padre alle attenzioni del marito.

Xhipun – i Nastri: Corpetto con ricami in oro e colore porpora: azzurro, rosso, verde, di stoffa; rappresenta la storia della famiglia che si va a formare; riassunto delle nove generazione che dall’unione e dalla fonte del seno materno renderà possibile la prosecuzione della specie, unione tra uomo e donna che attraverso la fonte materna genera e da senso alla unione che si va ad attuare.

Kezè – a: Diadema nuziale riposto in testa; di estrazione o meglio di radice dogale prende spunto dalla massimo esponente sociale e religioso di quella società, unico e solo ad avere la direzione di ogni cosa, in quale fonte insostituibile di sapere e tutela.

Il  tipico copricapo con la sfera nella parte sommitale posteriore rappresentava la fonte materna di ogni cosa,;m cosi anche per il costume arbëreshë, riposta in capo alla donna, sopra la topica pettinatura figurativamente emulava, il seno in senso di saggezza che attinge dal passato, le prospettive del futuro.

Kallucieté, -t: Calze bianche lavorate a mano; erano l’emblema della calore a che tiene sempre solida l’istituzione che genera la prole, prua e divinamente inviolabile.

Kèpucè, -t: Scarpe realizzate dello stesso tessuto della “Zoha” rappresentano le fondamenta della famiglia e per questo filate e tessute in oro, la rappresentazione del divino, in quanto, espressione di luce senza origine.

Per terminare questo breve si vuole accentuare il valore sociale del costume, che vuole rappresentare un’insieme di valori consuetudinari, pagani e religiosi, essenza bene augurante, per il sostenere e valorizzare attraverso i colori e raffinate stoffe lino, cotone, raso, broccato, di seta e oro, in una armonica combinazione, la fonte di un’identità che si consolida nel tempo e non smette di esistere.

                                                                                                            Napoli 2021-05-13

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