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LA CRUSCA ANCHE PER LA LINGUA DELLA REGIONE STORICA DIFFUSA DEGLI ARBËR (Krùndja Thë ghjughës Arbërèshëvet The Shëprishiura)

LA CRUSCA ANCHE PER LA LINGUA DELLA REGIONE STORICA DIFFUSA DEGLI ARBËR (Krùndja Thë ghjughës Arbërèshëvet The Shëprishiura)

Posted on 18 febbraio 2023 by admin

I fratelli Grimm a lavoro

NAPOLI (Lo Storico Atanasio Pizzi Basile) – L’Accademia persegue il fine di tutelare, conservare e divulgare la lingua degli Arber, delineando Termini solidi e indistruttibili, con monoliti atti a circoscrivere le interferenze moderne, le stesse che insistono nel generare fatuo, cercando di vanificare la promessa data, in terra natia nel 1469, quella che ancora oggi i “Cruscofoni” promuovono dentro e fuori i confini della Regione storica diffusa degli Arbër.

Oggi da Napoli con il contributo di parlanti natii delle 21 macro aree, che compongono la regione storica diffusa, si vuole separare la farina, cioè la lingua, identificata con l’Albanese, dalla “crusca” ovvero la corazza che gli esuli utilizzano da quando approdarono nelle terre parallele, dal 1469 al 1502.

Il nobile intento a impronta dell’impresa del Cavaliere Giorgio Castriota figlio di Giovanni, non è stato finalizzato a forme di battaglie per sovrapporsi agli indigeni, ma per tutelare la propria identità rispettando anche le altre Crusche ancora vive.

Un progetto di non facile attuazione, ma la caparbietà che contraddistingue questo popolo, fa la differenza, con  quanti rimasero in terra natia a segnare confini di terra in fermento.

Tuttavia tutti consapevoli allora, che dovevano come noi oggi, affrontare non poche difficoltà, prima di uscire in pubblico confronto, per realizzare un solido progetto, che accolga con misura tutti i Residui nei luoghi di macinazione dei cereali, separando con dovizia di radice, dal grano duro.

Un semplice ma antico atto di rifinitura, noto nel saper distinguere con saggezza la farina di oltre Adriatico, dalla crusca Arbër, ovvero, l’elmo del drago e non del capretto come suolesi rappresentare; come facevano le nostre genitrici quando infornavano buk me Krùnde , per sfamare ogni genere vivente di quelle terre, le stesse genitrici che hanno saputo allevare quanti sanno distinguere, il cattivo dal buono.

L’accademia che germoglia a Napoli, non è altro che un seme antico piantato nella purpignera (in Arber, vurvini i llem llitirit) protetto poi in età parlante, nel recinto del “giardino di l’Ina Casa” da uno dei contadini della lingua Arbër, definito il più eccelso, in Terra di Sofia, dal 1913 al 1964, anno, quest’ultimo, che passo il testimone al giovane parlante adottato a Napoli.

L’unico esponente Arbër vissuto con lo scopo principale di vigilare sul buon uso delle cose materiali e immateriali, portate nel cuore e nella mente delle genti provenienti dalla terra madre.

Il nome, promuove i crusconi senza alcun dubbio come eccellenza (per burlesca modestia, «gente degna di crusca e non di farina»), gli unici in grado di separare, nella lingua, la farina, cioè la lingua più pura, dalla crusca, cioè l’elemento meno valido, ovvero l’elemento della difesa di suolo.

La formazione culturale nella capitale con eccellenze in campo linguistico, sociale, storico, sia materiale ed immateriale, nel campo della musica, del restauro, della museologia oltre a saper leggere e disegnare le cose del passato, consentono quel titolo accademico, un tempo esclusiva delle Botteghe del Sapere o figli in discendenza.

A tal proposito è bene fare una piccola premessa, ovvero, fratelli Grimm, si nasce e non lo si diventa, solo perché si è in grado di favoleggiare, senza adeguata consapevolezza di garbo, educazione e sentimento, come hanno cercato di fare provetti fochisti, saliti sulla Cattedra che non è la stessa cosa di un Camino che unisce la famiglia.

Generando riverberi incontrollati prima lungo le Gjitonie, raccontate dagli indigeni e poi allontanandosi sempre di più, in piazze e palchi, scambiando, deserti culturale con oasi.

I fratelli Grimm sono diventati celebri per aver raccolto ed elaborato moltissime fiabe della tradizione tedesca e più in generale europea.

Le fiabe, per loro natura tramandate oralmente, sono di difficile datazione e attribuzione come la trasposizione letteraria in lingua napoletana Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile, che precedette sin anche i Grimm, per più di due secoli.

Tuttavia le loro storie non erano concepite per i bambini, oggi ricordate soprattutto in una forma depurata dei particolari più cruenti, e non mancano di contrarietà a edulcorare le storie.

Resta comunque sempre valido in concetto di Camino, la Crusca che contiene e avvolge la parte genuina di un ben identificato popolo, attraverso l’attenzione che i minori applicavano nell’ascoltare e comprendere le cose materiali e immateriali delle favole.

In dato non è stato compreso dai giullari o saltimbanchi, che invece di comprendere il senso dell’atto che si andava a esternare, disporre, attuare e attuare attorno al camino, ovvero la fucina del parlare una lingua antica, ci si è fermati alla mera falciatura delle favole poi lasciate alle intemperie a macerare.

Le favole non sono altro che il “vocabolario primo”, il più antico, autentico e solidale condiviso dall’uomo, senza carta penna e calamaio, sin dalla notte dei tempi realizzato.

Essendo le favole racconto di generi e parole che si usano descrivono il corpo umano e l’ambiente e le cose naturali che lo circondano per farlo crescere e vivere, in definitiva il messaggio, la consuetudine che i fratelli Grimm, seminavano e diffondevano per unire uomini della stessa terra, in tutto, quello resta e sarà sempre il corpo umano, lo stesso che suda, semina, opera e raccoglie le cose per fare vita.

È naturale chiedersi perché anche noi Arbër, per iniziare a delineare il vocabolario primo, quello che unisce la Regione storica diffusa ad Ovest del fiume Adriatico, con le popolazioni ad Est di detto fiume, non faremo altro che diffondere semplici parole che descrivono il corpo umano e il suo ambiente naturale?

In altre parole, mano, braccia, orecchie, capelli, ecc., ecc.; avrete, come per incanto, adesioni da parte di tutti i parlanti moderni e antichi di questa lingua, perché tutti senza alcuna distinzione comprenderanno il sostantivo, il verbo o aggettivo che sia, senza riserve.

P.S. visto che non ho fratelli, io faccio Grimm e voi sarete la fratria, così la storia si ripete anche per gli Arbër

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GJITONIA: GOVERNO LOCALE DIFFUSO, DELLE DONNE ARBËR

Protetto: GJITONIA: GOVERNO LOCALE DIFFUSO, DELLE DONNE ARBËR

Posted on 21 dicembre 2022 by admin

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GJITONIA, SECONDO LA DIPLOMATICA DI UN PAESE ARBËR  (gjitonia, te krietë i katundëtë arbër)

GJITONIA, SECONDO LA DIPLOMATICA DI UN PAESE ARBËR (gjitonia, te krietë i katundëtë arbër)

Posted on 09 novembre 2022 by admin

LETTERA AD UN AMICO_oNAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – E’ stato detto che vi sono due storie dei trascorsi che abbracciano l’intero mediterraneo e per questo anche tutte le minoranze storiche:

  • la ufficiale, menzognera, che ci viene insegnate e largamente diffusa secondo ordini e gradi prestabiliti;
  • la segreta, dove giacciono le vere cause degli avvenimenti, una storia spesso vergognosa che non può affrontare la luce del sole;

a noi studiosi il compito di rendere nota quale sia la vera storia e cosa è menzogna, senza arricchire il riferito con il contributo di eroi e nascondere le macchie in sangue di quanti per aver creduto in una missione sono presentati come comprimari di secondo ordine.

Gli elementi sono molteplici e si presentano in diversa caratura, ma il teorema più elevato, privo dei più elementari fondamenti di cose riferibili agli Arbër, depone la Gjitonia, nello stesso nido sociale degli indigeni, considerandola simile, uguale o equipollente al Vicinato, assegnando così al componimento di thema, il ruolo fondamentale dell’approssimazione, oltremodo priva di senso, sminuendo, così tutte le altre di simile radice.

A tal proposito, si ritiene sia giunto il tempo di rimuovere, quanto svoltosi o accaduto nel 1999, quando fatta la legge per le minoranze storiche d’Italia, gli Arbër dovettero allestire, in tutta fretta, l’inadatto teorema, copiando nei temi Olivettiani e accedere con poca fatica, tra gli eletti della 482.

Trovandosi, i su citati operatori culturali, impreparati ad apparire con forza, inventarono cosa fosse, caratteristica e caratterizzante la minoranza, quest’ultima  per una mancanza legislativa, non difende neanche gli Arbër, la storica minoranza, ma forse, quanti approdarono a Bari l’8 Agosto del 1991, questo chiaramente non è vero, ma leggendo gli articoli di legge, di Albanese tratta e non di Albanofoni o Arbër.

In oltre i cultori dell’epoca, ignari di ogni cosa, invece di illuminare le eccellenze Arbër/n che la storia teneva in bacheca, pronte ad essere esposte, pensarono di legare tutto al circoscritto idiomatico, ancor oggi incompreso, a cui legare le cose con spago di canapa richiamando la:  Gjitonia, senza mai  parlarne in senso unitario, riversando tutto nell’Albanese moderno che da ora i avanti intorbidirà ogni cosa.

Certo che non era un buon biglietto da visita, vedere la legge a pieno regime e sentirsi ripetere il ritornello: “la Gjitonia come il Vicinato”, o i borghi Arbër, quando nessuno di questi così descritto e riportato sia mai appartenuto alle cose degli Arbër.

Il dato forviante ha piegato i cultori di ieri e di oggi, a tal proposito, l’auspicio vuole che quelli di domani, abbiano nel loro scrigno culturale, elementi sufficienti a comprendere la storica differenza e correggere ogni cosa, vocabolari di area compresi, oltremodo compilati all’incontrario, per una  vasta platea ancora analfabeta.

Ad iniziare da oggi a trattare le cose, come sancito anche dall’articolo nove della Costituzione Italiana, che ancora non fa parte degli articoli della 482, riferisce della tutela e valorizzazione delle cose e dei beni materiali e immateriali di una ben identificato territorio o macroarea minoritaria, come utilizzava fare A. Olivetti, con i suoi gruppi di lavoro multidisciplinari, ancora ignoti a molti operatori e amministratori moderni se non per copiare “vicinato” dalla profess. Lidia De Rita  .

Avere un numero ampio di esperti, che studiano e intrecciano dati storici, con il vissuto e i segni del territorio, in tutto, ricerche i campo Geologico, Ambientale, Sociale, della Psiche, Antropologico, Architettonico.

In altre parole il rapporto di convivenza a lungo termine tra Uomo, Natura e le trasformazioni relative al “tema ambientale ad opera dell’uomo”, capace di fornire le certezze sino ad oggi accantonate.

Per iniziare il discorso di tema, è bene precisare che la gjitonia è anche insieme di gruppi familiari allargati, in evoluzione mnemonica di radice, il termine definisce gruppi molto radicati a un ben identificato territorio, che si usa definire parallelo, ma che non gode di diritti, ne prerogative che spettano a quelli di istituzione locale,  infatti gli unici diritti a loro affidati sono la dirigenza di un ristretto ambito in forma di cose sociali e associative, per dare al luogo movimento, secondo i riti di credenza e consuetudini di confronto con il territorio.

I Katundë arbër (villaggio, paese, contrada, frazione, vico casto) possono essere riassunti come una tessitura urbana identificabile nel rione romano, dal punto di vista della direzione espansivo, mentre per quanto riguarda le architetture e gli aspetti sociali attingeva della radice greca del vicolo.

La differente mentalità nel modo di insediarsi, diversamente dagli indigeni, non sempre, dagli storici è stata intercettata con successo, infatti, comunemente si confonde il modello sociale di mutuo soccorso generico, “il Vicinato” con quelli dei cinque sensi e di ricerca dell’antico ceppo familiare arbër, detto “la Gjitonia”; oltremodo ritenendoli identiche, equipollenti o addirittura simili, quanto questo dato non ha alcuna fondatezza o lascito in tal senso, confonde le cose della storia, il sociale e di credenza.

I Vicinato e la Gjitonia, sono due modelli sociali ben distanti e pur se coabitando ambiti mediterranei sono diametralmente opposti:

  • Il Vicinato, genericamente interessa la fascia mediterranea che da Est a Ovest comprende l’Abruzzo sino alla punta più a sud della Sicilia; coinvolgendo tutte le popolazioni della Grecia più ad Est, sino alla punta più estrema della penisola Iberica; unendo in questo ambito individui di radice multi locale, in cooperazione sociale genericamente sotto il controllo del “commarato del semplice mutuo soccorso”.
  • La Gjitonia è composta da gruppi familiari allargati, che s’insediano nelle stesse aree, secondo precise e storiche disposizioni; macchina sociale precostituita, in cui ogni elemento o gruppi di elementi assumono uno specifico ruolo, secondo capacita e forza di corpo e d’animo, i cui diritti e doveri sono finalizzati per la sostenibilità dei gjitoni, in armonia e nel pieno rispetto del territorio.

Va in oltre precisato che la Gjitonia non ha confini fisici in quanto trova ragione in spazi ideali che come cerchi concentrici partono dal fuoco domestico della regina della casa,  si espandono in ogni dove e genera l’armonico sentimento dei cinque sensi condivisi, secondo note armonie di cose.

Il valore spaziale dell’identità Arbër  si contrappongono ai nuclei urbani degli indigeni, questi pur se apparentemente simili, mostrano una sostanziale differenza, distinguendo quanti s’insediarono in fuga dalle terre d’oltremare e chi già in quelle terre dimorava.

Per questo i Katundë arbër, denotano le vicende di un periodo medio breve di confronto e scontro, con gli indigeni locali; solo dopo aver tracciato con senso, i valori, le cose materiali e immateriali secondo il proprio identificativo di genio, iniziarono a edificare le prime i primi abituri in forma estrattiva e poi additiva, con il senso di legarli alla terra di origine e di quanto innestato nei trascorsi storici di luogo.

All’inizio forme elementari e modeste, ben disegnate e definite in cui gli elementi fondanti erano: il recinto, la casa e l’orto botanico, un micro ambito circoscritto idoneo a soddisfare le esigenze dal gruppo familiare allargato e dei suoi animali domestici, da lavoro e trasporto.

Sono gli stessi ambiti abitati dagli arbër, pur se in apparenza possono apparire simili alle trame urbane degli indigeni, specie quelli costruiti dalla fine del XV secolo alla meta del XVI, per lo sviluppo delle aree agricole del meridione.

Tuttavia nella sostanza, i Katundë in elevati e tacciati Arbër, hanno finalità ben diverse, in quanto, dovevano rispondere a esigenze consuetudinarie “parallele importate dalla terra di origine”, a est del fiume Adriatico sin dove sfocia nello Jonio.

La caratteristica che contraddistingue gli agglomerati apparentemente disordinati, è racchiusa nella toponomastica e nell’aggregazione del modulo abitativo di base, che si articola lungo lingue di terra ben identificate secondo sistemi, prima articolati e poi in seguito lineari.

Quattro sono gli elementi toponomastici storici dei centri antichi Arbër: gli ambiti del credo, ovvero, la chiesa Greco Bizantina (Kishia); Il promontorio o luogo di osservazione (Bregu);  l’ambito circoscritto di primo insediamento Piazzetta (Sheshi); gli spazi delle attività ed espansione (Katundë).

Sono sempre quattro i toponomi ricorrenti in tutti agli odierni “centri antichi”, l’identico sistema urbanistico aperto, adottato sin anche nelle terre di origine balcaniche.

A tal proposito, l’insieme d’identificazione detta anche dei cinque sensi, ovvero gjitonia, rappresentava anche la linea oltre la quale ci si poteva contrarre matrimoni, estendendo  il perimetro diffuso, si sino a tutto il contesto territoriale dove vivevano gli arbër.

I due confini, confini, minimo e massimo sono stati in vigore sino agli inizi del secolo XVIII, quando la conseguente mutazione della “famiglia allargata”, in “urbana diffusa” e poi, in tempi più recenti parte integrata del sistema, “metropolitano/multimediale” hanno azzerato il primo confine e liberalizzato il secondo.

Questo conferma quanto citato prima, ovvero, i rapporti, meglio l’indagine dei rapporti di sangue ovvero parentela dimenticata, di quanti entrassero a far parte degli ambiti di gjitonia, che nei contratti di matrimonio escludevano le forme di unione endogene avendo come finalità solo quella esogena di appartenenza.

Quando erano al termine i lavori per la definizione della legge 482 del 1999, secondo quanto sancito dell’art. 3 – 6  della Costituzione Italiana, e suggerito della Comunità Europea, gli stati generali arbëreshë iniziarono a fermentare, come fa il mosto, prima di fare vino.

Per l’evento, di tutela secondo la citata legge, serviva caratterizzare la minoranza con un sostantivo tipico, che avrebbe dovuto dare valore alla “Regione storica diffusa Arbëreshë”.

Identificando quale volano il sostantivo “Gjitonia”, dove valorizzare la minoranza, al fine di rendere noti i minori ai maggiori, perche unici detentori di un protocollo sociale di inestimabile valore, da ritenersi tra i più longevi delle terre che perimetrano il mediterraneo centrale.

Il personalismo purtroppo a questo punto ha preso il sopravvento, sulla ragione e invece di aprire un tavolo di indagine composto da commissione multi disciplinare con solide capacità interpretative sia in campo linguistico, e di specifiche discipline, si è preferito procedere in ordine sparso.

E quanti dovevano panificare, iniziarono la ricerca del ”criscito madre perduto”, peregrinando lungo Rioni, Quartieri, Vicoli, Strade, Sheshi o addirittura senza meta, terminando la corsa tra gli ambiti indigeni che imprecavano parole brutte contro i ladroni di identità e terra.

Allo scopo e per togliere ogni sorta di dubbio è opportuno specificare che “Gjitonia”, non è Rione, non è Quartiere, non è come il Vicinato, non è “uno sheshi a forma circolare che unisce la corale convivenza delle porte per accedere alle proprie abitazioni” ne un paradossale trittico architettonico e ancor meno il festival delle porte aperte a manzaportu (lingua Zamandara).

Nella comune conversazione della nazione comunemente detta Arbëria (???) viene definito lo Sheshi come piazzetta, purtroppo, anche in questo caso si avvolgono senza attenzione dinamiche compositive in senso di spazio, a dir poco paradossali come un quartiere, senza avere una  cognizione storica o grammaticale del sostantivo o di altri ad esso associati, simili o equipollenti.

Partendo dal dato storico che ogni “rione” prima di essere tale, era uno spazio delimitato da un recinto di materiali naturali, quali tronchi e rami intrecciati, entro cui trovo rifugio il gruppo familiare allargato, come si ricordava di organizzarsi in terra di origine Balcana.

Al suo interno, era allestita la rudimentale abitazione in forma estrattiva, l’orto botanico e le attività della  filiera corta, che qui terminava di comporre e selezionare le parti più genuine degli alimenti.

Quando le attività messe in atto, consentirono al gruppo familiare allargato, di crescere di numero, questi iniziarono a proporre lo stesso modello di residenza passando dal’antico modulo estrattivo al nuovo additivo, quest’ultimo in specie, passò dai materiali deperibili dell’era del nomadismo a quelli naturali duraturi come calce e pietra dell’epoca del definitivo stanziamento.

È da questo momento che inizia a svilupparsi il rione, traccia di planimetrie antiche, rimanendo sempre privo di murazioni, barriere per la difesa o porte.

A tal fine va rilevato che dal 1563 le autorità locali dei Katund, ricevettero imposizioni regie in tale direzione, ma per l’economia corrente non furono mai applicate, se non sprazzi di muri o abitazioni, che per il tipico orientamento lasciavano elevati murari senza aperture a piano terra, dando l’impressione di opere eseguite in tal senso, ma poi i terremoti e le carestie fecero volgere l’interesse su altre priorità.

E’ lo stesso impianto urbano in allestimento a risponde sia alla esigenza difensive sociale e abitativa, come  insegnavano le Shekite religiose e gli Sheshi; ed è così che vennero innalzati agglomerati diffusi, in forma ed espansione secondo il concetti del labirinto in schema di Medina.

Strade strette e case addossate diventarono una secessione di dogane, perennemente attive; funzione che ogni abitante del rione svolgeva attraverso la porta gemellata con l’indispensabile finestrella, che non seguiva il disciplinare della  tassazioni, ma consensi sociali.

Tanti luoghi di avvistamento diurno e notturno, svolgevano senza soluzione di continuità l’atto della difesa, attraverso lo spazio costruito dei residenti che vi abitavano all’interno dello Sheshi; il Labirinto, come gli Arabi prima degli arbëreshë negli anfratti prospicienti il mediterraneo erano solito innalzarli per difesa.

Da ciò si evince che lo “sheshi non è uno slargo non è una piazzetta non è solo il tema che compone il modello urbanistico arbër”, ma un sistema raffinato e articolato, fatto di costruito irregolare, intrinseco per la difesa, contro ogni forza avversa; sia esso di radice naturale, come precipitazione, irraggiamento solare, esposizione eolica o derivante dell’uomo con intenzioni di ferire e sottomettere.

Alla luce di tutto ciò, “Gjitonë” non è da ritenere l’avversario di se stessa, veicolando per questo, forme di razzismo, tra parenti, che non trovano ragione d’essere, se non in discriminatori concetti, comunemente divulgati, per privi di ogni formazione o forma di scolarizzazione, attraverso comportamenti non dei maestri, ma degli operatori scolastici di terzo grado.

Un altro stereotipo, di cui si fa un grande parlare, sino a varcare i limiti della blasfemia, prende ragione nel principio secondo cui la Gjitonia, porta un nome di un luogo o di una persona a memoria, preceduto dal suffisso “ka”.

L’errore storico arriva al punto tale da scambiare il “laboratorio ideale di ricerca dell’antico ceppo familiare” su base dei cinque sensi, con un episodio toponomastico di tempo associato ad un luogo o una persona.

La ricerca dell’antico identificativo arbër, dell’ideale spazio non identificato fisicamente è riassunto dalla frase: Gjitonia; sin dove arrivano i sensì; l’enunciato venne intercettato in una ricognizione presso un Katundë della destra Crati, durante un’intervista a una, ultra novantenne, che descriveva e parlava dei cerchi concentrici dell’armonica forma sociale, dove lei si riconosceva perche li identificava nelle prospettive libere e ne sentire, volendo significare con il sentire i quattro sensi dopo la vista.

La ricerca, condotta da un noto antropologo latino e da giovani allievi arbër, per inesperienza di questi ultimi, venne riferita all’antropologo professore, secondo una sintetica traduzione incompleta di quanto voleva intendere l’anziana donna.

È proprio questa espressione che mi è stata lasciata in eredità dal professore, in una delle ultime conversazioni nel 2009 , dicendomi; ho fatto tanta ricerca sul campo e non sono stato mai convinto, di fare bene, ma una frase mi ha sempre perseguitato e non riesco a dimenticare; “gjitonia dove vedo e dove sento”.

Risposi al professore che l’aveva intercettata e trascritta, tradotta male dai suoi allievi, giacché per gli arbëreshe vedere e sentire sono semplicemente i “cinque sensi”.

Ragion per la quale, gjitonia è un luogo ideale senza confini, sin dove la vista, il tatto, gli odori, i suoni, i sapori, restano identificabili e non mutano; essi sono la memoria di crescita e una volta che ti hanno avvolto, continuano ad essere vivi nella tua formazione,  se poi questi sono intercettati da quanti li avvertono ordinatamente secondo gli antichi dettami Kanuniani è il segno distintivo che appartieni alla minoranza arbër, i pochi che ancora oggi con impegno e credenza difendono e tutelano.

Per riassumere: “gjitonia è un luogo identificato attraverso i cinque sensi, sensazioni per le quali e attraverso i quali riconosci la memoria e il segno del tempo associato al bagliore che indica la strada giusta ai sensi”.

In tutto possiamo affermare che  Gjitonia rappresenta una cassa armonica di natura senza confini, si attiva tutte le volte che la lealtà di quanti ti stanno a accanto, aprono scenari antichi di suoni, sapori, sensazioni, odori e ti accompagnano, in tutto le cose indispensabili che fanno avvertire ogni cosa che ti avvolgeva di una storia antica.

Non è la forma della piazza, non è la regolarità della strada, né la qualità del costruito che ti circonda ad attivare il sentimento antico, ma è l’insieme armonico che si sviluppa, quando natura, tempo e uomini usando i sensi per condividere presente e futuro secondo antiche consuetudini in arbër, che pochi sanno come tramandare.

P:S: – «È curioso a vedere che quasi tutti gli uomini che valgono molto, hanno le maniere semplici; e che quasi sempre le maniere semplici sono prese per indizio di poco valore»

– Giacomo Leopardi-

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LE ORIGINI

LE ORIGINI

Posted on 31 agosto 2022 by admin

IL CODICE DEGLI ARBËRESHË CREDENTINAPOLI – (di Atanasio Pizzi Basile) – Santa Sofia d’Epiro è un centro abitato della provincia di Cosenza, quest’ultima un tempo identificata come Calabria citeriore.

Il Katundë di origini Arbër, nasce tra le colline della Sila Greca, che guardano lo Jonio, coronato dalla storica piana della Sibaritide.

La fondazione del piccolo agglomerato urbano è largamente anteriore alla venuta degli Albanesi o a quella ancor prima, della schiera di soldati greci di fede bizantina insediatisi nell’869.

A tal proposito va rilevato la vara origine del sito, risalente alla fine del VI secolo a.C., in rapida successione alla nascita di Sibari e del relativo sistema difensivo/produttivo, infatti la piana prospiciente il mare, dove Sibari venne  edificata, era coronata verso  l’entroterra, da una strategica cerchia di castelli a guardia dei valichi fluviali, che sfociavano prima alle spalle del sito della Magna Grecia e poi a mare.

Tuttavia e nonostante ciò si far risalire il centro abitato, quale opera di un gruppi di soldati disposti a difesa della linea del fiume Crati, insediatisi lungo le colline  dalla linea Rossano, Bisignano e Cosenza, per contrapposti ai Longobardi.

I soldati bizantini, trovavano sicurezza allocando i loro stati maggiore più verso monte, per non essere facilmente esposti agli avversari  sul fronte più a valle e  subire gli effetti dalle Anofele, che nella media e lunga permanenza diventavano letali.

Il Centro abitato in origine  composto dalla chiesa e rudimentali abitazioni, nominato Santa Sofia, a memoria della chiesa madre di Costantinopoli da cui partivano gli impulsi di credenza.

Dopo un iniziale sviluppo e accrescimento demografico, la piccola comunità subì le pestilenze e i travagli dell’epoca, di cui le cronache della Calabria citeriore del XIV sc. riferiscono numerosi  dettagli ancora  leggibili in loco.

I territori rimasero sottoposti a un rilevante calo demografico e conseguentemente economico, innescarono processi negativi  per le casse dei nobili locali, che dovevano rispondere al governo centrale.

L’alternativa per porre rimedio a questo stato di povertà territoriale diffusa, la fornirono le migrazioni dai Balcani e le vicende della nascente diaspora arbanon, che dal 1468, questa popolazione per seguire la vedova di Giorgio Castriota, a frotte, sbarcarono nelle coste del regno di Napoli e di più nella Sibaritide.

Il Mons. Giovanni Frangipani, vescovo di Bisignano, favorì per questo l’insediamento di profughi provenienti dall’Epi­ro, noti per essere fedeli lavoranti e luminari nell’arte di predisporre il noto e famoso trittico, alimentare mediterraneo.

La storia del Katundë Sofiota, è costernata da atti, attività, cose e figure la cui meta principale mirava alla tutela e la valorizzazione della lingua, le consuetudini, i costumi e il rito Greco/Bizantino, per i quali e con i quali, Santa Sofia d’Epiro si è meritato l’appellativo di “Scuola”.

I primi adempimenti dei suoi residenti, in poco tempo integratisi con le genti indigene, hanno definito gli spazi dei quattro rioni tipici, il riconoscimento dei gruppi familiari allargati e la definizione del loco dei cinque sensi: la Gjitonia, elevando così il costruito dell’originario “centro antico” come quello della terra di origine.

Per giungere a ciò, non sono mancate le avvertita sia naturali e sia innescate dall’uomo, tuttavia, la caparbia e la tenacia che distingue questo popolo, ha fatto si che dal XVII al XVIII  secolo, poterono intraprendere la via della cultura e della formazione, grazie al prelato Giuseppe Bugliaro, che per le sue attività religiose all’interno della Real Macedone nella Napoli Onciaria, accolse le menti più eccelse, suoi conterranei, per avviare il percorso culturale, che la storia definisce senza eguali.

Sono sempre figure Sofiote a innalzare il valore culturale dello storico collegio Corsini, deponendolo contro numerosi avversari, nella sede più strategica a san Demetrio corone nel Collegio di Sant’Adriano.

È sempre Giuseppe Bugliari, ma questa volta un Vescovo di altra epoca, dopo oltre un secolo, ovvero alla fine del XIX, ad evitare, grazia alla sua sapienza, che tutte le attività e le conquiste ottenute dagli arbër  andassero smarrite, senza poter avere una via di proseguimento.

Il centro storico del paese arbër, oggi segna lo scorrere del tempo lungo e del tempo corto, tramandando numerose tradizioni, civili e religiose; come ad esempio la grande festa dedicata a Sant’Atanasio il Grande, patrono del Katundë Arbër, i cui festeggiamenti, iniziano il 23 aprile e raggiungono il culmine, il due di Maggio, terminano la seconda domenica di maggio, con uno degli eventi più emblematici della coesione tra civiltà dell’era moderna, ovvero: la primavera Italo Albanese.

Momento di unione degli Arbër con gli indigeni locali, tutto legato a messaggi di buon auspicio e fraterna condivisione, cui Sofioti vicini e lontani credono, ricordano e partecipano  con devote convinzione di cuore e mente.

Tutti uniti in processione, l’accorata filiera identitaria, la stessa dagli anni sessanta del secolo scorso, ad oggi non trova confini, segnando avvenimenti con i coloratissimo palloni aerostatici, gli stessi che ogni sofista, nel periodo di festa, sia esso vicino o lontano aiutato dalla memoria storica rivive gli epici momenti di unione cristiana e sociale, cantando coralmente: Dita Jote.

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NAPOLI LA VENUS PARTENOPEA DEGLI ARBËR

NAPOLI LA VENUS PARTENOPEA DEGLI ARBËR

Posted on 19 giugno 2022 by admin

36384154-albero-con-radici-isolateNAPOLI (di Atanasio Pizzi) – Gli oltre cento e più Katundë che danno forma e vita alla Regione Storica Diffusa degli Arbëreshë, nel corso della storia per le innate doti di caparbietà della minoranza, ha superato ogni tipo di avversità  sino ad oggi.

Prima per difendere l’Impero Romano, con capitale Costantinopoli, poi i Dogi di Venezia, in seguito la stessa patria dagli invasori ottomani, da cui si dovettero allontanare, per tutelare le fondamentali radici identitarie, senza mai smettere di affrontare altre chine da togliere il respiro.

Vero è che giunti nelle terre simili a quelle di originarie dovettero confrontarsi con gli indigeni e le credenze locali, superando non pochi attiri, non solo con gli uomini ma anche, con la natura in forma di terremoti, carestie, siccità e  pandemie,  segnandoli ed  offrendo loro, non pochi patimenti.

Gli Arbëri in oltre, si adoperarono e presero parte a tutti i movimenti di libertà, compresa l’unità della nascente Italia e le guerre che la segnarono all’inizio del secolo scorso.

Arrivarono agli anni settanta, le direttive per la tutela delle diversità culturali, prima della nascente Europa terminò con la legge 482/99 della Costituzione Italiana.

Nei primi anni del 2000 si diede avvio a tutto tondo, ad attività che avrebbero dovuto tutelare, attingendo risorse e direttive, secondo quanto sancito dall’art. tre e sei della costituzione, per la tutela della lingua Albanese, ripeto Albanese.

La legge  sancisce testualmente che:” la Repubblica tutela la lingua  e  la  cultura  delle popolazioni  Albanesi, Catalane, Germaniche, Greche, Slovene e Croate e di quelle parlanti il Francese, il franco-provenzale, il  Friulano, il Ladino, l’Occitano e il Sardo”.

La legge 482/99 “tutela la lingua Albanese”, perdonate la precisazione che a questo punto è d’obbligo, cosa centra la lingua Albanese, se essa è una forma moderna dell’antico ceppo, infatti, la lingua che i Katundë della Regione Storica, diffusamente usano dal XVI secolo, con il moderno Skipë, fatto d’inflessione, credenze, metrica e comportamento, “non ha nulla da condividere se non pochi sostantivi di radice”.

Chi ha scritto, la legge 482/99, perché non si è adoperato nell’allargare la prospettiva, anche, a quanto sancito nell’articolo nove della Costituzione Italiana, per dare completezza e cosa più urgente, sostituire la parola Albanese con Arbër, offrendo più forza e chiarezza applicativa alla legge di prima e di quella che deve venire, che tutelerebbe gli Arbër, il Paesaggio e le Cose, invece di tutelare la lingua moderna di un’Altro stato?.

Alla luce dei fatti citati, dai primi anni del secolo appena iniziato e sempre con più frammentazione ha visto incunearsi, la lingua albanese moderna, negli ambiti minoritari che con irruenza e se  dalla vigilia del regime di 482 avevano risposto alle avversità chiudendo porte, finestre e persino i sottoscala dove stavano le copre, da allora in poi tutto è cambiato.

Oggi ormai sono pochi cultori ad essere emarginati  da cantanti, ballerine e ogni sorta di attivista irrispettoso del disciplinare, che se da un lato allieta gli ignari osservatori della storia, dall’altra semina sulle pietre i pochi germogli rimasti della nostra storia.

Ormai le sfilate di deputati ed esperti che giungono in regione storica, hanno preso il sopravvento e si contano senza misura, tutti con rituali imperterriti non lasciano neanche il tempo che trovano, ma distruggono le poche cose rimaste.

Per questo si potrebbe affermare che la Regione Storica Diffusa degli Arbëreshë, per lo stato Albanese è paragonabile a un possedimento in terra italiana, per questo, deve essere marcato con le statue dell’ eroe Albanese,  anche se a ben vedere, noi siamo e saremo sempre Italiani.

Se questi signori che giungono bellicosi come i re vagano per le loro terre, è opportuno che prendano consapevolezza che devono essere rispettosi dello stato Italiano e meno arroganti verso gli arbëreshë, a cui devono volgere lo sguardo con  rispetto e devozione, in quanto rappresentano i tutori della radice identitaria delle terre poste  Albania.

All’interno della regione storica non si va poi cosi leggeri, anzi direi sul pesante perche la storia è diventato un arnese complementare, alle disponibilità di pochi illuminati o prescelti, giacche, si organizzano symposium immaginando che tutto sia eccellenza Arbër, poi quando si aprono i fascicoli, per annunciare, si rivelano neri quelli che dovevano essere eccellenza,  quindi, per evitare magre figure, si affiancano eccellenze che invece di essere di contorno, diventano il riferimento solido, ma ormai è troppo tardi la nera, mera e magra figura è passata.

Capita sin anche di tornare sui propri passi, ritenendo di aver sbagliato e aver raccontato eresie, esagerando impropriamente a una tipologia additiva a un’epoca di costruzione impropria, ma questo non toglie l’onta di mentire, raccontando per anni cose che non sono state mai un riferimento storico costruttivo per gli arbër, se non opere abusive del secolo scorso.

Questo calderone culturale, dove musica, cultura, costumi, architettura, vita sociale e storia, induce tutti a parlare di ogni cosa senza consapevolezza alcuna; il fenomeno ha raggiunto livelli insopportabili sin anche per la tempra indeformabile degli Arbër, noti per assorbire ogni forma di sopruso.

Se si volesse disegnare uno scenario di cosa sono oggi gli Arbër, lo si potrebbe paragonare a un albero che ha foglie e frutti senza eguali, ritenendo che tutto questo è opera del fusto che le mantiene in piedi e non delle sane radici che dalla terra estraggono e filtrano, le cose che poi per il sistema di trasporto e confronto con l’ambiente naturale restituisce eccellenze.

Sino a Quando non si da vita e forma a un gruppo di lavoro multidisciplinare, che non miri al mero concetto di lingua altra, o finire sotto i riflettori per diventare altri, ma a dell’insieme del genio importato dalle terre di radice, tutto terminerà in un nulla di fatto.

Notoriamente prima si definiscono i traguardi bisogna tracciare sulla carta le arche dell’antichità, studiando e analizzando le cose e i processi sociali che sono esclusiva della minoranza; solo dopo di ciò dare seguito a preventivo di spesa e al progetto possibile.

Continue vicende negative accompagnano la storia degli arbër, esse non devono essere intese come un caso fortuito; molto probabilmente sono le ire di Zeus, giacché Giorgio Castriota imprudentemente ne ha voluto assume irrispettosamente le sembianze, e tutto si potrà placare, se si adoperano le dovute misure di penitenza, recandosi in rigorosa penitenza dove tutto ebbe inizio con l’ordine del drago e non della capra che apparteneva ad altri.

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UN TEMPO ERA SCUOLA SOFIOTA OGGI CAMPO PER LUMINARIE

Protetto: UN TEMPO ERA SCUOLA SOFIOTA OGGI CAMPO PER LUMINARIE

Posted on 13 giugno 2022 by admin

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LA REGOLA DEL CAOS “bëni valijet”

LA REGOLA DEL CAOS “bëni valijet”

Posted on 31 maggio 2022 by admin

lA REGOLA DEL CAOS NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Facite ammuina è una frase della lingua napoletana che per gli Arbër suona come “Bëni Valijet” ovvero: “Facciamo Confusione”.

E’ l’invito a creare il disordine nel quale si possa mestare al fine di conseguire dei vantaggi di ordine storico e di confusione delle attività del passato non più nelle disponibilità di quanti si espongono a divulgare consuetudini.

L’espressione riporta a un comando che negli ultimi decenni è contenuto in ogni evento che vorrebe delineare le vicende storiche, della minoranza, sia in forza di consuetudini e specie quando si deve valorizzare le cose secondo gli addetti delegati dai Kuscetari ignari delle cose della storia

Ormai da decenni le note “Bëni Valijet” assumono connotazione, di bassi valore identitario, passate dal puro canto di genere, alle grida di altezzosi/e, secondo accordi e disaccordi qui elencati:

  • tutti quelli che stanno thë Shëshi, vanno al Bregù e ka kishia vadano the Kaliveth;
  • quelli che si trovano nei pressi della fontana di sotto devono andare a quella di sopra e viceversa;
  • gli operatori dei frantoi, corrano ai mulini e quelli dei mulini vadano a infornare le pizze;
  • tutti quelli che sono a casa devono uscire e vestire gli abiti di quelli che stanno fuori che ignudi corrono dentro;
  • quelli che stanno nel balcone devono entrare e quelli di dentro devono uscire fuori me Bërlocunë;
  • chi non ha niente da fare, vada qua e là a lavare con acqua e sapone shëshin;
  • chi non sa fare nulla, suoni una fisarmonica,un tamburo e/o un tamburello;
  • i vignaioli si rechino al museo e allestisca le vesti sui pali delle viti;
  • quelle che hanno i capelli che coprono gli occhi, ordinassero libri nella biblioteca;
  • chi è stonato strilli parole al vento o faccia rumori molesti;
  • chi sa ballare stia immobile, in un angolo a bere vino, sino all’ubriacatura:
  • chi non sa ballare salga sul palco ed emuli movenze di arem solo o accoppiato;
  • chi conosce le cose della storia resti nella capitale;
  • chi non conosce alcun argomento di storia nel parli con ignoranza alla Trapsa in forma di regine maritate;
  • chi conosce l’architettura la illustri oralmente agli ignari interessati di altra radice;
  • chi non la conosce la scruti in forma di fumetto disegnato sui muri, come ornamento murala;
  • i bambini irrequieti calpestino e deturpino i luoghi del sangue versato;
  • date da mangiare i partecipanti della processione, che alla fine arrivano ubriachi e sazi;
  • eliminate la sfera che sostiene la croce, fatene piramide blasfema;
  • chi non sa parlare di urbanistica da docente va sotto la casa di Jakar a e fa l’ubriaco;
  • chi la conosce la storia lasci prendere al Kuscëtarù gli appunti, così inizia a ragliare e mangiare biada;
  • chi è basso di ogni morale virtù, suoni la chitarra emulando persone alte:
  • chi è grossa e vuota di mente, attraversi con sgarbo la folla, facendosi largo con la grossa testa vota che fa eco;
  • chi non sa nulla apra dibattiti pubblici, speranzosa che dalla finestra aperta le arrivino nozioni buone;
  • chi sa tutto teniamolo dentro il limite del pascolo, tanto e risorsa inutile per la pletora ignara;
  • le spose le facciamo vestire dagli amanti che entrano dalle finestre e ne provano le virtù;
  • lo sposo lo veste il suo prediletto, con gonnelle sotto il ginocchio e scamiciata di merletto;
  • chi veste di sposa, sulla strada mostri la coda agli amici dello sposo;
  • chi veste di sposa, sull’altare mostri la ruota al prete;
  • ai bambini mettiamo come identificativo di purezza Bërlokun;
  • recatevi in chiesa a cantare lodi di stella bella al cielo dorato;
  • recatevi nella gjitonia per parlare del vicinato indigeno;
  • recatevi nel rione per parlare del limite della gjitonia;
  • fate tutti quello che non avete mai fatto nelle vita, oggi è il momento di dimostrare quello che non siete;

Andiamo avanti così fino all’ultimo, tutto il tempo cë “Bëni Valijet”, così gli sgomenti, spariranno per sempre della nostre sceneggiate e l’oblio coprirà finalmente con un sottile velo di pena, “la fossa  d’Arberia”.

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LA CULTURA DEL NON CONFRONTO IN BASKIA

LA CULTURA DEL NON CONFRONTO IN BASKIA

Posted on 21 maggio 2022 by admin

La cultura fa beneNAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Il termine cultura deriva dal verbo latino “coltivare”, esteso in seguito a quei comportamenti che imponevano “cura verso gli dei”, per diffondere l’insieme di conoscenza.

La definizione generale, rappresenta l’insieme dei saperi, opinioni, credenze, costumi e comportamenti di un determinato gruppo umano, in leale confronto con altri; eredità storica indispensabile a definire i rapporti all’interno di gruppi sociali coesi, pronti a confrontarsi con il mondo esterno per il proseguimento della specie.

Naturalmente opinioni e modi di interpretare le cose, frutto di un civile confronto, in grado di affinare le cose, rendendo tutto l’insieme della conoscenza più solido, per la comunità e come vuole la parola cultura, coltivare per aver germogli idonei per le nuove generazioni.

La cultura per questo rappresenta il segno distintivo di ogni comunità ed è tutt’altro che una condizione, immobile, inerte, la cultura non deve essere mai statica o trarre linfa da se stessa, perché si nutre di confronto, si sviluppa nel dialogo e nelle relazioni con quanti sono disposti al costruttivo vivere comune.

La cultura non è nulla più che la metrica, secondo cui il metronomo del tempo batte i ritmi della storia, rappresenta la chiave che apre le porte che uniscono passato, presente per progettare il futuro, rimanendo protagonisti dei cambiamenti che ci fanno rimanere sempre a casa nostre senza bisogno delle cose altrui.

La Cultura va arricchita sempre, e resa partecipata, questo è il fine che ogni buon amministratore dovrebbe perseguire, specie quando si apre alla conoscenza e al rispetto delle differenze, le capacità altrui, che non vanno intese o considerate antagonistici, perché sanno e conoscono meglio degli altri il patrimonio che rende tutti più ricchi, di umanità e solidità delle proprie  cose innanzitutto.

La storia dimostra e racconta di grandi passi fatti dalle civiltà evolute, nate solo ed esclusivamente da incontri di confronto multidisciplinari definendo cosi il meglio, non fatto di forme circolari egocentriche, ma di sfaccettature, come si usa fare con i diamanti più rari che la natura genera.

La storia a tal proposito rende noti regimi totalitari, “in note di vergogna riconosciuta”, anche se poi in piccoli anfratti non molto illuminati, di sovente si cerca di imitare quelle gesta, immaginando che l’appartenenza politica li salvi dalla vergogna.

La degenerazione dei regimi totalitari, raggiunge l’apice della “pena sociale”, non per quanto predisposto da quanto/i gestiscono il potere, verso figure e categorie di ricca cultura, ma dal popolo spettatore notoriamente svogliato, sin anche divertito nell’accogliere la propria deriva culturale che gli piove addosso .

In altre parole gli utilizzatori finali dei futuri sbagliati in costruzione, sono proprio questi che non avendo consapevolezza delle cose, accolgono di buon grado quando gli viene negato,in forma di ripicca altrui, per il bene e il futuro delle relative prole.

Per concludere, se il popolo spettatore, non si ribella e prende consapevolezza di cosa gli vene sottratto giorno dopo giorno, prima o poi dovrà pagare pegno diffuso, immaginate cosa dovranno pagare gli ideatori e i figli che si concepiscono o nasceranno nel tempo della cultura non condivisa o addirittura negata.

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LA CULTURA NON È ALTRO CHE IL LIEVITO PER FARE IL BUON PANE

LA CULTURA NON È ALTRO CHE IL LIEVITO PER FARE IL BUON PANE

Posted on 16 maggio 2022 by admin

Carmina non da PaneNAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – La sentenza secondo cui “Carmina non dant panem” o “Litterae non dant panem” diffusamente nota, non tiene conto di un dato fondamentale, Ovvero, di come si fa il pane, essendo la cultura solo il lievito di questo alimento antichissimo e fondamentale, a ben vedere, la farina impastata con l’acqua rimane inerme e senza vita, sino a che non interviene la reazione di questo elemento per dare forma volume e sostanza al fondamentale alimento, avviando così l’affascinate evoluzione.

La cultura non va intesa come una pietanza fumante a disposizione di pochi eletti; essa o meglio il Lievito, rappresenta l’elemento, in tutto, la misura per regolare il rapporto tra il pieno della farina e la reazione, che produce il lievito; l’energia capace di innalzare la forma e restituire valori indispensabili ai cinque sensi dell’uomo.

La cultura non si mangia, non si mette in tasca, giacché rappresenta l’energia incamerata nei vuoti, i labirinti, le cavità per reazione del lievito.

La sostanza di reazione, ovvero, la cultura, produce crescita all’impasto, altrimenti inerme e senza mutazione, esso va a nutrire di aromi incameranti, gli unici in grado di rinvigorire i cinque sensi del genere umano, il cui finale effetto si traduce in educazione o volontà di fare cose buone, in senso di fragranza, delicatezza del prodotto più antico dell’uomo, l’unico in grado di illuminare la mente delle persone preparate a gustare, il manufatto  fissato con il calore buono del fuoco.

In altre parole, il lievito rappresenta le tradizioni dei nostri genitori, in particolare delle nostre madri che con saggezza e antica sapienza sapevano calibrare impasto di farina con il lievito madre, “il lievito madre appunto”, quello che da madre in figlia è giunto sino a noi portandoci suoni, odori sapori e sostanza che allieta la vista attraverso quelle bianche cavità che pur se diverse e mai uguali, riportano le cose del passato al nostro cospetto in maniera identica.

La cultura assomiglia alle monete di Licurgo che potrebbero paragonarsi ai pesanti libri del passato, quelli più voluminosi scritti dalla consuetudine, infatti, il principale legislatore di Sparta, contrario all’accumulo di ricchezza, educava, la comunità a non superarsi gli uni dagli altri, visto che la disuguaglianza culturale è la causa principale che porta a squilibri sociali e genera prevaricazione.

Tutto ciò frena il libero transito a fare lavoro per quanti si dedicano all’arte per formare il genere umano al rispetto delle proprie, le altrui cose e all’ambiente naturale.

Oggi si ritiene la cultura come un alimento da mangiare, senza avere consapevolezza che le cose buone le ha fatte la manualità, saggezza delle nostre madri, le biblioteche di casa nostra.

Sono state esse a incamerare nelle piccole cavità della lievitazione con il riverbero delle loro voci e con la saggezza del rivoltare e calibrare, quello che di li a poco avrebbe germogliato il prezioso impasto, colmo di storia, tradizioni e rispetto verso gli altri meno fortunati.

Il genere umano si ciba di pane con o senza glutine, ma tutti assaporano i contenuti ideali, espressi nelle forme nelle pieghe e in quelle sottili membrane del lievito comunicatore.

Chi si ciba del pane e non trae spunto dai suoni, i riflessi, i sapori e le prospettive minuscole provenienti dalle cavità prodotte, dalla cultura, nel pane, termina:

  • con lo stendere bandiere a terra;
  • andare vestita da sposa con l’inconsapevole bjrëllokù al collo:
  • alzare le vesti di gioventù, del padre e del marito.

Lenta e inesorabile si consuma il calibrato olio, la fiammella poi barcolla ma resiste, arriva il turno dell’acqua, che addormenta la fioca luce, quando il sole prende la via della notte.

P.S.- Bjrëlloku; fascia scura aderente attorno al collo della sposa, con ciondolo in oro, allestito con dovizia di luogo e particolari i giorni seguenti le nozze, conferma della spartizione del dolce.

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SULLE BALZE DEL POLLINO ( Katundi Civita)

SULLE BALZE DEL POLLINO ( Katundi Civita)

Posted on 07 marzo 2022 by admin

275297823_5222999894391398_3049577895678805196_nNAPOLI (di Giovanni Panzera) – Sulle balze del Pollino, in Calabria, vi è la massima concentrazione di paesi popolati da profughi albanesi, costretti a fuggire dalla fine del XV secolo dalle proprie terre per l’arrivo degli invasori turchi, frenati, fino a quel momento, da Giorgio Castriota Scanderbeg, morto nel 1468.

Per distinguersi dai fratelli rimasti in Albania sotto il gioco musulmano, gli emigrati stanziatisi in tutte le regioni del “Regno delle Due Sicilie” hanno assunto il termine di arbëreshë. La mancanza di contatti continui tra le due etnie ha creato un solco che si è sempre più allargato tanto che oggi hanno poco in comune.

Sono andato a visitarne uno dei più caratteristici: Civita. Appena mi è comparso all’orizzonte, mi sono fermato perplesso a studiarne la posizione. Ma a chi è venuto in mente di stanziare un gruppo di persone su quel terrazzamento con un burrone a monte e uno a valle? La montagna alle spalle potrebbe franare e sotterrare le abitazioni; oppure il paese potrebbe scivolare verso valle con le immaginabili disastrose conseguenze.

All’ingresso del paese vi è una scultura in pietra che rappresenta un’aquila, dominatrice dei monti del Pollino; osservate la posizione, ha planato, si è posata su una roccia, l’ha afferrata con i potenti artigli, la testa con il becco adunco tra le zampe per abbassare il centro di gravità, ha le ali spiegate unite verticalmente perché il volo è terminato e fra poco le raccoglierà sul corpo.

Poco oltre vedo l’immancabile busto dell’eroe albanese, dell’ ”atleta di Cristo”, di Giorgio Castriota, soprannominato Scanderbeg, Alessandro, in ricordo delle sue imprese contro i persiani al pari del giovane eroe macedone.

Il paese, pur essendo integrato nella civiltà del paese ospitante, conserva usi e costumi di quello originario. Ho visitato il locale museo, nel quale campeggiano oggetti, costumi, ritratti, riproduzioni, pannelli storici delle tradizioni albanesi, come quelli sparsi in tanti borghi dell’Italia rimasti isolati tra le balze dei monti; sono entrato nella chiesa di rito greco-ortodosso, la religione dei padri, come quelle che ho incontrato nei decumani di Napoli, ricreate dagli immigrati dei paesi slavi e balcanici; ho ascoltato le voci e i discorsi in lingua arbëreshë, a me sconosciuta, come i tanti stretti dialetti, che, nonostante l’Accademia della Crusca, si continuano a parlare nelle singole regioni italiane; ho letto i cartelli bilingue, non dissimili da quelli dei paesi al confine con la Slovenia, l’Austria e la Francia.

C’è, però, una differenza fondamentale: il territorio. Gli altri paesi si trovano in zone concentrate a ridosso dei confini. Quelli arbëreshë, invece, sono diffusi in tutte le province dell’ex “Regno delle Due Sicilie” formando una comunità, che dovrebbe essere più connessa di quello che in realtà è.

La popolazione ha resistito alle vessazioni di principi e tiranni, anche per la protezione di Irina Castriota, principessa di Bisignano, pronipote e ultima erede legittima di Scanderbeg. Tutto bello, tutto integrato, in questo paese arbëreshë, cioè italo-albanese, degno rappresentante di questa vasta comunità diffusa.

Civita, però, ha qualcosa che la rende unica: “il ponte del diavolo”. Giù, oltre il burrone a valle, scorre un torrente, il Raganello con le sue gole, i rumorosi balzi tra le rocce, i restringimenti e le zone dove si allarga e riposa, meta di escursionisti dediti agli sport fluviali. Nella piazza del paese si trova il mezzo che vi precipita giù lungo una strada impervia con una pendenza da capogiro che l’esperto giovane autista percorre in una manciata di minuti. Ed eccoci arrivati al “ponte del diavolo”: dal disegno dell’arco si denota e deduce l’origine romana. La vista è stupenda; affacciarsi oltre il parapetto e farsi rapire dallo scorrere dell’acqua che si infila e si contorce tra i grossi massi è uno spettacolo irrinunciabile, nel quale la natura si mette a nudo e mostra i suoi tanti segreti. È un paesaggio da favola trasportato nella realtà di un paese che è impossibile cancellare dalla memoria: Civita.

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