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LA CRUSCA DEL PARLATO E DELLE COSE ARBËR (krundëia i jiughese i shiurbisetë arbër)

LA CRUSCA DEL PARLATO E DELLE COSE ARBËR (krundëia i jiughese i shiurbisetë arbër)

Posted on 21 settembre 2023 by admin

CatturaNapoli Adriano

NAPOLI (Atanasio Pizzi Arch. Basile) – Con questo breve si vuole evitare il diffondersi di nozioni errate che non sono parte veritiera della minoranza storica detta Arbër, da ciò tratteremo, consuetudini, religione, regole di vita e, le figure di eccellenza prime, con dati di fatto luogo e tempi.

Ovvero quanti si prodigarono per il valore della lingua antica arbëreshë, intesa non come farina, fine, scivolosa e attaccaticcia sulle stoffe e le superfici rugose o per affiggere manifesti, ma della rozza crusca, per la sua rude e solida trama che sostiene con forza l’idioma Arbër.

Onde evitare falsi protagonismi, errate interpretazioni o santificati culturali, in questa diplomatica della “Krundja Arbër”, tratteremo dei patimenti di quanti per essere tali, hanno vissuto e studiato sempre nell’ombra senza disturbi dalle inopportune conclusioni storiche, di luogo, tempo e avvenimenti mai avvenute, trascorse o svoltesi.

Eccellenze che per affermarsi non hanno avuto altro sostegno che la loro saggezza e preparazione culturale, tanto elevata da essere protagonisti primi, con il titolo onorifico del parlato acquisito negli ambiti natii, non per concorso, non per grado, ma sole per la saggezza affidatagli dalla natura, quando furono concepiti e allevati nel grembo materno.

Il fine qui perseguito, vuole, mira o meglio seguire le tappe salienti dello sviluppo culturale, secondo metriche, di luoghi, fatti e uomini, senza nulla inventare o propone offerte prive di studio e ingegno.

Allo scopo si vuole precisare che i lasciti identitari di pertinenza, sono diffusamente interpretati secondo campanilismi di macro area e, la china dagli anni sessanta del secolo scorso, inesorabilmente continua a mietere fatuo innaturale.

Gli storici, è ben noto che, non scelgono le tante cose che si dicono, ma quello che fanno gli uomini e, il silenzio resta, l’unica arma per ascoltare, comprendere e indagare il saggio costruito vernacolare, l’unico a non ripetersi in ogni dove, senza regola di genio e consuetudine.

Per questo precisare cosa siano: Gjitonia, Vallja, Vera Arbër, Stolljtë, Sheshi e Katundë, affinando con le figure di eccellenza prime e, l’epoca di lume nelle scene grazie alle quali, la storia, rende semplice comprendere cosa è cultura.

Se poi si volesse raggiungere Napoli per essere protagonista e vivere dove sono state fatte le cose buone, belle della storia Arbër, prendete appuntamento, in non più di cinque persone e, non vi serviranno parole, le cose che hanno fatto gli uomini, con ragione e merito nella Napoli, Greca, Romana, Bizantina, Alessandrina, Araba e del periodo Arbanon.

Visitando i siti http://www.scescipasionatith.it/ e http://www.atanasiopizzi.it/ potrete leggere le oltre duemila (2.000) pagine fatte, con immagini di Storia, Uomini, Architettura Urbanistica, Religione, Costume e ogni avvenimento che abbia avuto protagonisti gli Arbër di tutti i 109 Katundë, con Napoli capitale, della regione storica diffusa degli Arbër/n.

Il frutto sono il risultato di otre cinque decenni di cose, con protagonisti i Kalabanon, poi gli Arbanon e in seguito Arbëri e Arbën, collaborando con numerosi dipartimenti e professori di eccellenza partenopei in specifiche discipline del costruito e non del parlato

Per ogni tipo di domanda, Inviare e mail ad: atanasio@atanasiopizzi.it; o contattare su WhatsApp il + 39 338 9048616 – Telefono per conversazioni +39 338 6442674.

P.S. Il fine mira a realizzare una fondazione di un gruppo di studiosi, che pone le fondamenta su fatti, cose e avvenimenti realmente accaduti, senza protagonismi di sorta

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GJITONIA PER I GIULLARI CULTURALI DEL NUOVO MILLENNIO (Gjitonia come il Vicinato ??????????- ?????????)

GJITONIA PER I GIULLARI CULTURALI DEL NUOVO MILLENNIO (Gjitonia come il Vicinato ??????????- ?????????)

Posted on 16 settembre 2023 by admin

la storia del costumeNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Era il sette luglio del 2004 e nella sala del consiglio comunale aveva luogo un confronto culturale dei massimi esponenti del mondo arbëreshë, le cui mire volevano colpire e cancellare le magiche sensazioni di mutuo soccorso della Gjitonia; le quali, scambiate in corrente, di reflui rumorosi, emanati del torrentizio in piena e se non fosse per qualche accenno di parole in Arbër, si sarebbe potuto ritenere che tutti erano di radice latina e per questo comparavano le cose a misura del commarato o ancor peggio del vicinato indigeno.

Abitare in un comune arbëreshë comporta l’apprendimento di una serie di vocaboli difficilmente traducibili in italiano. Nelle operazioni di trasferimento di un termine da una parlata antica, come quella ereditata dall’Albania e tramandata ormai regola certa che il significato appartiene ai comunemente locali. mai redarguiti dalle istituzioni, inesistenti o addirittura senza titoli di meriti e di esperienza sul campo, quella che nessuno ad oggi conosce.

A tal proposito è il caso di ribellarsi e lascare il loco dove si odono relatori riferire della parola “Gjitonia”, radice di ” Lighëa civile Balcana e Shëkita di credenza del monte Athos) tradotta senza rispetto per la storia di questo popolo, quando la si paragona o la si accosta al termine “Vicinato” e, scende ancor più nel senso del suo significato quando la si definisce meramente: “Gjitoni më se gjiri, il Vicino vale  più di un parente”(??????????-?????????); ancor peggio, un’unità urbanistica caratterizzata solitamente da un piccolo spazio all’aperto intorno al quale convergono le porte di più abitazioni e in cui confluiscono i vicoli del paese; o addirittura ritenerlo il loco dei prestiti alimentari e per stendere il gonfalone in senso di resa culturale: postazione di cumulo del lavinaio, dove si ode e si sente in Arbër.

La realtà delle cose e ben diversa direi a dir poco inverosimile, peggiore delle diplomatiche settecentesche dei trascorsi romani e, quanti diffondono il sancito, generalmente non ha titoli o esperienza sul campo e, finisce come affermato da Giuseppe Galasso, per copiare o chiedere di dove andare a riprendere editi di altre cose di altri luoghi e di altre epoche.

Allo scopo e per esecutare teoremi a dir poco giullareschi, va sottolineato che la “Gjitonia” è una forma d’identità sociale presente nella regione storica diffusa Arbër; vero e proprio sottogoverno locale di mutuo soccorso, condotto, diretto e presenziato dalle dinastie femminili.

Si identifica come luogo dei cinque sensi, avente come protagonisti gruppi allargati, entro i quali e per i quali, si sostiene e identifica il ceppo originario del gruppo familiare allargato, a garanzia del proseguo delle cose della propria identità; la scuola per le nuove generazioni, dove, madri sapienti distribuiscono conoscenza con radice di sapienza antica, in regole consuetudinarie, conservate armonicamente nei cinque sensi, il componimento armonico di cuore e di memoria, nel più rigido confronto con le cose e gli avvenimenti delle società in evoluzione.

Ad oggi il processo di lasciti identitari, sono diffusamente interpretati secondo campanilismi di macroarea, per cui ha abbandonato il modello allargato Kanuniano, per quello urbano e sempre con più lena discutibile, si preferisce spalmarsi nelle pieghe sociali metropolitane, da cui trae sostentamento per quella inesorabile china intrapresa dagli anni settanta del secolo scorso.

Certo resta il dato che la Gjitonia è un “Modello sociale immateriale di comuni intenti e valori”, (in Italiano codificato incompleto del luogo dove vedo e dove sento), importata nelle rive ad Ovest del fiume Adriatico sino allo Jonio,  dal XIV secolo resiste alle mutazioni sociali e culturali, esempio di fucina naturale, dove si modella identicamente l’antico metallo familiare allargato, il solo ad avere, elementi indeformabili per la continuità storico consuetudinaria degli Arbër.

Essa ha origine dal tepore del focolare, si espande come cerchi concentrici, nello sheshi, estendendosi “thë rruhat”, sino a giungere negli angoli più reconditi delle rurali pertinenze, e sostenere i cunei agrari e della trasformazione di raccolti solidali.

La Gjitonia è il luogo dei cinque sensi, punto d’incontro di materia, sentimenti e sensazioni, stese secondo consuetudine magistrale, lungo le articolate vie degli sheshi; i rifugi incontaminati di tradizioni, cultura, costruito, artigianato e credenze, in tutti, il tessuto multi filare della radice Arber.

La Gjitonia avvolge gli ambiti dove affacciano le porte gemellate alle finestrelle di casa, in sostanza tutti gli ameni luoghi articolati, dove o spunta il moderato sole o fluiscono le carezze e i sussurri del vento, lo stesso che si avverte, si respira, si assapora, si vedere e si tocca, senza mai poter essere dominati o circoscritti, perché, ideali confini d’appartenenza irripetibili.

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UN’ANSA ARBËR MAI DIVULGATA  (Bhëndj: Ghjsh Ghindiatë thë gjegnë nè)

UN’ANSA ARBËR MAI DIVULGATA (Bhëndj: Ghjsh Ghindiatë thë gjegnë nè)

Posted on 19 luglio 2023 by admin

g_colosseo-333x250NAPOLI (di Atanasio Pizzi Arch. Basile) – Nel mentre l’ANSA da ROMA, rilancia che, un altro turista, è stato denunciato dai Carabinieri del Comando di Piazza Venezia per aver deturpato il Colosseo, denunciando e sanzionando amministrativamente il turista sorpreso mentre grattava, deteriorando una parte del laterizio scalfendo le iniziali del suo nome; di contro succede che, in altri ambiti tutelati dalla legge 482 del 1999, si fa gran uso di pitture acriliche, pennellate, bombolette e chissà quali altri scalpelli e scalpellini, utilizzati a perimetrare, inconsuete attività e, deturpare porte, prospettive o monumenti di memoria storica dell’illuminismo, che se paragonata ai recenti attentati di concertazione illegale, parlerebbe la memoria alle stragi autostradali e  abitativi del secolo scorso e, per non coler esagerare, arrivare a parallelismi  in eccidi politici di eccellenza; bene immaginate se questi ambiti oggi venissero ricordati ad opera di comuni artisti senza alcuna formazione o nozione culturale, e i luoghi di appellino  Capaci, Via D’Amelio e ………, da riattare.

Dal punto di vista della tutela storica e urbanistica, alcuni luoghi non hanno bisogno di leggi specifiche, ma solo di buon senso civico è, rivolgere solo attenzioni, quando i luoghi sono memoria di centri antichi, centri storici o di storiche vie,  memoria di noi tutti, altrimenti  è segno che il termine non fa più da Limes.

Nell’Art. 9 della Costituzione Italiana è sancito, a norma di legge lo sviluppo della cultura, la ricerca scientifica e tecnica, per rispettare con dovizia di particolari le cose del passato.

Tutelare il paesaggio e il patrimonio storico/artistico, tutte le cose che fanno parte dei valori locali della Nazione.

In oltre, nella legge sono rivolte particolari attenzioni all’ambiente, la biodiversità gli ecosistemi, nell’interesse delle future generazioni titolate a conoscere il senso del bene trasmesso.

La legge dello Stato disciplina i modi e le forme di tutela delle cose, l’ambiente naturale, quello costruito e gli ambiti di carattere identificativo e, gli animali.

Come tutelare il patrimonio storico? È una prerogativa basata sulla conoscenza e il rispetto che si ha per le cose al fine di conservare il patrimonio culturale, assicurando mediante una coerente, coordinata e programmata attività di studio, prevenzione, manutenzione e restauro.

Per prevenzione si intende il complesso delle attività idonee a limitare le situazioni di rischio connesse al bene culturale nel suo contesto.

Un Complesso di azioni intese a proteggere il patrimonio, impedendo che possa degradarsi nella sua struttura fisica e nel suo contenuto culturale, per questo prodigarsi a garantirne la conservazione per consegnarlo inalterato alla posterità.

In questo articolo si riporta la definizione di centro storico e centro antico, esprimendo quale possa essere una definizione “embrionale” di centro, spalleggiato tra la L. 1497/39, e la Legge ponte n. 765/67.

Diversamente dalle aree libere sono inedificabili fino all’approvazione del piano regolatore generale; L. 1497/39 art. 1 c.3: i complessi di cose immobili che compongono un caratteristico aspetto avente valore estetico e tradizionale; Diciamo che la necessità di tutelare e diversificare la disciplina di queste zone si è affermata sempre più, diventando prioritaria a partire dagli anni ’80 del Novecento, quando ormai si era praticamente conclusa quella stagione di trasformazione edilizia che non ha guardato in faccia a niente e nessuno.

Furono infatti emanate norme sempre più rivolte al recupero del patrimonio esistente, vedasi la L. 457/78 e la L. 179/1992.

Speculazione e abusivismo edilizio continuarono il loro corso, e fu così che per arginarne gli effetti si rese necessario emanare alcune leggi particolarmente rigide come la L. 431/85, meglio nota come Legge Galasso.

Nella stessa L. 431/1985 fu statuito espressamente che tale estensione del vincolo non si applicasse a: Comuni provvisti di PRG: nelle zone A e B e – limitatamente alle parti ricomprese nei piani pluriennali di attuazione – alle altre zone, come delimitate negli strumenti urbanistici ai sensi del D.M. 1444/68; Comuni sprovvisti di tali strumenti: ai centri edificati perimetrati ai sensi dell’articolo 18 della legge 22 ottobre 1971, n. 865.

Il vero problema non nasce per i vincoli di natura paesaggistica (Parte III del Codice), bensì i vincoli di natura di beni culturali (Parte II del Codice).

Infatti secondo il D.Lgs. 42/2004 si devono considerare tutelati fino a quando non intervenga una espressa verifica di interesse in senso contrario, che spesso risulta compiuta in fase di redazione o variante generale di uno strumento urbanistico comunale (Piano Regolatore).

Allo scopo si fa riferimento a spazi pubblici, quali vie, piazze, vicoli e le relative prospettive, dove prevale una sostanziale coerenza coi vincoli “tipici e paesaggistici”.

A quanto pare il Codice dei Beni Culturali D. Lgs. 42/2004 ha rinvigorito la valenza culturale di questi spazi pubblici, e lo ha fatto, ai sensi del comma 1 e del comma 4, lettera g), dell’articolo 10 del Codice stesso.

Stiamo parlando della parte II del Codice, cioè quella impropriamente detta per gli immobili vincolati “alle Belle Arti”. Più correttamente si deve dire dei beni culturali, da tenere distinta dalla parte III dei vincoli paesaggistici.

Rinvio ad apposito approfondimento e consigli trattandosi di aree ad alto valore e pregio storico identitario, di bellezza e architettura irripetibile, diviene necessario verificare la presenza di vincoli di ogni tipo, su immobili situati in centro storico e assimilati da normative regionali o strumenti urbanistici comunali che ne tutelino anche il valore ambientale.

 P.S.  Ascoltate e se avete saggezza residua traducete, capirete il senso delle cose:

https://www.youtube.com/watch?v=kmggw1sM9rY

https://www.youtube.com/watch?v=dcjec7WZ41s

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VIAGGIO DI UN ARTISTA MODERNO NEI TRASCORSI CALABRESI LOCALI DEGLI ARBËR

Posted on 15 luglio 2023 by admin

10380838_867214309955501_7137936416165119763_oNAPOLI (di Atanasio pizzi Arch. Basile) – È facile cadere in inganno, quando si ode ripetere con insistenza il titolare “Arbëria” per riferire dei luoghi dove la comunità Arbër, ha disteso il proprio bagaglio consuetudinari di genio, ambiente mai inteso come Stato geopolitico, ma esclusivamente come gioiello territoriale, perché Regione Storica, esperimento  di accoglienza e integrazione irripetibile, perché senza alcun cenno di prevaricazioni di genere e di conquista.

Il rispolverare il senso del lavoro fatto a seguito del pellegrinare locale, pubblicato a suo tempo in diverse località, è un compendio di annotazioni disegnate, a giudizio dell’artista, di una credenza smarrita, senza avere consapevolezza dell’epoca dei fatti avvenuti e trascorsi.

I dipinti, ritraggono i Katundë Arbër, con grande finezza di monito da parte dell’artista rivolto agli Arbër, una linea che assume la forza di una frustata, per ricordare cose che lui stesso non conosce e a cui non sa dare valore di tempo e di luogo per la luce di credenza.

Diventano attori il sole, la luna e le cose che indicano la strada maestra dal suo personale punto di vista moderno, avendo come suo unico riferimento il perpetuo abbraccio di generi, divulgato come struttura edile antica fatta di ingredienti, poi letti da altri, in maniera a dir poco inopportuna.

Nella presentazione delle opere, si rendere omaggio ad un artista, raffinato che attraverso la divulgazione delle sue prospettive di credenza, esse rendono la misura dell’abbraccio delle genti che secondo, l’artista a torto, avrebbero dovuto seguire la piega di credenza di quanti rimasero a guardia dei confini.

Il grande maestro, di formazione occidentale, testimone e interprete di un lungo periodo di patimento culturale, del XX secolo, ha saputo coniugare i colori intensi del Mediterraneo, racchiusi nei ricordi della sua infanzia, con i grandi temi dell’identità inviolata, di quanti preferirono l’esilio per tutelare la memoria storica.

I cromatismi pittorici, diventano così, un viaggio identitari, che percorre i sentieri della propria radice di appartenenza, incastonata negli antichi sentieri di San Benedetto Ulano, Acquaformosa, Lungro, Frascineto, Civita, Plataci, della vestizione di Spezzano Albanese, Santa Sofia d’Epiro, San Demetrio Corone, Macchia, Vaccarizzo Albanese, e a San Giorgio Albanese, una tavolozza identitaria fatta dei colori della terra, del sole, il mare e gli abbracci di approdo mai terminati.

L’artista avverte l’alito, il soffio, la brezza colma di odori e sapori, restituendo il senso materiale e immateriale delle comunità Arbër, quella unica e irripetibile, la storica ricchezza durevole, identica e senza soluzione di continuità, viva da cinquecento anni, tra questi luoghi ameni.

Questo è il tempo passato, lo stesso immerso tra gli ambiti paralleli del cuore e della mente degli arbëreshë, fatto con il fuoco e campanili dei sentimenti che riportano, al tempo delle preghiere che non sono urla diffuse dai minareti, che poi modellarono, la tempra in terra madre.

Un itinerario artistico, che diventa, atto d’amore verso queste comunità antica del mediterraneo, costruito di genio storico condiviso, ed è proprio qui che il maestro si ritrova a case sua, immaginando che sia giusto diffondere minareti inesistenti.

Il sangue non mente e per questo avverte le antiche sensazioni che attiva armonicamente i cinque senso, qui tutti lo conoscono e tutti lo vogliono, in altre parole lui vive la sensazione di ritornare a casa propria.

Il viaggio spirituale tra i paesi inizia nel Pollino inferiore, dal monte mula che guarda verso il tirreno, dove l’antica Acqua Bella scorre rigogliosa, pura e limpida, finemente incastonata tra i le montuosità che osservano l’andare del Crati, ricordo parallelo dei monti dell’Albania, le colline e le pianure, dove il maestro nasce e trascorre l’infanzia.

Il secondo incontro è con le genti prospicienti il Raganello, a quel tempo senza più il “Ponte”, abbattuto dall’incuria umana, qui conosce le pieghe del “dolce e dormiente” la quale aspetta il bacio del principe per risvegliare il senso delle cose antiche tradotte male.

Ed è proprio qui che l’abbraccio fraterno delle due dinastie, ha terminato per essere inteso come favella di abusi antropomorfi civili e religiosi in contino favellare cose strane.

Liturgia bizantina e icone caratterizzano il Katundë della carmina convivalja, che diventa più la prospettiva di un monte con la croce che un luogo di credenza, mentre Salina appare in tutta la sua bellezza naturale, riconoscendone il valore della convivenza civile dei parallelismi ritrovati, una strada che divide gli elevati non rilevando alcun atto per la credenza in luce.

L’artista fa tappa a nella frazione di Bregu, da dove si osserva la piana di Sibari, dal Crati al Trionto, la terra che dette i natali nel vate Arber son faro, o pietra su cui si erge maestosamente, l’intimità culturale senza più vesti di minima decenza.

Arriva, poi, in montagna da dove l’estrema altura di un Katundë diventa l’altare raggiante dal Mare Jonio e la Piana di Sibari si trasforma in perla dentro una conchiglia, qui la piccola comunità sta tutta raccolta in un manto di stelle nel cielo di alberi e colori naturali.

Ecco ancora lungo il suo viaggio nella nuova religione Bizantina, accogliente e gentile, è il paese dei dottori, famosa per il suo santuario, come quello del trionfatore del drago; qui il tuffarsi tra gli ulivi e i vigneti, lussureggianti di verde e d’azzurro.

Ed è qui che appare luminosa la Terra di Sofia dove dal IX si prega con lo sguardo rivolto a Costantinopoli, sdraiata su una lunga collina con la sua suggestiva prospettiva agraria di unica e rara bellezza da qui il viaggio lo porta alla stazione di posta storica, la più esposta e durevole comunità albanofona d’Italia, la più esposta a continui confronti, cosa dire poi della vallja di credenze, con le due chiese che vanno per mano e non smettono di camminare.

Infine, quella che dovrebbe essere la Corone dell’ovest, dove si articola la sua storia in concerto al famoso collegio, ed è proprio qui che l’ironico, saggio artista invia finemente un messaggio di memoria smarrita secondo lui da ricordare in minareto.

Con queste piccole sintesi artistiche, di monito, il maestro intese “lasciare un segno indelebile di una sua esperienza illuminante, iniziata non meno di vent’anni fa e oggi analizzata con educazione e dovizia di particolari, sempre molto ermetici, onde evitare lo scuotere della intellighenzia dei numerosi liberi pensatori locali, “i grandi e distratti saggi”.

Un itinerario o atto d’amore che si esprime nelle sue cartelle con un “sole più grande che sorge un mare azzurro e colline sempre verdi e floride”.

Un segno d’unione con il passato intriso di radici, innestate in fonti inesauribili, ispirazione di un’attività di ricerca che si trasforma in espressione artistica nuova ed originale, ma che nelle sue opere diventa monito locale per le numerose cose smarrite.

P.S. Vallja; Dal lat. carmina convivjali, sono canti con cui i Romani antichi – secondo un’usanza diffusa presso i Greci celebravano durante i banchetti le gesta dei propri eroi.

P.S Il Katundë non ha le cose del Borgo, perché  modello aperto….

P.S. La Gjitonia è più ricca del Vicinato; almeno il doppio……

P.S. Lo Shashi non è una pizzetta circolare dove si dispongono finestre e porte gemellate…….

P.S. Il Rione è lo SHESHI

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LA TUTELA DISARMATA

PERSO GLI ATTREZZI, LA MEDICINA FU AFFIDATA AL PICCOLO DI FAMIGLIA (u bë jatrùa thëarbërvet i birj më i vìkèrë)

Posted on 11 luglio 2023 by admin

LA TUTELA DISARMATA

Questa lettura è consigliata a quanti vivono vicino al cuore…………….. gli altri misurino distanza, tanto, altro non fanno

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Arch. Basile) – La vera storia degli Arbër/n, emergerà solo quando tutte le figure buone, siederanno attorno ad un tavolo e daranno  il meglio di sé, senza utilizzare balconi, piazze con in pugno attrezzi da lavoro per cambiare cose; il solco è stato già tracciato dai nostri avi, esso è solido leggibile e diritto, va solo seguito interpretando gli scenari che attraversa per comprendere e diffondere storia lucente.

I trascorsi degli Arbër/n sono una terapia di guarigione per un malato terminale, per questo diventa medicina, motivo per il quali chi deve prescriverla, chi deve somministrarla e chi deve seguire l’andamento migliorativo del paziente abbisogna dei fondamentali principi nel saper riconoscerne, per tempo, distinguendo nel corso della terapia, gli effetti benefici di rinvigorimento, dai collaterali appariscenti, o eventuali malevoli terminali.

Sono ormai trascorsi abbondantemente due decenni nell’ascoltare cose, teoremi e divagazioni a dir poco inopportune, attribuite agli Arbër e, per onorare le persone che diventassi architetto, al fine di risolvere i numerosi interrogativi, del confusionario modo di intendere la regione storica degli Arber, fuori dall’esperimento linguistico, ho dato seguito a questo componimento primo.

Era il sette luglio del 2003, e lì in via Epiro, uno strano sempre più crescente vociferare, attirò l’attenzione e, mescolati alla platea che seguiva, nella sala consiliare del non più paese, una divagazione relativa al principio di Gjitonia era esposta a modo di giaculatoria alta.

Visto e considerato, il riferito del tema interessava dei luoghi natii, a un certo punto nell’ascolto, non si sapeva se ridere o piangere per le cose del passato, in quel contesto storico colmo di storia sino a quel momento incontaminato dalla vergogna.

Qui in questo medio breve, saranno per questo, analizzati con senso di semina per le generazioni future, essendo le acerbe da allora in voga, mai scese dalla cresta dell’onda, inadatte, inopportune o a dir poco ironiche, nel distinguere grano e fatuo, (in Arbër/n; Grùrë e Hellëph thë égher) foraggiando ogni cosa con espedienti senza arte, perché il risultato voleva, l’entusiastica massa distratta, essere presente per mormorare e null’altro.

D’altro canto  tracciare storia secondo studi specifici supportati dl estesi curriculum, ogni genere di cose materiali immateriali, consuetudini, costumi e attività tipiche delle genti che vivono, perché hanno costruito, meritando la regione storica diffusa degli Arbër/n, prima o poi deve emergere e se così  è trascorso troppo tempo.

Pur essendo stata difesa la distruzione di un Katundë in solitaria attività, grazie ai diffusi enunciato solidi, del costruito storico, del sociale e le figure che hanno reso famosa la minoranza in tutto il mondo.

Nonostante ciò ancora oggi esistono figure che dall’alto dei balconi, impongono manchevolezze culturali,  con argomenti Arbër/n, in parlato tipico della storica questione Albanese; a ben vedere i  titoli menano verso discipline, marginali senza completezza,  in altre parole emblema di chi con ironia compose, minareti mussulmani, sostituendoli ai campanili delle chiese greco bizantine e, quanti non capirono, li appellarono case che parlano alla luna crescente.

Premesso quanto, si vuole dare senso di tempo, luogo, uomini e genio specifico, nell’utilizzo comune di sostantivi, almeno i basilari, o meglio i fondamentali al fine di fornire certezze al comunemente diffuso, per fini turistici e televisivi, tra i quali:

  • Paese definito “Borgo”, in Arbër/n, è Katundë;
  • Rione equipollente a Quartiere, in Arbër/n, Sheshi;
  • Centro Storico e l’ignoto Centro Antico germogli dei Katundë, ovvero Ka Rrin Rellëth;
  • Piazzetta che non è, in Arbër/n, Sheshë;
  • Vicinato che, in Arbër/n, non è Gjitonia;
  • Comignoli solitari di un luogo e gli antri Arbër/n a fare fuoco in mezzo alle case;
  • Battaglie vinte a Pasqua, ballando la vittoria; in Vallja;
  • Restituire senso e valore storico ai sette giorni di agosto in Terra di Sofia
  • Comune, ovvero Bashkia in Albanese, in Arbër/n, Kushëtë;
  • Il costume da sposa, non per infanti, in Arbër/n, il Raso dei due filamenti di Casa e di Chiesa;
  • Case Parlanti, in Arbër/n, thë ngruitura pà trù;
  • Sheshi zìesh Clementinesë, memoria di un amore proibito Arbër/n;

Questi chiaramente sono solo alcuni, o meglio i più vergognosi, da correggere nel breve termine e, dei quali si fa uso gratuito, privandoli dei minimali adempimenti di rispetto, dal punto di vista storico, sociale, consuetudinario, senso e rispetto del passato, vera e propria devastante deriva che termina anche le alte cose.

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GIUGNO IL TEMPO DEL RACCOLTO FATUO RIMASTO (tue mbiedur ghì e finghillë pa Zjarë)

GIUGNO IL TEMPO DEL RACCOLTO FATUO RIMASTO (tue mbiedur ghì e finghillë pa Zjarë)

Posted on 25 giugno 2023 by admin

cenere e carbomeNAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Ormai sta diventando una consuetudine a dir poco vergognosa, l’allestire fatuo storico, da giugno a settembre e, questo del 2023 in corso e la terza edizione che senza soluzione di continuità espone atti, fotocopie, inesattezze o guerre di pasqua vinte per fare festa.

La cosa ancor più grave resta stesa alla luce del sole, ed è il dato del perseverare con attività nell’aia del fatuo a termine, con abbagli storici, stesi senza vergogna, innanzi alle storiche case di quanti conoscono, sanno e così facendo, tutto diviene via crucis in pena di dolore, per chi osserva e ascolta le attività fuori loco e palmo.

Va tuttavia rilevata la pazienza dei saggi, i quali, si dimostrano comprensivi visto il gran numero di comunemente che, ballando e cantando, sventolano natalizi, spargono radici e, per mare tornando a casa.

Scendere con la scopa in mano nell’aia del “trapeso”, sarebbe la cosa più opportuna da farsi, ma chi è saggio usa la scopa per fare altre cose, perché spera che il buon senso deponga radice e, curi le menti di questa schiera d’incultura di “mezza festa”.

Ormai il mese di giugno è considerato la vigilia, “la mezza festa” il momento di tutto quello che rappresenta il nulla per l’Arbër, non resta altro da aggiungere, bisogna solo prendere atto del dato che sono anime in pena lontane dal proprio cuore.

Giugno ormai è da ritenere il mese in cui si manomettono le pietre fondali della storia e, tutto diventa “lecita magistralis”, infatti, sono tanti che scendono armati di chitarre, mantice e tamburello, per indirizzare i/le costumanti/e a turcofone ruotate, cantare e, cosa più grave sollevare la veste del marito e del padre.

Non è concepibile che dall’alto degli scanni, di quanti avrebbe dovuto garantire pubblicamente, misura, parole, atti e cose, come il dovere del ruolo assunto gli imponeva, affermare che: la storia letteraria, della minoranza più longeva del vecchio continente, sia iniziata nel 1831.

Poi se a quest’affermazione, affidano l’operato di nobili eccellenze risalenti al 1775, le stesse volutamente ignorate per dare spazio a una anomala figura, incerta persino della sua natura, il quale poco attento immaginò che catapultarsi a Napoli per cose, nessuno le avrebbe potute riconoscere, come ha fatto il figlio quando ha avut innanzi il copiati dell’opere paterna ancora violato.

Conferma resta il compilante, che si vide costretto a tornare indietro a ricamuffare ogni cosa, con più confusione della sua banalità culturale da allora in poi messa di lato.

Poi germogliarono gli anemici guerrafondai dal vallone senza bandiera, pronti ad armarsi e partire appena odorata la polvere da sparo dei venti rivoluzionari, i quali recatisi in ogni dove, chiedevano ai locali in rivolta, a chi, cosa e dove mirare per seminare morte.

A quanti hanno frequentato quel presidio di incultura “ilibërato” non resta che chiedere di smettere: Basta, Basta, Basta, Basta, Basta, Basta, Basta, Basta, Basta, Basta, Basta, Basta, Basta, Basta e Bastaaaaaaaa…….e se non lo avete capito BASTA, chiudete bottega e fate orti; si, a voi, proprio voi che dite di essere “titolo”, “titolati” e “certificatori”, smettetela una volta per tutte, di seminare grano a giugno, tanto non germoglierà mai e neanche di fatuo a settembre come inconsciamente avete promesso non fate nulla, dopo aver redarguito i saggi che vi superano in ogni dove.

Giugno rappresenta il baricentro della estate Arbanon, il tempo di raccogliere i seminativi per questo bisogna sapere bene quello che si coglie per separarlo dalle cose fatue.

Saper riconoscere e ripetere questi antichi gesti consente al futuro continuità del luogo, in comune convivenza con l’uomo, il mese è il primo momento di esposizione alla calura estive: e non certo è il luogo adatto per esporre neonati in fasce non all’ombra, altrimenti si terminano le cose buone della specie per pochi frutti acerbi.

Ora inizia luglio, riservandoci non certo cose migliori, del mese appena trascorso, certamente si continuerà nel non rispettare uomini, cose, vestizioni, civili, religiose e, si diventerà ancor più estremi, nello smarrire i sensi del protocollo di credenza e onorare, quei tragitti che uniscono tutte le case con la chiesa.

Si vuole sottolineare in questo breve discorso il rispetto che le grandi famiglie hanno sempre avuto per il ricorso dei propri figli, come quando nel 1799 i Serra di Cassano si videro impiccato in maniera a dir poco indecente il figlio Gennaro, rampollo 27enne, essi per questo chiusero il portone che affacciava verso la residenza reale e da oltre duecento anni rimane chiuso in senso di disprezzo verso quella corona, e ancora oggi quell’atto rimane vivo tra quei palazzi, nonostante la prospettiva sia mutata.

Questo, valga di esempio, per chi ha consapevolezza e cognizione di tempo, uomini sangue e cose, alla ricorrenza del luttuoso 18 Agosto, festeggiato perché risultato di conti errati, un falso storico e nulla più, quando a suon di fanfare e onorificenze, ironicamente, pure alla stessa ora, beffa storica di una duplice inforcatura  del 1799 e del 1806.

Non è diverso il ricordo degli altri uomini illustri, associato generalmente a nere figure antagoniste, nelle vicende che videro protagonisti glia Arbanon.

I nomi di questi tutti riversati in una cesta per fare estrazione o riffa e, per il sole cocente di mezzo dì, si finisce per estratti come eccellenza, un nero, collocandoli in lapide ricordo con il risultato di 64 certificato per 66 e quindi il giuoco risulta essere truccato.

La letteratura non riconosce a Pasquale Baffi, il dato di essere il primo letterato a comparare le parole Arbër con quanti, con questo popolo, si sino confrontati, per questo è il compositore primo di grammatica  e tutto il resto viene dopo.

Se a questo aggiungiamo le disertazioni gratuite di quanti millantano di saper leggere e non riconosce nei discorsi, lo svolgimento dei periodi ad opera del grande letterato sofiota, è il segno inconfutabile che per concorrere al titolo accademico, molti non hanno fatto i compiti a casa e, quello che più conta, non riconoscono la grammatica del maestro con quella di pesatori di grano per tomoli d’interesse.

Si fanno presidi universitari e si perde la mira per la quale scopo furono istituite, tutto questo succede quando non si ha una titolarità specifica dell’argomento, pellegrinaggio senza meta verso le cose moderne che hanno facile misura di tutela, in senso generale, ragion per cui si cerca di innestare l’età della pietra, con l’impero romano, il medio evo e l’era della globalizzazione, senza il minimo riguardo del tempo che tra queste le differenziate.

Il dato che emerge non presta alcuna attenzione alla storia in senso generale e poi come in tutte le cose nessuna attenzione è rivolta alla tutela delle architetture storiche o degli ambiti all’interno dei “centri antichi”, specie nell’esporre cose o fare ricerca verso le attività agresti o la dieta mediterranea, tralasciando i Cunei Agrari, che nella maggior parte dei casi, sono una meteora ignota, comunque non buona da tutelare.

Eppure basterebbe accogliere le figure giuste per intercettare cosa serve e cosa è fatuo, specie per avvicinare i canali turistici che contano, preferendo “bërlocarsi di tutto punto”, per annunciare rapporti intimi e distrarre le piazze divertite, in tutto, continuare ad essere ignari del messaggio inviato.

Cosa dire poi degli inesistenti “Borghi Arbëreshë”, di cui senza formazione si riferisce del costruito, risalente a detta dei cultori, a sei secoli orsono, anche se i materiali dei modelli indicati, descritti e circoscritti, come originali dell’epoca sono tipici delle superfetazioni degli anni sessanta del secolo scorso, a detta sempre degli espositori, ispirati dalle direttive del Cubismo Analitico e Sintetico, in tutto, un penoso falso storico per attrarre ignari turisti, della breve colazione, che partono senza nessuna memoria e contenti di aver mangiato a pranzo.

Se poi il tema diventa la tutela delle parlate locali, oggi tanto in voga e divulgato, per opera di meteore linguistiche a dir poco inopportune, non esistono temi in grado di dare in barlume di fondamento agli orgogliosi alfabetari locali, sbandierati e riverberati ai quattro venti, con le parole Autobus per la “A”;  Elefante per la “E”; Pinocchio per la “P”; Orologio per la “O”; Telefono per la “T”; Gorilla per la “G”; ritengo questi accenni siano sufficienti per evitare di scuotere il sonno eterno dei nostri Avi.

Chiaramente soffermarsi sul protocollo della vituperata Gjitonia è un obbligo, specie se diffusa come Vicinato o ancor peggio di Strade, Piazze e Palazzi, questi ultimi fatti di libri rari, portati dall’Albania dentro bauli(?), mentre le altre lastricate di pergamene scritte in latino e greco, tanta cultura alla pari, dei materiali edilizio per fare abusi, come ferro, amianto, plastica e ogni sorta di additivo inquinanti

Si cantano e si ballano valej non avendo alcuna ragione del significato, confuso per battaglia vinta, come se il popolo più antico del vecchio continente, per ballare e per cantare, doveva attendere la Pasqua del 1460 dopo aver fatto strage di uomini donne e bambini.

Altro dato mortificante è allestiscono musei biblioteche e archivi senza che si consulti un luminare titolato per innalzare o articolare questi presidi; potrebbero esser eccellenza, ma si preferisce averli “varruni”, di cose accatastate e delle quali non si conosce, senso direzione, tempo e regole utili alla sostenibilità locale abbandonata così al consiglio del primo viandante, il quale anche se formato non sa e non conosce nulla di quelle pieghe, diplomatiche o temi dirsi voglia locali.

Ormai non si distinguono cosa siano le cose di casa e le cose della credenza, all’interno dei perimetri civili di quelli sacri e le vie del culto, unite indelebilmente.

Ormai oggi tutto si è appiattito ogni cosa è stata cancellata, al punto tale che il capofamiglia del rione Kanun, viene emulato alla pari dei protettori di credenza che dovrebbero essere altra cosa.

Anelli, chiavi, battenti e mezze porte, sono cose della casa, ormai parte anche dei luoghi di culto e, senza misura, grazia, per i Santi che non descrivo più le vie della storia locale, ma diventano luogo dei sani all’inizio dell’evento e, non si ha misura o sostantivo plausibile per “sostenerli” al termine della processione fondamentale per incamerare visibilità degli accasati.

Essere sempre coerente e vicino alle cose, gli uomini, l’ambiente, la storia dai tempi in cui furono e rimasero Arbanon, non importa, resta solo il valore di quanti dicono di sapere, tanto sono e restano, molto più distanti del mio cuore, perché credo sempre nell’essere un Arbëreshë e, non importa altro,

Non bisogna aprissi mai alle cose nuove della vita senza avere riferimenti certi, ovvero come si è stati allevati dai sapienti Genitori e Gjitoni e, tutte le cose che affermano non si citano solamente, ma devono trovare conferma, solo così diventano e sono il momento di conferma per tutti noi.

Mantenere la mente aperta, per un modo profondo e sincero di vedere le cose, senza altri fini o campanili di persone del passato, è l’obbligo che perseguono le persone sagge Arbëreshë.

Viviamo questa vita con il ruolo che una famiglia albanofona, generalmente per discendenza affida a un abilmente dotato, compito non per tutti, ma solo per pochi; in quanto servono anche l’occhi nel cuore, nella mente e, non tutti sono designati per natura ad averne tre.

Non importato cosa cercano di sapere e fanno le altrui genti, né si deve dare peso di cosa sanno e non vogliamo sapere, perché essi comunque vivono lontano dal cuore, perché noi viviamo orgogliosi di essere abilmente dotati.

Ignota rimane l’unità di misura con cui calcolano le cose fatte, sicuramente loro sono molto lontani dal proprio cuore, in quanto non hanno mai provato a credere in cosa siamo e, poco importa cosa diffondono, non importa cosa conoscono e di quanto e di cosa preferiscono contare, ballare o apporre bërlocun.

Esprimersi ermeticamente è l’unico modo per difendere le cose buone, perché quando essi proveranno a capire si comprenderà chi sono i veri ricercatori e quanti vivono a modo inverso, per copiare ricerca altrui.

Tutte queste parole non si affermano per cercare croci di bosco, ma riferisco la fiducia che giunge ogni giorno con cose nuove grazie all’occhio della fronte, del cuore e della mente.

Quello che poi appare è un problema di chi ti deve accogliere e si vergogna, immaginando che due occhi sono meglio di tre.

La mente deve essere aperta per vede cose in Arbanon, non riservare altri fini è obbligo, non importa altro, non importa quello che dicono, non importano i giochi di storia, non importata quello che fanno, non è mai importato quello che sanno, perché la visione trittica non ha rivali e camminare con il vero e, sicuramente state sempre vicino al cuore, credendo per questo sempre in chi e cosa siamo e, non importa nient’altro.

Io sostengo la storia, quella vera, la stessa che ha un inizio, uno svolgimento e il continuo secondo la dinastia di oltre Adriatico ereditata; credo nel Castriota, nella Comneno, nel Baffi, nei Bugliari, nei Giura, nei Torelli, gli Scura e, non importa altro, tanto il resto è noia copiata o riportata per essere illuminati nel palco dei cantanti.

Per terminare si potrebbe ironizzare affermando che tutto quello che è stato fatto per la tutela è finito con il distruggere con largo anticipo, quando doveva essere tutelato e avere più vita e, a ben vedere osservando le ondate che arrivano ad est del fiume Adriatico da un poco di tempo a questa parte, per fini di tutela e cooperazione, peggiora ancor più le cose, cancellando quello che dovevamo difendere.

Restano solo le cose giuste degli ostinati buoni, armati dell’occhio della fronte, del cuore e della mente, i quali continuano a catalogare e scrivere, per lasciare almeno l’impronta di un essere umano, lungo quel solco tracciato il giorno prima del 17 gennaio del 1468 dal Castriota e i suoi fidi.

A queto punto torna in mente uno dei principi delle storiche massaie Arbëreshë, le quali durante la settimana per fare cose dal maiale dove valeva la regola che: nel dubbio mettete tutto nella madia: alla fine facciamo Nduja, tanto, uno disposto a cibarsi, lo troverete sempre da giugno a settembre, dopo il duro lavoro sotto al sole dei campi che hanno già dato.

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ERA IL 17 GENNAIO DEL 1977

ERA IL 17 GENNAIO DEL 1977

Posted on 21 giugno 2023 by admin

pifferaio

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Ero poco più che un bambino, non frequentava ancora l’asilo, quando nel giardino che circondava l’INA-Casa, giocavo gridando e immaginando epiche battaglie e T.C. Miracco che faceva da sostegno alla madre anziana e sofferente della vecchiaia, io chiamavo rispettivamente Nanë Carmè e Kumbaclè.

Questi, per non interrompere i miei rumorosi sogni cavallereschi, al quanto riecheggianti, mi invitavano a sedermi in mezzo a loro e ripetere le parole Arbëreshë che diffondevo in maniera a dir poco anomala.

Una volta seduto e fermo delle mie frenesie cavalleresche, mi dicevano: Shànà ripeti bene le parole, perché così come fai, se vai in piazza a giocare e ti sente parlare un viandante, ti mette nella sporta dell’asino e ti porta a San Demetrio perché loro parlano e fanno così, e poi diventerai Shimitrotë.

Per questo ogni volta che vedevo il figlio sostenere la madre per sedersi a conversare sedevo in mezzo a loro e chiedevo di essere interrogato sulla mia origine di parlatore sofiota senza ombre o dubbi.

Passarono circa due decenni da quelle ripetute verifiche e, decisi che l’università, avrei dovuto continuarla definitivamente a Napoli, era di pomeriggio quando mi accingevo a salutare parenti ed amici, perché il giorno seguente, 17 gennaio del 1997, sari partito.

Alle ore 15, 00 durante uno dei miei ripetuti andar vieni, da casa e piazza, incontrai il proff. E.A. Miracco, il nipote e figlio dei due storici verificatori, il quale mi faceva gli auguri per l’inizio della mia nuova carierà, aggiungendo che: finalmente uno studioso, data la mia volontà di essere architetto, avrebbe fornito alla storia del nostro paese, risposte valide di cosa rappresentassero palazzi, case orti e strade per noi Arbanon, e della stessa Trapesa dove ci fermammo a conversare.

Quelle parole oltre all’impegno assunto con mia Madre e mio Padre, sono diventati la meta o meglio la strada che non ho mai smesso di seguire, per migliorarmi.

Infatti dal giorno che giunsi a Napoli, l’Università gli Archivi, le Biblioteche e i luoghi di culto, tutti, sono stati i mira di studio e apprendimento per la mia formazione e di ricercatore e professionista.

Oggi posso affermare che il mio dovere di studente, tirocinante estremo, professionista e ricercatore è stato svolto con una tale dovizia di particolari, che per molti comuni viandanti è ritenuta, troppo elevata, anche se in cuor mio ritengo che tutto si può migliorare, avendo cuore e mente vicino alle cose che contano.

Stare vicino alla propria radice non sarà mai molto più lontano dal cuore, se crediamo sempre in quello che siamo nient’altro importa.

Non mi sono mai espresso in questo modo la vita è nostra, la viviamo a modo nostro, tutte le parole non si dicono, ho sempre cercato la fiducia e la trovo e nelle persone a me più care.

Ogni giorno è qualcosa di nuovo, basta avere la mente aperta per un modo diverso di vedere le cose, non importa altro.

Questi sono le diplomatiche che ho seguito per giungere alla definizione stoica culturale dell’edificato minoritario di radice Arbanon, avendo cura di appuntare fatti luoghi e avvenimenti con le vicende di tempo e di luogo dove e quando sono avvenute.

Non fanno parte della mia natura di studioso campanili, palchi o specchi di travaglio comune, gli stessi che piegano le cose della storia ridicolizzando sin anche prestigiosi gruppi musicali, presidenti e rappresentanti di varia levatura i quali, attratti a partecipare a luminarie inopportune, denotano la precaria qualità culturale minando irreparabilmente la forza politica, rivela dei comunemente manovrabili.

Il Genius Loci espresso nelle Kalive, Katoj, Palazzi, Rioni, Chiese, Toponomastica, Costume  e tutte le attività del trittico mediterraneo sono i componenti pazientemente studiati e assemblati per poter restituire o meglio fornire un percorso, una metrica unica e inattaccabile, la stessa che ha dato lezioni a uomini politico di levatura estrema, da poco scomparsi, in quanto le diplomatiche poste in essere, sono un macigno, per quanti da decenni, senza sapere di cosa parlano, espongono e valorizzano faccendieri economici o esponenti culturali, che definire copiatori è poco.

Esiste un luogo in Calabria citeriore, che grazie alla fortuna di essere allocato a favore di vento, rispetto a un antico presidio di cultura e, per questi i figli li nati e allevati hanno acquisito note senza stonature culturale, diversamente da chi è cresciuto a ridosso di mulino che a seconda del macinato cambiavano tono.

Oggi invece di far rivivere e creare presupposti sociali condivisi, si disegnano le cose del futuro, invece di ricordare il passato, in oltre si insegna come appellare gli animali della giungla o attrezzare veicoli comunicativi moderni aggiungendo una” J” una “ë” o chissà quale lettera alfabeta greca per sentirsi più elevati.

Due anni orsono, la previsione di Miracco poteva concretizzarsi, ma purtroppo la scelta di puntare nella fotocopia più assurda che la politica poteva esporre, si è preferito ballare tarantelle travestiti da sposo, sposa e prete non titolato, invece di ascoltare e rendere di eccellenza storia.

A tale misura urge predisporre attività di tutela più solidi e allestiti da gruppi disciplinari e non da singoli senza tirocinio, almeno ventennale; per quanto mi riguarda il consiglio/augurio del proff. E.A. Miracco, è stato portato a buon fine, adesso spetta ai preposti organizzare, scena e attori,” assecutando” i comuni parlatori nella Trapesa dopo quel 17 gennaio 1977.

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-IL CICLOPE ARBËR, SORIDE AL COSPETTO DEI SOLITI GIOCOLATORI SUI CAMPANILI -

-IL CICLOPE ARBËR, SORIDE AL COSPETTO DEI SOLITI GIOCOLATORI SUI CAMPANILI –

Posted on 28 maggio 2023 by admin

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NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Gli istituti e le istituzioni preposte alla salvaguardia della regione storica, notoriamente distratte verso la conoscenza delle cose indispensabili, relativamente al sancito di valorizzare e promuovere la storia di cose e uomini, in tutto, le eccellenze locali.

Le stesse “maliziosamente” taciute, per dare valore con men­daci ed ingrate osservazioni, proposte da alcuni stranieri che, non potendo fug­gire dalle nebbie, le miserie, e le turbolenze delle contrade di provenienza, non avendo altrove trovare agio, sanità e quiete, pro­pongono le nostre regole con maliziose cose, invece di  onorarci come fanno gli ospiti buoni quando sono accolti per fame.

E così facendo, compromettono lo stato dignitoso di ogni cosa, dell’equilibrio culturale dei distratti lettori, o di quanti li preposti a deliziarsi di sapere, che tutto potrà essere, men che storia di noi Arbër.

In teoria si crede vi siano sempre più opzioni per fare ricerca, ma nella realtà la soluzione è sempre una sola, nota anche come inconfutabile somma di eventi, l’unica capace di seguire la logica del     sole dal sorge del mattino, quando instancabilmente illuminare tutti i luoghi, disposti in ordinata attea.

Le attività di studio qui condotte, mirano a rendere nota una storia del mattino mediterraneo, colmo di auspici e meritevoli confronti di convivenza civile tra culture e religioni.

Contesti genuini, ancora oggi in svolgimento, i cui luoghi hanno come scena, le terre che si insinuano al centro del mediterraneo; l’Italia meridionale.

Un percorso contornato da valori e avvenimenti, che elevano territorio e le genti, secondo principi di convivenza tra popoli, tutti desiderose di conservare le cose della propria identità, specie se questa è l’identità più antica del vecchio continente.

È stato per questo indispensabile, rivestire ruoli specifici per la continuità culturale in movimento, seguendo le epoche che la volevano mutare e, per evitare questo, si è ritenuto far nascer un nuovo movimento letterario, linguistico, politico, religioso, in tutto un pensiero popolare tramandato in forma completa, priva di favoritismi e campanili di sorta, per questo solo chi è in grado di avvertire e comprendere il messaggio, ha diritto di apparire e diffondere, partecipandovi secondo l’antico patto tipico degli Arbër: “Besa”.

Questo teorema di nuovo pensiero, vale solo per la qualità delle cose tramandate all’interno di un circoscritto gruppo o di ambito parallelo ritrovato, innalzato da più discipline familiari, ovvero, principi di incultura colma di significati riassunti, nelle testimonianze in conformità della filiera generazionale saggia e non di falsi curriculi o curriculati.

Ciò significa che le realtà trasmesse sono verificate e controllate dalla saggezza degli adulti protagonisti, in definitiva il valore che resistite con forza nelle consuetudini, pur nel variare delle circostanze dei portatori acerbi o malsani.

Talvolta capita anche brandelli del protocollo vengano riferiti male, ma a questo punto interviene lo “studioso capace” ad intercettarli, al fine di ricucirli per lavarli e stenderli al sole, restituendo così la visione delle cose, in esempio di modestia, locale.

Lo studioso, a questo punto riveste il ruolo del sarto saggio che ricuce il lume e, risvegliare, dopo un sonno buio oltre misura, della grandiosa saggezza senza termine, la stessa che vaga nelle menti di quanti si ostinano a violentare le cose della nostra tradizione, leggendo e riferendo atti di una storia che nasce e termina nello spazio mentale di perverse figure, pronte ad allungare la coda nel mio archivio.

Ad oggi sono numerosi i facoltosi delle consuetudini locali o di area e, fa impressione l’equilibrio e la saggezza di questi scambiatori di olio usato e capelli tagliati, per sapone.

In tutto episodi utili al degrado sociale, realizzato con incoscienza da quanti, mirano a scambiare il costume e le coperte in ricami armonici antichi, con vestizioni volgari, oltremodo private dei minimali espedienti che dovrebbero generare famiglia.

Spesso si odono regole sui diritti religiosi e civili, su base di tradizioni, o documenti, gelosamente conservati nell’archivio o imprecisi anfratti, comunque realizzati da scriba d’occasione e nessuno sa ne leggere e ne applicare, banalissime sottrazioni matematiche, per capire che sono falsi, come se la consuetudine e l’idioma più antico del globo, possa essere depositato non si sa da chi e come nei fascicoli di uno scriba che non poteva esistere, perché mai nato.

Diffusamente si insiste nel ritenere che alcune Colonie siano di radice militare e presentano anche argomenti a sostegno tale stranissima e curiose tesi, come per essere accolti come ospiti a casa di altri è bene presentarsi brandendo armati.

Ma quello che si racconta di veramente anomala è la leggenda secondo cui ripetere ogni anno le stesse noiosissime manifestazioni, elevare ad eccellenze vili cultori, che di fronte alle proprie responsabilità, prendevano la via di casa e si nascondevano sotto il letto o salivano nella soffitta di casa, immaginando di fare battaglie con il fucile senza animo di coerenza umana di valori per i propri simili locali, ostruendo sin anche le feritoie di areazione dei sottotetti.

Basta con gli stessi noti, o locali di turno, è il tempo di parlare ed elevare le figure buone, perché sempre illuminate e, mi riferisco a quanti hanno primeggiati nel costruire ponti, dialogando e aiutano sin anche Giacomo Leopardi, a vivere qui a Napoli la sua stagione migliore.

Questi sono intellettuali di spessore Arbër, in campo della comunicazione e, del rilancio sociale, quelli veramente capaci di essere esempio di terminazione del seme dell’ignoranza in ogni dove, valorizzando con il loro ingegni l’intera Europa, per comunicare, produrre e affermare cose nuove.

Intanto il Ciclope resta sempre vigile pur se ancora deluso e stupito da quanti dicono di sapere e poi per dare misura della loro forza pubblica, leggono e rileggono i postulati di cui non hanno padronanza o misura.

No ha mai convinto e mai avuto gloria il teorema secondo cui solo chi si cimentava a compilare alfabetari e componimenti scritti in Arbër, era da ritenere eccellenza, mentre quanti avevano dato la vita, costruito ponti, compilato teoremi per l’istruzione di massa, fossero ritenuti senza gloria.

La storia moderna degli Arber va compilata con dovizia di particolari, senza mai dimenticare che se una lingua rimane il riferimento primo di una determinata popolazione, un motivo ci deve essere e certamente non va fissata nei campanili di conventi o nelle polveri delle macine dei mugnai, che senza dignità non distinguevano, crusca per i suini, con il cose per fare frese e pane buono; a Napoli è stata inventata la pizza, dopo secoli che gli Arbër si cibavano con “Bukvallje per misurare il forno prima e dopo fatto il pane”, nel mentre allestivano, cunei agrari, per cibare e rendere più lucide le menti comuni di tutto il regno.

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Z., TEBE E AGNOIA (Zëtònàtë)

Z., TEBE E AGNOIA (Zëtònàtë)

Posted on 20 maggio 2023 by admin

Laffresco-in-cui-è-rappresentato-il-mito-di-EdipoNAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – È facile immaginare una scena pittorica realizzata, tra due episodi emblematici della vita di “Terra”, secondo la volontà del tempo breve (dove raffigurare la nascita ad Est, e il Termine a Ovest); concretizzando così, il tutto, in tre momenti distinti: Z., la Ricerca dell’inesistente; Tebe, la città di Edipo ed Agnoia, la capacità di trascurare il sapere.

Zètema è per Socrate, Zëtònàtë per la R.s.d.A. sono la ricerca certa e rigorosa di ogni nozione, di ogni valore utile a delineare la storia vera e, noi potemmo aggiungere, privata di ogni sorta di gàllinarë.

Il tema che ogni proclama deve seguire non può esclusivamente mirare a diventare leggenda o filosofia di mito, ostinandosi a innalzare cose che non fanno altro che arricchire di contenuti i disastrosi percorsi dell’ignoranza.

Quando si affronta un tema per rilevare ed esporre i trascorsi della storia, non si tratta di illustrare o comporre la più suggestiva, conveniente o illusoria leggenda, oltremodo orfana dei minimali principi di confronto, altrimenti si termina con l’alimentare il braciere dell’ignoranza, col la polvere degli errori rubata per innalzare glorie occulte.

Non si opera producendo o disegnando tragedie inventate da altri paralleli o meridiani e, siccome sono del passato dovrebbero essere vere, una favola una leggenda rimane sempre tale, pur se è stata garantita da Z.

Per questo, ad oggi urge spiegare e raffigurare, avvenimenti, luoghi e stipule di archivio, in tutto, una tessitura attenta, confrontata con le cose esistenti, questo e solo questo è il modo per fermare il mitizzare o auto eleggere, sé stessi, per il riconoscimento, con variegati colori della palese non conoscenza.

Questi accenni di cromatica apparizione, della moderna storiografia, sono l’introduzione per risvegliare l’interesse verso, un’emergenza a dir poco epocale, alla quale, per certi versi, non hanno voluto rispondere eccellenze senza eguali, e chi legge e compone le cose della storia, si deve rendere conto che il momento che viviamo ha bisogno, di gruppi di lavoro in molteplici discipline e, non di semplici giullari di corte, sempre meno formati dei cortigiani e falsi regnanti.

Andare alla ricerca di Z. con le inquietudini di Edipo in compagnia di Agnoia, al giorno d’oggi e molto semplice, giacché non tutti studiano leggendo le cose del Baffi, con l’educazione profusa da Teresa Caldora, come ebbe fortuna di avere il figlio Miche.

Essere un esperto in diplomatiche non è certo mestiere che possono fare i comuni giullari/e, in altre parole, tutti quelli/e, allungano la coda in archivio e nel contempo allungare le orecchie, per capire lo strombazzare dei Doria con le navi per il macero.

Non sono più concepibili esposizioni a dir poco inesistenti di fatti uomini cose e luoghi privi di alcuna struttura di ricerca comparata, il cui fine termina sempre con lo svolgersi di fatti e cose banali, se non addirittura inesistenti o attribuite ad altri faccendieri dell’epoca.

Ripetere due giorni di letture e componimenti dell’ultima ora e, quindi senza radice, serve solo ad incantare i comuni viandanti; certamente, non quanti hanno nel cuore, nella mente la storia e, non abbisognano di leggere le cose, perché gli esperti leggono a casa per poi esporre in pubblica conferenza.

Oggi non servono gli scolaretti furbi, i quali non avendo studiato a casa, interrogati alla lavagna, lasciavano il libro aperto, al primo banco per truffare il professore.

Certamente sono bugiardi con se stessi e con il sistema sociale denominato sapere per questo ancora oggi per ricordarsi le menzogne devono scriverle, giacché, figure storiche di poca memoria.

I bugiardi nella storia si dice che siano tutti cresciuti nei pressi dei reflui che dal Trapeso, ai torrenti producevano maleodoranti vitamine per la mente e quanti li respiravano in adolescenza, non certo incameravano lucidi sostanze per la mente.

Solo quanti hanno avuto la fortuna di sviluppare il proprio acume, seguite da madri e nonne speciali, note come Basile Caruso, Guido e Miracco hanno ereditato i principi della decenza, garbo, solennità e del fuoco, perché la formazione della saggezza viene trasmessa con somma di completa grazia, solo da regine, del costume, del conversare, del fuoco e della casa.

Solo chi è stato allevato con questi protocolli, oggi prova dolore immenso nel vedere o sentire compromesso senza misura i quattro principi cardinali del nostro essere minoranza, ovvero, Idioma, Consuetudine, Canto, Costume e Religione.

Vedere spezzettate queste storiche radici, ritenendole al pari della “nduglja insaccata a gennaio “e, ricevere sin anche l’avvallo delle istituzioni di ogni ordine e grado, è il termine della disciplinare Zetema, dove ad essere protagonista di ogni cosa non è la storia.

Le competenze di ricerca non sono delle istituzioni che hanno solo il compito di formare, un po’ come facevano le quattro nonne; la mono disciplina, fa solo danno e se un dipartimento si illude perché ha avuto esperienze, in discipline specifiche mente e fa danno.

Vero è che riferire di storia, architettura, ambiente e ogni sorta disciplinare non presente nei risicati piani di studio perseguiti, senza riferimento a cose materiali ed immateriali di una ben definita macroarea, è solo auto eleggere i portatori di code e origliatomi delle navi al macero.

E terminato il tempo di appellare le cose o i gruppi di generi secondo termini di “IA” perché chi studia e conosce i processi sociali, sa bene che il temine non ha radice di nobili principi anzi è tutto il contrario di buone cose e nobili principi.

Ormai si va avanti con l’esempio di bambini e dei peggiori che vogliono dare lezioni si ambiente costumi e progetti pei i domani e nel contempo all’uomo accadono le cose più penose che l’uomo comune avrebbe ma immaginato accadessero.

Irriverenze di una tale leggerezza che un tempo si prospettavano per spaventare le nuove generazioni o spaventare le più adulte, oggi si organizzano con una tale incoscienza, che non ha precedenti, come rievocazioni delle peggiori giornate della nostra storia accompagnati da incoscienti suonatori; santi protettori presentati con effigi a dir poco blasfeme, imponendo alla mano benedetta, di dover apparire come quella dei mammasantissima o appiattire il confine tra cosa pubblica e credenza religiosa.

Non è concepibile che sia rimasta la natura l’unica capace di redimere e far riflettere gli omini del continuo poltrire, sicuri che poi gli astanti un giorno possano essere premiati.

Oggi si vorrebbe tutto elettrificato dalla luce del sole, e vagare con e pile cinesi, senza guardare che chi viaggia per cielo, ogni volo di passaggio, inquina più di mille auto che fanno traffico nelle nostre città.

Alle cose della natura che dovrebbero rendere migliore la vita degli uomini, mancano solo picconi, pale, carriole e zappe; ora mi chiedo, invece di fare e raccontare le inesattezze della storia che è cosa raffinata e complicata che altri compilano da decenni.

I tanti addetti, perché non tornano alle cose del passato e, senza migrare come fecero i genitori, i quali vergognosi di fare i contadini a casa propria lo andavano a fare nelle terre di confine.

Oggi nella nostra regione serve rendere l’agro migliore, sotto l’aspetto produttivo dei cunei agrari, senza bisogno di risalire al tempo del Monte del Grano, o magari fare solo attività utili dell’equilibrio idro geologico, senza appesantire cementificando anfratti, che ormai sono pronti per la tragedia.

I bambini devono andare a scuola e studiare, i genitori produrre e confrontarsi tra loro per valorizzare al meglio tutte le consuetudini in eredità in fraterna continuità con l’ambiente naturale buono; i preti benedire e infiorare le chiese, le mamme crescere ed educare i figli, almeno, presentarli con decenza di colori e significati beneauguranti per l’onore della casa, senza esporre i minori, per una irragionevole grazia, con l’incompreso collare di una scellerata attesa materna.

Gli istituti e le istituzioni preposte alla salvaguardia della regione storica, notoriamente, incantate e distratte verso la conoscenza, utile o meglio indispensabile, per la valorizzare e promuovere la storia le cose e gli uomini, in tutto, le eccellenze locali, “maliziosamente”, hanno taciuto o per così dire, con il braccino della mente molto corta o incolta, danno valore con men­daci ed ingrate osservazioni di alcuni stranieri che, non potendo fug­gire dalle nebbie, le miserie, e le turbolenze delle loro contrade, non hanno potuto altrove trovare agio, sanità e quiete, sotto  questo cielo Arbër, proposto con la pro­tezione delle nostre maliziose regole, nate per valorizzare le cose migliori che avrebbero dovuto onorarci con tutta l’umanità.

Purtroppo così non avviene, perché siccome i preposti, furono scelti tutti di piccola statura, una volta saliti in cattedra hanno scambiato il ruolo, immaginandolo campanile.

P.S. Figure testi e conclusioni non sono liberamente interpretabili o diffuse se non con il consenso di liberatoria dell’autore che ne detiene il significato e il valore culturale fruibile in sola lettura.

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ED ECCO APPARIRE ALL'ORIZZONTE DI APPRODO LA CAPITALE DEGLI ARBË PER QUANTI DILETTANO CRESCERE CODE IN ARCHIVIO (Duali edè Mesj i Katundëve Arbër)

ED ECCO APPARIRE ALL’ORIZZONTE DI APPRODO LA CAPITALE DEGLI ARBË PER QUANTI DILETTANO CRESCERE CODE IN ARCHIVIO (Duali edè Mesj i Katundëve Arbër)

Posted on 17 aprile 2023 by admin

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NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Le istituzioni, l’organizzazione e le curiose considerazioni sversate verso la Regione storica diffusa degli Arbër, ad oggi, perché poco conosciuta o per meglio dire maliziosamente velata, per meglio dare spazio e lustro a ignari osservatori stranieri, parlanti e non.

Questi che fug­gendo dalle miserie e le turbolenze delle loro contrade di provenienza, si sono illusi di trovare, altrove,  pace, sanità o quiete mentale; quella che sotto il nostro immenso tetto di accoglienza e rispetto per lo straniero, come disposto dalle consuetudini, le migliori che onorano l’umanità; per  ignari fosforescenti luminari, sono stati intesi come arretratezza culturale, traducendo le nostre fondamentali attività di rispetto dell’ospite vagante, in prostrazione, ignoranza o inadeguatezza di cogliere cose della storia che ci appartiene.

A ben vedere ciò che allo straniero, appena colto è sfuggito è il rispetto, o meglio, il decoro della, ingiustamente, malmenata patria, la quale, siccome storicamente non usa un libro di manuale ne usa stendere al sole pubblico le proprie intimità, o stato fisico delle cose, a quanti volessero deliziarsi di materiali curiosità, diventa impossibile per lo straniero errante trovare le notizie che rendono facile l’acquisto di tutte le comodità che fan la vita dilettevole solo a un Arbër.

Questo è lo scopo che si vuole con­seguire col il presente lavoro e, chi volesse apprendere deve leggere così può conoscere cosa è la nostra regione storica per capire anche cosa è una capitale, e diventare giudice esterno pubblico e imparziale.

Nel comune conversare, pubblicare e diffondere le cose che dicono siano parte essenziale delle regioni, di quella lingua di terra che si insinua, fiera nel mediterraneo centrale, manca sempre il concetto di guida capitale.

Si riferisce per non seguire la scia incompiuta delle terre che segnano i contorni della Regione storia diffusa degli Arbër, qui accade spesso che quanto si fa la conta, dei centri abitanti di questo insieme diffuso, questa varia e si modifica, seconda del bimbo in età scolare che conta, e secondo dell’impegno e la volontà che in genere hanno gli scolaretti, la conta varia da ventisette a cinquanta, senza mai comunque contemplare mai capitale, per cui dovrebbero essere solo paesi senza una regola.

O meglio se volessimo essere severi, come avrebbero dovuto fare molti, anzi, troppi maestri della età scolare vissuta, si sarebbe dovuto iniziare prima indicando una capitale e, poi la variopinta conta, di Casali, Borghi o fossati con ponti levatoi in difesa.

Questi generalmente un elenco di sostantivi di aggregati urbani, senza tempo epoca e senso, in tutto una regione culturale priva di contenuti identitari, palesando, che l’insieme culturale al centro mediterraneo è resta ignoto agli attori, o meglio a quanti fanno il mestiere di comparse culturali.

Mai nessuno ha saputo contare e spiegare perché la regione storica è composta da 109 agglomerati edilizi paralleli edificati dagli Arbanon, a cui sia stata mai aggiunta aggiunge la capitale che dal IV° secolo, prima di Cristo, senza soluzione di continuità, si esprime con la metrica dell’idioma Arbër.

Nessuno espone mai i motivi perché siano stati edificati o quale esigenza ha intercettato proprio quei luoghi e chi li ha circoscritti in ventuno macro aree.

Ad oggi non vi è alcuna consapevolezza del dato fondamentale che Napoli sia la capitale di questa regione storica, irremovibile, o dei morivi che la determinarono e fecero scaturire il protocollo di accoglienza e integrazione di un numero rilevante di minoritari, i quali con educazione dei fatti della storia non si sono mai sovrapposti o insediati in luoghi appartenenti o dove vissero altri popoli ancora presenti.

Chiese, conventi edificato civile, luoghi di confronto, percorsi articolati, farmacie private, vicoli articolati e supportici completano il senso della capitale dald0le per diritto l’inclusivo numero di 110.

Vero è che proprio in questo luogo antico si evidenziano per la prima volta le forme Alessandrine, importate dalle regioni del Nilo bizantino, menzionato, immaginato e, mai smesso di formarsi, parlando solo ed esclusivamente la lingua antica, avendo come riferimento le tipiche disposizioni urbanistiche e architettoniche, mai compromesse e ancora presenti nella capitale così come nei restanti 109 Katundë.

Napoli per questo è il luogo dove storicamente, tutte le eccellenze dei paesi Arbër si sono formate, riverberando poi il loro sapere senza eguali in tutto il globo, luogo illuminato e illuminante, che senza soluzione di continuità da oltre un millennio è ritenuto porto sicuro per la formazione degli Arbër, provenienti da ogni parte della regione storica.

Un luogo dove il tempo non consuma la consuetudine, l’idioma, il genio, la religione, i costumi, le buone intenzioni sociali degli uomini, perché qui tutto viene opportunamente tutelato per il futuro delle generazioni a venire.

È a Napoli che nasce la prima università che doveva tutelare l’idioma degli Arbër e non come avviene nell’enunciato della legge 482/99 dove si tutela la lingua moderna di quella terra abbandonata dalla metà dei residenti proprio per evitare le regole della su citata legge.

Oggi purtroppo e con rammarico duole affermarlo, con dati di certezza, l’essere forgiati a valorizzare gli ultimi, ovvero quelle figure, che hanno fatto danno in tutto l’ottocento, sino agli inizi del novecento, rimanendo perennemente scolaretti a cui venivano oltremodo corretti i compiti stilati in malo modo, perché capaci solo di accompagnare la mula che doveva far ruotare la macina ed essere inutili accompagnatori di quadrupedi da traino in luogo circoscritto.

Mentre ne contempo a Napoli educati e discreti esperti professori delle diplomatiche delinearono le linee guida della lingua degli Arbër, mai da nessuno comprese per essere arricchite, interpretate e divulgate, anzi utilizzati vilmente per attribuire colpe di una infamia senza precedenti.

La conferma che la metropoli partenopea sia Palepoli che Neapolis, non sia una cattedra a misura dei comunemente, lo racconta l’episodio qui citato per grandi linee, avvenuto poco tempo addietro, i cui protagonisti abituati a esporre argomenti e cose a platee di incultura o mediocre formazione, hanno dovuto correre ai ripari e cambiare titolo all’evento.

Questi mai approdati nella capitale nel trasferitisi, a presiedere un evento a dir poco inopportuno hanno dovuto piegare la loro debolezza culturale, “del discorso di tizio” poi rendendosi conto della presenza di una saggia platea, cambiare registro e seguire i consigli di chi sedeva nel fondo della sala, che con saggezza e garbo suggeriva di variare il tema e riferire “con il sottratto di tizio, a spese di sempronio” oltremodo quest’ultimo lasciato in pena ad essere ancora inforcato un’altra volta idealmente, perché di questo luogo resta a tutt’oggi resta figura illustre e complicata da comprendere per la mandria approdata nella capitale.

La figura rima della storia culturale degli Arbër, qui in questa nota su citata, oltretutto è la stessa che tracciò nel 1765 le prime trame dei sostantivi linguistici spiegati e grammaticalmente riportati, mai compresi capiti e saputi leggere da alcuna figura, o addetto preposto di questa storica e incompiuta grammaticale.

La stessa ripresa dal figlio di questi, con garbata educazione e fine riferimento, cercando di far emergere per essere diffuse, nel 1860, analizzando e diplomaticamente confrontando, documenti e attività, che doveva avere come risultato, quanto non era stato mai prestito, ma vere e proprie rapine di documenti, ricambiati con pene di studio, le stesse che restano, ancora accatastati, in chissà quale scaffale privato, preferiti lasciarli marcire, in quanto conferma scritta.

La capitale degli Arbër è il luogo ideale dove apprendere come vivere e apprendere atteggiamenti e principi, per dare solida continuità alla patto che gi Arbër hanno fatto con la terra di origine; la capitale è il luogo dove per fare abiti femminili di rappresentanza e da sposa, si tessevano, seta e cotone in egual misura; la prima per dare lucentezza e la seconda per imprimere memoria di piega; la capitale è il luogo dove la mente degli uomini produce cose buone e le strade portano il nome delle più antiche attività; la capitale ha le chiese orientate per rispettare la maggiore che indica l’origine di provenienza e di credenza degli storici abitanti.

La capitale è un luogo da vivere e non per appuntare gli episodi e le persone care del passato solcandone o sminuendone la memoria con fatica e pene fuori misura; la capitale non si disegna sui muri degli elevati della memoria, perché le cose vanno vissute e dare continuità agli uomini migliori che hanno saputo distinguersi.

La capitale non è uno sversatoio pubblico dove fare cumuli per galli che segnano il tempo, abbagliati dal sole; la capitale non è neanche un lavinaio dove indossare la parte meno nobile del vestito da donna e andare china e schiena agli ospiti, esaltandosi a ballare con la zòghà sollevata e senza vergogna dare il fiore quando si parte.

La capitale è il luogo dove se saggi con misura, avrai sempre un palco da dove esporre cose in apparenza contorte, perché chi ti è amico fraterno. Pronto ad aiutarti a estrapolare il meglio di luogo e cose.

La capitale ti accoglie anche al tempo della guerra, ti fa studiare per migliorarti e salvare gli altri, senza preferenze di genere o di ricchezza.

Va a questo punto sottolineato con forza, il dato secondo cui, è questa città ad aver dato i natali culturali alle figure più emblematiche della storia espressa in forma di puro genio, sono proprio questi ad aver seminato una realtà culturale che tutt’Europa dal XVII secolo al IXX secoli ci ha invidiato e corsi nella capitale a copiare o prendere appunti dai testi,

Cosi come hanno fatto i mediocri o meglio, gli eterni secondo, che per viltà correvano nei paesi di famiglia, a rifugiarsi per non assumersi tutolo di responsabilità o pene di carcere.

Napoli è la capitale poco dopo l’insediamento del Re Carlo III, dopo la compilazione della sua guardia privata, denominata Real Macedone, viene preferito un prete Arbër, per la guida spirituale dei suoi fidi militari, una scelta non casuale, infatti il prete venne chiamato dal piccolo Katundë di Calabria Citeriore nelle colline della Sila greca.

Nella Capitale partenopea e in particolare nel fianco ad ovest della “Cala di Chino” aveva luogo il presidio storico culturale Europeo, dove furono preparate le strategie portarono il collegio di San Benedetto Ullano a Sant’Adriano.

L’opera irripetibile, o meglio scissa oltre un secolo dopo, venne sostenuta e proposta caparbiamente ad opera del Baffi, i Bugliari e del Bellusci, con il vile a remare contro e pensare terminazioni dei liberi pensatoi, gli stessi che con la loro opera consentirono a Garibaldi il passaggio senza confronto, nelle terre in Calabria citeriore e non solo.

E sempre nella capitale che venne pensato, progettato e poi realizzato il primo ponte al mondo, su catenarie e pilastri singoli, che lasciò senza respiro la migliore ingegneria europea dell’epoca, che sperava di vedere il re cadere nel fiume e bagnarsi le vesti dal pubblico corso solo per questo risultato, che come ben sanno gli autori, l’opera ancora oggi resite alle innumerevoli battaglie degli uomini e del tempo.

Sempre nella capitale della Regione storica diffusa degli Arbër nacquero i primi giornali e settimanali con gli inserti di cultura, avvenimenti e costume, al fine di rendere merito alla cultura diffusa iniziando dal basso, o porre le basi canore delle manifestazioni oggi ritenute a torto memorie di battaglie e guerre cruenti.

Le vicende che confermano che la capitale degli Arbër, che tutelano il nostro patrimonio identitario in esilio perenne è “NAPOLI”.

Se alcuno, avesse dubbio o ripensamento, è solo da considerare al pari di quelle figure estranee segnalate in premessa, se poi la loro caparbietà vuole ragione, venite a Napoli: ma questa volta non come ospiti, ma allievi con il ricamo a contorno del collo, come quello appeso al muro, mi raccomando non dimenticate di apporvi il fiocchetto blu sopra il grembiulino.

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