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LA TUTELA DISARMATA

PERSO GLI ATTREZZI, LA MEDICINA FU AFFIDATA AL PICCOLO DI FAMIGLIA (u bë jatrùa thëarbërvet i birj më i vìkèrë)

Posted on 11 luglio 2023 by admin

LA TUTELA DISARMATA

Questa lettura è consigliata a quanti vivono vicino al cuore…………….. gli altri misurino distanza, tanto, altro non fanno

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Arch. Basile) – La vera storia degli Arbër/n, emergerà solo quando tutte le figure buone, siederanno attorno ad un tavolo e daranno  il meglio di sé, senza utilizzare balconi, piazze con in pugno attrezzi da lavoro per cambiare cose; il solco è stato già tracciato dai nostri avi, esso è solido leggibile e diritto, va solo seguito interpretando gli scenari che attraversa per comprendere e diffondere storia lucente.

I trascorsi degli Arbër/n sono una terapia di guarigione per un malato terminale, per questo diventa medicina, motivo per il quali chi deve prescriverla, chi deve somministrarla e chi deve seguire l’andamento migliorativo del paziente abbisogna dei fondamentali principi nel saper riconoscerne, per tempo, distinguendo nel corso della terapia, gli effetti benefici di rinvigorimento, dai collaterali appariscenti, o eventuali malevoli terminali.

Sono ormai trascorsi abbondantemente due decenni nell’ascoltare cose, teoremi e divagazioni a dir poco inopportune, attribuite agli Arbër e, per onorare le persone che diventassi architetto, al fine di risolvere i numerosi interrogativi, del confusionario modo di intendere la regione storica degli Arber, fuori dall’esperimento linguistico, ho dato seguito a questo componimento primo.

Era il sette luglio del 2003, e lì in via Epiro, uno strano sempre più crescente vociferare, attirò l’attenzione e, mescolati alla platea che seguiva, nella sala consiliare del non più paese, una divagazione relativa al principio di Gjitonia era esposta a modo di giaculatoria alta.

Visto e considerato, il riferito del tema interessava dei luoghi natii, a un certo punto nell’ascolto, non si sapeva se ridere o piangere per le cose del passato, in quel contesto storico colmo di storia sino a quel momento incontaminato dalla vergogna.

Qui in questo medio breve, saranno per questo, analizzati con senso di semina per le generazioni future, essendo le acerbe da allora in voga, mai scese dalla cresta dell’onda, inadatte, inopportune o a dir poco ironiche, nel distinguere grano e fatuo, (in Arbër/n; Grùrë e Hellëph thë égher) foraggiando ogni cosa con espedienti senza arte, perché il risultato voleva, l’entusiastica massa distratta, essere presente per mormorare e null’altro.

D’altro canto  tracciare storia secondo studi specifici supportati dl estesi curriculum, ogni genere di cose materiali immateriali, consuetudini, costumi e attività tipiche delle genti che vivono, perché hanno costruito, meritando la regione storica diffusa degli Arbër/n, prima o poi deve emergere e se così  è trascorso troppo tempo.

Pur essendo stata difesa la distruzione di un Katundë in solitaria attività, grazie ai diffusi enunciato solidi, del costruito storico, del sociale e le figure che hanno reso famosa la minoranza in tutto il mondo.

Nonostante ciò ancora oggi esistono figure che dall’alto dei balconi, impongono manchevolezze culturali,  con argomenti Arbër/n, in parlato tipico della storica questione Albanese; a ben vedere i  titoli menano verso discipline, marginali senza completezza,  in altre parole emblema di chi con ironia compose, minareti mussulmani, sostituendoli ai campanili delle chiese greco bizantine e, quanti non capirono, li appellarono case che parlano alla luna crescente.

Premesso quanto, si vuole dare senso di tempo, luogo, uomini e genio specifico, nell’utilizzo comune di sostantivi, almeno i basilari, o meglio i fondamentali al fine di fornire certezze al comunemente diffuso, per fini turistici e televisivi, tra i quali:

  • Paese definito “Borgo”, in Arbër/n, è Katundë;
  • Rione equipollente a Quartiere, in Arbër/n, Sheshi;
  • Centro Storico e l’ignoto Centro Antico germogli dei Katundë, ovvero Ka Rrin Rellëth;
  • Piazzetta che non è, in Arbër/n, Sheshë;
  • Vicinato che, in Arbër/n, non è Gjitonia;
  • Comignoli solitari di un luogo e gli antri Arbër/n a fare fuoco in mezzo alle case;
  • Battaglie vinte a Pasqua, ballando la vittoria; in Vallja;
  • Restituire senso e valore storico ai sette giorni di agosto in Terra di Sofia
  • Comune, ovvero Bashkia in Albanese, in Arbër/n, Kushëtë;
  • Il costume da sposa, non per infanti, in Arbër/n, il Raso dei due filamenti di Casa e di Chiesa;
  • Case Parlanti, in Arbër/n, thë ngruitura pà trù;
  • Sheshi zìesh Clementinesë, memoria di un amore proibito Arbër/n;

Questi chiaramente sono solo alcuni, o meglio i più vergognosi, da correggere nel breve termine e, dei quali si fa uso gratuito, privandoli dei minimali adempimenti di rispetto, dal punto di vista storico, sociale, consuetudinario, senso e rispetto del passato, vera e propria devastante deriva che termina anche le alte cose.

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GIUGNO IL TEMPO DEL RACCOLTO FATUO RIMASTO (tue mbiedur ghì e finghillë pa Zjarë)

GIUGNO IL TEMPO DEL RACCOLTO FATUO RIMASTO (tue mbiedur ghì e finghillë pa Zjarë)

Posted on 25 giugno 2023 by admin

cenere e carbomeNAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Ormai sta diventando una consuetudine a dir poco vergognosa, l’allestire fatuo storico, da giugno a settembre e, questo del 2023 in corso e la terza edizione che senza soluzione di continuità espone atti, fotocopie, inesattezze o guerre di pasqua vinte per fare festa.

La cosa ancor più grave resta stesa alla luce del sole, ed è il dato del perseverare con attività nell’aia del fatuo a termine, con abbagli storici, stesi senza vergogna, innanzi alle storiche case di quanti conoscono, sanno e così facendo, tutto diviene via crucis in pena di dolore, per chi osserva e ascolta le attività fuori loco e palmo.

Va tuttavia rilevata la pazienza dei saggi, i quali, si dimostrano comprensivi visto il gran numero di comunemente che, ballando e cantando, sventolano natalizi, spargono radici e, per mare tornando a casa.

Scendere con la scopa in mano nell’aia del “trapeso”, sarebbe la cosa più opportuna da farsi, ma chi è saggio usa la scopa per fare altre cose, perché spera che il buon senso deponga radice e, curi le menti di questa schiera d’incultura di “mezza festa”.

Ormai il mese di giugno è considerato la vigilia, “la mezza festa” il momento di tutto quello che rappresenta il nulla per l’Arbër, non resta altro da aggiungere, bisogna solo prendere atto del dato che sono anime in pena lontane dal proprio cuore.

Giugno ormai è da ritenere il mese in cui si manomettono le pietre fondali della storia e, tutto diventa “lecita magistralis”, infatti, sono tanti che scendono armati di chitarre, mantice e tamburello, per indirizzare i/le costumanti/e a turcofone ruotate, cantare e, cosa più grave sollevare la veste del marito e del padre.

Non è concepibile che dall’alto degli scanni, di quanti avrebbe dovuto garantire pubblicamente, misura, parole, atti e cose, come il dovere del ruolo assunto gli imponeva, affermare che: la storia letteraria, della minoranza più longeva del vecchio continente, sia iniziata nel 1831.

Poi se a quest’affermazione, affidano l’operato di nobili eccellenze risalenti al 1775, le stesse volutamente ignorate per dare spazio a una anomala figura, incerta persino della sua natura, il quale poco attento immaginò che catapultarsi a Napoli per cose, nessuno le avrebbe potute riconoscere, come ha fatto il figlio quando ha avut innanzi il copiati dell’opere paterna ancora violato.

Conferma resta il compilante, che si vide costretto a tornare indietro a ricamuffare ogni cosa, con più confusione della sua banalità culturale da allora in poi messa di lato.

Poi germogliarono gli anemici guerrafondai dal vallone senza bandiera, pronti ad armarsi e partire appena odorata la polvere da sparo dei venti rivoluzionari, i quali recatisi in ogni dove, chiedevano ai locali in rivolta, a chi, cosa e dove mirare per seminare morte.

A quanti hanno frequentato quel presidio di incultura “ilibërato” non resta che chiedere di smettere: Basta, Basta, Basta, Basta, Basta, Basta, Basta, Basta, Basta, Basta, Basta, Basta, Basta, Basta e Bastaaaaaaaa…….e se non lo avete capito BASTA, chiudete bottega e fate orti; si, a voi, proprio voi che dite di essere “titolo”, “titolati” e “certificatori”, smettetela una volta per tutte, di seminare grano a giugno, tanto non germoglierà mai e neanche di fatuo a settembre come inconsciamente avete promesso non fate nulla, dopo aver redarguito i saggi che vi superano in ogni dove.

Giugno rappresenta il baricentro della estate Arbanon, il tempo di raccogliere i seminativi per questo bisogna sapere bene quello che si coglie per separarlo dalle cose fatue.

Saper riconoscere e ripetere questi antichi gesti consente al futuro continuità del luogo, in comune convivenza con l’uomo, il mese è il primo momento di esposizione alla calura estive: e non certo è il luogo adatto per esporre neonati in fasce non all’ombra, altrimenti si terminano le cose buone della specie per pochi frutti acerbi.

Ora inizia luglio, riservandoci non certo cose migliori, del mese appena trascorso, certamente si continuerà nel non rispettare uomini, cose, vestizioni, civili, religiose e, si diventerà ancor più estremi, nello smarrire i sensi del protocollo di credenza e onorare, quei tragitti che uniscono tutte le case con la chiesa.

Si vuole sottolineare in questo breve discorso il rispetto che le grandi famiglie hanno sempre avuto per il ricorso dei propri figli, come quando nel 1799 i Serra di Cassano si videro impiccato in maniera a dir poco indecente il figlio Gennaro, rampollo 27enne, essi per questo chiusero il portone che affacciava verso la residenza reale e da oltre duecento anni rimane chiuso in senso di disprezzo verso quella corona, e ancora oggi quell’atto rimane vivo tra quei palazzi, nonostante la prospettiva sia mutata.

Questo, valga di esempio, per chi ha consapevolezza e cognizione di tempo, uomini sangue e cose, alla ricorrenza del luttuoso 18 Agosto, festeggiato perché risultato di conti errati, un falso storico e nulla più, quando a suon di fanfare e onorificenze, ironicamente, pure alla stessa ora, beffa storica di una duplice inforcatura  del 1799 e del 1806.

Non è diverso il ricordo degli altri uomini illustri, associato generalmente a nere figure antagoniste, nelle vicende che videro protagonisti glia Arbanon.

I nomi di questi tutti riversati in una cesta per fare estrazione o riffa e, per il sole cocente di mezzo dì, si finisce per estratti come eccellenza, un nero, collocandoli in lapide ricordo con il risultato di 64 certificato per 66 e quindi il giuoco risulta essere truccato.

La letteratura non riconosce a Pasquale Baffi, il dato di essere il primo letterato a comparare le parole Arbër con quanti, con questo popolo, si sino confrontati, per questo è il compositore primo di grammatica  e tutto il resto viene dopo.

Se a questo aggiungiamo le disertazioni gratuite di quanti millantano di saper leggere e non riconosce nei discorsi, lo svolgimento dei periodi ad opera del grande letterato sofiota, è il segno inconfutabile che per concorrere al titolo accademico, molti non hanno fatto i compiti a casa e, quello che più conta, non riconoscono la grammatica del maestro con quella di pesatori di grano per tomoli d’interesse.

Si fanno presidi universitari e si perde la mira per la quale scopo furono istituite, tutto questo succede quando non si ha una titolarità specifica dell’argomento, pellegrinaggio senza meta verso le cose moderne che hanno facile misura di tutela, in senso generale, ragion per cui si cerca di innestare l’età della pietra, con l’impero romano, il medio evo e l’era della globalizzazione, senza il minimo riguardo del tempo che tra queste le differenziate.

Il dato che emerge non presta alcuna attenzione alla storia in senso generale e poi come in tutte le cose nessuna attenzione è rivolta alla tutela delle architetture storiche o degli ambiti all’interno dei “centri antichi”, specie nell’esporre cose o fare ricerca verso le attività agresti o la dieta mediterranea, tralasciando i Cunei Agrari, che nella maggior parte dei casi, sono una meteora ignota, comunque non buona da tutelare.

Eppure basterebbe accogliere le figure giuste per intercettare cosa serve e cosa è fatuo, specie per avvicinare i canali turistici che contano, preferendo “bërlocarsi di tutto punto”, per annunciare rapporti intimi e distrarre le piazze divertite, in tutto, continuare ad essere ignari del messaggio inviato.

Cosa dire poi degli inesistenti “Borghi Arbëreshë”, di cui senza formazione si riferisce del costruito, risalente a detta dei cultori, a sei secoli orsono, anche se i materiali dei modelli indicati, descritti e circoscritti, come originali dell’epoca sono tipici delle superfetazioni degli anni sessanta del secolo scorso, a detta sempre degli espositori, ispirati dalle direttive del Cubismo Analitico e Sintetico, in tutto, un penoso falso storico per attrarre ignari turisti, della breve colazione, che partono senza nessuna memoria e contenti di aver mangiato a pranzo.

Se poi il tema diventa la tutela delle parlate locali, oggi tanto in voga e divulgato, per opera di meteore linguistiche a dir poco inopportune, non esistono temi in grado di dare in barlume di fondamento agli orgogliosi alfabetari locali, sbandierati e riverberati ai quattro venti, con le parole Autobus per la “A”;  Elefante per la “E”; Pinocchio per la “P”; Orologio per la “O”; Telefono per la “T”; Gorilla per la “G”; ritengo questi accenni siano sufficienti per evitare di scuotere il sonno eterno dei nostri Avi.

Chiaramente soffermarsi sul protocollo della vituperata Gjitonia è un obbligo, specie se diffusa come Vicinato o ancor peggio di Strade, Piazze e Palazzi, questi ultimi fatti di libri rari, portati dall’Albania dentro bauli(?), mentre le altre lastricate di pergamene scritte in latino e greco, tanta cultura alla pari, dei materiali edilizio per fare abusi, come ferro, amianto, plastica e ogni sorta di additivo inquinanti

Si cantano e si ballano valej non avendo alcuna ragione del significato, confuso per battaglia vinta, come se il popolo più antico del vecchio continente, per ballare e per cantare, doveva attendere la Pasqua del 1460 dopo aver fatto strage di uomini donne e bambini.

Altro dato mortificante è allestiscono musei biblioteche e archivi senza che si consulti un luminare titolato per innalzare o articolare questi presidi; potrebbero esser eccellenza, ma si preferisce averli “varruni”, di cose accatastate e delle quali non si conosce, senso direzione, tempo e regole utili alla sostenibilità locale abbandonata così al consiglio del primo viandante, il quale anche se formato non sa e non conosce nulla di quelle pieghe, diplomatiche o temi dirsi voglia locali.

Ormai non si distinguono cosa siano le cose di casa e le cose della credenza, all’interno dei perimetri civili di quelli sacri e le vie del culto, unite indelebilmente.

Ormai oggi tutto si è appiattito ogni cosa è stata cancellata, al punto tale che il capofamiglia del rione Kanun, viene emulato alla pari dei protettori di credenza che dovrebbero essere altra cosa.

Anelli, chiavi, battenti e mezze porte, sono cose della casa, ormai parte anche dei luoghi di culto e, senza misura, grazia, per i Santi che non descrivo più le vie della storia locale, ma diventano luogo dei sani all’inizio dell’evento e, non si ha misura o sostantivo plausibile per “sostenerli” al termine della processione fondamentale per incamerare visibilità degli accasati.

Essere sempre coerente e vicino alle cose, gli uomini, l’ambiente, la storia dai tempi in cui furono e rimasero Arbanon, non importa, resta solo il valore di quanti dicono di sapere, tanto sono e restano, molto più distanti del mio cuore, perché credo sempre nell’essere un Arbëreshë e, non importa altro,

Non bisogna aprissi mai alle cose nuove della vita senza avere riferimenti certi, ovvero come si è stati allevati dai sapienti Genitori e Gjitoni e, tutte le cose che affermano non si citano solamente, ma devono trovare conferma, solo così diventano e sono il momento di conferma per tutti noi.

Mantenere la mente aperta, per un modo profondo e sincero di vedere le cose, senza altri fini o campanili di persone del passato, è l’obbligo che perseguono le persone sagge Arbëreshë.

Viviamo questa vita con il ruolo che una famiglia albanofona, generalmente per discendenza affida a un abilmente dotato, compito non per tutti, ma solo per pochi; in quanto servono anche l’occhi nel cuore, nella mente e, non tutti sono designati per natura ad averne tre.

Non importato cosa cercano di sapere e fanno le altrui genti, né si deve dare peso di cosa sanno e non vogliamo sapere, perché essi comunque vivono lontano dal cuore, perché noi viviamo orgogliosi di essere abilmente dotati.

Ignota rimane l’unità di misura con cui calcolano le cose fatte, sicuramente loro sono molto lontani dal proprio cuore, in quanto non hanno mai provato a credere in cosa siamo e, poco importa cosa diffondono, non importa cosa conoscono e di quanto e di cosa preferiscono contare, ballare o apporre bërlocun.

Esprimersi ermeticamente è l’unico modo per difendere le cose buone, perché quando essi proveranno a capire si comprenderà chi sono i veri ricercatori e quanti vivono a modo inverso, per copiare ricerca altrui.

Tutte queste parole non si affermano per cercare croci di bosco, ma riferisco la fiducia che giunge ogni giorno con cose nuove grazie all’occhio della fronte, del cuore e della mente.

Quello che poi appare è un problema di chi ti deve accogliere e si vergogna, immaginando che due occhi sono meglio di tre.

La mente deve essere aperta per vede cose in Arbanon, non riservare altri fini è obbligo, non importa altro, non importa quello che dicono, non importano i giochi di storia, non importata quello che fanno, non è mai importato quello che sanno, perché la visione trittica non ha rivali e camminare con il vero e, sicuramente state sempre vicino al cuore, credendo per questo sempre in chi e cosa siamo e, non importa nient’altro.

Io sostengo la storia, quella vera, la stessa che ha un inizio, uno svolgimento e il continuo secondo la dinastia di oltre Adriatico ereditata; credo nel Castriota, nella Comneno, nel Baffi, nei Bugliari, nei Giura, nei Torelli, gli Scura e, non importa altro, tanto il resto è noia copiata o riportata per essere illuminati nel palco dei cantanti.

Per terminare si potrebbe ironizzare affermando che tutto quello che è stato fatto per la tutela è finito con il distruggere con largo anticipo, quando doveva essere tutelato e avere più vita e, a ben vedere osservando le ondate che arrivano ad est del fiume Adriatico da un poco di tempo a questa parte, per fini di tutela e cooperazione, peggiora ancor più le cose, cancellando quello che dovevamo difendere.

Restano solo le cose giuste degli ostinati buoni, armati dell’occhio della fronte, del cuore e della mente, i quali continuano a catalogare e scrivere, per lasciare almeno l’impronta di un essere umano, lungo quel solco tracciato il giorno prima del 17 gennaio del 1468 dal Castriota e i suoi fidi.

A queto punto torna in mente uno dei principi delle storiche massaie Arbëreshë, le quali durante la settimana per fare cose dal maiale dove valeva la regola che: nel dubbio mettete tutto nella madia: alla fine facciamo Nduja, tanto, uno disposto a cibarsi, lo troverete sempre da giugno a settembre, dopo il duro lavoro sotto al sole dei campi che hanno già dato.

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ERA IL 17 GENNAIO DEL 1977

ERA IL 17 GENNAIO DEL 1977

Posted on 21 giugno 2023 by admin

pifferaio

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Ero poco più che un bambino, non frequentava ancora l’asilo, quando nel giardino che circondava l’INA-Casa, giocavo gridando e immaginando epiche battaglie e T.C. Miracco che faceva da sostegno alla madre anziana e sofferente della vecchiaia, io chiamavo rispettivamente Nanë Carmè e Kumbaclè.

Questi, per non interrompere i miei rumorosi sogni cavallereschi, al quanto riecheggianti, mi invitavano a sedermi in mezzo a loro e ripetere le parole Arbëreshë che diffondevo in maniera a dir poco anomala.

Una volta seduto e fermo delle mie frenesie cavalleresche, mi dicevano: Shànà ripeti bene le parole, perché così come fai, se vai in piazza a giocare e ti sente parlare un viandante, ti mette nella sporta dell’asino e ti porta a San Demetrio perché loro parlano e fanno così, e poi diventerai Shimitrotë.

Per questo ogni volta che vedevo il figlio sostenere la madre per sedersi a conversare sedevo in mezzo a loro e chiedevo di essere interrogato sulla mia origine di parlatore sofiota senza ombre o dubbi.

Passarono circa due decenni da quelle ripetute verifiche e, decisi che l’università, avrei dovuto continuarla definitivamente a Napoli, era di pomeriggio quando mi accingevo a salutare parenti ed amici, perché il giorno seguente, 17 gennaio del 1997, sari partito.

Alle ore 15, 00 durante uno dei miei ripetuti andar vieni, da casa e piazza, incontrai il proff. E.A. Miracco, il nipote e figlio dei due storici verificatori, il quale mi faceva gli auguri per l’inizio della mia nuova carierà, aggiungendo che: finalmente uno studioso, data la mia volontà di essere architetto, avrebbe fornito alla storia del nostro paese, risposte valide di cosa rappresentassero palazzi, case orti e strade per noi Arbanon, e della stessa Trapesa dove ci fermammo a conversare.

Quelle parole oltre all’impegno assunto con mia Madre e mio Padre, sono diventati la meta o meglio la strada che non ho mai smesso di seguire, per migliorarmi.

Infatti dal giorno che giunsi a Napoli, l’Università gli Archivi, le Biblioteche e i luoghi di culto, tutti, sono stati i mira di studio e apprendimento per la mia formazione e di ricercatore e professionista.

Oggi posso affermare che il mio dovere di studente, tirocinante estremo, professionista e ricercatore è stato svolto con una tale dovizia di particolari, che per molti comuni viandanti è ritenuta, troppo elevata, anche se in cuor mio ritengo che tutto si può migliorare, avendo cuore e mente vicino alle cose che contano.

Stare vicino alla propria radice non sarà mai molto più lontano dal cuore, se crediamo sempre in quello che siamo nient’altro importa.

Non mi sono mai espresso in questo modo la vita è nostra, la viviamo a modo nostro, tutte le parole non si dicono, ho sempre cercato la fiducia e la trovo e nelle persone a me più care.

Ogni giorno è qualcosa di nuovo, basta avere la mente aperta per un modo diverso di vedere le cose, non importa altro.

Questi sono le diplomatiche che ho seguito per giungere alla definizione stoica culturale dell’edificato minoritario di radice Arbanon, avendo cura di appuntare fatti luoghi e avvenimenti con le vicende di tempo e di luogo dove e quando sono avvenute.

Non fanno parte della mia natura di studioso campanili, palchi o specchi di travaglio comune, gli stessi che piegano le cose della storia ridicolizzando sin anche prestigiosi gruppi musicali, presidenti e rappresentanti di varia levatura i quali, attratti a partecipare a luminarie inopportune, denotano la precaria qualità culturale minando irreparabilmente la forza politica, rivela dei comunemente manovrabili.

Il Genius Loci espresso nelle Kalive, Katoj, Palazzi, Rioni, Chiese, Toponomastica, Costume  e tutte le attività del trittico mediterraneo sono i componenti pazientemente studiati e assemblati per poter restituire o meglio fornire un percorso, una metrica unica e inattaccabile, la stessa che ha dato lezioni a uomini politico di levatura estrema, da poco scomparsi, in quanto le diplomatiche poste in essere, sono un macigno, per quanti da decenni, senza sapere di cosa parlano, espongono e valorizzano faccendieri economici o esponenti culturali, che definire copiatori è poco.

Esiste un luogo in Calabria citeriore, che grazie alla fortuna di essere allocato a favore di vento, rispetto a un antico presidio di cultura e, per questi i figli li nati e allevati hanno acquisito note senza stonature culturale, diversamente da chi è cresciuto a ridosso di mulino che a seconda del macinato cambiavano tono.

Oggi invece di far rivivere e creare presupposti sociali condivisi, si disegnano le cose del futuro, invece di ricordare il passato, in oltre si insegna come appellare gli animali della giungla o attrezzare veicoli comunicativi moderni aggiungendo una” J” una “ë” o chissà quale lettera alfabeta greca per sentirsi più elevati.

Due anni orsono, la previsione di Miracco poteva concretizzarsi, ma purtroppo la scelta di puntare nella fotocopia più assurda che la politica poteva esporre, si è preferito ballare tarantelle travestiti da sposo, sposa e prete non titolato, invece di ascoltare e rendere di eccellenza storia.

A tale misura urge predisporre attività di tutela più solidi e allestiti da gruppi disciplinari e non da singoli senza tirocinio, almeno ventennale; per quanto mi riguarda il consiglio/augurio del proff. E.A. Miracco, è stato portato a buon fine, adesso spetta ai preposti organizzare, scena e attori,” assecutando” i comuni parlatori nella Trapesa dopo quel 17 gennaio 1977.

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-IL CICLOPE ARBËR, SORIDE AL COSPETTO DEI SOLITI GIOCOLATORI SUI CAMPANILI -

-IL CICLOPE ARBËR, SORIDE AL COSPETTO DEI SOLITI GIOCOLATORI SUI CAMPANILI –

Posted on 28 maggio 2023 by admin

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NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Gli istituti e le istituzioni preposte alla salvaguardia della regione storica, notoriamente distratte verso la conoscenza delle cose indispensabili, relativamente al sancito di valorizzare e promuovere la storia di cose e uomini, in tutto, le eccellenze locali.

Le stesse “maliziosamente” taciute, per dare valore con men­daci ed ingrate osservazioni, proposte da alcuni stranieri che, non potendo fug­gire dalle nebbie, le miserie, e le turbolenze delle contrade di provenienza, non avendo altrove trovare agio, sanità e quiete, pro­pongono le nostre regole con maliziose cose, invece di  onorarci come fanno gli ospiti buoni quando sono accolti per fame.

E così facendo, compromettono lo stato dignitoso di ogni cosa, dell’equilibrio culturale dei distratti lettori, o di quanti li preposti a deliziarsi di sapere, che tutto potrà essere, men che storia di noi Arbër.

In teoria si crede vi siano sempre più opzioni per fare ricerca, ma nella realtà la soluzione è sempre una sola, nota anche come inconfutabile somma di eventi, l’unica capace di seguire la logica del     sole dal sorge del mattino, quando instancabilmente illuminare tutti i luoghi, disposti in ordinata attea.

Le attività di studio qui condotte, mirano a rendere nota una storia del mattino mediterraneo, colmo di auspici e meritevoli confronti di convivenza civile tra culture e religioni.

Contesti genuini, ancora oggi in svolgimento, i cui luoghi hanno come scena, le terre che si insinuano al centro del mediterraneo; l’Italia meridionale.

Un percorso contornato da valori e avvenimenti, che elevano territorio e le genti, secondo principi di convivenza tra popoli, tutti desiderose di conservare le cose della propria identità, specie se questa è l’identità più antica del vecchio continente.

È stato per questo indispensabile, rivestire ruoli specifici per la continuità culturale in movimento, seguendo le epoche che la volevano mutare e, per evitare questo, si è ritenuto far nascer un nuovo movimento letterario, linguistico, politico, religioso, in tutto un pensiero popolare tramandato in forma completa, priva di favoritismi e campanili di sorta, per questo solo chi è in grado di avvertire e comprendere il messaggio, ha diritto di apparire e diffondere, partecipandovi secondo l’antico patto tipico degli Arbër: “Besa”.

Questo teorema di nuovo pensiero, vale solo per la qualità delle cose tramandate all’interno di un circoscritto gruppo o di ambito parallelo ritrovato, innalzato da più discipline familiari, ovvero, principi di incultura colma di significati riassunti, nelle testimonianze in conformità della filiera generazionale saggia e non di falsi curriculi o curriculati.

Ciò significa che le realtà trasmesse sono verificate e controllate dalla saggezza degli adulti protagonisti, in definitiva il valore che resistite con forza nelle consuetudini, pur nel variare delle circostanze dei portatori acerbi o malsani.

Talvolta capita anche brandelli del protocollo vengano riferiti male, ma a questo punto interviene lo “studioso capace” ad intercettarli, al fine di ricucirli per lavarli e stenderli al sole, restituendo così la visione delle cose, in esempio di modestia, locale.

Lo studioso, a questo punto riveste il ruolo del sarto saggio che ricuce il lume e, risvegliare, dopo un sonno buio oltre misura, della grandiosa saggezza senza termine, la stessa che vaga nelle menti di quanti si ostinano a violentare le cose della nostra tradizione, leggendo e riferendo atti di una storia che nasce e termina nello spazio mentale di perverse figure, pronte ad allungare la coda nel mio archivio.

Ad oggi sono numerosi i facoltosi delle consuetudini locali o di area e, fa impressione l’equilibrio e la saggezza di questi scambiatori di olio usato e capelli tagliati, per sapone.

In tutto episodi utili al degrado sociale, realizzato con incoscienza da quanti, mirano a scambiare il costume e le coperte in ricami armonici antichi, con vestizioni volgari, oltremodo private dei minimali espedienti che dovrebbero generare famiglia.

Spesso si odono regole sui diritti religiosi e civili, su base di tradizioni, o documenti, gelosamente conservati nell’archivio o imprecisi anfratti, comunque realizzati da scriba d’occasione e nessuno sa ne leggere e ne applicare, banalissime sottrazioni matematiche, per capire che sono falsi, come se la consuetudine e l’idioma più antico del globo, possa essere depositato non si sa da chi e come nei fascicoli di uno scriba che non poteva esistere, perché mai nato.

Diffusamente si insiste nel ritenere che alcune Colonie siano di radice militare e presentano anche argomenti a sostegno tale stranissima e curiose tesi, come per essere accolti come ospiti a casa di altri è bene presentarsi brandendo armati.

Ma quello che si racconta di veramente anomala è la leggenda secondo cui ripetere ogni anno le stesse noiosissime manifestazioni, elevare ad eccellenze vili cultori, che di fronte alle proprie responsabilità, prendevano la via di casa e si nascondevano sotto il letto o salivano nella soffitta di casa, immaginando di fare battaglie con il fucile senza animo di coerenza umana di valori per i propri simili locali, ostruendo sin anche le feritoie di areazione dei sottotetti.

Basta con gli stessi noti, o locali di turno, è il tempo di parlare ed elevare le figure buone, perché sempre illuminate e, mi riferisco a quanti hanno primeggiati nel costruire ponti, dialogando e aiutano sin anche Giacomo Leopardi, a vivere qui a Napoli la sua stagione migliore.

Questi sono intellettuali di spessore Arbër, in campo della comunicazione e, del rilancio sociale, quelli veramente capaci di essere esempio di terminazione del seme dell’ignoranza in ogni dove, valorizzando con il loro ingegni l’intera Europa, per comunicare, produrre e affermare cose nuove.

Intanto il Ciclope resta sempre vigile pur se ancora deluso e stupito da quanti dicono di sapere e poi per dare misura della loro forza pubblica, leggono e rileggono i postulati di cui non hanno padronanza o misura.

No ha mai convinto e mai avuto gloria il teorema secondo cui solo chi si cimentava a compilare alfabetari e componimenti scritti in Arbër, era da ritenere eccellenza, mentre quanti avevano dato la vita, costruito ponti, compilato teoremi per l’istruzione di massa, fossero ritenuti senza gloria.

La storia moderna degli Arber va compilata con dovizia di particolari, senza mai dimenticare che se una lingua rimane il riferimento primo di una determinata popolazione, un motivo ci deve essere e certamente non va fissata nei campanili di conventi o nelle polveri delle macine dei mugnai, che senza dignità non distinguevano, crusca per i suini, con il cose per fare frese e pane buono; a Napoli è stata inventata la pizza, dopo secoli che gli Arbër si cibavano con “Bukvallje per misurare il forno prima e dopo fatto il pane”, nel mentre allestivano, cunei agrari, per cibare e rendere più lucide le menti comuni di tutto il regno.

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Z., TEBE E AGNOIA (Zëtònàtë)

Z., TEBE E AGNOIA (Zëtònàtë)

Posted on 20 maggio 2023 by admin

Laffresco-in-cui-è-rappresentato-il-mito-di-EdipoNAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – È facile immaginare una scena pittorica realizzata, tra due episodi emblematici della vita di “Terra”, secondo la volontà del tempo breve (dove raffigurare la nascita ad Est, e il Termine a Ovest); concretizzando così, il tutto, in tre momenti distinti: Z., la Ricerca dell’inesistente; Tebe, la città di Edipo ed Agnoia, la capacità di trascurare il sapere.

Zètema è per Socrate, Zëtònàtë per la R.s.d.A. sono la ricerca certa e rigorosa di ogni nozione, di ogni valore utile a delineare la storia vera e, noi potemmo aggiungere, privata di ogni sorta di gàllinarë.

Il tema che ogni proclama deve seguire non può esclusivamente mirare a diventare leggenda o filosofia di mito, ostinandosi a innalzare cose che non fanno altro che arricchire di contenuti i disastrosi percorsi dell’ignoranza.

Quando si affronta un tema per rilevare ed esporre i trascorsi della storia, non si tratta di illustrare o comporre la più suggestiva, conveniente o illusoria leggenda, oltremodo orfana dei minimali principi di confronto, altrimenti si termina con l’alimentare il braciere dell’ignoranza, col la polvere degli errori rubata per innalzare glorie occulte.

Non si opera producendo o disegnando tragedie inventate da altri paralleli o meridiani e, siccome sono del passato dovrebbero essere vere, una favola una leggenda rimane sempre tale, pur se è stata garantita da Z.

Per questo, ad oggi urge spiegare e raffigurare, avvenimenti, luoghi e stipule di archivio, in tutto, una tessitura attenta, confrontata con le cose esistenti, questo e solo questo è il modo per fermare il mitizzare o auto eleggere, sé stessi, per il riconoscimento, con variegati colori della palese non conoscenza.

Questi accenni di cromatica apparizione, della moderna storiografia, sono l’introduzione per risvegliare l’interesse verso, un’emergenza a dir poco epocale, alla quale, per certi versi, non hanno voluto rispondere eccellenze senza eguali, e chi legge e compone le cose della storia, si deve rendere conto che il momento che viviamo ha bisogno, di gruppi di lavoro in molteplici discipline e, non di semplici giullari di corte, sempre meno formati dei cortigiani e falsi regnanti.

Andare alla ricerca di Z. con le inquietudini di Edipo in compagnia di Agnoia, al giorno d’oggi e molto semplice, giacché non tutti studiano leggendo le cose del Baffi, con l’educazione profusa da Teresa Caldora, come ebbe fortuna di avere il figlio Miche.

Essere un esperto in diplomatiche non è certo mestiere che possono fare i comuni giullari/e, in altre parole, tutti quelli/e, allungano la coda in archivio e nel contempo allungare le orecchie, per capire lo strombazzare dei Doria con le navi per il macero.

Non sono più concepibili esposizioni a dir poco inesistenti di fatti uomini cose e luoghi privi di alcuna struttura di ricerca comparata, il cui fine termina sempre con lo svolgersi di fatti e cose banali, se non addirittura inesistenti o attribuite ad altri faccendieri dell’epoca.

Ripetere due giorni di letture e componimenti dell’ultima ora e, quindi senza radice, serve solo ad incantare i comuni viandanti; certamente, non quanti hanno nel cuore, nella mente la storia e, non abbisognano di leggere le cose, perché gli esperti leggono a casa per poi esporre in pubblica conferenza.

Oggi non servono gli scolaretti furbi, i quali non avendo studiato a casa, interrogati alla lavagna, lasciavano il libro aperto, al primo banco per truffare il professore.

Certamente sono bugiardi con se stessi e con il sistema sociale denominato sapere per questo ancora oggi per ricordarsi le menzogne devono scriverle, giacché, figure storiche di poca memoria.

I bugiardi nella storia si dice che siano tutti cresciuti nei pressi dei reflui che dal Trapeso, ai torrenti producevano maleodoranti vitamine per la mente e quanti li respiravano in adolescenza, non certo incameravano lucidi sostanze per la mente.

Solo quanti hanno avuto la fortuna di sviluppare il proprio acume, seguite da madri e nonne speciali, note come Basile Caruso, Guido e Miracco hanno ereditato i principi della decenza, garbo, solennità e del fuoco, perché la formazione della saggezza viene trasmessa con somma di completa grazia, solo da regine, del costume, del conversare, del fuoco e della casa.

Solo chi è stato allevato con questi protocolli, oggi prova dolore immenso nel vedere o sentire compromesso senza misura i quattro principi cardinali del nostro essere minoranza, ovvero, Idioma, Consuetudine, Canto, Costume e Religione.

Vedere spezzettate queste storiche radici, ritenendole al pari della “nduglja insaccata a gennaio “e, ricevere sin anche l’avvallo delle istituzioni di ogni ordine e grado, è il termine della disciplinare Zetema, dove ad essere protagonista di ogni cosa non è la storia.

Le competenze di ricerca non sono delle istituzioni che hanno solo il compito di formare, un po’ come facevano le quattro nonne; la mono disciplina, fa solo danno e se un dipartimento si illude perché ha avuto esperienze, in discipline specifiche mente e fa danno.

Vero è che riferire di storia, architettura, ambiente e ogni sorta disciplinare non presente nei risicati piani di studio perseguiti, senza riferimento a cose materiali ed immateriali di una ben definita macroarea, è solo auto eleggere i portatori di code e origliatomi delle navi al macero.

E terminato il tempo di appellare le cose o i gruppi di generi secondo termini di “IA” perché chi studia e conosce i processi sociali, sa bene che il temine non ha radice di nobili principi anzi è tutto il contrario di buone cose e nobili principi.

Ormai si va avanti con l’esempio di bambini e dei peggiori che vogliono dare lezioni si ambiente costumi e progetti pei i domani e nel contempo all’uomo accadono le cose più penose che l’uomo comune avrebbe ma immaginato accadessero.

Irriverenze di una tale leggerezza che un tempo si prospettavano per spaventare le nuove generazioni o spaventare le più adulte, oggi si organizzano con una tale incoscienza, che non ha precedenti, come rievocazioni delle peggiori giornate della nostra storia accompagnati da incoscienti suonatori; santi protettori presentati con effigi a dir poco blasfeme, imponendo alla mano benedetta, di dover apparire come quella dei mammasantissima o appiattire il confine tra cosa pubblica e credenza religiosa.

Non è concepibile che sia rimasta la natura l’unica capace di redimere e far riflettere gli omini del continuo poltrire, sicuri che poi gli astanti un giorno possano essere premiati.

Oggi si vorrebbe tutto elettrificato dalla luce del sole, e vagare con e pile cinesi, senza guardare che chi viaggia per cielo, ogni volo di passaggio, inquina più di mille auto che fanno traffico nelle nostre città.

Alle cose della natura che dovrebbero rendere migliore la vita degli uomini, mancano solo picconi, pale, carriole e zappe; ora mi chiedo, invece di fare e raccontare le inesattezze della storia che è cosa raffinata e complicata che altri compilano da decenni.

I tanti addetti, perché non tornano alle cose del passato e, senza migrare come fecero i genitori, i quali vergognosi di fare i contadini a casa propria lo andavano a fare nelle terre di confine.

Oggi nella nostra regione serve rendere l’agro migliore, sotto l’aspetto produttivo dei cunei agrari, senza bisogno di risalire al tempo del Monte del Grano, o magari fare solo attività utili dell’equilibrio idro geologico, senza appesantire cementificando anfratti, che ormai sono pronti per la tragedia.

I bambini devono andare a scuola e studiare, i genitori produrre e confrontarsi tra loro per valorizzare al meglio tutte le consuetudini in eredità in fraterna continuità con l’ambiente naturale buono; i preti benedire e infiorare le chiese, le mamme crescere ed educare i figli, almeno, presentarli con decenza di colori e significati beneauguranti per l’onore della casa, senza esporre i minori, per una irragionevole grazia, con l’incompreso collare di una scellerata attesa materna.

Gli istituti e le istituzioni preposte alla salvaguardia della regione storica, notoriamente, incantate e distratte verso la conoscenza, utile o meglio indispensabile, per la valorizzare e promuovere la storia le cose e gli uomini, in tutto, le eccellenze locali, “maliziosamente”, hanno taciuto o per così dire, con il braccino della mente molto corta o incolta, danno valore con men­daci ed ingrate osservazioni di alcuni stranieri che, non potendo fug­gire dalle nebbie, le miserie, e le turbolenze delle loro contrade, non hanno potuto altrove trovare agio, sanità e quiete, sotto  questo cielo Arbër, proposto con la pro­tezione delle nostre maliziose regole, nate per valorizzare le cose migliori che avrebbero dovuto onorarci con tutta l’umanità.

Purtroppo così non avviene, perché siccome i preposti, furono scelti tutti di piccola statura, una volta saliti in cattedra hanno scambiato il ruolo, immaginandolo campanile.

P.S. Figure testi e conclusioni non sono liberamente interpretabili o diffuse se non con il consenso di liberatoria dell’autore che ne detiene il significato e il valore culturale fruibile in sola lettura.

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ED ECCO APPARIRE ALL'ORIZZONTE DI APPRODO LA CAPITALE DEGLI ARBË PER QUANTI DILETTANO CRESCERE CODE IN ARCHIVIO (Duali edè Mesj i Katundëve Arbër)

ED ECCO APPARIRE ALL’ORIZZONTE DI APPRODO LA CAPITALE DEGLI ARBË PER QUANTI DILETTANO CRESCERE CODE IN ARCHIVIO (Duali edè Mesj i Katundëve Arbër)

Posted on 17 aprile 2023 by admin

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NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Le istituzioni, l’organizzazione e le curiose considerazioni sversate verso la Regione storica diffusa degli Arbër, ad oggi, perché poco conosciuta o per meglio dire maliziosamente velata, per meglio dare spazio e lustro a ignari osservatori stranieri, parlanti e non.

Questi che fug­gendo dalle miserie e le turbolenze delle loro contrade di provenienza, si sono illusi di trovare, altrove,  pace, sanità o quiete mentale; quella che sotto il nostro immenso tetto di accoglienza e rispetto per lo straniero, come disposto dalle consuetudini, le migliori che onorano l’umanità; per  ignari fosforescenti luminari, sono stati intesi come arretratezza culturale, traducendo le nostre fondamentali attività di rispetto dell’ospite vagante, in prostrazione, ignoranza o inadeguatezza di cogliere cose della storia che ci appartiene.

A ben vedere ciò che allo straniero, appena colto è sfuggito è il rispetto, o meglio, il decoro della, ingiustamente, malmenata patria, la quale, siccome storicamente non usa un libro di manuale ne usa stendere al sole pubblico le proprie intimità, o stato fisico delle cose, a quanti volessero deliziarsi di materiali curiosità, diventa impossibile per lo straniero errante trovare le notizie che rendono facile l’acquisto di tutte le comodità che fan la vita dilettevole solo a un Arbër.

Questo è lo scopo che si vuole con­seguire col il presente lavoro e, chi volesse apprendere deve leggere così può conoscere cosa è la nostra regione storica per capire anche cosa è una capitale, e diventare giudice esterno pubblico e imparziale.

Nel comune conversare, pubblicare e diffondere le cose che dicono siano parte essenziale delle regioni, di quella lingua di terra che si insinua, fiera nel mediterraneo centrale, manca sempre il concetto di guida capitale.

Si riferisce per non seguire la scia incompiuta delle terre che segnano i contorni della Regione storia diffusa degli Arbër, qui accade spesso che quanto si fa la conta, dei centri abitanti di questo insieme diffuso, questa varia e si modifica, seconda del bimbo in età scolare che conta, e secondo dell’impegno e la volontà che in genere hanno gli scolaretti, la conta varia da ventisette a cinquanta, senza mai comunque contemplare mai capitale, per cui dovrebbero essere solo paesi senza una regola.

O meglio se volessimo essere severi, come avrebbero dovuto fare molti, anzi, troppi maestri della età scolare vissuta, si sarebbe dovuto iniziare prima indicando una capitale e, poi la variopinta conta, di Casali, Borghi o fossati con ponti levatoi in difesa.

Questi generalmente un elenco di sostantivi di aggregati urbani, senza tempo epoca e senso, in tutto una regione culturale priva di contenuti identitari, palesando, che l’insieme culturale al centro mediterraneo è resta ignoto agli attori, o meglio a quanti fanno il mestiere di comparse culturali.

Mai nessuno ha saputo contare e spiegare perché la regione storica è composta da 109 agglomerati edilizi paralleli edificati dagli Arbanon, a cui sia stata mai aggiunta aggiunge la capitale che dal IV° secolo, prima di Cristo, senza soluzione di continuità, si esprime con la metrica dell’idioma Arbër.

Nessuno espone mai i motivi perché siano stati edificati o quale esigenza ha intercettato proprio quei luoghi e chi li ha circoscritti in ventuno macro aree.

Ad oggi non vi è alcuna consapevolezza del dato fondamentale che Napoli sia la capitale di questa regione storica, irremovibile, o dei morivi che la determinarono e fecero scaturire il protocollo di accoglienza e integrazione di un numero rilevante di minoritari, i quali con educazione dei fatti della storia non si sono mai sovrapposti o insediati in luoghi appartenenti o dove vissero altri popoli ancora presenti.

Chiese, conventi edificato civile, luoghi di confronto, percorsi articolati, farmacie private, vicoli articolati e supportici completano il senso della capitale dald0le per diritto l’inclusivo numero di 110.

Vero è che proprio in questo luogo antico si evidenziano per la prima volta le forme Alessandrine, importate dalle regioni del Nilo bizantino, menzionato, immaginato e, mai smesso di formarsi, parlando solo ed esclusivamente la lingua antica, avendo come riferimento le tipiche disposizioni urbanistiche e architettoniche, mai compromesse e ancora presenti nella capitale così come nei restanti 109 Katundë.

Napoli per questo è il luogo dove storicamente, tutte le eccellenze dei paesi Arbër si sono formate, riverberando poi il loro sapere senza eguali in tutto il globo, luogo illuminato e illuminante, che senza soluzione di continuità da oltre un millennio è ritenuto porto sicuro per la formazione degli Arbër, provenienti da ogni parte della regione storica.

Un luogo dove il tempo non consuma la consuetudine, l’idioma, il genio, la religione, i costumi, le buone intenzioni sociali degli uomini, perché qui tutto viene opportunamente tutelato per il futuro delle generazioni a venire.

È a Napoli che nasce la prima università che doveva tutelare l’idioma degli Arbër e non come avviene nell’enunciato della legge 482/99 dove si tutela la lingua moderna di quella terra abbandonata dalla metà dei residenti proprio per evitare le regole della su citata legge.

Oggi purtroppo e con rammarico duole affermarlo, con dati di certezza, l’essere forgiati a valorizzare gli ultimi, ovvero quelle figure, che hanno fatto danno in tutto l’ottocento, sino agli inizi del novecento, rimanendo perennemente scolaretti a cui venivano oltremodo corretti i compiti stilati in malo modo, perché capaci solo di accompagnare la mula che doveva far ruotare la macina ed essere inutili accompagnatori di quadrupedi da traino in luogo circoscritto.

Mentre ne contempo a Napoli educati e discreti esperti professori delle diplomatiche delinearono le linee guida della lingua degli Arbër, mai da nessuno comprese per essere arricchite, interpretate e divulgate, anzi utilizzati vilmente per attribuire colpe di una infamia senza precedenti.

La conferma che la metropoli partenopea sia Palepoli che Neapolis, non sia una cattedra a misura dei comunemente, lo racconta l’episodio qui citato per grandi linee, avvenuto poco tempo addietro, i cui protagonisti abituati a esporre argomenti e cose a platee di incultura o mediocre formazione, hanno dovuto correre ai ripari e cambiare titolo all’evento.

Questi mai approdati nella capitale nel trasferitisi, a presiedere un evento a dir poco inopportuno hanno dovuto piegare la loro debolezza culturale, “del discorso di tizio” poi rendendosi conto della presenza di una saggia platea, cambiare registro e seguire i consigli di chi sedeva nel fondo della sala, che con saggezza e garbo suggeriva di variare il tema e riferire “con il sottratto di tizio, a spese di sempronio” oltremodo quest’ultimo lasciato in pena ad essere ancora inforcato un’altra volta idealmente, perché di questo luogo resta a tutt’oggi resta figura illustre e complicata da comprendere per la mandria approdata nella capitale.

La figura rima della storia culturale degli Arbër, qui in questa nota su citata, oltretutto è la stessa che tracciò nel 1765 le prime trame dei sostantivi linguistici spiegati e grammaticalmente riportati, mai compresi capiti e saputi leggere da alcuna figura, o addetto preposto di questa storica e incompiuta grammaticale.

La stessa ripresa dal figlio di questi, con garbata educazione e fine riferimento, cercando di far emergere per essere diffuse, nel 1860, analizzando e diplomaticamente confrontando, documenti e attività, che doveva avere come risultato, quanto non era stato mai prestito, ma vere e proprie rapine di documenti, ricambiati con pene di studio, le stesse che restano, ancora accatastati, in chissà quale scaffale privato, preferiti lasciarli marcire, in quanto conferma scritta.

La capitale degli Arbër è il luogo ideale dove apprendere come vivere e apprendere atteggiamenti e principi, per dare solida continuità alla patto che gi Arbër hanno fatto con la terra di origine; la capitale è il luogo dove per fare abiti femminili di rappresentanza e da sposa, si tessevano, seta e cotone in egual misura; la prima per dare lucentezza e la seconda per imprimere memoria di piega; la capitale è il luogo dove la mente degli uomini produce cose buone e le strade portano il nome delle più antiche attività; la capitale ha le chiese orientate per rispettare la maggiore che indica l’origine di provenienza e di credenza degli storici abitanti.

La capitale è un luogo da vivere e non per appuntare gli episodi e le persone care del passato solcandone o sminuendone la memoria con fatica e pene fuori misura; la capitale non si disegna sui muri degli elevati della memoria, perché le cose vanno vissute e dare continuità agli uomini migliori che hanno saputo distinguersi.

La capitale non è uno sversatoio pubblico dove fare cumuli per galli che segnano il tempo, abbagliati dal sole; la capitale non è neanche un lavinaio dove indossare la parte meno nobile del vestito da donna e andare china e schiena agli ospiti, esaltandosi a ballare con la zòghà sollevata e senza vergogna dare il fiore quando si parte.

La capitale è il luogo dove se saggi con misura, avrai sempre un palco da dove esporre cose in apparenza contorte, perché chi ti è amico fraterno. Pronto ad aiutarti a estrapolare il meglio di luogo e cose.

La capitale ti accoglie anche al tempo della guerra, ti fa studiare per migliorarti e salvare gli altri, senza preferenze di genere o di ricchezza.

Va a questo punto sottolineato con forza, il dato secondo cui, è questa città ad aver dato i natali culturali alle figure più emblematiche della storia espressa in forma di puro genio, sono proprio questi ad aver seminato una realtà culturale che tutt’Europa dal XVII secolo al IXX secoli ci ha invidiato e corsi nella capitale a copiare o prendere appunti dai testi,

Cosi come hanno fatto i mediocri o meglio, gli eterni secondo, che per viltà correvano nei paesi di famiglia, a rifugiarsi per non assumersi tutolo di responsabilità o pene di carcere.

Napoli è la capitale poco dopo l’insediamento del Re Carlo III, dopo la compilazione della sua guardia privata, denominata Real Macedone, viene preferito un prete Arbër, per la guida spirituale dei suoi fidi militari, una scelta non casuale, infatti il prete venne chiamato dal piccolo Katundë di Calabria Citeriore nelle colline della Sila greca.

Nella Capitale partenopea e in particolare nel fianco ad ovest della “Cala di Chino” aveva luogo il presidio storico culturale Europeo, dove furono preparate le strategie portarono il collegio di San Benedetto Ullano a Sant’Adriano.

L’opera irripetibile, o meglio scissa oltre un secolo dopo, venne sostenuta e proposta caparbiamente ad opera del Baffi, i Bugliari e del Bellusci, con il vile a remare contro e pensare terminazioni dei liberi pensatoi, gli stessi che con la loro opera consentirono a Garibaldi il passaggio senza confronto, nelle terre in Calabria citeriore e non solo.

E sempre nella capitale che venne pensato, progettato e poi realizzato il primo ponte al mondo, su catenarie e pilastri singoli, che lasciò senza respiro la migliore ingegneria europea dell’epoca, che sperava di vedere il re cadere nel fiume e bagnarsi le vesti dal pubblico corso solo per questo risultato, che come ben sanno gli autori, l’opera ancora oggi resite alle innumerevoli battaglie degli uomini e del tempo.

Sempre nella capitale della Regione storica diffusa degli Arbër nacquero i primi giornali e settimanali con gli inserti di cultura, avvenimenti e costume, al fine di rendere merito alla cultura diffusa iniziando dal basso, o porre le basi canore delle manifestazioni oggi ritenute a torto memorie di battaglie e guerre cruenti.

Le vicende che confermano che la capitale degli Arbër, che tutelano il nostro patrimonio identitario in esilio perenne è “NAPOLI”.

Se alcuno, avesse dubbio o ripensamento, è solo da considerare al pari di quelle figure estranee segnalate in premessa, se poi la loro caparbietà vuole ragione, venite a Napoli: ma questa volta non come ospiti, ma allievi con il ricamo a contorno del collo, come quello appeso al muro, mi raccomando non dimenticate di apporvi il fiocchetto blu sopra il grembiulino.

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VALIJE” ABRACCI DI UNA INTEGRAZUINE A BUON FINE O FESTA DI SANGUINARIA BATTAGLIA VINTA? (Mëma thòi ezënj Vale Vale)

VALIJE” ABRACCI DI UNA INTEGRAZUINE A BUON FINE O FESTA DI SANGUINARIA BATTAGLIA VINTA? (Mëma thòi ezënj Vale Vale)

Posted on 13 aprile 2023 by admin

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NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Nelle trattazioni pubblicate e oralmente diffuse, relative all’argomento Valije, non si producono altro che strappi lungo il Lavinaio e, quando trascinati dalla corrente assieme ei tronchi infruttuosi, degenera ogni cosa in banalità senza futuro, come non faceva la consuetudine tramandata per valori indelebili Arbër.

L’argomento, ormai ha superato tutti i limiti della decenza, dirsi voglia, spaziando oltremodo dal ballo, a battaglie e ogni sorta di attività, che vorrebbe la storia colma esclusivamente di attività negative, dimenticando oltre modo i tempi che furono Kalabanon, Arbanon, Arbër, questi ultimi in particolar modo, inclini a dare sé stessi per le giuste cause di amore e fratellanza.

Qui non si tratta di Pasqua, Pasquetta o giorni non comandati, non si tratta del calendario Bizantino, Giuliano, Gregoriano, Romano, del Popolo Napoletano Marmoreo o di qualsiasi odine cavalleresco in voga o alla moda del momento passato, ma a ben vedere si confondono, Cruente battaglie di sangue, con una festa, un momento di giubilare incontro, tra esuli Arbër e indigeni delle colline del mediterraneo peninsulare, per confermare lo storico patto di integrazione tra popoli con diversi e distinti attività di credenza, mai più avvenuto e concordato nelle colline o di un qualsiasi anfratto del mediterraneo.

Tuttavia a ben vedere e dare senso forte e completo a questa manifestazione è opportuno riportare quanto scriveva Pasquale Baffi nel 1775, pubblicato dall’editore anonimo nel 1835 in terza edizione, del discorso sugli albanesi, senza citare la fonte illustre che forniva quelle antichissime nozioni tradotte dal geco antico e trovate, non nella casa di Salita Sansebastiano 16, ma nello “studio al 61” della medesima cala”.

Testualmente qui riportato: “primo pensiero de’ bugliaart d’Albania che sul cadere del secolo XV esularono in Italia, quello di fondare una patria che salvasse contra al tempo, ei figli, e la propria memoria che lasciavano a loro. Non che ponessero in libri alcuna legge, ma ad imitazione di Licurgo piantavano gli statuti ne’costumi e nella disciplina per l’eternità. Essi nelle chiese su’ cui altari i più distinti impressero i loro stemmi, separarono per ogni famiglia i luoghi, e i sepolcri; e come nella patria antica, qui ancora si reputò degradato chi avesse contratte nozze co ‘ forestieri. Essi anche designarono un mese a primavera durante il quale i villaggi degli Esuli ereditari fossero aperti ad ospitare le mutue rusalles, quei grandi cori mascherati che celebravano l’antico paese e gli alti fatti che vi si erano compiuti. “

Se a queste aggiungiamo le note delle eccellenze del XIX secolo, dell’Arbër, critico musicale, Vincenzo Torelli di Maschito, del Magistrato scura Vaccarizzo e del Civitese Serafino Basta.

Questi sono alcune citazioni che chiudono solidamente l’interpretazione della Valije e, non consente in alcun modo a gratuite interpretazioni, senza fondamento storico e consuetudinario, di fare parte, con forme a dir poco inopportune del motivo di questo appuntamento, sigillo di un’integrazione solidamente portata a buon fine.

Torelli/Scura:” Nei Villaggi vivono dei ricordi delle cose gloriose della patria cantano le gesta di Miloscino, Costantino e del Castriota, cantano melodie mai accompagnate da strumenti musicali e le loro giaculatorie sono insieme di tonalità, femminili e maschili adeguatamente e ritmicamente eseguite a voce o gruppi di voci, queste attività prevalentemente erano svolte in maniera maniacale ogni giorno nel andare a svolgere le attività agro, silvicole e pastorali, durante l’esecuzione e al ritorno a sera sviliti dal lavoro.

Se a queste brevi note rilevate dal critico musicale e poi pubblicate dal noto Vaccarizioto, aggiungiamo le note storiche del “Basta”; il quadro di cosa siano e cosa sono alcune Valije e completo; vero è che non lasciando vie di interpretazione inopportune o addirittura gratuite.

Nel Volume XI Calabria Citeriore Fase I; dal titolo” Il Regno delle due Sicilie Descritto e illustrato – opera dedicata alla Maestà di FERDINANDO II: Seconda Edizione, Alla fine della Pagina 84 e l’inizio della successiva nel paragrafo: Etimologia è trascritto quanto segue: “E’ tradizione tra noi, che i nostri padri avessero edificato i primi abituri in due punti diversi, e la vetustà delle case esistenti nel Piano di Magazzino, e nell’estremità superiore del paese ci persuadono a favore. Esistevano in questi due piccoli villaggi due diverse famiglie condizionate entrambe di cognome [……….]; dominate dallo spirito di ostilità, l’influenza che esse estendevano sui loro coabitanti manteneva una viva dissensione, e coglievano l’occasione nei tre giorni di Pasqua, quando solennizzavano i Piekisit (Vecchi), per venire a fatti d’arme, e sfogare i loro rancori. Le cause produttrici dei loro rancori dell’odio dei [……….], che indusse la colonia a scindersi in due partiti, hanno dovuto essere valevoli anche a dare una diversa denominazione ai rioni che abitavano. Nella platea della Curia Arcivescovile con Porcile nel 1469 e San Basile nel 1510 Vien ricordato il nostro paese col nome di Castrum Sancti Salvatoris, la denominazione che apparteneva a piano di Magazzino”

A questo punto è doveroso trare conclusioni e delineare una nuova è più appropriata strategia di studio interpretativo, dell’evento Vallija, le stesse divulgate senza ragione di essere storia o atti reali che appartengono a tutta la Regione storica, la stessa che così facendo, nel breve tempo non avrà più ragione di essere annoverato e riproposto con queste inadatte divulgazioni orali.

Notoriamente il sostantivo Vale, sta ad indicare il conviviale accompagnarsi e non essere mai soli, ezënj valè-valè, raccomandavano che le nostre madri dicevano al fratello che accompagnava la sorella adulta, o un fratello più piccolo, nell’andare da un posto ad un altro, in onore e sicurezza.

Ma era anche il recarsi ogni giorno nei campi a lavorare, che era semplice da attuare soli o senza un momento canoro conviviale, ironica e stimolante canzone, di genere, specie se diretta alla propria amata o amato.

Erano proprio questo modo di procedere a rendere piacevole il duro lavoro agreste; con canti di genere come annotava Scura su indicazione dei principi del canto di Torelli, in genere ad iniziare, erano le donne a cui rispondevano gli uomini, aprendo un suggestivo e stimolante susseguirsi di ironiche e sotto intese affermazioni.

Tutto avveniva con suggestivi e cavallereschi atteggiamenti, in forma malinconica alcune volte, ma sostanzialmente ironia di genere, dove ad essere poste in evidenza, erano le gesta di uomini o donne per la particolare attitudine, non solo fisica, ma questa, pur se piacevole sempre presentata e coperta da solide velature o similitudini ambientali.

Malinconiche sì, ma la maggior parte delle volte erano abbracci ideali o dichiarazioni d’amore, nei confronti del genere amato o ambito ad essere corrisposto.

Oggi tutto è tradotto e confuso in atti di guerra gli abbracci ideali in forma di ballo sono scambiati in atti di accerchiamento e pene di o ricatti da infliggere, ma non è cosi, infatti i conduttori generalmente due maschi per lato del semicerchio, rappresentano l’uomo, ovvero l’operosità o la forza, di contro  le ragazze o donne che lo completano, rappresentano la parte gentile, ovvero il corpo che genera, da difendere equando ti avvolge tutto diventa magia e genera specie, identità: la vita di quel popolo.

Le Valie non sono una festa di un popolo bellicoso, violento e bellicoso, pronto a presidiati e ricattarti, in quanto esse rappresentano la lucentezza e contengono tutte le cose migliori di ogni Arbër, in forma di generi, costui, credenza; i colori migliori che il genio degli Arbër ha saputo selezionare per riverberare a conferma dell’integrazione e il buon fine a cui si è addivenuti per la conservazione della identità del popolo più longevo del bacino mediterraneo.

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LA KEY OF TODAY - DI ALFRED MIRASHI MILOT - A NAPOLI (Gnë kjcë i shëtrumbùerë ndhë mesë thë sghjeroj Napulë)

LA KEY OF TODAY – DI ALFRED MIRASHI MILOT – A NAPOLI (Gnë kjcë i shëtrumbùerë ndhë mesë thë sghjeroj Napulë)

Posted on 30 marzo 2023 by admin

photo_2023-03-30_13-51-37 (5)NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Sono stato in piazza Mercato, ad assistere all’assemblaggio dell’opera di Milot che apparirà, nel corso di quest’anno, in numerose città, le cui trame edilizie del passato, avranno modo di attivarsi come cunei culturali, in memoria di futuri multietnici in dialogo a venire.

Per giungervi come atto beneaugurante ho percorso la via del Lavinaio proveniente da Castel Capuano, senza passare, dove era il Castello del Carmine e, giunto sulla piazza ho salutato fraternamente l’artista e le autorità convenute, per l’inaugurazione ufficiale del manufatto arrivato dall’Albania.

L’opera, realizzata in acciaio corten, ha dimensioni ragguardevoli e per questo, non passerà inosservato, segnando grazie alle sue dimensioni, il valore indelebile di fratellanza e apertura di dialogo tra popoli.

Nel caso di Napoli, proprio quella Piazza per la sua storia, in forma di primati irripetibili di operosità, pur se mescolati con episodi, o meglio, solchi della memoria di tutti i suoi abitanti, restava in attesa di vedersi sollevati i veli, che impedivano, la tanto desiderata ripresa di attività e dialoghi, interrotti da tempo; mire e politiche senza dialogo comune del passato.

Quindi “Grande Merito” e onore sul campo ad Alfred Mirashi, detto “Milot”, per essersi incamminato in questa avventura, lui, proveniente dal centro di quella terra da noi Arbër ritenuta madre, è approdato esponendo questa sua opera, frutto dalla radice dell’educazione della sua famiglia natia; materna in arte sartoriale; e paterna in attività di pigmenti; aprendo così il percorso di dialogo smarrito tra Napoli e Albania.

Milot, approda non in un posto qualsiasi nella vasta area Metropolitana di Napoli, ma sceglie il centro antico, concentrandosi proprio in Pizza Mercato, lo stesso luogo dove un dialogo di “libero pensiero”, fu interrotto il pomeriggio alle ore 18, dell’undici di Novembre del 1799, iniziato secoli prima con l’eroe nazionale Giorgio Castriota, in quello stesso largo una mattina di primavera del 1464.

Oggi 30 marzo 2023, alle ore dieci, l’artista del “Nuovo libero pensiero”, apre alle nuove generazioni una via possibile, proveniente proprio dalla stessa regione Albanese.

La forma della chiave, rende merito alle attività di dialogo antico tra Napoli e Albania, un tempo due regni, storicamente uniti da patti di sostentamento dei familiari reali e del popolo in sofferenza perché migrante.

Un messaggio antico, prima con gli Angioini e poi con gli Aragonesi, dove gli attori protagonista di prima linea, sono l’eroe albanese con altri principi, tutti al seguire del re di Napoli in trionfo, dopo l’epica battaglia di Terrastrutta, nei pressi di Greci, il 18 agosto 1461.

La collocazione della chiave di Milot in piazza del Mercato a Napoli, apre un dialogo nuovo tra Albania e gli Arber, questi ultimi ancora numerosi, vivono e tutelano radici antiche, in forma di consuetudini e attività in oltre cento paesi dell’antico Regno di Napoli, oggi identificati come; “Regione storica diffusa degli Arbër”.

La chiave è il primo passo riconosciuto dalle autorità politiche culturali e della credenza, del Genius loci Albanofono, oggi come quello di ieri, lo stesso abitualmente posto in secondo piano a favore di altre forme, ormai vetuste e non più in grado di esprimere la forza di un componimento come quello realizzato da Milot.

Finalmente un evento nuovo, proveniente dall’Albania, qui nella antica capitale del regno, finalmente arrivano segnali nuovi, che non sono di mero vanto culturale, ma attività che superano i confini terreni e si riverberano come la luce del sole su tutto la terra.

Finalmente non solo lingua, ma arte storia fatta di cose materiali e immateriali come è la chiave torta o gli ambiti del costruito di Napoli tra spiaggi e pianoro della città greco romana, architettura e urbanistica Bizantina, la stessa che era realizzata in Albania e in ogni altro luogo dove si voleva tutelare e far germogliare le Cose dell’antica Albania.

Anche Milot ha seguito la strada che va dall’Albania a Brera per diventare figura di eccellenza; anche lui compone cose non parlanti ma silenziosi significati di fratellanza, senza prevaricazioni, il suo è acciaio forgiato con lo stesso entusiasmo dei battiti della macchina da cucire della madre, suoni mai dimenticati, per questo sono componimenti colmi di materni sentimenti, messaggi di matrimonio tra le genti del mondo.

Il suo è un traguardo che le istituzioni tutte dovrebbero tenere ben appuntato in agenda per le cose culturali del futuro, in senso di Genio.

Vero è che la chiave di questo artista, ha fatto più strada e trascinato tanto del mondo Arbanon e non solo, più di ogni altro evento senza arte, questa è la prova evidente che gli ambiti con protagonisti gli Albanofoni, non sono un mero esperimento in idioma o comunemente definita lingua altra.

Arbër e Albanesi devono essere grati a questo grande artista del centro della madre patria, per il forte riscontro mediatico raggiunto e da domani in poi avranno gli Albanofoni tutti, più luce nel mondo; lui non ha scritto libri, non ha composto alfabetari, ma come Luigi Giura, da Maschito, ha trafilato acciaio per costruire ponti di dialogo.

Ho salutato l’artista a manifestazione terminata, non prima di un fraterno dialogo, con tutte le autorità intervenute Partenopee e Albanesi in quanto rappresentante Arbër.

Un abbraccio terminato con una stretta di mano posata per tre volte a battere sul cuore mio e di Milot, un rituale mirato a sottolineare un patto di fraterna amicizia, che non smetterà mai di rigenerarsi nelle terre della regione storica diffusa degli Arbër, fatta di arte architettura e genio innovativo nato dell’Albania di ieri e in quella di oggi, per domani migliori.

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CALABRIA SPIAGGE E STORIE DI BRACCIA STESE VERSO IL CIELO A FAVELLAR IN LINGUA IGNOTA (i vetëmj nënghe ka shiok sàthe kukiaretë)

CALABRIA SPIAGGE E STORIE DI BRACCIA STESE VERSO IL CIELO A FAVELLAR IN LINGUA IGNOTA (i vetëmj nënghe ka shiok sàthe kukiaretë)

Posted on 28 febbraio 2023 by admin

braccia stese al cielo 2NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Dal 1469 sino al 1502 le spiagge più estreme del meridione “abbracciarono” un numero molto elevato o meglio imprecisato, di profughi provenienti dai governariati, disposti a nord e a sud, della via Egnazia da Durazzo verso l’est; questi, cercavano tutti, di sfuggire per non essere piegati dalle credenze mussulmane, che chiedevano anche pedaggio.

Di essi non si contano le volte che posero in essere i protocolli di partenza in pena, ma si narra solo di approdi che vide numerosi, donne, bambini e uomini, e genitori, mal vestiti o con poco nulla in dosso, favellavano una lingua ignota, colma di dolore, lacrime e braccia stese verso il cielo per cercar calore.

A quei tempi le cronache annotarono solo questi elementi e null’altro, nessune rilevò, se li vi fossero barche o resti, nessuno annotò quanti corsero ad aiutarli e neanche per quanto tempo furono lasciati in balia delle onde di quell’epoca, o quanti non trovarono mai ristoro al sole, non asciugandosi mai.

Da quel tempo remoto gli uomini hanno cambiato molto o quasi tutto nel modo di fare per vivere secondo procedure sociali in linea con le cose evolute prodotte e messe in campo, ma quelle spiagge continuano ad essere a tutt’oggi, il teatro delle identiche cose, senza che nulla venga rinnovato in meglio, prima e dopo essere sbarcati o li nei pressi delle spiagge trattenuti per sempre in mare.

Il mare che segna per sempre una delle minoranze più numerose del meridione, è ancora distante da quello che si vorrebbe buono per quanti  vanno per trovare fratellanza, ma, non finisce qui, in quanto la china per l’integrazione, successiva,  non è poi così semplice come immaginato dai provetti naviganti, in quanto, si potrebbe definire, per essere buoni, diversamente articolata.

Come avveniva un tempo dove si affidavano prima vecchi casali abbandonati e colmi di pene da coprire, grotte da scavare, terre da bonificare, gabelle da corrispondere, nonostante si ritenevano definirli, sporchi, colmi di malattie, assassini senza scrupolo e ladri attentatori sin anche delle offerte di Francesco di Paola.

La loro presenza ha avuto sempre poco valore, permanendo labile per i primi cinque decenni, giacché, il loro operare su un determinato territorio non vedeva riconosciuto alcun diritto, per la discendenza che a morte avvenuta del capo famiglia responsabile, costringeva gli altri a emigrare per terra.

Nonostante le grotte fossero  trasformate in abituri aditivi, le terre piantumate e produttive; la diffidenza verso le genti un tempo della via Egnazia, restavano identiche, anzi, con lo scorrere del tempo, diventare addirittura discarica sociale a cui imputare ogni genere di colpa, al punto tale da imporre, agli scampati del “mare nostrum”, il non cavalcare asini o cavalli, durante il giorno, per rallentare eventuali fughe di malaffare, come se compire l’atto di riposare dopo la giornata di lavoro, fosse una conferma di un mal tolto.

Se a questo associamo l’imposizione che nel corso della notte, prima dell’imbrunire e dopo l’alba, di restare agli arresti domiciliari, nelle proprie case, esclusi i “Prati di pascolo”, pena l’amputazione di un arto per ogni evasione compiuta, la fiducia rivolata a questi migranti non deve essere molto cambiato nel corso degli ultimi cinque secoli, dalle istituzioni tutte.

Ma gli imperturbabili e onesti uomini della Egnazia, per ovviare al non poter cavalcare asini o cavalli inventarsi “il Basto” , essa infatti non era una sella, ma presentato in primo impiego come oggetto da carico o da trasporto da soma.

O come gli fu imposto dal 1563 di costruire recinti di mura, entro cui vivere i domiciliari, dal tempo del tramonto a quello del sorgere del sole, altrimenti finire di essere senza arto per ogni trasgressione di un ipotetico reato.

Poi venne il  termine dell’accanimento degli uomini, iniziando cos’ le attività della natura, con terremoti carestie e ogni sorta di avversità in malattie, ciò nonostante la tempra di queste famiglie senza tempo, ha saputo adeguarsi e con caparbietà sollevare mura di solidità per l’esistenza, difendendosi e iniziare a trovare conforto dal 1734 con le nuove regole sociali ispaniche di re Carlo III.

Nonostante tutte le cose della politica e della cultura fornirono figure di rilievo per la valorizzazione culturale di queste terre di approdo, le questioni economiche e produttive non persero il senso di calpestare, quanti rimanevano legati alle terre per la sostenibilità economica e produttiva.

Tuttavia, nonostante regole e le esigue possibilità di affermarsi va diffondendosi un dato e rimangono inconfutabili che le generazioni dei migranti approdati nelle spiagge, con storia di braccia stese verso il cielo a favellar in lingua ignota, è un dono naturale riservato solo a quanti vi nacquero e non a quanti cercano di inventarsi.

Per non riferire le pene inflitte nel corso del terremoto del 1783, quando numerosi furono scacciati di casa per terre migliori dicendo loro gli esperti ” li è meno pericoloso” teoremi ancora in voga sin anche nel 2009.

Anche quando le istituzioni dell’epoca cercarono di agevolare i più poveri, la misura di ciò viene riportato testualmente dalla regola venerabile del Monte del Grano del 1796 che lascia oltremodo basiti e senza parole, delineando la misura di un calvario interminabile.

Il grano dato in prestito per la semina, va utilizzato esclusivamente nel bacino di prestito e qualora i contadini, nonostante gli interessi di restituzione, fossero diventati ricchi, per questo autonomi e non più interessati al prestito, le rendite di questi, sarebbero rimaste a disposizione del monte o di enti successori, che ne avrebbero disposto in piena autonomia.

Come si può ben vedere la discriminazione ti persegue dovunque, e non ti abbandona mai, anche quando ti allontani fuori dai bacini germani, depositando fiducia negli altri  per promuovere germogli del tuo essere caparbio Arbër che vive libero da stereotipi il 2023.

Purtroppo ancora non è noto l’enunciato della moltiplicazione o non somma degli assoluti, anche dei trascorsi Arbër, in controtendenza del principio che due o più bicchieri di acqua a settantacinque gradi, riversati in un contenitore unico, sommano la quantità del liquido, diversamente dalla temperatura, che non varia.

Quando si discute delle cose materiali, immateriali in storiografia di temi assoluti, come, Lingua, Consuetudini, Metrica del Canto e Religione, non si produce nessuna sommatoria per un risultato numerico perché essi sono assoluti solitari non di somma, perché i numeri di simile calura o mira formativa non si sommano.

L’esempio dei bicchieri di acqua a settanta cinque gradi, rende chiaro lo stato delle cose, in vicende relative all’indagine per definire glie ambiti identitari della Regione Storica diffusa degli Arbër.

Per questo, ostinarsi dopo sei secoli, nel riferire cose e fatti di simile calura, non aumenta lo stato di benessere della culla di crescita, scambiati per catini in misura termica; allora prima di un’altra volta, sappiate che pur se nota come città del sole, le cose copiate restano assolute e non cambiano il senso  dei “discorsi copiati” che non saranno mai somma di calore, perché valore assoluto ben noto.

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UN PELLEGRINO DEVOTO SEGUE LA VIA DEL SANTUARIO ANCHE SE VA IN CATTEDRALE

UN PELLEGRINO DEVOTO SEGUE LA VIA DEL SANTUARIO ANCHE SE VA IN CATTEDRALE

Posted on 24 febbraio 2023 by admin

527-765x1024NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile- Storico) – In Terra di Sofia, ormai non si è più in grado di distinguere, a iniziare dalla fine del secolo appena trascorso, la storia vera dalle favole inventate; prova lo sono i pomeriggi di calura estiva, quando imprudentemente si elevano “Termini” d’inopportuna memoria.

Nient’altro che rovesci degli storici sacrifici di sangue, che segnano indelebilmente il corso del lavinaio del nobile casato ormai sotterrato completamente, oggi diventato l’ameno del cruento Giuda.

Questo accade, quando si affidano agli asini, i compiti in casa per organizzare parate e si imitano le impronte del cavallo del re, disponendo sin anche la fida gendarmeria, che suona inni di nobili propositi, invece di fare il mestiere primo; ovvero, imprigionare Scriba, Asini e Falsi Re, pronti a ricevere applauso dagli astanti ignari.

Purtroppo questo è il tempo che scorre quando non si possiede la volontà di perseguire la meta del santuario, ma, in continua mutazione si preferiscono Diavoli, bardati a Mezza Festa, senza alcuna consapevolezza delle urla che quel luogo diffonde, perché  un “Dante”, lì in Terra di Sofia, è nato cresciuto e seminato germogli di sapere nobile.

Questa metafora vuole evidenziare la mancanza di un mulino, in grado di macinare e separare finemente, la farina dalla crusca, quest’ultima, la sfoglia che avrebbe dovuto difendere la locale cultura.

Tuttavia, quello che più duole, è il ripetersi con volontà perversa, delle cose più infamanti dopo due secoli dallo essersi svolte e penosamente avvenute; prima a “Giugno” in forma di tradimento, poi ad “Agosto”, con vestizioni di tradimento, concludendo alla vigilia di novembre con la pena di condanna a morte.

Non è comprensibile, come tanta perversione passi in quel “ Lavinaio”, al cospetto della Madre venuta da Costantinopoli e come se non bastasse, germoglia e fiorisce incultura, vilmente copiata e sottratta al genio locale.

Per le genti che vivono a impronta di Costantinopoli e Alessandria, il “Lavinaio”, avrebbe dovuto scorrere secondo i dettami dell’inverno e dell’estate, con protagonisti il giorno, la notte, il sole, il vento e le forme naturali irrigue, le stesse che in comune accordo, rendono merito al progredire della vita degli uomini.

Tuttavia da oltre otto stagioni, questa ritmica, ha terminato lo svolgersi in linea con la natura, in quanto vede il terzo genere, ovvero quello irrispettoso del ruolo di nascita, preferendo fare la sposa di notte che non può aver marito.

Lo stato delle cose è divenuto così inopportuno, avvilente, demenziale e deleterio, al punto da piegare le nuove generazioni, queste ultime, ancora acerbe, vivono senza cognizione alcuna, di fatti e cose del passato, non solo dal punto di vista immateriale o puramente conoscitivo, ma addirittura svengono privati della direttrice di approdo; infatti l’ipogeo, per ben due volte, nel tempo di poco men di un secolo è violentato, piantumando e sradicando ulivi nei campi, dove quanti passato a miglior vita, e quindi  inermi finiscono per essere addirittura frullati per impasto di cemento.

La Terra di Sofia fa parte di una delle arche delineate a Capua da Scanderbeg nel1464, quella che nel corso della storia ha preso l’impegno con saggia devozione, secondo le disposizioni dell’Ordine del Drago, la stessa che nel XVIII secolo preferì Carlo III per guidare spiritualmente la sua personale armata.

Questo luogo dopo qualche anno ebbe modo di dare i natali a una schiera di luminari, cui purtroppo, fece parte anche chi è considerato il giuda storico di questi esuli: il modello di accoglienza e integrazione mediterranea ancora vitale, grazie a pochi.

Ad oggi purtroppo chi studia la storia di questo luogo, pericolosamente invertita in favore della sacra famiglia perversa, impegnata non a privilegiare tempo, luogo e genio, ma tenere ben distante o fuori i circuiti della cultura che conta, adoperandosi a far diventare questa nobile disciplina un tema di commercio di insaccati privi delle essenze dell’orto botanico di Sofia.

Quando tutto questo abbia avuto inizio, per i comunemente non tema di rilievo, ma per dare ragione a  fatti e cose, si può sicuramente affermare che tutto ebbe inizio il pomeriggio dell’undici Novembre del 1799 quando il carro scortato dai Bianchi da Carcere di Castel Capuano, prese la via del Lavinaio e recarsi in Piazza Mercato, il circo di quel tempo, che per finta inforcare male poi, sgozzava come capretti i giovani e liberi pensatori.

Chissà come si si sentita sola Teresa, nel fare quel percorso al fianco del suo amato Pasquale, che andava incontro alla morte, in altre parole un funerale in solitudine con il promesso defunto, che con la sola forza degli sguardi divideva quell’ultimo amplesso di amore.

Dove stavano e cosa facevano, i falsi estimatori paesani, i parenti menzogneri, chissà come hanno impegnato i trenta denari, magari sommandoli a quelli di Giacinto e Paolo in Terra di madre Sofia, per imprestare grano, proprio dove si trova il Termine, di fianco al “Lavinaio” dove ogni 18 di agosto, scorre sangue e trascina grano.

Le cose della storia a terra di Sofia, sono come individui bendati che vorrebbero raccontare cosa è avvenuto in quel luogo ma non possono, il dovere di ogni buon ricercatore è di saper togliere quelle bende sulla bocca e poi in rigoroso silenzio ascoltare e fare tesoro del parlato di quest’ultimo racconto in pena di lingua Arbër Terminale.

Sofia e i suoi figli sono un esempio da non imitare, sia dal puto di vista sociale e sia per le tradizioni consuetudine valorizzate, giacche sempre pronti a disporre le cose “ritenute buone per gli altri, e mai per sé stessi.

Noti consiglieri e sostenitori di stato gratuito di avvenimenti e vicende, che se affrontato dagli altri unisce tutti mel mutuo muro di gomma, poi quando la stessa vicenda entra nelle proprie case, si affidano al pianto terminale con i capelli sciolti, di chi ha vissuto in solitudine la stessa vicenda.

Come accennato prima, le genti insediatesi il sette settembre 1471, nel corso dei secoli, hanno partecipato con forza alle vicende storiche al pari degli indigeni locali.

Ciò nonostante non usano ricordare i traguardi per opera e genio di molti compaesani, preferendo a questi i giuda seme di morte per danaro.

I lavinai storici in Terra di Sofia sono tre: il primo a est del costruito, il secondo nella parte centrale e il terzo a est, degradanti da sud verso nord lungo il corso prima del Vallone del Duca che va da Ovest ad Esta.

Di questi è proprio quello centrale ad essere il baricentro delle eccellenze storiche in Terra di Sofia, diventato poi nel corso di quel tragico diciotto di agosto, piena di lacrime e grano insanguinato.

Assistere all’esibizione di qualche giullaresco farfallone dopo due secoli, rievocando l’orrenda giornata, per sentirsi protagonista irresponsabile senza velo anzi con fascia e dare la misura locale della vergogna, è stato come se il “ventisette di gennaio” giorno della Shoà, diventasse la giornata del grasso di colatura e lo cibarsi di carne alla griglia.

Un buon pellegrino non smette mai la via del santuario prescelto, anche se lungo il cammino incontra l’orto botanico di Sofia ridotto a discarica o luogo per bambini, che rubano polvere, per spargerla in testa, per sembrare adulti saggi, quando non sono altro che capricciosi di fasce sporche perché mai dismesse.

Allo stato delle cose e per terminare non rimane altro che piangere sui resti delle case che non parleranno mai ai bambini, che resteranno delusi, quando in età adulta scopriranno che quelle sono solo abusi.

In oltre chiedersi se Franco adesso che è passato a miglior vita, ha capito che umiliare Atanasio per il pianto della madre Adelina, davanti la bara di Demetrio non fu mera esibizione.

Caro Franco ovunque tu sia in cielo, devi comprendere che la madre di Attanasio, in quel frangente di dolore per la doppia perdita fisica e quella morale in atto, aveva capito, quando dolore si arreca quando viene riverberato in solitudine e non vuoi finire sola come Adelina, perché le ragioni materna non sono mai condivise quando non sono di casa proprie del figliol prodigo.

Queste note sono il pellegrinaggio culturale nascono quando cresci sotto la guida, prima del parlare secondo la metrica in terra di Sofia, sotto la guida di Madri e Gjitonie che sanno di tradizione e costumi gli stessi di cui si cibano e vestono cibano, poi  da adulto studiare dopo essere stato battezzato in promessa di tornare e spiegare, quando tutto è pronto per la partenza potresti anche trovare nel tuo orto botanico, medici e infermieri che fanno gli invalidi da curare, li capisci che la penitenza da assolvere è iniziata.

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